Riassunto storia dell' arte dal gotico

Riassunto storia dell' arte dal gotico

 

 

 

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Riassunto storia dell' arte dal gotico

ARTE GOTICA
L'arte gotica nasce in Europa nei sec XII-XIV in un periodo che conosce profonde trasformazioni economiche e sociali. Si supera infatti progressivamente la società feudale e si formano nuove classi sociali, come quelle dei commercianti o dei banchieri. Il termine gotico fu adoperato dagli umanisti italiani come sinonimo di barbarico, per distinguerlo dal romanico essendo, il gotico, proveniente dalle regioni d'oltralpe. Di un vero e proprio atto di nascita del Gotico forse si può parlare nel 1140, quando venne ricostruito il coro dell'abbazia di Saint-Denis in Francia.
In pittura si assiste allo sviluppo dei dipinti su tavola. La committenza è adesso anche da parte di nobili e ricchi borghesi. Il clero commissiona invece dei dipinti su tavola, detti pale d'altare o, se su più tavole – detti polittici. Il polittico è la forma più tipica della pittura gotica... ogni scomparto è generalmente definito da un arco acuto, che può essere trilobato e che poggia su esili colonnine.
Tutto richiama l'architettura. Le decorazioni della cornice fanno pensare a pinnacoli e non mancano motivi floreali; vi è in pittura una spiccata attenzione per la resa dei particolari ma tutto è caratterizzato da una mancanza di profondità. Il fondo delle tavole è dorato, al fine di immergere le figure in una atmosfera ultraterrena. I volti, leggermente stilizzati esprimono sempre grazia e compostezza, (le espressioni rivelanti umani sentimenti, di dolore come di gioia, costituiscono un esplicito richiamo all'essere terreno e pertanto sono accuratamente evitate). Anche gli elementi naturali, quando vengono introdotti, sono sempre stilizzati. Nella scultura gotica i Pisano, segneranno una svolta. Famiglia di scultori, il capostipite Nicola era forse originario della Puglia. Essi operarono tra Pisa, Siena ed altre città del centro Italia. In particolare, dallo studio degli antichi sarcofagi romani, trassero indicazioni per il recupero dei volumi e dello spazio. Con loro fu definitivamente superato il limite della scultura romanica di porre le figure su un unico piano di rappresentazione.
Le forme divennero più plastiche e salde, acquistando nel contempo naturalismo e una certa "verità". Le loro composizioni, benché a basso rilievo, agivano in uno spazio dove i piani di rappresentazione si sviluppavano in profondità. La "Madonna con Bambino" di Giovanni Pisano, del 1306, attenua la tensione della linea gotica, dissolvendola in un naturalismo che preluderà ad i futuri sviluppi del Rinascimento. Mentre per l'arte romanica si pervenne a declinazioni locali che sostanzialmente non si allontanarono da una unica matrice, per l'arte gotica si può affermare che sul piano stilistico emersero differenze -ad es. tra arte italiana e arte francese-, molto rilevanti.
In Italia si assisterà ad un ritorno al naturalismo e alla razionalità terrena della visione, che verrà ad opporsi al precedente misticismo antinaturalistico di cui la cultura bizantina era promotrice. Cimabue, intorno al 1265 realizzerà un Crocifisso dipinto, dove il corpo del Cristo è curvo come un arco. Cimabue in tal modo diviene il primo a fare entrare nella tradizione bizantina una ricerca di effetto plastico, anche attraverso l'introduzione del chiaroscuro. Inoltre l'immagine del Cristo, esprime dolore a acquisisce una inedita umanità per le figurazioni di allora.
Si mantiene invece sul piano di una concezione antinaturalistica dell'arte la Francia, dove al posto della razionalità della rappresentazione, viene proposto l'effetto decorativo delle linee curve e dei colori vivaci. In Francia, si perviene ad un'arte più laica che esprime i nuovi ideali cavallereschi dell'Europa cortese.
Nel corso del XIII e XIV secolo, l'arte però continua ad essere per certi versi subordinata all'architettura e vista come decorazione in particolare di edifici religiosi. Mentre in Europa si sviluppa l'arte delle vetrate colorate, il cui fiorire fu sostenuto dal fatto che gli edifici presentano ora sempre più, uno scheletro strutturale che riesce a liberare ampie superfici da destinare proprio alle figurazioni su grandi vetrate e superfici murarie ridotte, e strutture che non saranno più atte ad accogliere i cicli decorativi ad affresco, in Italia l'architettura continuerà a dare ai pittori ampie superfici murarie su cui intervenire con la pittura. Emerge nel 1300, una rivoluzionaria figura che contribuirà allo stacco dalla cultura figurativa bizantina, -che continuerà però per tutto il XIII sec. ancora ad influenzare gli sviluppi di parte dell'arte pittorica italiana-.
Con Giotto la pittura si riscatta e comincia a rappresentare delle azioni. Giotto inserisce i personaggi cui conferisce volume attraverso il chiaroscuro, in uno spazio architettonico reale con l'attribuzione di profondità. Sfrutta la diversa tonalità che il colore assume in funzione della luce che colpisce gli oggetti e i corpi. Illuminante a tal proposito l'osservazione di Argan: “le variazioni della luce- afferma - avvengono all'interno delle figure, come modulazione chiaroscurale del colore che passa da una figura all'altra. Questa costruzione ottenuta con le quantità luminose e le qualità dei colori è già in nuce, una costruzione tonale". Conferisce tridimensionalità alle sue figure. Comincia ad applicare, seppure in maniera intuitiva e non scientifica, lo scorcio e la prospettiva. Egli fu il primo pittore a produrre immagini vicine ad essere definite realistiche. Agisce a Roma e a Milano, a Firenze e a Napoli, ad Assisi e a Padova. Nel 1300 esegue gli affreschi della Cappella degli Scrovegni, a Padova. Nelle “Storie della Madonna e del Cristo” la scena che rappresenta il “Compianto sul Cristo Morto”, già ci porta in un mondo nuovo per la pittura del tempo. Per la prima volta il fulcro compositivo è spostato sull'ideale centro del pathos: la testa di Gesù Cristo, sul quale convergono gli sguardi dei personaggi e le direttrici compositive dell'affresco. “ al centro, il gesto delle braccia di san Giovanni, collegandosi all'obliqua della roccia, saldai due grandi temi del dolore in terra e del dolore in cielo” - Argan, Storia dell'arte italiana, Sansoni.
Questi pochi riferimenti non sono altro, che dei piccoli spunti per comprendere l'enorme portata rivoluzionaria della pittura di Giotto, che si può considerare a buon diritto un personaggio chiave per l'evoluzione della produzione artistica pittorica a seguire. A Siena si afferma invece un linguaggio più affine alla Francia e allo stile gotico.
Protagonista del gotico senese è Simone Martini. Egli realizza nel 1333 l'”Annunciazione” dove, nell'eleganza estrema delle linee e della costruzione di oggetti raffinatissimi, definisce il suo bello ideale che si contrappone alle ricerche orientate all'emergere di un bello di carattere “morale” di Giotto.
NASCITA DELL’ARTE ITALIANA
La nascita dell’arte italiana
Mentre la rinascita dell’architettura avviene a partire dall’anno mille, bisogna aspettare ancora qualche secolo prima che un analogo fenomeno interessi le arti figurative. Durante il periodo romanico anche la pittura e la scultura conoscono una più intensa produzione, e ciò soprattutto per la decorazione delle cattedrali, ma non conoscono un reale rinnovamento stilistico. Le immagini appaiono bloccate in forme stereotipe, realizzate con povertà di mezzi espressivi. Le sculture, sempre a bassorilievo, hanno figure rigide e geometrizzate. Sia in pittura che in scultura è del tutto sconosciuto il problema della visione in profondità: le figure che animano una scena sono poste su un unico piano di rappresentazione, con evidenti effetti di sproporzione e di irrazionalità spaziale.
Di fatto, in questo periodo, il maggiore centro di irradiazione artistica rimane sempre Bisanzio, e da lì il gusto dell’icone dorate pervade ancora l’Europa occidentale. L’avvio di un’arte figurativa di reale ispirazione europea inizia proprio quando si avverte la necessità di superare gli stilemi figurativi bizantini. Ciò avviene a partire dal XIII secolo in poi, in due aree geografiche precise: l’Italia centrale e la Francia.
In Italia il problema di superare l’arte bizantina viene impostato sul ritorno al naturalismo e alla razionalità terrena della visione, in opposizione al misticismo antinaturalistico bizantino. In Francia, il superamento avviene sul piano della significazione: non più un’arte di ispirazione religiosa che rimandasse ad un ordine teocratico delle cose, ma un’arte laica che esprimesse i nuovi ideali cavallereschi dell’Europa cortese.
Sul piano stilistico le differenze tra arte italiana e arte francese, o gotica, sono notevolissime. La prima imbocca decisamente la strada della tridimensionalità, per giungere a quella rappresentazione del reale che sia in armonia con i reali fenomeni della visione umana. La seconda si mantiene invece sul piano di una concezione antinaturalistica dell’arte, dove alla razionalità della rappresentazione viene preferito l’effetto decorativo delle linee curve e dei colori vivaci. Tuttavia l’arte figurativa sia gotica che italiana mostrano, nel corso del XIII e XIV secolo, una identica destinazione: entrambe sono realizzate come decorazione o arredo degli edifici architettonici, in particolare edifici religiosi: chiese, cattedrali, monasteri, pievi, ecc. E questa particolare subalternità delle arti figurative all’architettura determinò una precisa differenziazione tipologica tra arte italiana e arte gotica. L’edificio gotico ha uno scheletro strutturale di tipo lineare che riesce a liberare ampie superfici da destinare a vetrate. In tali edifici, ridottisi le superfici murarie, l’affresco divenne impraticabile: nacquero così le vetrate istoriate. Le immagini furono realizzate in vetri dai colori vivaci connessi tra loro da sottile piombature, e collocate nei vani delle finestre. In Italia questa rigida concezione strutturale del gotico non ebbe mai ampia diffusione, così che l’architettura praticata in quei secoli offrì sempre ai pittori ampie superfici murarie su cui era possibile intervenire con la classica tecnica della pittura ad affresco.
In un primo momento fu l’arte gotica a egemonizzare il panorama artistico europeo, e ciò fino alla metà del XV secolo. In seguito, con lo sviluppo del rinascimento, fu invece l’arte italiana ad imporre la propria visione artistica all’intero mondo occidentale. Ma l’arte italiana non iniziò con il Rinascimento, bensì soprattutto nella parte centrale della nostra penisola, prese l’avvio già alla metà del XIII secolo. In questa lunga fase di sperimentazione ed elaborazione, durata circa due secoli, si definisce una vera e propria arte «nazionale» italiana, così come stava avvenendo nel campo linguistico con la nascita della lingua italiana. Ed è proprio la concordanza di questo percorso culturale, più che politico (visto che l’Italia troverà la sua unità statale solo diversi secoli dopo), a far sì che questa stagione artistica deve essere definita come epoca della nascita dell’«arte italiana», e con come gotico italiano, così come nei vecchi manuali di storia dell’arte si usava fare. In questo caso il termine «gotico» veniva genericamente usato come aggettivo per indicare tutto ciò che è avvenuto tra XIII e XIV secolo. Ma questa posizione appare ormai del tutto desueta, in quanto con il termine «gotico» si vuole indicare più una tendenza stilistica che non un generico contenitore temporale.
Tema fondamentale per ritrovare una autonoma vocazione artistica, che rendesse l’arte italiana diversa sia da quella gotica sia da quella bizantina, fu lo studio dell’arte antica. Le passate grandezze dell’arte romana mostravano sempre più non solo la superiorità dell’arte classica rispetto a quella medievale, ma indicavano chiaramente la differenza tra l’arte occidentale e quella bizantina. In particolare la prima ha tre fondamenti che all’arte bizantina sono sconosciuti: il naturalismo, il senso della bellezza terrena, il gusto per la narrazione. Ed è proprio partendo da questi tre parametri che l’arte italiana iniziò il suo percorso di affrancamento rispetto all’arte bizantina.
Diverso è anche il percorso stilistico rispetto all’arte gotica. Quest’ultima trovava nell’intreccio lineare e sinuoso, nonché nelle accese cromie, il suo senso estetico, privo però di componenti naturalistiche e tridimensionali. L’arte gotica era tesa alla ricerca di una raffinata eleganza che sapesse di fiabesco e affabulatorio, ma restava priva di costruzione razionale sia della figura sia dello spazio. L’arte italiana ha invece tutt’altro intento: essa cerca la verità ottica più razionale. La costruzione dell’immagine non vuole creare mondi fiabeschi, ma riprodurre il più esattamente possibile il nostro mondo terreno, secondo le leggi fisiche, ottiche e tattili, che lo governano.
La nuova scultura italiana
La nuova arte italiana, come vedremo, si formò soprattutto in area toscana e umbra. Ma i prodromi di questa nuova visione artistica ebbero origine su un’area più vasta che coinvolgeva soprattutto l’Italia meridionale. Qui, infatti, durante la dominazione di Federico II, si avviarono molti cantieri artistici, nei quali la sperimentazione di un linguaggio più naturalistico ispirato ai capolavori dell’arte classica avvenne con maggior intensità e consapevolezza.
La scomparsa di Federico II nel 1250, provocò forse una diaspora di artisti che dal meridione si spostarono nell’Italia centrale in cerca di nuovi committenti. Tra questi ci fu probabilmente il maggior protagonista della scultura intorno alla metà del Duecento: Nicola Pisano, il quale a dispetto del nome, forse attribuitogli in seguito, era di documentate origini pugliesi.
La sua presenza a Pisa, a partire dal 1250, permise la nascita di una nuova tendenza scultorea che fornì una componente fondamentale alla nuova arte italiana che si formava in quegli anni.
Egli è il capostipite di una tradizione scultorea che vede, nel corso del Duecento e del Trecento notevoli protagonisti, quali il figlio Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio, Tino di Caimano, Andrea Pisano, ecc, anche se gli esiti scultorei di questi successori sono alquanto diversi dal linguaggio plastico di Nicola.
Soprattutto per la scultura, il percorso di rinnovamento è segnato dallo studio dell’arte classica. In particolare, dallo studio degli antichi bassorilievi romani (sarcofagi, archi trionfali, are votive, colonne istoriate, ecc.), trassero indicazioni per il recupero dei volumi e dello spazio. In sostanza le figure prendono una forma più volumetrica, più piena e tornita, e queste stesse figure si pongono su una successione di piani, che riescono a scandire e misurare lo spazio in profondità. In sostanza, così come avveniva in pittura, vi era da conquistare la terza dimensione virtuale, quella che riesce a sfondare visivamente il piano di rappresentazione per darci l’illusione visiva di vedere in profondità.
Il senso di salda volumetria delle figure, proprie del linguaggio di Nicola Pisano, subì in seguito una più decisa contaminazione con lo stile gotico, avvertibile nell’opera del figlio Giovanni e degli altri scultori che da lui presero esempio nel corso del Trecento. Del resto l’arte gotica, soprattutto in Francia e Germania, conosceva una evoluzione nel campo scultoreo di grande forza espressiva. Caratteri peculiari delle sculture gotiche erano un certo espressionismo «patetico» (che trasmettevano, cioè, pathos in maniera molto accentuata) ed una forma compositiva che accentuava l’inarcamento laterale delle figure, o un loro tendenziale avvitamento sull’asse verticale, così da trasmettere una sensazione di movimento che attenuava la rigidità statuaria delle figure. Queste suggestioni della scultura gotica produssero una decisa influenza anche sulla scultura italiana del Trecento, che si presentò quindi come una originale sintesi tra saldezza monumentale tipica del classicismo romano ed espressionismo della figura di matrice nordica.
Il rinnovamento del linguaggio pittorico
Il linguaggio pittorico, agli inizi del Duecento, si presenta in Italia ancora condizionato dall’arte bizantina e dai suoi immutabili parametri stilistici. Immagini ancora di diafana costruzione, cariche di colore oro usato sia per i fondali sia per le caratteristiche lumeggiature lineari. Il primo tentativo di distaccarsi da questa tradizione, o comunque di andare oltre, fu di inserire fondali vedutistici al posto dei fondi dorati privi di profondità. Ma le figure rimasero senza peso e si disponevano con assoluta libertà su fondali con i quali non avevano alcun rapporto visivo plausibile. Tuttavia il problema era stato posto: si trattava di trovare la giusta soluzione.
In sintesi il problema era abbastanza semplice: come dare apparenza di tridimensionalità a ciò che ha solo due dimensioni. L’immagine costruita su un piano, sia esso un foglio o un muro, ha sempre e solo due dimensioni reali. Una terza dimensione, che sfonda il piano in profondità dandoci l’illusione di vedere oltre il limite fisico del piano, può essere creata solo con la sapienza tecnica di chi costruisce l’immagine. Questa sapienza si basa su due tecniche fondamentali: i corpi prendono aspetto tridimensionale con il chiaroscuro, lo spazio ci appare tridimensionale se è costruito con la prospettiva.
La scoperta della prospettiva avviene solo agli inizi del Quattrocento, e la sua comparsa segna in maniera inequivocabile l’inizio di quella nuova stagione artistica che chiamiamo Rinascimento. Il chiaroscuro, invece, viene compreso ed applicato già in questa fase, alla metà del Duecento, ed è il parametro stilistico che immediatamente distingue l’arte italiana dall’arte bizantina e dall’arte gotica.
Ma ovviamente sarebbe estremamente riduttivo ridurre tutto al semplice chiaroscuro. La pittura italiana è un laboratorio di grande sperimentazione nei quali sono da conquistare molti traguardi. Ne citiamo alcuni che sono tra i principali. La figura umana viene finalmente svincolata dalla posizione frontale, che finora ha dominato incontrastata in campo pittorico, e viene rappresentata di lato, di profilo, finanche di scorcio. Inoltre la figura umana acquista finalmente un peso, poggiando i piedi su un piano orizzontale di plausibile costruzione. Il fatto stesso che i pittori riescono a costruire dei piani visivi orizzontali, anche se in maniera spesso imperfetta, è una grande conquista tecnica.
La conquista dello spazio, in assenza di una prospettiva lineare con precise regole geometriche, viene surrogata da una costruzione per scansione di piani, che spesso riesce a creare una sensazione di profondità abbastanza plausibile.
Notevole è anche il senso di umanizzazione delle figure, che mostrano spesso una espressività facciale assolutamente inedita nell’arte medievale. Divengono persone con una psicologia reale che fa emergere sui loro visi emozioni e sentimenti decisamente umani. Scompaiono quindi definitivamente le espressioni ieratiche sempre presenti in tutta l’arte medievale e bizantina.
Decisamente inedito è anche il senso narrativo dell’immagine. Le storie rappresentate hanno sempre precise coordinate storico-temporali, anche quando confondono le epoche e riportano le storie sacre al tempo presente, ma ciò che più conta è l’originale tecnica della sequenza narrativa. Le composizioni pittoriche, sia quando sono su parete sia quando sono su tavola, non sono mai costituite da un’immagine unica, ma sempre da una pluralità di immagini, che, come fotogrammi di un film, svolgono una narrazione secondo una progressione temporale ben scandita. È così forte questo senso della narrazione che in alcuni casi, soprattutto trecenteschi, ci troviamo di fronte alla soluzione decisamente originale, come poi vedremo, delle immagini «sincroniche»: in’unica scena si moltiplicano più volte gli stessi personaggi creando una progressione narrativa che contrasta in maniera stridente con l’unicità spazio-temporale dell’immagine singola.
Il problema di chi siano stati i maggiori protagonisti di questo rinnovamento pittorico è ancora aperto. La scomparsa di molte opere, nonché di molte fonti documentarie, ha creato degli equivoci che ancora oggi sono di difficile valutazione. Il problema è di chiarire che peso e che ruolo hanno avuto da un lato la scuola fiorentina, con Giotto e Cimabue, e dall’altro la scuola romana con Pietro Cavallini, Jacopo Torriti e Filippo Rusuti. Questi cinque artisti hanno tutti lavorato nel cantiere di Assisi, alla fine del Duecento, alla decorazione del complesso monumentale della chiesa superiore di San Francesco, ma quali siano stati ruoli e rapporti reciproci ci è ignoto. La tradizione storiografica vuole che il maggior protagonista, nonché il maggiore innovatore, di questa realizzazione pittorica fu Giotto di Bondone. Ma si tratta di una tradizione di parte che risale al Vasari e alle sue «Vite» composte nel 1550. Giorgio Vasari con la sua opera storiografica voleva dimostrare che la grande arte italiana era nata soprattutto grazie ad artisti fiorentini, con un filo unico che partiva da Giotto e attraverso Masaccio, Brunelleschi, Donatello, Botticelli, Leonardo arrivava fino a Michelangelo Buonarroti, il massimo genio artistico allora vivente. In questo suo disegno storiografico «a tesi», egli finiva quindi per sopravvalutare il peso di Giotto rispetto ai suoi contemporanei.
Tuttavia le opere attribuite a Giotto nel cantiere di Assisi appaiono alquanto premature rispetto alle opere successive da egli realizzate, mentre appaiono più in linea con lo stile di Pietro Cavallini. Tuttavia di questo artista romano è scomparsa la quasi totalità delle opere, ad eccezione di alcuni frammenti di affreschi in Santa Maria in Trastevere, così che la definizione della sua evoluzione stilistica ci è ignota. Tuttavia il confronto stilistico tra i migliori affreschi di Assisi e le poche opere pervenutici di Pietro Cavallini, dimostrano quasi senza ombra di dubbio che fu l’artista romano a progettare e dirigere gli affreschi della basilica superiore di San Francesco ad Assisi.
A questo punto, senza menomare la capitale importanza avuta da Giotto nella definizione e diffusione del nuovo linguaggio pittorico, bisogna forse ammettere che questo nuovo linguaggio aveva avuto la sua prima apparizione già in ambiente romano negli ultimi decenni del Duecento.
Il gotico senese
L’ambiente fiorentino, e quello toscano in genere, si mostrò comunque il più fertile per la nuova arte che sorgeva in quegli anni, e in ciò non bisogna dimenticare l’importante apporto che venne anche dalla città di Siena. Gli artisti che qui operarono, Duccio da Boninsegna, Simone Martini, i fratelli Lorenzetti, insieme a molti altri, contribuirono in maniera determinante a definire la nuova pittura italiana.
A Siena si affermò, al contrario di Firenze, una visione artistica che la avvicinava maggiormente alla Francia e allo stile gotico. In pratica qui domina una pittura legata più agli effetti di superficie, su accordi di linee e colori, che non di masse volumetriche inserite in uno spazio realmente dimensionale. Il percorso dell’arte senese parte, alla fine del Duecento, con la comparsa della grande personalità di Duccio da Boninsegna, che si muove in linguaggio pittorico in bilico tra arte bizantina e nuova arte gotica. In una città quanto mai ricca di artisti ed artigiani, ben presto emergono altre figure di forte personalità. Tra questi il primo è di certo Simone Martini, l’artista che, agli inizi del Trecento, si afferma come la più forte alternativa allo stile giottesco. In Simone Martini i mezzi espressivi gotici (la linea sinuosa e ritmica e la preziosa gamma cromatica) raggiungono il massimo delle possibilità, creando uno stile esente da necessità spaziali, ma molto ricco di eleganze e raffinatezze.
Ma dall’ambiente senese ben presto emergono, soprattutto intorno al quarto decennio del Trecento due personalità di grande valore artistico, i fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti, che possono essere considerati i veri eredi del rinnovamento pittorico iniziato da Giotto. La loro pittura riesce a coniugare l’eleganza tipica del gotico senese con una costruzione volumetrica e spaziale che in quegli anni era decisamente all’avanguardia nel panorama artistico italiano. La loro scomparsa durante la grande epidemia di Peste Nera che sconvolse l’intera Europa a partire dal 1348 è sintomatica di una svolta storica che ha avuto grandi riflessi anche nell’arte. La loro scomparsa privò l’Italia di due grandi protagonisti della nuova pittura che sorgeva in Italia, ma segnò anche il tramonto di Siena sulla scena artistica italiana, in quanto la città toscana, dopo la decimazione subita da questa epidemia, non ritornò più agli splendori e alle vette artistiche che aveva raggiunto nella prima metà del Trecento.
Con la scomparsa dei Lorenzetti, scomparve, ma solo momentaneamente, anche la tradizione più propriamente italiana, inaugurata da Cimabue, Cavallini e proseguita da Giotto e dai suoi seguaci. Nella seconda metà del Trecento furono gli artisti gotici ad imporre nuovamente la loro visione artistica, basata sulle linee curve e leziose, realizzata con colori puri stesi a campiture uniformi, dove prevaleva la evocazione fantastica di un mondo fatato e magico che tanto successo riscuoteva nell’ambito di quelle corti europee che vivevano l’autunno del medioevo.

 

TARDO GOTICO
Differenza tra arte italiana e arte gotica
Nel corso di un secolo, dalla metà del ’200 alla metà del ’300, si era definita in Italia una nuova concezione artistica che, come abbiamo esaminato nel precedente capitolo, era nata soprattutto in opposizione allo stile bizantino. Rispetto a questo stile, l’arte praticata dagli artisti italiani ricerca il naturalismo e la razionalità: le forme e le immagini devono somigliare il più possibile alla realtà. Devono in pratica creare l’illusione di far vedere la realtà stessa. Per far ciò, il problema, soprattutto per i pittori, è di creare sul piano bidimensionale l’illusione visiva della tridimensionalità. Come ci è oggi ben chiaro, le tecniche per ottenere ciò sono soprattutto due: il chiaroscuro, per definire la tridimensionalità dei volumi, e la prospettiva, per costruire lo spazio. In questa fase il chiaroscuro è una realtà già conquistata, la prospettiva ancora no. Ma le ricerche per giungere alla definizione di un metodo "matematico" per definire lo spazio erano state, in effetti, avviate. In pratica artisti quali Giotto o i fratelli Lorenzetti, avevano già gettato le basi, seppure in maniera empirica, per comprendere il funzionamento della rappresentazione dello spazio.
Mentre l’arte italiana era lanciata su questo percorso, un’altra visione artistica, quella gotica, si stava nel frattempo diffondendo in Europa. Anch’essa nasce come un’alternativa all’arte bizantina, ma rispetto all’arte che si stava formando in Italia, aveva ben altri fondamenti. L’arte gotica non cerca il naturalismo, ma la decorazione. Non vuole essere a tutti i costi razionale, ma preferisce le atmosfere fiabesche. Potremmo dire che mentre l’arte italiana vuole "rappresentare" la realtà, nel modo più corretto possibile, l’arte gotica preferisce "raccontare" storie.
Da un punto di vista stilistico, le differenze tra arte italiana e arte gotica sono essenzialmente le seguenti.
· Nell’arte gotica non vi è il chiaroscuro, se non limitatamente ai volti, mentre per le vesti si preferisce una ricca e arabescata decorazione: in questo modo l’obiettivo del naturalismo viene completamente sacrificato per un effetto decorativo più ricco e prezioso.
· Nell’arte gotica non vi è preoccupazione per la corretta rappresentazione spaziale, e le immagini vengono essenzialmente organizzate solo sul piano di rappresentazione, e non in una plausibile spazialità tridimensionale.
· Nell’arte gotica, inoltre, troviamo una predilezione evidente per l’uso della linea: quest’arte sembra pratica più da disegnatori che da pittori veri e propri. Le immagini sono sempre costruite in punta di pennello, con intrecci e tratteggi lineari di alto valore decorativo.
· Da aggiungere, infine, la predilezione per la linea curva, che è uno dei tratti stilistici sicuramente più universali dell’arte gotica. Curve intrecciate, spirali, avvitamenti, sono tratti stilistici che ritroviamo nella morfologia più varia del gotico, dalla pittura alla miniatura, dall’architettura alla scultura, e così via.
Dunque, ricapitolando, da un punto di vista storico, nel corso del XIV secolo, l’arte bizantina tende quasi a scomparire nell’Europa occidentale, resistendo solo in alcune situazioni periferiche. Le novità artistiche che si diffondono sono soprattutto due: l’arte italiana e l’arte gotica. La prima, in questa fase, è in effetti presente quasi solo nell’Italia centrale e, parzialmente, nell’area padana. L’arte gotica ha invece una diffusione sicuramente più continentale. E questo predominio territoriale diviene supremazia soprattutto nel corso della seconda metà del Trecento: in questo periodo, in effetti, l’arte italiana viene quasi eclissata dal dilagare del gusto artistico gotico.
Ma in realtà è solo un fatto momentaneo: a partire dagli inizi del XV secolo, la nascita di quel vasto fenomeno artistico che chiamiamo Rinascimento, e che altro non è se non il frutto più maturo di quell’arte italiana nata a cavallo tra XIII e XIV secolo, porta l’arte europea tutta sotto l’egemonia della visione artistica italiana.
La peste nera
Le cause della momentanea crisi dell’arte italiana, dopo la metà del Trecento, sono state ricercate in più ipotesi. Una delle più attendibili è quella di ritenere che fu soprattutto la Peste Nera, che si diffuse a partire dal 1348, a mettere in crisi lo sviluppo artistico italiano. Questa famosa e terribile epidemia fu portata in Europa da una nave bizantina che approdò a Messina. Da qui il contagio, in brevissimo tempo, si diffuse in tutto il continente, e la Toscana, in particolare, fu un’area che risentì molto della diffusione del morbo. La popolazione fu letteralmente decimata: si calcola che la città di Firenze, che agli inizi del Trecento doveva avere non meno di centomila abitanti, alla fine del secolo era abitata da meno di ventimila persone. Questo improvviso calo demografico fu ovviamente causa di una crisi più generale del settore economico e produttivo: ovvio che anche l’arte, in questo contesto, conobbe momenti di crisi. Non è inoltre da escludere che molti dei protagonisti della scena artistica toscana furono anch’essi colpiti dal contagio: dei due fratelli Lorenzetti, ad esempio, si perde ogni notizia proprio a partire dal 1348.
Nella situazione che si venne a creare, le ricerche sul naturalismo avviate dagli artisti italiani nella prima metà del Trecento conobbero una sostanziale stasi. Solo pochi ed isolati artisti sembrano seguire ancora le orme di Giotto, e ciò avvenne soprattutto dove gli esempi della sua arte sono presenti e visibili, in particolare a Firenze e Padova. Nella città toscana seguono lo stile giottesco Maso di Banco, Taddeo Gaddi, Bernardo Daddi e il Giottino. Nella città veneta, risente dello stile di Giotto, il pittore Giusto dei Menabuoi.
Il gotico internazionale in Italia
Intanto la diffusione del gotico sembra non conoscere confini. In questo periodo che va dalla metà del Trecento alla metà del Quattrocento, spesso si usano terminologie diverse per indicare l’ultima fase stilistica del gotico. "Tardo gotico", "gotico internazionale" o "gotico fiorito" sono i tre termini più utilizzati per indicare questo periodo. Il primo termine è di facile comprensione. Anche il secondo si comprende facilmente dalla circostanza che il gotico, in questo secolo, è davvero uno stile che egemonizza tutta la scena europea. Con il termine "gotico fiorito", usato spesso in architettura, si vuole denotare in particolare la tendenza a moltiplicare le nervature che definivano le membrature architettoniche che sorreggevano una volta, fino a creare un arabesco che ha solo valenze decorative e non certo strutturali.
Diverse sono le personalità artistiche attive in questo periodo in Italia, la cui definizione stilistica è a volte non semplice, perché molti rimangono sul confine tra uno stile che non è né pienamente gotico né pienamente italiano o rinascimentale. Premesso quindi che in Italia, anche il gotico internazionale, rimane uno stile diverso dal resto dell’Europa, anche gli artisti del periodo partecipano di quel clima che porta poi alla nascita del rinascimento. In particolare anche in essi si ritrova, spesso, il gusto per l’osservazione del reale e la conseguente ricerca del naturalismo: anche se ciò si applica più ai dettagli e ai particolari, che non alla visione complessiva d’insieme. Anche in questi artisti, poi, si ritrova il confronto con la cultura classica, che rimane una costante di tutta l’arte italiana dal Duecento in poi. Ne è un esempio famoso proprio Pisanello, artista decisamente tardo gotico, il quale inventa il ritratto all’italiana partendo proprio dal gusto numismatico molto diffuso al tempo: sono proprio le monete e le medaglie romane a consegnarci gli esempi più famosi di ritratto nettamente di profilo.
Caso a parte sono poi alcuni scultori, in particolare Jacopo della Quercia e Lorenzo Ghiberti, la cui collocazione nell’area del tardo gotico appare molto problematica: le loro opere hanno caratteristiche così "classiche" che, forse, sarebbe più giusto definirli dei proto-rinascimentali. Ciò, quindi, a specificare che il periodo è soprattutto di transizione, e come spesso succede in questi casi, la notevole eterogeneità stilistica non consente di poter semplificare eccessivamente l’arte del tempo in un’unica formula valida per tutti.
Questa ambiguità stilistica, con compresenza di elementi spuri sia tardo gotici sia rinascimentali, si ritrova del resto in moltissimi artisti del Quattrocento italiano, anche in quelli che la tradizione definisce come del tutto rinascimentali, quali Paolo Uccello, Filippo Lippi, Cosmé Tura, Carlo Crivelli o Sandro Botticelli. Proprio quest’ultimo artista, rinascimentale sicuramente per l’impianto complessivo della sua opera, ci dimostra come, alla fine del Quattrocento, sopravvivono ancora elementi di tradizione tardo gotica quali il gusto calligrafico per il dettaglio risolto con elementi lineari.
L’arte tardo gotica è un’arte che si diffonde soprattutto nelle corti europee: è l’età dei castelli, che non hanno più solo funzioni militari sul territorio, ma assumono sempre più l’aspetto di grandi e lussuose residenze nobiliari. In queste corti l’arte ha un pubblico essenzialmente laico: è costituito dai nobili, cavalieri e dame, protagonisti e fruitori di quel mondo cavalleresco, e dell’amor cortese, che si ritrova nella letteratura e nell’arte del tempo. In effetti, dopo la scomparsa dell’impero romano e dell’arte classica, è questo il primo vero periodo artistico "laico" dell’arte europea, laico non tanto per i contenuti, ma soprattutto per il pubblico al quale si rivolge. L’arte esce fuori dalle chiese e compare negli spazi privati dei nobili e della emergente borghesia cittadina. Ed anche le tipologie degli oggetti d’arte tende a cambiare: non più solo affreschi o statue, la cui funzione rimane essenzialmente legata a quella degli spazi pubblici, ma l’arte tende a manifestarsi soprattutto nei gioielli, negli arazzi, nei libri miniati, in quegli oggetti, cioè, che costituiscono i patrimoni privati, non pubblici.
Il tardo gotico in Italia trova, come centri più vitali, quelli collocati in area settentrionale, soprattutto nel periodo della seconda metà del Trecento. In quest’area si trovano le città che hanno, in questo momento, la maggiore floridezza economica e culturale, quali Bologna, sede della più antica università italiani, Venezia, con la sua repubblica che si estende su buona parte dell’Adriatico e del Mediterraneo orientale, o le grandi corti quali Milano con i Visconti o Verona con i Della Scala. Il resto dell’Italia, nella seconda metà del Trecento, non vive invece una situazione favorevole all’arte. In Toscana gli effetti della peste nera hanno prodotto una crisi che perdurerà per buona parte del periodo. Roma vive un periodo di abbandono, per effetto del trasferimento della sede papale ad Avignone. Il papa farà ritorno a Roma nel 1377, in una città che richiese una profonda opera di rinnovamento urbano, i cui segni si cominciano a manifestare in campo artistico solo nella prima metà del XV secolo. A Napoli e nell’Italia meridionale la situazione di grande incertezza politica, dovuta alla travagliata fine della dinastia angioina, pure produsse effetti negativi sul piano dell’arte, che iniziò anche qui a rinascere solo intorno alla metà del XV secolo con l’affermarsi della dinastia aragonese.
La scomparsa del tardo gotico in Italia ha avuto date molto differenziate. Avvenne prima in Toscana, perché qui si affermò, prima che altrove, la nuova arte rinascimentale. E la maggior distanza da Firenze, il baricentro dal quale si irradia la nuova arte, determina anche la maggiore durata dell’arte tardo gotica. In sostanza, in molte aree italiane, soprattutto quelle più periferiche, l’arte tardo gotica a volte sopravvive anche fino alla fine del XV secolo, per essere infine sostituita dall’arte rinascimentale che, nel corso del XVI secolo diverrà lo stile artistico dell’intera Europa.
RINASCIMENTO
Primo rinascimento
Premessa
L’arte italiana aveva iniziato a percorrere una strada autonoma, sia rispetto all’arte medievale sia rispetto a quella gotica, già alla metà del XIII secolo. È in questa fase che va individuato il reale punto di svolta che porta alla nascita di quella che la moderna storiografia definisce, appunto, «arte italiana». Ma i primi periodi furono soprattutto di incubazione e di sperimentazione: solo all’inizio del XV secolo l’arte italiana pervenne ad una condizione di vera maturazione proponendo una visione artistica pienamente innovativa, e che segnò l’inizio della modernità.
Da questo momento, l’arte che nasce a Firenze e si irradia prima in Italia e poi in tutta Europa, non la definiamo più «italiana», ma «rinascimentale», utilizzando un termine usato per la prima volta da uno storico tedesco, Jacob Burckhardt, nell’Ottocento. Con questo termine si vuole sottolineare come, da questo momento, l’arte torna ad una visione estetica molto simile a quella dell’età classica. In pratica, nel Quattrocento l’arte non nasce ma «rinasce», in quanto essa ci ripropone modelli simili a quelli già realizzati dagli antichi greci e dagli antichi romani.
Se i fiorentini e gli italiani ebbero la coscienza di vivere in un mondo nuovo, è difficile dirlo. Per loro, probabilmente il mondo si evolveva lentamente verso stadi di maggiore civiltà, ma senza radicali fratture. Per noi, invece, analizzando la cultura di quei secoli, si ha la sensazione di una precisa cesura: ad un certo punto finisce il medioevo ed inizia un’era nuova.
Questa nuova era non fu certo un fatto meramente ed esclusivamente artistico, ma nacque da una condizione mentale molto più vasta e profonda: l’idea che l’uomo fosse al centro del mondo (di questo mondo) e fosse dotato, non solo di libero arbitrio, ma anche di una intelligenza che gli permetteva di capire e decifrare il mondo che lo circondava. In pratica l’uomo andava affrancandosi da quella visione mistica medievale, per cui l’unica conoscenza possibile era quella trasmessaci dalla parola di Dio. D’ora in poi il problema della conoscenza, per l’uomo, diviene sempre più un problema nuovo: quello di affinare i propri mezzi di osservazione e le proprie capacità di analisi e di deduzione.
In questo anche l’arte ebbe un ruolo non secondario, soprattutto agli albori del Rinascimento, perché l’arte, in quanto rappresentazione, è sempre conoscenza. Ecco che allora, anche attraverso l’arte, l’uomo rinascimentale affina i propri mezzi di conoscenza: razionalizzare l’immagine significava capire meglio come funziona il mondo, e la nostra relazione percettiva con esso.
Da un punto di vista più immediato, l’arte rinascimentale fu segnata da una scoperta molto precisa: la prospettiva. È questo il reale punto di discriminazione: se nell’immagine c’è una prospettiva corretta, l’opera è rinascimentale; se non c’è siamo in presenza di un’opera non rinascimentale. Ma, benché la prospettiva ebbe un ruolo storicamente fondamentale, non fu probabilmente l’elemento determinante per far nascere il rinascimento. L’elemento decisivo fu il disegno.
Per quanto possa sembrare strano, è solo da questo momento in poi che gli artisti imparano realmente a disegnare: imparano cioè a utilizzare il disegno soprattutto per rappresentare le proprie idee. Trasformarono il disegno nell’arma più potente che si potesse immaginare: uno strumento che consentiva di creare di tutto: immagini, oggetti, spazi.
Da questo momento il disegno diviene lo strumento progettuale per eccellenza. E ovviamente determinò una evoluzione nel campo dell’arte che non sempre viene compresa e valutata come si deve. Ma il disegno era, ora, non più una semplice tecnica di rappresentazione: era uno strumento di pensiero. Era uno strumento che consentiva di materializzare le proprie idee e, ovviamente, consentiva di pensare meglio.
Sintetizzare la grande rivoluzione prodotta dal Rinascimento in arte non è semplice. Uno dei punti essenziali è, come abbiamo detto, il disegno. Altro punto determinante, da un punto di vista stilistico, fu la nascita della prospettiva. Ma il Rinascimento fu anche una riscoperta dell’antichità classica e, da un punto di vista sociale, una profonda evoluzione della figura stessa dell’artista. Partendo da questi punti cercheremo di spiegare i caratteri fondamentali del Rinascimento, avvertendo che ogni semplificazione è utile per far comprendere le cose, ma, in ultima istanza, non pretende la completezza.
Il disegno come strumento progettuale
Il disegno viene in genere pensato come un’attività che rappresenta la realtà. Ciò è senz’altro vero, ma non è l’unica potenzialità che il disegno possiede. Se una persona sa disegnare, riesce anche a materializzare, riesce a dare un’immagine, a ciò che ha in testa. In questo senso il disegno è uno strumento progettuale.
Cosa sono gli strumenti progettuali è un tema molto particolare, ma in sintesi possiamo definirli come segue: quando io devo realizzare qualcosa, ancora non so quale sarà il risultato che andrò ad ottenere. Solo dopo aver realizzato effettivamente l’opera potrò giudicare se è valida o meno. Ma ciò non è sempre razionale. Pensiamo ad una casa: se per vedere se mi piace o meno devo prima costruirla, corro un grosso rischio, perché se poi non mi piace devo demolire il tutto e ricominciare daccapo. Allora, devo necessariamente ricorrere a un diverso approccio: prima di cominciare a realizzare qualcosa, devo essere sicuro del risultato che vado ad ottenere. Restiamo nel caso dell’architettura. Gli antichi greci avevano realizzato un loro particolare sistema progettuale: gli ordini architettonici. Con gli ordini loro avevano fissato un insieme di regole per proporzionare gli elementi che componevano l’edificio. Rispettando quelle regole si era sicuri di giungere ad un risultato valido sia da un punto di vista estetico che statico. Questo strumento progettuale possiamo definirlo «di dimensionamento». Il disegno è invece uno strumento progettuale che possiamo definire «di visualizzazione»: esso mi consente di visualizzare, cioè di vedere, il risultato finale, prima di realizzare l’opera. Oggi abbiamo altri strumenti progettuali, molto più potenti, quali il computer, la tridimensionalità virtuale, e così via, ma si tratta pur sempre di strumenti «di visualizzazione». Mi permettono, cioè, di vedere l’opera che dovrò realizzare come se già esistesse.
Quando, agli inizi del Rinascimento, gli artisti iniziano man mano a prendere coscienza di cosa significhi saper disegnare, assistiamo ad una improvvisa e straordinaria evoluzione di questo strumento. Nel giro di un secolo, se guardiamo ai disegni di Leonardo, ci rendiamo conto di come il disegno è ormai lo strumento principe dell’artista: grazie ad esso, l’artista rinascimentale può progettare opere d’arte, di architettura, opere militari, di ingegneria civile, di idraulica, di meccanica, e di infinite altre cose. Grazie al disegno, si può progettare praticamente di tutto. Ed è da ciò che deriva il grande eclettismo degli artisti rinascimentali: mai come in questo periodo la stessa personalità si occupa di campi diversissimi, e con risultati sempre straordinari.
Ma la scoperta del disegno quale strumento progettuale, portò ad una conseguenza inedita: fu possibile, per l’artista, scindere il momento dell’ideazione da quello dell’esecuzione. All’artista poteva anche bastare fare il disegno dell’opera che intendeva realizzare: la realizzazione poteva anche affidarla ad altri i quali, grazie ai disegni avuti, divenivano dei semplici esecutori materiali di quanto ideato dall’artista.
La scissione dell’ideazione dall’esecuzione fu gravida di conseguenze nuove soprattutto nell’architettura, la quale da questo momento in poi, non ha più riunito i due momenti. Ma fu una situazione nuova anche per le altre arti figurative: anche nella scultura e nella pittura il maestro, spesso, si limitava a disegnare (progettare) l’opera: l’esecuzione materiale era poi affidata agli aiuti e ai collaboratori. Ma, soprattutto in pittura, la scissione tra ideazione ed esecuzione non fu una regola assoluta: in tempi successivi, soprattutto nel corso del XIX secolo, i due momenti divennero nuovamente inscindibili.
La prospettiva
L’arte medievale aveva semplificato la raffigurazione sia pittorica che scultorea, annullando tutti gli effetti di spazialità. Le figure, in pose e immagini sempre molto schematiche, venivano collocate, nel quadro o nei bassorilievi, sempre su un unico piano verticale. Ciò portava ad una rappresentazione del tutto antinaturalistica, in quanto le immagini artistiche non assomigliavano in nulla alle immagini che i nostri occhi colgono della realtà circostante.
Il naturalismo, in pittura, può essere definito come la riproduzione che più si avvicina a quella sensoriale del nostro occhio. Vi sono delle leggi ottiche molto precise, che regolano la nostra vista. L’occhio raccoglie i raggi visivi dallo spazio, li fa convergere in un punto, e quindi li proietta su un piano ideale posto all’interno dell’occhio. In pratica, traduce la realtà, tridimensionale, in immagini, bidimensionali. Il pittore, in pratica, opera allo stesso modo: percepisce una realtà tridimensionale, e la traduce in rappresentazioni bidimensionali. Se la rappresentazione segue le stesse leggi ottiche dell’occhio umano, abbiamo una pittura naturalistica; diversamente si va nel simbolico o nell’astratto.
La conclusione di questa ricerca, portava a comprendere il funzionamento della visione oculare, e a tradurlo in un sistema logico, da applicarsi per la costruzione della rappresentazione. Tale sistema logico è ciò che si definisce «prospettiva».
Tra le varie regole, alla base della prospettiva, se ne possono citare almeno due:

  1. le rette che, nello spazio tridimensionale sono parallele, nelle rappresentazioni piane tendono a convergere in un punto, detto punto di fuga, e che è unico per tutte le rette parallele alla medesima direzione;
  2. l’altezza degli oggetti tende a ridursi progressivamente, man mano che questi si allontanano dal punto di osservazione.

Applicando queste regole si possono ottenere immagini del tutto simili a quelle che i nostri occhi trasmettono al cervello. In tal modo, il quadro viene ad essere una sorta di illusione spaziale, dove le figure sembrano non collocarsi su una superficie piana, ma in uno spazio virtuale, che si apre a partire dal piano di rappresentazione.
Dopo la scoperta del chiaroscuro, che sfruttava la luce per definire attraverso la differenza di tonalità la tridimensionalità dei volumi, la scoperta della prospettiva consentiva di rappresentare la tridimensionalità dello spazio, attraverso l’uso della geometria proiettiva. Da questo momento in poi, la tecnica pittorica del rinascimento italiano, andò ad affermarsi come la più avanzata e perfetta, conquistando un ruolo di egemonia in campo europeo, ed occidentale in genere, fino alla metà dell’Ottocento.
Le prime applicazioni della prospettiva avvennero a Firenze, nel terzo decennio del XV secolo, ad opera di Masaccio nel campo della pittura e di Donatello nel campo della scultura. Ma il vero inventore della prospettiva fu Filippo Brunelleschi. Che Brunelleschi fosse un architetto non è affatto casuale. In realtà tra architettura e prospettiva esiste un rapporto molto intimo: la prospettiva è un sistema che funziona bene solo se dobbiamo rappresentare degli spazi che seguono precise regole geometriche. Lo spazio naturale non ha forme geometriche regolari: in natura non troveremo mai linee rette, linee parallele, angoli retti, quadrati, cerchi e altri enti geometrici simili. Questi sono elementi geometrici che troviamo solo nell’architettura: solo lo spazio artificiale, quello costruito cioè dall’uomo, ha una geometria di base fatta di linee rette, di angoli retti, di parallele e perpendicolari e così via. Ecco perché la prospettiva è una tecnica che si può usare solo per rappresentare spazi architettonici.
Nel Quattrocento assistiamo, infatti, ad un connubio molto stretto tra pittura e architettura. Nei loro quadri, i pittori rinascimentali, per materializzare la profondità spaziale utilizzando la prospettiva, usano sempre l’architettura. Un quadro rinascimentale del Quattrocento è sempre una straordinaria rappresentazione di spazi architettonici. Ma ovviamente la prospettiva condizionò molto anche la stessa architettura. La rappresentazione prospettica condizionò gli architetti, portandoli a progettare edifici dalle forme sempre più regolari, che si davano alla percezione come la materializzazione stessa di quella chiarezza geometrica che la prospettiva proponeva come nuovo canone di bellezza.
Il ritorno all’antico
Il Rinascimento, già nel suo stesso nome, contiene l’implicito tema del recupero del passato. Nel campo più vasto della cultura umanistica del tempo, recupero dell’antico significò studiare tutti quegli autori classici che erano stati un po’ trascurati nel medioevo; significò un recupero anche di quei temi filosofici che vanno sotto il nome di neoplatonismo.
Il neoplatonismo era nato nel III secolo grazie ad un filosofo di nome Plotino. Questo neoplatonismo ritornò di gran moda nell’ambiente fiorentino del Quattrocento, grazie a pensatori quali Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Lorenzo Valla. Senza entrare nel merito di questioni squisitamente filosofiche, il neoplatonismo fornì importanti spunti teorici di pensiero ad un tema che, con l’arte rinascimentale, divenne improvvisamente impellente: il recupero della bellezza.
Arte e bellezza sembrano, per molti, quasi sinonimi. In realtà non è affatto vero. Che l’arte avesse per fine la bellezza è stato vero solo in alcuni periodi della storia. È stato vero per l’arte greca, ma non lo è stato, invece, per l’arte medievale.
Nel medioevo, una visione dell’arte, basata fondamentalmente sulla religione, escludeva del tutto la bellezza. L’arte aveva un fine essenzialmente didattico: insegnare le storie della religione cristiana. La bellezza non era importante, anzi, veniva spesso considerata apertamente pericolosa. Perché la bellezza è qualcosa che parla ai sensi, e come tale può indurre più al peccato che non ai buoni precetti.
Nel Rinascimento assistiamo invece ad un recupero intenso del concetto di bellezza. Il perché è ben comprensibile: la bellezza era l’espressione stessa della perfezione, di quella perfezione che diviene il metro per giudicare la capacità dell’uomo di creare un mondo nuovo. In questo il Rinascimento è molto simile al mondo greco: in entrambi i casi la bellezza è sinonimo di perfezione e si basa su leggi matematiche. La bellezza è l’armonia dei rapporti perfetti, che solo i numeri sanno svelare.
Il neoplatonismo fu importante per le riflessioni sulla bellezza. Secondo questa filosofia, ciò che è bello è anche buono, e ciò che è buono è anche bello. In pratica non c’era conflitto tra sfera etica ed estetica. Come si sa, questo è un punto molto controverso, che ha avuto alterne posizioni nel corso della storia del pensiero occidentale. Tuttavia, grazie a questo modo di risolvere un conflitto che nel medioevo aveva estraniato il bello dall’arte, anche il neoplatonismo contribuì a riportare, nel corso del Quattrocento, il tema della bellezza ad una nuova attualità.
In questo, quindi, il Rinascimento recupera l’antico. Recupera il senso del bello, l’armonia delle proporzioni, il gusto per la perfezione formale. In ultima analisi, come l’arte classica, anche l’arte rinascimentale vuole ottenere il naturalismo più perfetto: vuole una rappresentazione della realtà che, nella sua perfezione, sia conoscenza esatta di ciò che viene rappresentato. Per questo, anche l’arte contribuì a creare il nuovo uomo del Rinascimento: un uomo che indaga con ogni strumento il mondo che lo circonda per meglio conoscerlo.
In un primo momento, il recupero dell’antico si materializzò in architettura, prima che nelle arti figurative. Il Rinascimento fu anche rifiuto dell’architettura gotica, e delle sue irregolari geometrie. Questo rifiuto portò gli architetti del tempo a recuperare, in alternativa, tutte quelle forme e regole che avevano caratterizzato la grande architettura romana: gli ordini architettonici, gli archi a tutto sesto, la regolarità delle forme geometriche, e così via. In seguito, il ritorno all’antico si manifestò sempre più nelle arti figurative, anche grazie ad una nuova attenzione posta ai temi mitologici che, con il Rinascimento, tornarono nuovamente ad essere rappresentati.
Ma il Rinascimento fu soprattutto, come già detto, non un semplice recupero di elementi decorativi: fu il recupero di un atteggiamento verso l’arte che prediligeva la bellezza e il naturalismo.
Il nuovo ruolo dell’artista
Per tutto il Medioevo, l’artista era stato sempre considerato quale un artigiano, persona, cioè, la cui abilità era soprattutto manuale. Secondo una distinzione, che risale sicuramente a tempi molto antichi, le arti erano divise in «liberali» e «meccaniche»: le prime erano quelle che si affidavano soprattutto al pensiero e alla parola, le secondo implicavano invece una manipolazione della materia. Mentre quindi le prime erano arti puramente intellettuali, le seconde comportavano il possesso di una tecnica e una precisa abilità manuale. In sostanza, con termini più attuali, potremmo definire i primi degli intellettuali, i secondi degli operai. Ovviamente, da un punto di vista sociale, i primi erano tenuti in maggior considerazione rispetto ai secondi.
Le arti figurative erano annoverate tra quelle meccaniche: i pittori e gli scultori potevano anche essere degli analfabeti (e spesso lo erano) tanto a loro non era chiesta alcuna attività di pensiero. Essi dovevano solo possedere l’abilità tecnica per saper eseguire quello che il committente gli chiedeva. Ed infatti, la paternità dell’opera d’arte, nel Medioevo, veniva considerata più del committente che non dell’artista che l’aveva realizzata. Questa situazione andò evolvendosi nel tempo, quando il fare arte divenne una tecnica sempre più evoluta, al punto che la capacità dell’artista non poteva essere vista come quella di un semplice operaio che possiede solo abilità manuali. Già nel Trecento, con Giotto, ad esempio, assistiamo ad una crescita straordinaria della considerazione sociale di cui gode ora l’artista. Ma è soprattutto con l’affermarsi del Rinascimento che l’evoluzione della figura dell’artista compie il grande salto: da questo momento in poi, anche l’artista rivendicherà per se il ruolo di intellettuale.
Il mondo dell’arte ha avuto una infinità di interpreti e di rappresentanti, i quali si sono collocati nella società nei punti più disparati, da quelli più umili a quelli più significativi. Una cosa rimane però certa, che dal Rinascimento in poi l’artista inizia a godere di una considerazione nuova.
Nel corso del Rinascimento, anche il luogo dell’artista cambia: non è più quello della bottega, ma quello della corte. Molti artisti lavorano direttamente alle dipendenze dei signori che governano i piccoli stati, in cui la penisola si divide in questo secolo. Alla figura del principe-mecenate, fa da corollario quella dell’artista cortigiano. E nella corte di un principe l’artista viene a contatto con tutti i maggiori rappresentati dell’intellettualità del tempo: poeti, scrittori, filosofi, matematici, e così via. Entra quindi a far parte, a pieno diritto, nel novero degli intellettuali del tempo.
Nel campo dell’architettura, poi, il salto è stato radicale. Prima la figura dell’architetto neppure esisteva, ma a dirigere e coordinare i lavori di un cantiere medievale era quella figura che potremmo definire di «capomastro»: un muratore, cioè, che aveva più esperienza degli altri. Nel Rinascimento l’architetto assume tutt’altra veste: egli è ormai un professionista, nel senso moderno del termine, che conduce la sua attività attraverso lo studio teorico e la elaborazione progettuale. Grazie ai nuovi strumenti progettuali offerti dal disegno, egli conduce la sua attività prevalentemente a tavolino. Non è infrequente, infatti, che importanti realizzazioni architettoniche siano state concluse da altri, anche dopo la morte dell’ideatore, perché i progetti definivano compiutamente l’opera da realizzare.
Il Rinascimento, peraltro, rimane l’unico periodo della storia italiana, in cui assistiamo a questo eclettismo notevole, per cui lo stesso artista fa contemporaneamente l’architetto e il pittore o lo scultore. È una parabola che va da Giotto a Bernini: dopo i ruoli saranno sempre più distinti, e la professione di architetto raramente si sommerà a quella di artista.
Gli albori del Rinascimento
Come è noto, la storiografia pone generalmente la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna al 1492, anno della scoperta dell’America. Si tratta ovviamente di una convenzione che, per i normali problemi di classificazione, appare abbastanza congrua. Per l’arte, invece, il 1492 è una data troppo tarda: nel campo artistico l’era nuova inizia nei primi anni del XV secolo, quasi un secolo prima. Anche qui le scelte sono tutto sommato convenzionali. La tendenza è di porre l’inizio del Rinascimento al 1401, anno in cui a Firenze si svolse il concorso per la seconda porta di bronzo del Battistero, anche se le prime manifestazioni del nuovo stile appaiono solo nel terzo decennio del XV secolo.
Luogo di nascita dell’arte rinascimentale è Firenze; protagonisti furono tre tra i più grandi artisti di tutti i tempi: Brunelleschi, Donatello e Masaccio. La situazione di Firenze, alla fine del Trecento, era di una città ricca che stava lentamente riprendendosi dalla crisi portata a metà del secolo dalle epidemie di peste. La ricchezza di Firenze derivava soprattutto dalle famiglie che, nel corso del Trecento (Medici, Strozzi, Pitti, e molte altre), si erano date all’attività bancaria. Ciò permise alla città di poter investire in opere d’arte, in maniera molto più estesa rispetto ad altre città italiane. In questo contesto emersero tre artisti singolari, la cui grande genialità fu all’origine della nuova visione artistica rinascimentale. Tuttavia il loro percorso non fu facile, e solo lentamente riuscirono a conquistare gli spazi necessari a far manifestare la loro arte. Ma furono comunque passi importantissimi, che divennero in breve i primi germi di un nuovo percorso che sarà seguito prima dagli artisti italiani e poi da quelli europei. Dei tre, probabilmente il più geniale fu proprio Filippo Brunelleschi: a lui si devono le innovazioni più importanti dell’arte di questi primi decenni del Quattrocento: l’invenzione della prospettiva, nonché l’invenzione dell’architettura rinascimentale. La scoperta delle leggi della prospettiva, se da un lato condizionò tutta l’architettura a venire, dall’altro divenne uno straordinario strumento di rappresentazione per dare alle immagine una maggiore sensazione di naturalismo. A capire le potenzialità della scoperta furono due artisti, di qualche decennio più giovane di lui: Masaccio e Donatello. Le loro opere tra secondo e terzo decennio del Quattrocento ci forniscono i primi esempi di una nuova sensibilità artistica, che nel corso degli anni a venire sarebbe divenuta comune a tutta l’arte italiana.
Ma il nuovo percorso non ebbe immediato successo. Nella prima metà del Quattrocento, ciò che più impressionava erano le leggi della prospettiva, non tanto le regole di razionalità che ne erano alla base. Dopo l’insegnamento dei tre maestri Brunelleschi, Masaccio e Donatello, gli altri artisti preferirono seguire ancora un percorso di mediazione. Su uno stile, che rimase ancora di formazione tardo gotica, inserirono la novità della prospettiva, spesso solo come nuovo elemento stilistico alla moda. Ciò avvenne in artisti particolari quali Paolo Uccello, il Beato Angelico o Filippo Lippi. Solo dopo la metà del Quattrocento il nuovo stile rinascimentale trovò interpreti più attenti alle novità di fondo di questo stile.
Il rinascimento maturo
Nella concezione tradizionale della storia dell’arte, i periodi artistici seguono un percorso che potremmo definire "a parabola". Vi è una prima fase di crescita e di progressi successivi, una seconda di piena maturazione, infine una terza discendente o di decadenza. Una idea del genere può essere applicata a qualsiasi fenomeno artistico: vi è sempre una fase di ricerca, una di raggiungimento degli obiettivi, una di stanca ripetizione di modelli non più innovativi. In realtà una simile concezione della storia dell’arte è stata superata già da qualche secolo, in quanto, se applichiamo tale schema alle epoche storiche, finiamo per applicare un modello di gusto (personale e non obiettivo) per giudicare fenomeni artistici che sono diversi tra loro perché comunque espressione di momenti storici diversi.
Tuttavia, nell’analisi del fenomeno "arte rinascimentale" con fatica ci si distacca da questa concezione della "parabola", e il modello che appare più attendibile è il seguente:
fase di crescita: dal 1420 al 1490
fase di maturazione: dal 1490 al 1520
fase di decadenza: dal 1520 al 1580
Nella prima fase vediamo i progressi successi di artisti che sono stati dei grandi sperimentatori dello stile e della forma, dei rivoluzionari che hanno dovuto creare quasi dal nulla un nuovo linguaggio artistico: Brunelleschi, Masaccio, Donatello, Piero della Francesca, Mantegna, ecc.
Nella seconda fase si assiste al raggiungimento della "perfezione", cioè al pieno controllo del nuovo linguaggio artistico creato nel corso del Quattrocento. Di questa fase i protagonisti assoluti sono tre artisti, da sempre considerati tra i più grandi di tutti i tempi: Leonardo, Michelangelo e Raffaello.
Nella terza fase, nota con il nome di Manierismo, troviamo invece molti artisti che non vanno oltre la perfezione di questi tre grandi maestri, ma ne ripetono le formule stilistiche senza ulteriori innovazioni.
Questa concezione evolutiva dell’arte nasce proprio in quegli anni grazie al primo disegno storiografico dell’arte italiana, realizzato da Giorgio Vasari. Nel 1550 pubblicò la prima edizione delle "Vite dei più grandi pittori, scultori, architetti italiani". Questo libro, che rimane un punto fondamentale per la conoscenza dell’arte rinascimentale, ha una impostazione ideologica ben precisa: dimostrare che l’arte italiana ha seguito un percorso di continua evoluzione, fino a giungere alla perfezione, rappresentata in quegli anni da Michelangelo Buonarroti. In pratica Michelangelo è l’apice di una evoluzione che sembra a sua volta insuperabile.
I tre protagonisti
Il periodo del rinascimento maturo è segnato dalla presenza di tre grandi artisti, quali appunto Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Si tratta di tre personalità molto diverse tra loro: un piccolo confronto tra loro può essere utile per capire anche le diverse anime del rinascimento italiano di quegli anni.
Leonardo da Vinci è il modello dell’artista eclettico per antonomasia, colui che riesce ad eccellere in qualsiasi campo, soprattutto perché è dotato di una razionalità eccezionale. Nel campo artistico in fondo ha prodotto molto poco, in quanto la sua inesauribile curiosità lo portava ad affrontare i problemi con appiglio più da scienziato che da artista. In lui l’ansia di conoscere era superiore anche al fare, tanto che rimane più corposa la sua produzione scritta che non quella propriamente artistica.
Michelangelo invece è artista completamente diverso: in lui non si avverte quella fredda razionalità di Leonardo, ma una dimensione interiore più drammatica e sofferta. Michelangelo, nelle sue opere, manifesta un senso tragico dell’esistenza, segnato da una sofferenza e una solitudine che forse sola l’attività creativa riusciva a lenire. Michelangelo è il prototipo dell’artista tormentato, prototipo che ebbe, poi, molto seguito nei secoli successivi.
Raffaello è diverso da entrambi e rappresenta, potremmo dire, il glamour del rinascimento. Tra i tre è stato quello che ha avuto la vita più breve ma la produzione di gran lunga più vasta, segno di uno straordinario e felice rapporto con la sua arte. Raffaello è solare, luminoso, non conosce tormenti, e la sua arte è la ricerca suprema della bellezza e dell’armonia. Raffaello riusciva a far bene qualsiasi cosa, dimostrando sempre un talento impareggiabile.
Un ultimo dato va assolutamente rilevato. L’attività di questi tre artisti così geniali ha profondamente modificato la percezione successiva della creatività artistica: questa non è stata più vista come il prodotto di una professionalità legata ad abilità più o meno manuali, ma come il risultato di una genialità assolutamente individuale. D’ora in poi si afferma sempre più la concezione dell’artista-genio, ossia di un individuo diverso dagli altri perché dotato di qualcosa di unico e irripetibile.
La crisi della prospettiva
La grande svolta stilistica che aveva segnato l’inizio del Rinascimento era stata la scoperta della prospettiva e il suo utilizzo soprattutto in pittura. Tuttavia la necessità di introdurre molte architetture dipinte nei quadri, necessarie a costruire la prospettiva lineare, alla fine divenne un limite che doveva essere superato. La prospettiva rimase una tecnica imprescindibile, la cui conoscenza era comunque fondamentale per la corretta costruzione di una immagine naturalistica, tuttavia era necessario comprendere meglio le leggi della percezione, per dare una corretta rappresentazione spaziale anche in assenza di architetture.
Uno dei maggiori sperimentatori in questo campo fu Leonardo da Vinci. I suoi studi sui meccanismi della visione umana, gli permisero di definire alcune tecniche che si rivelarono di grande importanza nella pittura successiva. Leonardo, nei suoi trattati, fu il primo a parlare di due prospettive: una lineare e una aerea. Con la seconda intendeva un meccanismo della percezione allora ancora ignota: quello della messa a fuoco. In pratica se si guarda nitidamente le figure in primo piano, l’occhio non può contemporaneamente mettere a fuoco anche le figure sullo sfondo. Se quindi si sfocano le immagini in lontananza, si crea un effetto di tridimensionalità che non fa ricorso alle linee geometriche dell’architettura. Da qui nacque la tecnica nota come sfumato di Leonardo.
Un nuovo sistema prospettico fu intuito sempre da Leonardo, ma trovò la sua maggiore applicazione nella pittura tonale veneta del Cinquecento. Questo sistema consiste nel differenziare bene le aree luminose e in ombra di una scena. L’occhio quando guarda una scena comprende che su uno stesso piano non possono esserci contemporaneamente toni chiari e toni scuri, ma questi vanno collocati su differenti piani di profondità. Pertanto, calibrando bene i toni dei colori, la scena prende più piani di profondità per l’alternarsi di aree in luce e aree in ombra.
Una nuova e inedita possibilità di creare il senso della tridimensionalità venne insegnato da Michelangelo. Le sue rappresentazioni anatomiche sono così articolate e ben realizzate che l’occhio intuisce senza alcuna difficoltà lo spazio in cui il corpo si colloca e si muove. In pratica l’occhio è portato a riconoscere senza alcuna difficoltà l’immagine umana. Quindi basta la posizione delle figure, i loro gesti, i loro rapporti reciproci, persino i loro sguardi, a far comprendere all’occhio di chi guarda la tridimensionalità spaziale in cui le figure si collocano.
La nuova capitale dell’arte
Leonardo, Michelangelo e Raffaello sono tre artisti di formazione fiorentina, ma la loro arte si svolse solo in minima parte nella città toscana. Leonardo ha svolto i suoi maggiori lavori a Milano, mentre Michelangelo e Raffaello hanno lavorato soprattutto a Roma. Nello stesso periodo un’altra città produsse una notevole civiltà artistica: Venezia. Ma la diffusione del rinascimento ormai non conosce confini. È un fenomeno che si espande per tutta l’Europa, dimostrando la grande importanza raggiunta dal genio artistico italiano.
In Italia è soprattutto Roma, in questo momento, la capitale indiscussa della penisola italiana, non solo da un punto di vista artistico. Il ritorno del papa a Roma, nel 1377, dopo il periodo avignonese, dà nuovo slancio allo sviluppo della città eterna. Il papato ha un ruolo sempre più determinante nello scenario politico europeo e Roma è crocevia di interessi internazionali che le danno un carattere assolutamente cosmopolita.
Il rinnovamento urbano della sede papale diviene la principale occasione di lavoro per molti architetti ed artisti: non è un caso, quindi, che le maggiori personalità del tempo si incontrino a Roma, facendone il laboratorio del rinascimento maturo. Questo ruolo di capitale dell’arte, Roma lo ha ininterrottamente conservato almeno per tre secoli: anche il barocco e il neoclassicismo sono nati nella città eterna.
Fino al 1305, prima che il papa si trasferisse ad Avignone, la sede papale non era il Vaticano ma il Laterano. Quando nel 1377 il papa ritornò a Roma, i palazzi lateranensi non erano più in grado di ospitare la corte papale. La scelta cadde sul Vaticano che, già in epoca altomedievale, era quasi una piccola cittadella fortificata che poteva ospitare il papa in caso di pericolo. Dagli inizi del Quattrocento iniziò il rinnovamento del Vaticano, che divenne il maggiore cantiere artistico italiano per oltre due secoli, luogo di formazione di un nuovo linguaggio artistico nonché luogo di incontro tra i maggiori maestri italiani del tempo. Un caso pressoché unico, paragonabile solo al Cantiere di Assisi, dove tra Duecento e Trecento nacque la pittura italiana.
Ma Roma è una capitale i cui interessi travalicano i suoi confini statali. Luogo di incontro tra le maggiori diplomazie europee, a Roma sorgono sfarzosi palazzi di famiglie nobili italiane e straniere, che alimentano una committenza artistica di altissimo livello. E, sempre a Roma, si comincia a manifestare un primo mercato dell’arte, conseguenza di un fenomeno nuovo rispetto ai tempi precedenti: il collezionismo di opere di artisti ancora viventi.
MANIERISMO
Definizione
Nella seconda metà del Cinquecento, il Rinascimento vide una generale diffusione in tutta Europa. La scoperta della prospettiva, unita alle altre scoperte sulla luce e sul colore, aveva fornito un vocabolario completo di soluzioni formali, che per la sua validità tecnica ebbe il senso di una conquista universale, non legata a fattori di gusto o di stile.
Intanto, alla metà del Cinquecento, in Italia il Rinascimento, ormai maturo, conobbe una stagione intensa, caratterizzata da tantissimi ottimi artisti, ma mancante delle personalità geniali della prima metà del secolo, quali Leonardo, Michelangelo o Raffaello. Ciò ha portato a considerare questo periodo, in rapporto al precedente, come un periodo di decadenza.
Per questo motivo, all’arte della metà del Cinquecento è stato dato il nome di «manierismo», dove con il termine «maniera» (“fare arte alla maniera di”) si usava intendere ciò che oggi chiamiamo «stile». In pratica si utilizzava lo stile dei grandi maestri della generazione precedente, senza cercare nuove soluzioni formali. Da qui, poi, il termine «manierismo» ha acquisito una universalità astorica, indicando sempre quel momento della produzione artistica, riscontrabile in tutti i periodi storici, in cui si procedeva senza ulteriori sperimentazioni, ma applicando i principi artistici già di provata efficacia e successo. In seguito, dall’Ottocento in poi, il termine «manierismo» è stato generalmente sostituito da quello di «accademismo», indicando in sostanza il medesimo atteggiamento.
Il giudizio sostanzialmente negativo dato a questo periodo, è stato in seguito riveduto, ed oggi l’arte di questa epoca viene valutata non in rapporto ai periodi precedenti, ma come fenomeno culturale a se stante.
In realtà l’arte di questo periodo è stata molto eterogenea e appare quasi improprio dare una stessa etichetta ad artisti molto diversi tra loro, sia per stile sia per poetica. Unica cosa sembra accomunare gli artisti di questo periodo ed è l’idea che l’arte è decorazione e spettacolo, non ricerca di verità o strumento di comunicazione di valori etici o morali. L’immagine sembra prevalere sulla realtà delle cose, portando gli artisti a cercare più la suggestione che non la verità nella rappresentazione. Questo atteggiamento è stato, in genere, interpretato in chiave di inquietudine e di tensione anticlassica. In molti casi è, invece, semplicemente esplicazione di un virtuosismo dato dalla generale maggiore padronanza tecnica delle nuove generazioni di artisti.

 

Le diverse anime del manierismo
Le prime manifestazioni di un nuovo stile, che possiamo definire manieristico, si hanno ancora a Firenze, grazie soprattutto a due originali artisti: Rosso Fiorentino e il Pontormo. Entrambi allievi di Andrea del Sarto, hanno una conoscenza diretta della pittura e dello stile dei grandi maestri quali Leonardo e Michelangelo, dal quale si cominciano ad allontanare già nel secondo decennio del Cinquecento. Simile allo stile dei due fiorentini è quello di un altro originale artista toscano: il senese Domenico Beccafumi.
Un altro grande filone della pittura manierista è stato quello dei collaboratori di Raffaello: Perin del Vaga, Giulio Romano, Polidoro da Caravaggio. Tra la morte di Raffaello, nel 1520, e il sacco di Roma, nel 1527, questi artisti contribuirono a creare il manierismo nel città eterna. Dopo il 1527, Giulio Romano si trasferì a Mantova, presso la corte dei Gonzaga, diffondendo il suo stile nell’Italia settentrionale che, in questo periodo, vive una straordinaria fioritura artistica.
I contatti tra gli artisti si intensificano, e gli artisti stessi si muovono più di frequente per operare in città diverse. È il caso di Giorgio Vasari, noto soprattutto per la stesura delle “Vite”, ma che fu anche pittore molto attivo, di Lorenzo Lotto e di Sebastiano del Piombo, entrambi provenienti da Venezia e che contribuirono a diffondere l’arte veneta nel resto dell’Italia.
Uno dei più singolari artisti del manierismo, fu Francesco Mazzola, detto il Parmigianino. Nella sua pittura si ritrova una cifra stilistica molto originale ma che incarna uno degli aspetti propri del manierismo: una sensualità raffinata e un po’ decadente.
Legati al manierismo, di cui forniscono una componente ulteriore, sono anche i pittori veneziani posteriori a Tiziano, quali il Tintoretto e Paolo Veronese. In loro si manifesta l’estetismo festoso di composizioni grandiose e complesse, in cui gli effetti speciali di luci, ombre e prospettive, sorprendono per la spettacolarità dell’insieme.
La diffusione del manierismo non è solo italiana: in un periodo in cui gli artisti italiani operano in tutta Europa, dalla Russia alla Spagna, anche il manierismo si espande in altri luoghi europei. Il caso più importante fu quello della decorazione del Castello di Fontainebleau, dove Francesco I di Francia raccolse alcuni dei maggiori artisti italiani, quali Rosso Fiorentino, il Primaticcio, Niccolò dell’Abate, Benvenuto Cellini. Qui nacque uno stile che, con il nome di “Scuola di Fontainebleau”, si diffuse in tutta la Francia ed anche oltre, conservando una sua vitalità fino agli inizi del Seicento.
ARTE BAROCCA
Definizione del termine «barocco»
Il termine «barocco» ha una genesi incerta: secondo alcuni autori esso deriva dal termine francese «baroque» (in spagnolo «barrueco» e in portoghese «barrôco») che nel Seicento indicava una perla di forma irregolare. In arte con la parola «barocco» si indica uno stile artistico che storicamente coincide con l’arte prodotta dagli inizi del Seicento alla metà del Settecento. Il termine in realtà verrà utilizzato solo dopo la fine di questo periodo, dagli scrittori di età neoclassica, con chiaro intento dispregiativo, per evidenziare i caratteri di irregolarità di questo stile.
In realtà il termine barocco, oltre ad individuare uno stile attuato in un periodo storico preciso, sembra contenere in sé una precisa categoria estetica universale che supera l’applicazione stilistica attuata nel Seicento e Settecento. Esso indica tutto ciò che è fuori misura, eccentrico, eccessivo, fantasioso, bizzarro, ampolloso, magniloquente, ma soprattutto che tende a privilegiare l’aspetto esteriore ai contenuti interiori.
Inteso in questo senso, il barocco è quasi una categoria universale dello spirito umano, e non a caso il termine viene spesso usato anche al di fuori del contesto storico al quale si riferisce. Ricorrendo ad una teorizzazione dello storico austriaco Riegl, ogni periodo storico, o fase culturale, si svolge secondo una parabola suddivisa da tre fasi principali: una iniziale di sperimentazione, una intermedia che potremmo definire classica, una finale di decadenza. Se applichiamo questo schema all’arte italiana tra Quattrocento e Seicento, abbiamo che la prima fase corrisponde al momento iniziale del Rinascimento, quando innovatori e sperimentatori da Brunelleschi a Botticelli arrivano a definire i canoni di una nuova sensibilità estetica nonché di un nuovo stile. La seconda fase corrisponde all’attività dei grandi maestri a cavallo di Quattrocento e Cinquecento quali Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Con essi il nuovo stile raggiunge la maturità e la perfezione: si raggiunge in pratica la fase «classica» dello stile rinascimentale, cioè di una perfezione assoluta che non sarà più messa in discussione da mode o oscillazioni di gusto. Infine la terza fase, quella di decadenza, coincide con il Manierismo ma soprattutto con il Barocco. «Barocco», quindi, diviene per antonomasia qualsiasi fase di decadenza di uno stile artistico il quale, dopo aver raggiunto la maturità, si deforma in applicazioni virtuosistiche ma fatue e stucchevoli e non di rado ripetitive.
Il giudizio critico nei confronti del barocco ha subito molte oscillazioni. Una rivalutazione in senso positivo è stata tentata solo alla fine dell’Ottocento dallo storico austriaco Wolfflin, ma in realtà un certo giudizio di negatività non è mai venuto meno nei confronti di questo stile, soprattutto perché la nostra cultura occidentale moderna, figlia dell’Illuminismo, nasce proprio dal rifiuto del barocco, ossia della cultura seicentesca in genere.
Un punto vale però la pena rimarcare, prima di continuare il discorso. Le caratteristiche stilistiche che noi attribuiamo al barocco in realtà si ritrovano essenzialmente solo nell’architettura e nelle arti applicate di quel periodo. Le arti figurative del Seicento e Settecento hanno dinamiche ed esiti stilistici che raggrupparle genericamente nella definizione di «barocco» appare improprio. Così come è avvenuto per il romanico e il gotico, e come avverrà in seguito per il liberty e il post-moderno, il termine, nato per definire uno stile architettonico, è stato utilizzato in maniera impropria, dal punto di vista stilistico, per individuare tutta l’arte del periodo al quale ci si riferisce. Così come non possiamo definire gotica la pittura di Giotto, solo perché ha operato tra XIII e XIV secolo, così non possiamo definire barocca la pittura di Caravaggio o di Rembrandt, solo perché la loro attività si è svolta nel XVII secolo.
Decorazione ed illusione
Uno dei parametri che meglio definiscono la posizione estetica del barocco è dato dal concetto di «immagine», quale apparenza illusoria di qualcosa che nella realtà può anche essere diverso. In pratica è proprio nell’età barocca che si apre una separazione tra l’essere e l’apparire dove il secondo termine prende una sua indipendenza dal primo al punto che non sempre, o quasi mai, ciò che si vede è ciò che è.
Ciò che viene a modificarsi è il rapporto fondamentale tra rappresentazione e conoscenza. Durante l’età umanistica, la conoscenza attraverso i sensi aveva un valore positivo: cercando di capire ciò che si osservava si acquisiva una nuova comprensione del reale. Era un notevole progresso rispetto ad una conoscenza che in età medievale era ammessa solo come interpretazione simbolica delle sacre scritture. E in età umanistica artista e scienziato (anche se per quell’età è improprio usare questo secondo termine) potevano ancora essere la stessa persona. Nel Seicento ciò non è più possibile. La nascita delle scienze sperimentali e i progressi delle discipline matematiche hanno portato la conoscenza in ambiti diversi da quelli esperibili attraverso i sensi. Anzi, la conoscenza attraverso i sensi viene messa decisamente in crisi, se pensiamo a quanto questi possono essere fallaci come nel caso della sfericità della terra o del suo movimento rotatorio e di rivoluzione intorno al sole. In pratica non sono più i sensi, ma l’intelletto, la chiave di volta per accedere alla conoscenza del vero.
In questa inaspettata ma inevitabile evoluzione, l’arte finisce per restare confinata al rango di attività che controlla solo le apparenze, senza doversi più preoccupare del vero: diviene un’attività finalizzata unicamente al decoro. Ciò finisce per essere in linea anche con l’aspettativa del tempo, dove il problema del decoro, inteso come rappresentazione di sé nel contesto della società, diviene punto nodale della vita sociale del tempo. Ovvero, mai come in questo tempo, apparire assume un valore di fondamentale importanza e universalmente accettato.
Ma perché apparire ed essere non possono, o non riescono, a coincidere nel XVII secolo? Uno dei motivi è sicuramente rintracciabile nella evoluzione del rapporto chiesa-società a seguito della Controriforma e della imposizione di una ortodossia religiosa attraverso l’uso dei tribunali dell’Inquisizione. È sicuramente vero che nel XVII secolo vengono gettate le basi del moderno pensiero scientifico, ma è altrettanto vero che i conflitti con il pensiero religioso furono altamente drammatici, come nel caso di Galileo Galilei. Il Seicento non fu certo un secolo in cui era facile vivere, e «salvare le apparenze» poteva risultare molto vitale per la propria sopravvivenza, anche a costo della verità.
Ma di certo un altro motivo di questa aumentata importanza dell’apparire va rintracciato nell’aumento della ricchezza che investì l’Europa dopo lo sfruttamento delle colonie da parte delle nazioni più attive nelle conquiste militari, come la Spagna o l’Inghilterra o più attrezzate nei commerci marittimi e internazionali come i Paesi Bassi e il Portogallo. L’aumento di benessere ebbe come conseguenza un divario maggiore tra classi ricche (aristocratici, ecclesiastici, borghesi, militari e mercanti) e classi povere (contadini, artigiani e proletari in genere), e siccome l’arte rimase ad ovvio ed esclusivo servizio dei primi, non poteva che esaltare la loro condizione di decoro quale segno di potere ed importanza.
Se si entra in una siffatta mentalità è ovvio che la possibilità di controllare l’immagine, fino al limite dell’illusione, è un’attività molto apprezzata, ma di dubbie qualità etiche. Da qui uno dei capisaldi dell’arte barocca e della sua critica posteriore: non si è mai certi se ciò che si vede è vero o è solo un’illusione creata ad arte.
Lo stile barocco
Definire lo stile barocco non è molto difficile. Uno dei primi parametri è sicuramente l’uso privilegiato che si fece della linea curva. Nulla procede per linee rette ma tutto deve prendere andamenti sinuosi: persino le gambe di una sedia o di un tavolo devono essere curvi, anche se ciò non sempre può essere razionale. Le curve che un artista barocco usa non sono mai semplici, quali un cerchio, ma sono sempre più complesse. Si va dalle ellissi alle spirali, con una preferenza per tutte le curve a costruzione policentrica. Tanto meglio se poi i motivi si ottengono da intrecci di più andamenti curvi.
Un altro parametro stilistico del barocco è sicuramente la complessità. Nulla deve essere semplice, ma deve apparire come il frutto di un virtuosismo spinto agli estremi del possibile. In pratica l’effetto che un’opera barocca deve suscitare è sempre la meraviglia. Dinanzi ad essa si doveva restare a bocca aperta, chiedendosi come fosse possibile realizzare una cosa del genere..
Un altro parametro del barocco può essere considerato l’horror vacui. Con tale termine si indica quell’atteggiamento di non lasciare alcun vuoto nella realizzazione di un’opera. In un quadro, ad esempio, ogni centimetro della superficie veniva sfruttato per inserire quante più figure possibili. In una superficie architettonica non vi era neppure un angoletto piccolo e nascosto che non veniva stuccato con qualche cornice dorata o con qualche inserto di finto marmo. Ciò produce la sensazione che un’opera barocca abbia una «densità» eccessiva: una pietanza con troppi ingredienti.
Altro elemento tipico del barocco è ovviamente l’effetto illusionistico. Ciò è intimamente legato all’atteggiamento di considerare l’arte soprattutto come decorazione. Per cui i finti marmi o le dorature erano utilizzate in sovrabbondanza, per creare l’illusione di preziosità non reali ma solo apparenti. Ma l’effetto illusionistico è utilizzato anche in pittura e in scultura. Nel primo caso la grande padronanza tecnica della prospettiva consentiva di creare effetti illusionistici di grande spettacolarità, come avveniva spesso nelle grandi decorazioni ad affresco. In scultura la padronanza tecnica al limite del virtuosismo più esasperato, consentiva di imitare nel duro marmo aspetti di materiali più morbidi con effetti illusionistici straordinari.
Un ultimo parametro dello stile barocco è infine l’effetto scenografico. Le opere barocche, in particolare quelle architettoniche e monumentali in genere, costituiscono sempre dei complessi molto estesi che segnano con la loro presenza tutto lo spazio disponibile. In tal modo il barocco è la quinta teatrale per eccellenza che faceva da cornice alla vita del tempo, anch’essa regolata da aspetti e cerimoniali improntati a grande decoro.
L’architettura barocca
Nel corso del Seicento l’architettura svolgerà sempre più un ruolo trainante per definire i nuovi parametri stilistici del barocco. In realtà, come abbiamo già detto sopra, il barocco è uno stile che trova la sua maggior definizione proprio in ambito architettonico, al punto che appare congruo parlare di architettura barocca, meno congruo parlare di uno pittura o di una scultura barocche.
Anche in architettura il parametro stilistico fondamentale fu il decorativismo eccessivo e ridondante, intendendo con il termine «decorazione» un qualcosa che è aggiunto per abbellire. Questo abbellimento era quindi un qualcosa di applicato, di sovrapposto, che non nasceva dalla sostanza delle cose. Per cui si venne a creare anche in architettura uno iato tra essenza ed apparenza.
Negli edifici barocchi, la struttura e l’aspetto dell’edificio erano considerati come momenti separati. Il primo, la struttura, seguiva logiche sue proprie, il secondo, l’aspetto, veniva affidato alle decorazioni aggiunte con marmi e stucchi. Queste decorazioni erano quasi una pelle dell’edificio, che poteva anche essere tolta, senza che la costruzione perdeva la sua staticità o la sua funzionalità, ma che sicuramente perdeva la sua bellezza.
Quindi, la differenza tra rinascimento e barocco, in architettura, si basava su questa diversa concezione dell’edificio. L’architetto rinascimentale cercava la bellezza nella giusta proporzionalità delle parti dell’edificio, che quindi risultava gradevole all’occhio per il senso di armonia che suscitava. E abbiamo visto che, per far ciò, l’architetto rinascimentale, usava, come strumento progettuale, gli ordini architettonici, affidando ad essi anche la decorazione dell’edificio. L’architetto barocco, invece, non cercava un senso di pacato e sereno godimento estetico, ma cercava di stupire, di suscitare una reazione forte di meraviglia. E per far ciò ricorreva alla decorazione eccessiva e fantasiosa, che creasse così un effetto di ricchezza e preziosità.
Tutto questo decorativismo finì per creare, in realtà, un effetto scenografico. Le facciate degli edifici divenivano le quinte di uno spazio scenico, che erano le vie e le piazze cittadine. Il barocco ebbe, infatti, una diversa concezione degli spazi urbani e dell’urbanistica. Anche qui furono bandite le regolari geometrie preferite dagli architetti rinascimentali, che disegnavano città dalle forme perfette. Ma soprattutto cambiò l’atteggiamento della tecnica di intervento urbano.
L’edificio rinascimentale aveva un principio di regolarità geometrica che doveva imporsi sugli spazi circostanti, che dovevano loro adattarsi all’edificio, e non viceversa. In realtà, quanto fosse pretestuosa e difficilmente perseguibile una simile ottica, apparve alla fine evidente. E gli architetti barocchi, piuttosto che modificare gli spazi urbani in funzione dell’edificio che andavano a progettare, preferirono adattare quest’ultimo al contesto, inserendolo senza forzature eccessive. Le città, in cui si trovarono ad operare sia gli architetti rinascimentali sia barocchi, si erano in larga parte formate e modificate nel medioevo, secondo visioni quindi tutt’altro che geometriche. Le città, tranne parti ben limitate, avevano per lo più forme irregolari. L’architetto barocco, senza nessuna pretesa di regolarizzare l’irregolare, sfruttò anzi tale complessità morfologica per ottenere spazi urbani più mossi e ricchi di scorci suggestivi.
Alla fine, l’architetto barocco, dato che aveva concettualmente separato la struttura dalla decorazione, finì per modificare l’aspetto delle città, se non la struttura, molto di più di quanto avessero fatto gli architetti precedenti. Infatti in questo periodo, si provvide ad un sostanziale «rinnovo» urbano, che interessò facciate di palazzi, o interni di chiese, che assunsero un aspetto decisamente barocco.
La nuova architettura, abbiamo detto, instaurava un rapporto nuovo tra edifici e spazi urbani. Gli ambiti cittadini erano considerati alla stregua di spazi teatrali, e i prospetti degli edifici fungevano da quinte scenografiche. Ma gli spazi urbani non si compongono solo di edifici. In essi vi sono fontane, scalinate, monumenti ed altro, che arricchiscono questi spazi di altre presenze significative. Ed il barocco dedicò notevole attenzione a questi elementi di «arredo urbano». A Roma, notevoli esempi sono la Fontana di Trevi e la scalinata di Trinità dei Monti, per citare solo due tra gli esempi più noti.
Un dato stilistico fondamentale del barocco fu la linea curva. In questo periodo, infatti, nulla era concepito e realizzato secondo linee rette, ma sempre secondo linee sinuose. Il rinascimento aveva idealmente adottato come propria cifra stilistica il cerchio, che appariva la figura geometrica più perfetta ed armoniosa. Altre linee curve erano considerate irrazionali o bizzarre. Il barocco, invece, preferiva curvature più complesse, quali ellissi, parabole, iperboli, spirali e così via. E queste curve non erano mai esibite in modo esplicito, ma erano ulteriormente complicate da intersezioni o sovrapposizioni, così che risultassero quasi indecifrabili.
La concezione della curva ci permette di distinguere due momenti nella vicenda del barocco: una prima fase, in cui si cercava di movimentare secondo linee curve anche la struttura e la spazialità degli edifici; una seconda fase, in cui gli edifici divennero più regolari, e adottarono linee curve solo nella decorazione.
La prima fase è senz’altro quella più interessante ed innovativa. Essa prese avvio a Roma, agli inizi del Seicento, grazie ad alcuni architetti di notevole livello artistico: Francesco Borromini, Gian Lorenzo Bernini e Pietro da Cortona.
Benché i loro edifici furono il frutto di una evoluzione continua, che trovava le premesse nell’ultima architettura rinascimentale romana, tuttavia furono concepiti con una idea rivoluzionaria: quella di rendere curve le piante degli edifici. Soprattutto il Borromini, in alcune chiese come S. Carlo alle Quattro Fontane o Sant’Ivo alla Sapienza, ruppe decisamente con le tipologie fino allora adottate, inventandosi delle chiese, ad aula unica, dalla morfologia e dalla spazialità assolutamente originali. Il Bernini, nel disegnare il colonnato di San Pietro, adottò un’ellissi, e raccordò il colonnato alla facciata con due linee non parallele ma convergenti: una chiara dimostrazione del nuovo gusto barocco. Pietro da Cortona, nella chiesa di S. Maria della Pace, curvò a tal punto gli elementi del prospetto, da creare un inedito rapporto tra edificio e spazio urbano. La curvatura dei prospetti divenne uno dei motivi più felici dell’architettura barocca a Roma, trovando applicazioni notevoli per tutto il Seicento e il Settecento.
Come era già successo precedentemente, con altri ordini religiosi o monastici, il barocco divenne lo stile architettonico dei gesuiti, che esportarono questo stile anche nelle loro missioni estere. Ma divenne anche lo stile della controriforma cattolica. Il Concilio di Trento affrontò, oltre a varie questioni dottrinarie, anche aspetti della liturgia, che ebbero notevoli riflessi sull’architettura religiosa. Nel riadattare le chiese a queste nuove liturgie post-tridentine, molti edifici di costruzione medievale furono «rinnovati», mediante abbellimenti con stucchi, marmi e decorazioni varie, che fecero assumere a queste l’aspetto di chiese barocche.
In campo europeo l’architettura barocca ebbe notevole diffusione, soprattutto nei paesi latini. Il Portogallo e la Spagna ebbero un’adesione immediata a questo stile, esportandolo anche nelle loro colonie dell’America Latina. Dal Messico all’Argentina, dalla Bolivia al Cile, il barocco divenne lo stile dei nuovi conquistatori. L’Europa centro-settentrionale si convertì al barocco soprattutto alla fine del XVII secolo, e dalla Francia all’Austria, trovò applicazioni quanto mai fantasiose e ricche. Divenne lo stile del Re Sole, e degli Asburgo, oltre che dei Borbone, creando quel mondo di eleganza e di sfarzosità nelle corti europee del XVIII secolo.
Le arti figurative
Lo stile barocco è stato uno stile prettamente architettonico, e in un certo qual senso anche le arti figurative sono più barocche quanto più sono in rapporto con l’architettura o con l’urbanistica. È quanto avviene soprattutto con le arti applicate (arredamenti e complementi di arredo in primis) che con l’architettura hanno un rapporto più diretto. Ma anche pittura e scultura, quando collaborano a creare uno spazio illusionistico e scenografico, acquistano il loro carattere più barocco. In effetti è soprattutto nei grandi affreschi che si ritrova la pittura barocca, mentre la scultura barocca è in particolare quella dei grandi monumenti urbani.
Nel corso del Seicento e del Settecento la costruzione di chiese e palazzi nobiliari aumenta vistosamente rispetto al passato. E fu soprattutto per questi contesti che avvenne la maggior produzione pittorica, sia ad affresco sia su tela. In particolare lì dove la pittura barocca assume caratteri più originali è nella decorazione delle volte. Il motivo è presto detto: sotto le volte si poteva creare effetti illusionistici di maggiore spettacolarità. Il prototipo di queste volte è quella realizzata nel 1639 da Pietro da Cortona per il salone di Palazzo Barberini a Roma, ma la più nota di queste composizioni è la volta nella Chiesa di Sant’Ignazio realizzata da Andrea Pozzo nel 1694.
Il modello è quello del Soffitto degli Sposi del Mantegna, cioè del «trompe-l’oil», ma portato a livelli di complessità molto più arditi e spettacolari. Possiamo considerare che due sono i modelli per decorare una volta. Quello assunto da Michelangelo per la volta della Sistina, o da Annibale Carracci per la Galleria di Palazzo Farnese, è di realizzare le immagini come quadri tradizionali solo che vengono disposti non in verticale ma in orizzontale con la superficie in giù. Il modello assunto invece dai pittori barocchi è di concepire le immagini come viste dal basso verso l’alto, così da creare l’effetto illusionistico che il soffitto non c’è, e al suo posto vi è lo spazio virtuale creato dall’affresco. In questo secondo modello vengono molto accentuati gli effetti di scorcio e la costruzione prospettica dello spazio.
Uno dei motivi che più distingue i pittori rinascimentali da quelli barocchi è proprio l’uso della prospettiva. Nei primi la prospettiva era una tecnica che rendeva chiaro e razionale lo spazio rappresentato, nei secondi invece la prospettiva è usata per ingannare l’occhio e far vedere spazi che non esistono, in maniera illusionistica. Inutile dire che per usarla in questo secondo modo, bisognava conoscere la prospettiva in maniera perfetta ed essere dei virtuosisti nel suo uso. E tuttavia tutta questa «arte», o tecnica, era usata non per la verità ma per rendere apparentemente vero il falso. Questo è uno dei motivi di fondo che più ci danno l’idea della distanza che passa tra estetica rinascimentale e estetica barocca.
La pittura del Seicento, tuttavia non è solo quella barocca. In particolare nel corso del secolo possiamo distinguere altre due correnti fondamentali, oltre quella barocca: il realismo, di derivazione caravaggesca, e il classicismo, di derivazione carraccesca. Nella prima corrente rientrano, in particolare, le maggiori esperienze europee del XVII secolo: quelle che si sviluppano in Olanda e in Spagna e nel regno di Napoli. Grandi interpreti di questa tendenza furono Rembrandt, Vermeer, Velazquez, solo per citare i maggiori. Nella corrente del classicismo ritroviamo innanzitutto i pittori bolognesi diretti allievi dei Carracci quali il Guido Reni e il Domenichino, ma anche pittori francesi, ma attivi a Roma, quali Nicolas Poussin o Claude Lorrain. In sintesi l’arte del Seicento, molto più variegata di quel che sembra, si divide nella ricerca del vero (realismo), dell’idea (classicismo) o dell’artificio (barocco).
La scultura, non meno della pittura, si divide in queste tre correnti fondamentali. Ma di certo la scultura di stile barocco, proprio per la sua maggior capacità di legarsi agli spazi architettonici e urbanistici, risulta quella che più segna l’immagine del secolo. Grandi monumenti, effetti teatrali e scenografici, virtuosismo e decoratività sono gli ingredienti che nascono soprattutto dal genio di Gian Lorenzo Bernini, che si può senz’altro considerare l’esponente più importante della scultura barocca.
ARTE ROCOCO’
L’arte nella prima metà del Settecento
Con il termine rococò si intende l’arte che si sviluppa in Europa nella prima metà del Settecento. Tra barocco e rococò vi sono molti aspetti omogenei, soprattutto per l’identico atteggiamento di privilegiare una decorazione eccessiva e ridondante, ma vi sono anche delle notevoli differenze. In realtà i tempi sono diversi, e il XVIII secolo si presenta con caratteri molto diversi dal secolo precedente, e ciò non poteva non produrre modifiche anche nell’arte.
Il XVII secolo è stato, per molti versi, il periodo di incubazione del mondo moderno: Galilei, Newton, Leibnitz hanno gettato le basi per il moderno pensiero scientifico, ma ciò avvenne anche con grandi conflitti, perché, come sempre avviene, ogni rivoluzione incontra sempre una tendenza reazionaria. In questo caso fu soprattutto la Chiesa cattolica, mai così potente come ora, a imporre un clima di censura contro le novità di un progresso non accettato. Tuttavia, i tempi erano decisamente diversi, e la Chiesa, anche per questa sua incapacità di adattarsi al progresso, non solo in campo scientifico ma anche sociale ed economico, conobbe un progressivo declino. E la grande differenza che passa tra XVII e XVIII secolo è proprio nel diverso peso che ebbe la Chiesa, e la religione nel suo complesso, sulla vita e sul pensiero del tempo. In pratica il Settecento è decisamente un secolo più laico rispetto al precedente. Ed anche l’arte si appresta, in quanto interprete dei tempi, a divenire più laica.
Ma le trasformazioni del XVIII secolo non riguardarono solo la chiesa. Di fatto si produsse, in campo sociale, un’altra importantissima trasformazione: il declino sempre più evidente dell’aristocrazia, a favore di nuove classi sociali emergenti (in particolare la grande borghesia) che acquisteranno sempre più il ruolo di egemonia politica. Anche qui la trasformazione non avvenne per caso: i nuovi orizzonti aperti sia ad Occidente (con la scoperta dell’America) sia ad Oriente, con la conquista dei territori e dei mercati asiatici, produssero una rivoluzione straordinaria in campo economico. I beni di produzione che producevano la ricchezza non erano più la proprietà terriera (monopolio delle classi aristocratiche) ma i commerci e le industrie, per le quali era richiesto ben altro spirito di iniziativa e di avventura che di certo l’aristocrazia non possedeva. Così sia il clero sia la nobiltà, che avevano retto le sorti dell’Europa fino ad allora, cominciarono a declinare, fino alla definitiva crisi aperta dalla Rivoluzione Francese alla fine del secolo.
Tuttavia il percorso fu diverso: per quasi tutto il XVIII secolo l’aristocrazia mantenne, seppure in posizione di declino, la sua posizione di monopolio sociale. Ed infatti l’arte del XVIII secolo, soprattutto nella prima metà del secolo, fu soprattutto laica, mondana ed aristocratica. E così fu lo stile rococò: laico, mondano ed aristocratico. Niente più atmosfere cupe ed angosciose, ancora memore di reminescenze caravaggesche, ma colori vivaci, scene chiare, immagini di gioiosa allegria e vitalità. Ma rispetto al barocco, la base estetica rimase la stessa: l’arte è solo e soprattutto decorazione. È un qualcosa che si aggiunge per abbellire.
Anche nei confronti del periodo rococò si è spesso prodotto lo stesso giudizio negativo, a volte anche peggio, che molta critica ha condiviso nei confronti del barocco. È tuttavia da rimarcare un carattere di grande novità: in questo periodo si produsse per la prima volta un’arte totalmente laica. Con ciò gli artisti ebbero la possibilità di svincolarsi da monopoli più o meno diretti legati alla Chiesa e di aprirsi a nuovi strati sociali e a nuovi committenti che favorirono il diffondersi dell’arte in più ampi settori della società.
La pittura rococò
La pittura del periodo rococò ebbe delle caratteristiche stilistiche ben precise: innanzitutto l’uso dei motivi che avevano fatto la fortuna del barocco: linee curve, serpentine, spirali, eccetera. Altra caratteristica fu soprattutto il ricorso a colori chiari su tonalità pastello: i rosa e i celesti sono sempre presenti.
Ma ciò che più caratterizza la pittura rococò è l’uso dell’attimo fuggente. Quando un pittore fa un quadro rappresenta una sola immagine. Se questa immagine deve sintetizzare una storia deve scegliere quella più appropriata al significato che si attribuisce a quella storia. In questo caso la singola scena, che il pittore sceglie di rappresentare, viene chiamata «momento pregnante». Se invece l’immagine non racconta una storia, ma vuole rappresentare un’emozione, quell’attimo che il pittore rappresenta è un «attimo fuggente». Quindi i «momenti pregnanti» sono attimi significativi di una storia, gli «attimi fuggenti» sono istanti in cui si provano sensazioni o emozioni. Queste sensazioni o emozioni sono quelle in genere prodotte dall’essere in un luogo e in uno spazio specifico: guardare un chiaro di luna in riva ad un lago, essere nell’ombra di un accogliente boschetto in piacevole conversazione, e così via.
Con la pittura rococò nasce, in effetti, la pittura degli attimi fuggenti. Una pittura che non vuole raccontare storie, ma vuole comunicare emozioni e sensazioni. In genere queste sensazioni sono sempre di tipo mondano: sono le sensazioni che vivono chi fa la dolce vita degli aristocratici. Feste, balletti, concerti, spettacoli, pranzi all’aperto, battute di caccia, momenti di corteggiamento sono i soggetti che più frequentemente si trovano nei quadri rococò. Il pittore che inaugurò questo genere di soggetti fu il francese Jean-Antoine Watteau, così come, dopo di lui, i maggiori interpreti della pittura rococò furono soprattutto due pittori francesi: François Boucher e Jean-Honoré Fragonard.
In effetti in campo artistico le novità maggiori vennero soprattutto dalla Francia, nazione che si appresta, agli inizi del Settecento, ad assumere il ruolo di baricentro artistico europeo, ruolo che di fatto ha conservato fino alla metà del Novecento.
Altra notevole componente della pittura rococò fu la comparsa di quella categoria estetica che definiamo «pittoresco». Con questo termine si intendono quelle immagini gradevoli che nascono spontaneamente dalla natura e con caratteri irregolari. In pratica la differenza tra «bello» e «pittoresco» afferisce alla differenza che c’è tra «artificiale» e «naturale». In campo artistico l’attributo di «bello» è sinonimo di regolarità ed è una caratteristica che appartiene solo alle cose prodotte dall’uomo. In natura non esistono forme geometricamente regolari: non esistono linee rette, angoli retti, cerchi, quadrati, simmetrie e così via. Tuttavia la natura produce cose belle a vedersi: un vecchio ulivo, tutto contorto e irregolare, non è sgradevole da guardare. In sostanza il termine «pittoresco» significa irregolare e naturale, mentre, in opposizione, il termine «bello» significa regolare e artificiale. Come corollario si ebbe che la categoria del pittoresco viene usata ogni qual volta si vuol fuggire dai contesti umani e riscoprire la natura vergine ed incontaminata. Il paesaggio pittoresco ha anche questo di bello: che non è stato in alcun modo guastato dalla presenza umana.
Nella pittura di paesaggio è quasi automatico adeguarsi alla categoria estetica del pittoresco. Ed in effetti, il pittoresco si può dire che nasce proprio quando nasce il genere del paesaggio, agli inizi del Seicento. La novità della pittura rococò, è che quasi tutte le scene rappresentate hanno come fondale un paesaggio di tipo pittoresco. In pratica è come se la cornice ideale per qualsiasi cosa di piacevole si possa fare è sempre la natura in forme spontanee. Ma è un contatto in cui la polarità artificiale-naturale si presenta in maniera evidente e con cariche simbolico-poetiche precise. Questo perché nei paesaggi pittoreschi della pittura rococò compare sempre la «rovina» di qualche edificio antico: una statua, un pezzo di colonna, un frammento architettonico. Si può dire che da questo momento pittoresco e rovine diventano ingredienti inseparabili, che poi ritroveremo anche nell’arte romantica dell’Ottocento. In pratica, il frammento antico esercita sempre una carica di fascino notevole, perché è una testimonianza, fortunosamente giunta fino a noi, di una passata grandezza. Anche se non possiamo vedere l’opera completa, quel frammento rimasto ce la fa immaginare. Ma ciò che anche avvertiamo nel frammento è il senso del tempo. Perché solo il tempo, con la sua inesorabile usura che produce sulle cose, riduce il tutto ad un frammento. E dietro il tempo vi è, in un certo qual senso, proprio la natura, che dal tempo non deve temere alcuna usura. Per questo le rovine e la natura, accostandosi, finiscono per esaltarsi a vicenda. Da un lato vi è l’eternità, dall’altro la transitorietà di tutto ciò che è umano.
Il vedutismo
Non tutta la pittura del Settecento si sviluppa su soggetti mondani ed aristocratici. Un’altra grande produzione del tempo fu la pittura di tipo vedutistico. Con questo termine, da preferirsi a quello di paesaggio, si intende una produzione pittorica che comprende sia il paesaggio naturale, sia quello artificiale fatto di città e di grandi opere umane sul territorio.
Nel corso del Settecento si ebbe uno sviluppo notevole dei viaggi, ed una delle mete preferite dai viaggiatori europei fu soprattutto l’Italia. A viaggiare erano soprattutto nobili ed intellettuali, e il motivo per il quale venivano in Italia è che la penisola possedeva la maggior quantità di tesori artistici e bellezze naturali. Il viaggio in Italia, per visitare Venezia, Firenze, Roma, Napoli, la Sicilia, era chiamato il «Grand Tour». E questo inedito sviluppo del turismo, unito ad un rinnovato interesse per la storia e la geografia in genere, fece sviluppare notevolmente il mercato di opere d’arte che rappresentavano le bellezze, naturali o storiche, di un luogo.
In questa vastissima produzione, spesso di qualità non eccelsa, emersero diversi artisti di notevole valore. Famosa nel Settecento fu soprattutto la scuola veneziana di vedutisti. Tra di essi vanno ricordati Giovanni Antonio Canal, più noto con il nome di Canaletto, Bernardo Bellotto e Francesco Guardi. A Roma, nella prima metà del Settecento, fu attivo soprattutto Giovanni Paolo Panini che al vedutismo cittadino unì anche la rappresentazione di rovine, dando un contributo notevole alla diffusione di questo genere per tutto il Settecento e oltre. Ma numerosi furono anche i pittori stranieri che, giunti in Italia, divennero famosi vedutisti, quali il tedesco Philipp Hackert, attivo presso la corte dei Borbone a Napoli, o l’olandese Gaspard Van Wittel, attivo prima a Roma e poi in numerose città italiane, padre dell’architetto Luigi Vanvitelli, autore, tra l’altro, della famosissima Reggia di Caserta.
In genere, ciò che contraddistingue questa produzione pittorica, è soprattutto la grande vastità degli orizzonti. Tutte le immagini appaiono nitide e consentono allo sguardo di aprirsi a grandi spazi. Ciò che viene presentato è proprio lo spettacolo che il mondo ci offre, senza alcune esasperazione di natura emozionale. Ovviamente questa pittura necessita di una grande padronanza della prospettiva, soprattutto quando ad essere rappresentati sono edifici, spazi urbani o città nel loro insieme. In particolare, questa notevole capacità di usare la prospettiva, viene anche usata per creare vedute immaginarie, chiamate «fantasie architettoniche». In queste vedute a volte compaiono edifici immaginari, a volte vengono assemblati più edifici esistenti ma uniti in una veduta unica che non è possibile nella realtà. Tra i pittori che unisce la fantasia architettonica con grandi rovine immaginarie del passato vi è in particolare il francese Hubert Robert, che è l’ultimo grande rappresentante di questo genere alla fine del Settecento.
NEOCLASSICISMO
Caratteri fondamentali
La vicenda del neoclassicismo inizia alla metà del XVIII secolo (1750), per concludersi con la fine dell’impero napoleonico nel 1815. Ciò che contraddistinse lo stile artistico di quegli anni fu l’adesione ai principi dell’arte classica. Quei principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione, serenità, che erano presenti nell’arte degli antichi greci e degli antichi romani che, proprio in questo periodo, fu riscoperta e ristudiata con maggior attenzione ed interesse grazie alle numerose scoperte archeologiche.
I caratteri principali del neoclassicismo sono diversi:
1. esprime il rifiuto dell’arte barocca e della sua eccessiva irregolarità;
2. fu un movimento teorico, grazie soprattutto al Winckelmann che teorizzò il ritorno al principio classico del «bello ideale»;
3. fu una riscoperta dei valori etici della romanità, e ciò soprattutto in David e negli intellettuali della Rivoluzione Francese;
4. fu l’immagine del potere imperiale di Napoleone che ai segni della romanità affidava la consacrazione dei suoi successi politico-militari;
5. fu un vasto movimento di gusto che finì per riempire con i suoi segni anche gli oggetti d’uso e d’arredamento.
I principali protagonisti del neoclassicismo furono il pittore Anton Raphael Mengs (1728-1779), lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), che furono anche i teorici del neoclassicismo, gli scultori Antonio Canova (1757-1822) e Bertel Thorvaldsen (1770-1844), il pittore francese Jacques-Louis David (1748-1825), i pittori italiani Andrea Appiani (1754-1817) e Vincenzo Camuccini (1771-1844).
Winckelmann, Mengs, Canova, Thorvaldsen, operarono tutti a Roma, che divenne, nella seconda metà del Settecento, la capitale incontrastata del neoclassicismo, il baricentro dal quale questo nuovo gusto si irradiò per tutta Europa. A Roma, nello stesso periodo, operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi che, con le sue incisioni a stampa, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. L’Italia nel Settecento fu la destinazione obbligata di quel «Grand Tour» che rappresentava, per la nobiltà e gli intellettuali europei, una fondamentale esperienza di formazione del gusto e dell’estetica artistica. Roma, in particolare, ove si stabilirono scuole ed accademie di tutta Europa, divenne la città dove avveniva l’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori. Tra questi vi fu anche il David che rappresentò il pittore più ortodosso del nuovo gusto neoclassico.
Con l’opera del David il neoclassicismo divenne lo stile della Rivoluzione Francese ed ancor più divenne, in seguito, lo stile ufficiale dell’impero di Napoleone. E dalla fine del Settecento la nuova capitale del neoclassicismo non fu più Roma, ma Parigi.
Il neoclassicismo tende a scomparire subito dopo il 1815 con la sconfitta di Napoleone. Nei decenni successivi venne progressivamente sostituito dal Romanticismo che, al 1830, ha definitivamente soppiantato il neoclassicismo. Tuttavia, pur se non rappresenta più l’immagine di un’epoca, il neoclassicismo di fatto sopravvisse, come fatto stilistico, per quasi tutto l’Ottocento, soprattutto nella produzione aulica dell’arte ufficiale e di stato e nelle Accademie di Belle Arti. E questa sopravvivenza stilistica, oltre ai consueti limiti cronologici, è riscontrabile soprattutto nella produzione di un artista come Ingres, la cui opera si è sempre attenuta ai canoni estetici della grazia e della perfezione, capisaldi di qualsiasi classicismo.
Le scoperte archeologiche
Uno dei motivi di questo rinato interesse per il mondo antico furono le scoperte archeologiche che segnarono tutto il XVIII secolo. In questo secolo furono scoperte prima Ercolano, poi Pompei, quindi Villa Adriana a Tivoli e i templi greci di Paestum; ed infine giunsero dalla Grecia numerosi reperti archeologici che finirono nei principali musei europei: a Londra, Parigi, Monaco. Negli stessi anni si diffusero numerose pubblicazioni tra cui Le rovine dei più bei monumenti della Grecia, 1758, del francese Le Roy, Le antichità di Atene, 1762, degli inglesi Stuart e Revett, e le incisioni di antichità italiane del romano Piranesi che contribuirono notevolmente a diffondere la conoscenza dell’arte classica. Questa opera di divulgazione fu importante non solo per la conoscenza della storia dell’arte ma anche per il diffondersi dell’estetica del neoclassicismo.
In particolare, con queste campagne di scavo, non solo si ampliò la conoscenza del passato, ma fu chiaro il rapporto, nel mondo classico, tra arte greca e arte romana. Quest’ultima rispetto alla greca apparve solo un pallido riflesso ed un epigono, se non addirittura una semplice copia. La vera fonte della grandezza dell’arte classica venne riconosciuta nella produzione greca degli artisti del V-IV secolo a.C. Quel periodo eroico che vide sorgere la plastica statuaria di Fidia, Policleto, Mirone, Prassitele, fino a Lisippo. E la perfezione senza tempo di questa scultura influenzò profondamente l’estetica del Settecento, divenendo modello per gli artisti del tempo.
La razionalità illuministica e il rifiuto del barocco
Il neoclassicismo nacque come desiderio di un’arte più semplice e pura rispetto a quella barocca, vista come eccessivamente fantasiosa e complicata. Questo desiderio di semplicità si coniugò alla constatazione, fornita dalle scoperte archeologiche, che già in età classica si era ottenuta un’arte semplice ma di nobile grandiosità. Il barocco apparve allora come il frutto malato di una degenerazione stilistica che, pur partita dai principi della classicità rinascimentale, era andata deformandosi per la ricerca dell’effetto spettacolare ed illusionistico.
Il barocco è complesso, virtuosistico, sensuale; il neoclassicismo vuole essere semplice, genuino, razionale. Il barocco propone l’immagine delle cose che può anche nascondere, nella sua bellezza esterna, le brutture interiori; il neoclassicismo non si accontenta della sola bellezza esteriore, vuole che questa corrisponda ad una razionalità interiore. Il barocco perseguiva effetti fantasiosi e bizzarri, il neoclassicismo cerca l’equilibrio e la simmetria; se il barocco si affidava alla immaginazione e all’estro, il neoclassicismo si affida alle norme e alle regole.
Il principio del razionalismo è una componente fondamentale del neoclassicismo. È da ricordare che il Settecento è stato il secolo dell’Illuminismo. Di una corrente filosofica che cerca di «illuminare» la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre dell’ignoranza, della superstizione, dell’oscurantismo, attraverso la conoscenza e la scienza. E per far ciò bisogna innanzitutto liberarsi da tutto ciò che è illusorio. E l’arte barocca ha sempre perseguito l’illusionismo come pratica artistica.
Il neoclassicismo ha diversi punti di similitudine con il Rinascimento: come questo fu un ritorno all’arte antica e alla razionalità. Ma le differenze sono sostanziali: la razionalità rinascimentale era di matrice umanistica e tendeva a liberare l’uomo dalla trascendenza medievale, la razionalità neoclassica è invece di matrice illuministica e tendeva a liberare l’uomo dalla retorica, dall’ignoranza e dalla falsità barocca. Il ritorno all’antico, per l’artista rinascimentale era il ritorno ad un atteggiamento naturalistico, nei confronti della rappresentazione, che lo liberasse dal simbolismo astratto del medioevo; per l’artista neoclassico fu invece la codificazione di una serie di norme e di regole che servissero ad imbrigliare quella fantasia che, nell’età barocca, aveva agito con eccessiva licenza e sregolatezza. Infine, rispetto alla grande stagione dell’arte rinascimentale, quella neoclassica ha esiti ben modesti, ove si avverte una frigidità di sentimenti e di sensazioni che la rende poco affascinante.

Le teorie e lo stile
Massimo teorico del neoclassicismo fu il Winckelmann. Nel 1755 pubblicava le Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, nel 1763 pubblicava la Storia dell’arte nell’antichità. In questi scritti egli affermava il primato dello stile classico (soprattutto greco che lui idealizzava al di là della realtà storica), quale mezzo per ottenere la bellezza «ideale» contraddistinta da «nobile semplicità e calma grandezza». Winckelmann considerava l’arte come espressione di «un’idea concepita senza il soccorso dei sensi». Un’arte, quindi, tutta cerebrale e razionale, purificata dalle passioni e fondata su canoni di bellezza astratta. Le sue teorie artistiche trovarono un riscontro immediato nell’attività scultorea di Antonio Canova e di Thorvaldsen.
La scultura, più di ogni altra arte, sembrò adatta a far rivivere la classicità. Le maggiori testimonianze artistiche dell’antichità sono infatti sculture. E nella scultura neoclassica si avverte il legame più diretto ed immediato con l’idea di bellezza classica. Una pittura classica, di fatto, non esiste, anche perché le testimonianze di quel periodo sono quasi tutte scomparse. Le uniche pitture ad affresco, a noi note, comparvero proprio in quegli anni negli scavi di Ercolano e Pompei. Esse, tuttavia, per quanto suggestive nella loro iconografia così esotica, si presentavano di una semplificazione stilistica (definita compendiaria) inutilizzabile per la moderna sensibilità pittorica. Così che i pittori neoclassici dovettero ispirarsi stilisticamente più alla pittura rinascimentale italiana, in particolare Raffaello, che non all’arte classica vera e propria.
I caratteri della scultura neoclassica sono la perfezione di esecuzione, la estrema levigatezza del modellato, la composizione molto equilibrata e simmetrica, senza scatti dinamici. La pittura neoclassica si riaffidò agli strumenti del naturalismo rinascimentale: la costruzione prospettica, il volume risaltato con il chiaroscuro, la precisione del disegno, immagini nitide senza giochi di luce ad effetto, la mancanza di tonalismi sensuali.
I soggetti delle opere d’arte neoclassiche divennero personaggi e situazioni tratte dall’antichità classica e dalla mitologia. Le storie di questo passato, oltre a far rivivere lo spirito di quell’epoca, che tanto suggestionava l’immaginario collettivo di quegli anni, serviva alla riscoperta di valori etici e morali, di alto contenuto civile, che la storia antica proponeva come modelli al presente. La storia antica, quindi, divenne un serbatoio di immagine allegoriche da utilizzare come metafora sulle situazioni del presente. Ciò è maggiormente avvertibile per un pittore come il David nei cui quadri la storia del passato è solo un pretesto, o una metafora, per proporre valori ed idee per il proprio tempo.
Il neoclassicismo, nella sua poetica, invertì il precedente atteggiamento dell’arte rococò. Questa, nella sua ricerca della sensazione emotiva o sensuale, sceglieva immagini che materializzavano l’«attimo fuggente». Il neoclassicismo non propone mai attimi fuggenti, ma, coerentemente con la sua impostazione classica, rappresenta solo «momenti pregnanti». I momenti pregnanti sono quelli in cui vi è la maggiore carica simbolica di una storia. In cui si raggiunge l’apice di intensità psicologica, di concentrazione, di significanza: il momento in cui, un certo fatto od evento entra nella storia o nel mito.
Cenni sul neoclassicismo in Italia
Il ruolo svolto dall’Italia nella nascita del Neoclassicismo fu determinante. In Italia vennero effettuate le maggiori scoperte archeologiche del secolo: Ercolano, Pompei, Paestum, Tivoli, che si aggiunsero alle già imponenti collezioni di arte romana che, dal Cinquecento in poi, si erano costituite un po’ ovunque.
Roma divenne la capitale del neoclassicismo e fu un ruolo centrale che conservò fino allo scoppio della Rivoluzione Francese. A Roma operarono i maggiori protagonisti di questa fase storica: Winckelmann, Mengs, Canova, Thorvaldsen. A Roma, nello stesso periodo, operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi che, con le sue stampe, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. Un gusto, che presto suggestionò soprattutto gli spiriti romantici che nella «rovina» rintracciavano un sentimento che andava al di là della testimonianza archeologica.
Ed a Roma giungevano gli altri artisti ed intellettuali di Europa. I primi grazie alle borse di studio messe a loro disposizione dalle scuole ed accademie d’arte, i secondi per quella moda del Grand Tour che imponeva alle persone di un certo rango di effettuare almeno un viaggio in Italia per conoscerne le bellezze e i tesori d’arte. L’Accademia francese assegnava una borsa di studio per un soggiorno di alcuni anni a Roma, chiamata «Prix de Rome». E, grazie a questa borsa di studio, anche David giunse a Roma soggiornandovi in più occasioni. E, proprio a Roma, compose il suo quadro più famoso di questo periodo: «Il giuramento degli Orazi». A Roma un altro personaggio svolse un ruolo fondamentale per il neoclassicismo: il cardinale Albani. Cultore di antichità classiche e mecenate, iniziò la costruzione di una villa-museo che divenne uno dei luoghi più simbolici del nuovo stile. Il suo salotto divenne luogo di incontro per gli artisti e gli studiosi che, a Roma, furono i protagonisti della vicenda neoclassica. Ed infine Roma fu anche la città ove lavorò il maggior artista italiano neoclassico: Antonio Canova.
Ma intanto, alla fine del secolo, Roma cedeva la sua centralità a Parigi e, nel contempo, un’altra città italiana divenne importante nella vicenda del neoclassicismo: Milano. Nel capoluogo lombardo il centro della vita artistica divenne l’Accademia di Brera, fondata nel 1776. Da Milano proviene il principale pittore neoclassico italiano: Andrea Appiani (1754-1817), che fu anche ritrattista ufficiale di Napoleone. La sua opera, in parte distrutta dai bombardamenti del 1943, si affida a temi mitologici quali «La toeletta di Giunone», il «Parnaso» o la «Storia di Amore e Psiche».
Un altro pittore romano, Vincenzo Camuccini (1771-1844), visse in gioventù la fase del neoclassicismo proponendo quadri di derivazione davidiana quali la «Morte di Giulio Cesare».
Il neoclassicismo, come fatto stilistico, è sopravvissuto nell’arte italiana per buona parte dell’Ottocento. Anche pittori, che per i soggetti vengono considerati romantici, quali Hayez o Bezzuoli, continuano a praticare una pittura con quei connotati stilistici neoclassici che tenderanno a scomparire solo dopo la metà del secolo.
ROMANTICISMO
Caratteri generali e differenze con il neoclassicismo
Il romanticismo è un movimento artistico dai contorni meno definiti rispetto al neoclassicismo. Benché si affermi in Europa dopo che il neoclassicismo ha esaurito la sua vitalità, ossia intorno al 1830, in realtà era nato molto prima. Le prime tematiche che lo preannunciavano sorsero già verso la metà del XVIII secolo. Esse, tuttavia, rimasero in incubazione durante tutto lo sviluppo del neoclassicismo, per riapparire e consolidarsi solo nei primi decenni dell’Ottocento. Il romanticismo ha poi cominciato ad affievolirsi verso la metà del XIX secolo, anche se alcune sue suggestioni e propaggini giungono fino alla fine del secolo.
Il romanticismo è un movimento che si definisce bene proprio confrontandolo con il neoclassicismo. In sostanza, mentre il neoclassicismo dà importanza alla razionalità umana, il romanticismo rivaluta la sfera del sentimento, della passione ed anche della irrazionalità. Il neoclassicismo è profondamente laico e persino ateo; per contro il romanticismo è un movimento di grandi suggestioni religiose. Il neoclassicismo aveva preso come riferimento la storia classica; il romanticismo, invece, guarda alla storia del medioevo, rivalutando questo periodo che, fino ad allora, era stato considerato buio e barbarico. Infine, mentre il neoclassicismo impostava la pratica artistica sulle regole e sul metodo, il romanticismo rivalutava l’ispirazione ed il genio individuale.
È da considerare, inoltre che, mentre il neoclassicismo è uno stile internazionale, ed in ciò rifiuta le espressioni locali considerandole folkloristiche, ossia di livello inferiore, il romanticismo si presenta con caratteristiche differenziate da nazione a nazione. Così, di fatto, risultano differenti il romanticismo inglese da quello francese, o il romanticismo italiano da quello tedesco, e così via.
Il romanticismo, in realtà, a differenza del neoclassicismo, non è uno stile, in quanto non si fonda su dei principi formali definiti. Esso può essere invece considerato una poetica, in quanto, più che alla omogeneità stilistica, tende alla omogeneità dei contenuti. Questi contenuti della poetica romantica sono sintetizzabili in quattro grandi categorie:
1. l’armonia dell’uomo nella natura
2. il sentimento della religione
3. la rivalutazione dei caratteri nazionali dei popoli
4. il riferimento alle storie del medioevo.
Le nuove categorie estetiche: il pittoresco e il sublime
La categoria estetica del neoclassicismo è stata sempre e solo una: il bello. Il bello è qualcosa che deve ispirare sensazioni estetiche piacevoli, gradevoli, e per far ciò deve nascere dalla perfezione delle forme, dalla loro armonia, regolarità, equilibrio, eccetera. Il bello, già dalle sue prime formulazioni teoriche presso gli antichi greci, conserva al suo fondo una regolarità geometrica che è il frutto della capacità umana di immaginare e realizzare forme perfette. Pertanto, nella concezione propriamente neoclassica, il bello è la qualità specifica dell’operare umano. La natura non produce il bello, ma produce immagini che possono ispirare due sentimenti fondamentali: il pittoresco o il sublime.
Il sublime conosce la sua prima definizione teorica grazie a E. Burke, nel 1756, con un saggio dal titolo: Ricerca filosofica sulla origine delle idee del sublime e del bello. Burke considera il bello e il sublime tra loro opposti. Il sublime non nasce dal piacere della misura e della forma bella, né dalla contemplazione disinteressata dell’oggetto, ma ha la sua radice nei sentimenti di paura e di orrore suscitati dall’infinito, dalla dismisura, da «tutto ciò che è terribile o riguarda cose terribili» (per es. il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio, ecc.; riprendendo questi esempi Kant dirà: sono sublimi le alte querce e belle le aiuole; la notte è sublime, il giorno è bello).
Immanuel Kant approfondisce il significato del sublime. Il sublime non deriva, come il bello, dal libero gioco tra sensibilità e intelletto, ma dal conflitto tra sensibilità e ragione. Si ha pertanto quel sentimento misto di sgomento e di piacere che è determinato sia dall’assolutamente grande e incommensurabile (la serie infinita dei numeri o l’illimitatezza del tempo e dello spazio: sublime matematico), sia dallo spettacolo dei grandi sconvolgimenti e fenomeni naturali che suscitano nell’uomo il senso della sua fragilità e finitezza (sublime dinamico).
Il pittoresco è una categoria estetica che trova la sua prima formulazione solo alla fine del Settecento grazie ad U. Price, che nel 1792 scrisse: Un saggio sul pittoresco, paragonato al sublime e al bello. Tuttavia la sua prima comparsa nel panorama artistico è rintracciabile già agli inizi del Settecento, soprattutto nella pittura inglese, e poi nel rococò francese. Il pittoresco rifiuta la precisione delle geometrie regolari per ritrovare la sensazione gradevole nella irregolarità e nel disordine spontaneo della natura.
Il pittoresco è la categoria estetica dei paesaggi. Tutta la pittura romantica di paesaggio conserva questa caratteristica. Essa, nel corso del Settecento, ispirò anche il giardinaggio, facendo nascere il cosiddetto giardino «all’inglese». L’arte del giardinaggio, nel corso del rinascimento e del barocco, aveva prodotto il giardino «all’italiana», ossia una composizione di elementi vegetali (alberi, siepi, aiuole) e artificiali (vialetti, scalinate, panchine, padiglioni, gazebi) ordinati secondo figure geometriche e regolari. Il giardino «all’inglese» rifiuta invece la regolarità geometrica e dispone ogni cosa in un’apparente casualità. Divengono elementi caratteristici di questo tipo di giardino: i vialetti tortuosi, i dislivelli, le pendenze, la disposizione irregolare degli arbusti. Ed un altro elemento caratteristico del giardino «all’inglese» è la falsa rovina.
Il sentimento della rovina è tipico della poetica romantica. Le rovine ispirano la sensazione del disfacimento delle cose prodotte dall’uomo, dando allo spettatore la commozione del tempo che passa. Le testimonianze delle civiltà passate, pur se vengono aggredite dalla corrosione del tempo, rimangono comunque presenti in questi rovine del passato. E la rovina, per lo spirito romantico, è più emozionante e piacevole di un edificio, o di un manufatto, intero. Ovviamente, nell’arte del giardinaggio, pur in mancanza di rovine autentiche, ci si accontentava di false rovine. Ossia di copie di edifici o statue del passato riprodotte allo stato cadente.
La rivalutazione dei sentimenti e delle passioni
Uno dei tratti più caratteristici del romanticismo è la rivalutazione del lato passionale ed istintivo dell’uomo. Questa tendenza porta a ricercare le atmosfere buie e tenebrose, il mistero, le sensazioni forti, l’orrido ed il pauroso. L’artista romantico ha un animo ipersensibile, sempre pronto a continui turbamenti. L’artista non si sente più un borghese ma inizia a comportarsi sempre più in modo anticonvenzionale. In alcuni casi sono decisamente asociali e amorali. Sono artisti disperati e maledetti che alimentano il proprio genio di trasgressioni ed eccessi.
L’artista romantico è un personaggio fondamentalmente pessimista. Vive il proprio malessere psicologico con grande drammaticità. E il risultato di questo atteggiamento è un arte che, non di rado, ricerca l’orrore, come in alcuni quadri di Gericault che raffigurano teste di decapitati o nelle visioni allucinate di Goya quali «Saturno che divora i figli».
L’arte romantica riscopre anche la sfera religiosa, dopo un secolo, il Settecento, che era stato fortemente laico ed anticlericale. La riscoperta dei valori religiosi era iniziata già nel 1802 con la pubblicazione, da parte di Chateaubriand, de Il genio del Cristianesimo. Negli stessi anni iniziava, soprattutto in Germania, grazie a von Schlegel e Schelling, una concezione mistica ed idealistica dell’arte intesa come dono divino. L’arte deve scoprire l’anima delle cose, rivelando concetti quali il sentimento, il religioso, l’interiore. Il primo pittore a seguire queste indicazioni fu il tedesco C. D. Friedrich.
Questo interesse per la dimensione della interiorità e della spiritualità umana portò, in realtà, il romanticismo a preferire linguaggi artisti non figurativi, come la musica e la letteratura o la poesia. Queste, infatti, sono le arti che, più di altre, incarnano lo spirito del romanticismo.
La riscoperta del Medioevo
Sono diversi i motivi che portarono la cultura romantica a rivalutare il medioevo. Le motivazioni principali sono fondamentalmente tre:
1. il medioevo è stato un periodo mistico e religioso
2. nel medioevo si sono formate le nazioni europee
3. nel medioevo il lavoro era soprattutto artigianale.
Nel medioevo la religione aveva svolto un ruolo fondamentale per la società del tempo. Forniva le coordinate non solo morali, ma anche esistenziali. Allo spirito della religione era improntata tutta l’esistenza umana. Questo aspetto fa sì che, nel romanticismo, si guardi al medioevo come ad un’epoca positiva perché pervasa da un forte misticismo e spiritualità.
Inoltre, la rivalutazione del medioevo nasceva da un atteggiamento polemico sul piano politico. È da ricordare, infatti, che il neoclassicismo, nella sua ultima fase, era divenuto lo stile di Napoleone e del suo impero. Di una entità politica, cioè, che aveva cercato di eliminare le varie nazioni europee per fonderle in un unico stato. Il crollo dell’impero napoleonico aveva significato, nelle coscienze europee, soprattutto la rivalutazione delle diverse nazionalità che, nel nostro continente, si erano formate proprio nel medioevo con il crollo di un altro impero sovranazionale: quello romano. Il neoclassicismo, nella sua perfezione senza tempo, aveva cercato di sovrapporsi alle diversità locali. Il romanticismo, invece, vuole rivalutare la diversità dei vari popoli e delle varie nazioni e quindi guarda positivamente a quell’epoca in cui la diversità culturale si era formata in Europa: il medioevo.
Il terzo motivo di rivalutazione del medioevo nasce da un atteggiamento polemico nei confronti della rivoluzione industriale. Alla metà del Settecento le nuove conquiste scientifiche e tecnologiche avevano permesso di modificare sostanzialmente i mezzi della produzione, passando da una fase in cui i manufatti erano prodotti artigianalmente, ad una fase in cui venivano prodotti meccanicamente con un ciclo industriale. La nascita delle industrie rivoluzionò molti aspetti della vita sociale ed economica. Permise di produrre una quantità di oggetti notevolmente superiore, ad un costo notevolmente inferiore. Tuttavia, soprattutto nella sua prima fase, la produzione industriale portò ad un peggioramento della qualità estetica degli oggetti prodotti.
Questa conseguenza fu avvertita soprattutto dagli intellettuali inglesi che, verso la metà dell’Ottocento, proposero un rifiuto delle industrie per un ritorno all’artigianato. Il lavoro artigianale, secondo questi intellettuali, consentiva la produzione di oggetti qualitativamente migliori, ed inoltre arricchiva il lavoratore del piacere del lavoro, cosa che nelle industrie non era possibile. Le industrie, con il loro ciclo ripetitivo della catena di montaggio, non creavano le possibilità per un lavoratore di amare il proprio lavoro, con la conseguenza della sua alienazione e dell’impoverimento interiore.
Sorsero così, in Inghilterra, delle scuole di arte applicata e di mestieri, dette «Arts and Crafts». In queste scuole venivano prodotti manufatti in modo rigorosamente artigianale ma che finivano per costare notevolmente in più rispetto alle analoghe merci prodotte dalle industrie. Tendenzialmente erano quindi destinate ad un pubblico ricco e di élite. E quindi non più alla portata proprio della classe operaia che, dalla rivoluzione industriale, aveva tratto il beneficio di poter acquistare un maggior numero di oggetti perché più economici.
La risposta ai mali della rivoluzione industriale data dai movimenti di «Arts and Crafts» era anacronistica. E l’illusione di poter sostituire le industrie con l’artigianato si rivelò fallimentare. La giusta soluzione, alla qualità della produzione industriale, fu data solo alla fine del secolo dalla cultura che si sviluppò nell’ambito del Liberty. La soluzione fu la definizione di una nuova specificità estetica, il design industriale, che avrebbe portato ad una nuova figura professionale: il designer.
Parallelamente ai movimenti di «Arts and Crafts» sorse in Inghilterra un movimento pittorico che diede una ultima interpretazione del Romanticismo, nella seconda metà dell’Ottocento: i Preraffaelliti. Il gruppo, animato da Dante Gabriel Rossetti, si ripropose, anche nel nome, di far rivivere la pittura medievale sviluppatasi appunto prima di Raffaello.
Cenni sul Romanticismo italiano
Il romanticismo italiano è un fenomeno che ha tratti caratteristici diversi dal romanticismo europeo. Le tensioni mistiche sono del tutto assenti, così come è assente quel gusto per il tenebroso e l’orrido che caratterizza molto romanticismo nordico. Queste diversità hanno fatto ritenere che l’Italia non abbia avuto una vera e propria arte romantica ma solo una imitazione del vero romanticismo nordico. Se la questione appare oggi superata, ciò che interessa è capire in che cosa si può individuare un’esperienza romantica nell’arte italiana dell’Ottocento.
È da premettere che, in Italia, il romanticismo coincide cronologicamente con quella fase storica che definiamo Risorgimento. Ossia il periodo, compreso tra il 1820 e il 1860, in cui si realizzò l’unità d’Italia. Questo processo di unificazione fu accompagnato da molti fermenti che coinvolsero non solo la sfera politica e diplomatica ma anche la cultura del periodo. I contenuti culturali furono indirizzati al risveglio della identità nazionale e alla presa di coscienza dell’importanza della unificazione. Secondo le coordinate del romanticismo, che in tutta Europa rivalutava le radici delle identità nazionale, il riferimento storico divenne il medioevo. E così anche l’Italia, che pure aveva vissuto periodi storici più intensi e pregnanti proprio in età classica con l’impero romano, si rivolse al medioevo per ritrovarvi quegli episodi che ne indicassero l’orgoglio nazionale.
Questo impegno civile e politico unifica tutte le arti del romanticismo italiano, dalla letteratura alla pittura, dalla musica al melodramma, eccetera. Ma l’arte che più di ogni altra si affermò nel romanticismo italiano fu soprattutto la letteratura, grazie ad Alessandro Manzoni e al suo romanzo I promessi sposi. Questo predominio della letteratura sulle arti visive è stata una costante di tutta la successiva cultura italiana dell’Ottocento, determinando non poco il ritardo culturale che l’Italia accumulò nel campo delle arti visive rispetto alle altre nazioni europee, e alla Francia in particolare.
I due principali temi in cui si esprime la pittura romantica italiana è la pittura di storia e la pittura di paesaggio. Nel primo tema abbiamo il maggior contributo pittorico all’idea risorgimentale dell’unità nazionale. E la pittura di storia, coerentemente a quanto detto prima, rappresenta sempre episodi tratti dalla storia del medioevo quali la Disfida di Barletta, i Vespri siciliani, eccetera. Ma lo fa con spirito che denota la succube dipendenza dalla letteratura, tanto che questi quadri hanno un carattere puramente illustrativo e didascalico. Protagonisti di questa pittura di storia sono stati il milanese Francesco Hayez, il fiorentino Giuseppe Bezzuoli, il piemontese Massimo D’Azeglio.
Nel genere del paesaggio il romanticismo italiano trovò invece una sua maggiore autonomia ed ispirazione che la posero al livello delle coeve esperienze pittoriche che si stavano svolgendo in Europa. Anche per la diversità geografica tra l’Italia e l’Europa del nord i paesaggi italiani non sono mai caratterizzati da quella atmosfera a volte tenebrosa e a volte inospitale del paesaggio nordico. Ma il paesaggio italiano si presenta più luminoso, più gradevole, più caratterizzato da un pittoresco accogliente e piacevole. La pittura di paesaggio italiana ha soprattutto due grandi protagonisti: Giacinto Gigante a Napoli, esponente principale della locale Scuola di Posillipo, e Antonio Fontanesi a Torino.
La vicenda del romanticismo italiano tende a prolungarsi fin quasi alla fine del secolo collegandosi, in alcuni casi, direttamente con la pittura divisionista. Nell’ambito del romanticismo italiano, un posto a sé lo occupa un altro movimento, detto «Scapigliatura», sviluppatosi a Milano nell’immediato periodo dopo l’unità d’Italia. La Scapigliatura si sviluppa sulle suggestioni di un altro originale pittore romantico, la cui attività si è svolta a Milano: Giovanni Carnovali, detto il Piccio
REALISMO
Caratteri generali
Il romanticismo cominciò a mostrare qualche cedimento già alla metà dell’Ottocento, quando, soprattutto in Francia, gli artisti scelsero una maggiore adesione alla realtà sociale del proprio tempo, senza fughe indietro nella storia del passato o nel mondo dei sentimenti e della religione.
Le motivazioni di questo atteggiamento nuovo furono molteplici. Sul piano culturale ci fu l’affermazione della nuova mentalità del positivismo che introduceva elementi di pensiero nuovi. Il grande sviluppo scientifico e tecnologico, che si stava svolgendo in quegli anni, produsse una nuova fiducia nei mezzi del progresso, della scienza e della razionalità umana. Fu una novità che diede un duro colpo a quella mentalità tipicamente romantica che prediligeva una forma di pensiero basata sull’emozione, sul sentimento, sulla religione e, in alcuni casi, anche sull’irrazionalità.
Sul piano sociale ed economico si cominciarono a sentire sempre più gli effetti della Rivoluzione industriale. L’abbandono dell’artigianato e dell’agricoltura determinò una notevole riconversione sociale da parte di classi di popolazione che si riversarono sul settore delle industrie. I problemi di questo fenomeno furono l’inurbamento eccessivo delle città e il peggioramento delle condizioni di vita delle classi del proletariato urbano. Questa situazione creò notevoli tensioni sociali e portò alla nascita delle teorie socialiste.
Nel 1848 ci furono nuove tensioni politiche in Francia e, dopo nuovi moti rivoluzionari, fu deposta la monarchia e proclamata la seconda repubblica. È in questo clima che iniziarono a sorgere le prime teorie artistiche del realismo nelle arti figurative. Ed avvenne con l’affermazione, sempre in Francia, del naturalismo letterario di Baudelaire, Flaubert e Zola. Di una corrente che preferiva raccontare i dramma e le passioni delle persone comuni, non dei grandi eroi, descrivendo la realtà del proprio tempo in maniera cruda ed impietosa per mostrarne tutta la vera realtà.
L’attenzione per le classi piccolo borghesi e del proletariato fu comune, quindi, a più campi del sapere. In campo filosofico il positivismo di Auguste Comte portò alla nascita della sociologia; in campo politico ed economico le analisi e gli scritti di Marx ed Engels portarono alla nascita del socialismo; in campo letterario si sviluppò il naturalismo di Zola e Flaubert; nel campo artistico nacque il realismo di alcuni pittori francesi della metà del secolo: Coubert, Millet, Daumier.
Il termine realismo è molto generico ed indica, in genere, ogni movimento artistico che sceglie la rappresentazione fedele della realtà. Il realismo francese della seconda metà dell’Ottocento non si discosta da altri tipi di correnti realiste. In questo caso la scelta ha però un preciso significato culturale e ideologico: rappresentare la vera condizione di vita delle classi lavoratrici senza nessuna trasfigurazione che mascherasse i reali problemi sociali.
Protagonista principale del realismo pittorico francese fu soprattutto Gustave Courbet. La sua pittura produsse un grande impatto su quel panorama artistico francese che considerava ancora l’arte il luogo nobile di fatti epici e grandiosi. Courbet propose invece quadri i cui soggetti erano gente povera, semplice, brutta. Questa scelta di Courbet ebbe un effetto provocatorio e polemico proprio perché aveva l’obiettivo di imporre al pubblico dell’arte, fatta di grandi borghesi, la descrizione di quelle sofferenze delle classi inferiori, la cui colpa era socialmente imputabile proprio agli interessi della grande borghesia. Inutile dire che l’arte di Courbet non ricevette una accettazione entusiastica. Analoga sorte fu riservata a Daumier, la cui spietata critica sociale e politica, realizzata con litografie caricaturali, gli procurò notevoli problemi. Maggior accettazione ebbe invece il realismo di Millet, la cui rappresentazione di un mondo rurale, dai caratteri ancora idilliaci e romantici, non infastidiva gli interessi della grande borghesia del tempo.
Nel fenomeno del realismo va anche considerata l’esperienza pittorica della scuola di Barbizon. Con tale termine si intende un gruppo di pittori, di cui il principale è Theodore Rousseau, che dal 1835 in poi si riunirono in un paesino chiamato Barbizon, nei pressi di Fontainebleau. Questa scuola pittorica produsse soprattutto paesaggi e contribuì a superare il vedutismo settecentesco in nome di una maggiore sincerità di rappresentazione. E tra i pittori francesi che più hanno rinnovato la pittura di paesaggio deve essere considerato soprattutto Camille Corot, la cui capacità di cogliere il vero nella visione di paesaggio ne fa uno dei più grandi vedutisti di tutti i tempi. La pittura di paesaggio di Corot fu molto conosciuta in Italia, anche per via dei numerosi viaggi che il pittore fece nella nostra penisola, influenzando la maggior parte dei pittori italiani dell’Ottocento.
Il realismo fu la premessa per la pittura di Manet e degli impressionisti, la cui grande carica innovativa, sul piano del linguaggio pittorico, non deve far dimenticare che anche l’impressionismo fu soprattutto un movimento di rappresentazione del vero. In realtà l’adesione alla realtà quotidiana e alla storia del presente fu una caratteristica che attraversa tutta l’arte francese dell’Ottocento. Dal tardo neoclassicismo di David e Gros il realismo attraversa il romanticismo di Gericault e Delacroix passa per la pittura di Courbet e degli impressionisti e arriva fino a Cezanne.
Ma ciò che porta a definire realista la pittura di Courbet più delle altre fu proprio il diverso contenuto ideologico della sua arte: la rappresentazione della realtà come denuncia della società. E da questo momento qualsiasi arte di forte contenuto ideologico portata sul piano della denuncia sociale ha scelto il realismo come stile documentario, vero ed inoppugnabile, che rappresenta la reale condizione sociale delle classi povere ed emarginate. Il realismo ebbe infatti una eredità nel realismo socialista che si è sviluppato nel XX secolo presso quegli stati, come la Russia e la Cina, che hanno scelto il socialismo reale come forma di governo.
Il Realismo in Italia: i Macchiaioli
In Italia non esiste un movimento realista come quello sorto in Francia. Tuttavia, dopo il 1850 si iniziarono a manifestare fermenti vari, in concomitanza con la diffusione del positivismo, che produssero una maggiore attenzione alla descrizione scientifica ed obiettiva della realtà. Tra queste varie tendenze più o meno embrionali di realismo la più omogenea e definita appare quella dei pittori Macchiaioli.
Tra il 1855 e il 1867 si andò costituendo a Firenze un gruppo di artisti che tendono a superare il romanticismo proprio con una riscoperta della realtà quotidiana rappresentata senza sentimentalismi eccessivi. Questo gruppo fu definito «Macchiaioli» in senso denigratorio, per via della particolarità stilistica che li accomunava: dipingere per macchie di colore nette, senza velature e effetti chiaroscurali.
Il movimento nacque da un gruppo di artisti che si riuniva nel Caffè Michelangelo di Firenze. Di esso facevano parte gli artisti Adriano Cecioni, Giovanni Fattori, Telemaco Signorini, Silvestro Lega, ed altri. Sono artisti accomunati da una comune militanza nelle campagne militari risorgimentali del 1848 e del 1859. E il tema militaristico ritorna soprattutto nella pittura di Giovanni Fattori, che fu l’illustratore principale dell’aspetto militare della unificazione risorgimentale.
Da un punto di vista stilistico, quello dei Macchiaioli fu il gruppo più avanzato della scena pittorica italiana. Il loro fu il movimento che più può essere avvicinato a quello degli impressionisti. Nei macchiaioli è però assente la vivacità cromatica e il tocco a virgole tipico degli impressionisti. La loro pittura può essere maggiormente accostata a quella del primo Manet o del primo Pissarro, con la differenza che i pittori francesi prediligono sempre colori puri, mentre nella pittura dei macchiaioli vi sono anche colori terrosi e spenti. I macchiaioli non perdono mai la forma salda tracciata dal disegno. Ciò che aboliscono del tutto è solo e soltanto il chiaroscuro, cercando una pittura che distingue le varie forme in base al contrasto di luce o di colore. Ottennero una pittura dall’aspetto più vero e realistico che, unendosi ai temi di vita quotidiana, permettono di considerare questo come un movimento fondamentalmente realista.
IMPRESSIONISMO
Caratteri generali
L’impressionismo è un movimento pittorico francese che nasce intorno al 1860 a Parigi. È un movimento che deriva direttamente dal realismo, in quanto come questo si interessa soprattutto alla rappresentazione della realtà quotidiana. Ma, rispetto al realismo, non ne condivide l’impegno ideologico o politico: non si occupa dei problemi ma solo dei lati gradevoli della società del tempo.
La vicenda dell’impressionismo è quasi una cometa che attraversa la storia dell’arte, rivoluzionandone completamente soprattutto la tecnica. Dura poco meno di venti anni: al 1880 l’impressionismo può già considerarsi una esperienza chiusa. Esso, tuttavia, lascia una eredità con cui faranno i conti tutte le esperienze pittoriche successive. Non è azzardato dire che è l’impressionismo ad aprire la storia dell’arte contemporanea.
La grande rivoluzione dell’impressionismo è soprattutto la tecnica, anche se molta della sua fortuna presso il grande pubblico deriva dalla sua poetica.
La tecnica impressionista nasce dalla scelta di rappresentare solo e soltanto la realtà sensibile. Evita qualsiasi riferimento alla costruzione ideale della realtà, per occuparsi solo dei fenomeni ottici della visione. E per far ciò cerca di riprodurre la sensazione ottica con la maggior fedeltà possibile.
Dal punto di vista della poetica l’impressionismo sembra indifferente ai soggetti. In realtà, proprio perché può rendere piacevole qualsiasi cosa rappresenti, l’impressionismo divenne lo stile della dolce vita parigina di quegli anni. Non c’è, nell’impressionismo, alcuna romantica evasione verso mondi idilliaci, sia rurali sia mitici; c’è invece una volontà dichiarata di calarsi interamente nella realtà urbana di quegli anni per evidenziarne tutti i lati positivi e piacevoli. Ed anche le rappresentazioni paesaggistiche o rurali portano il segno della bellezza e del progresso della civiltà. Sono paesaggi visti con occhi da cittadini.
I protagonisti dell’impressionismo furono soprattutto pittori francesi. Tra essi, il più impressionista di tutti, fu Claude Monet. Gli altri grandi protagonisti furono: Auguste Renoir, Alfred Sisley, Camille Pissarro e, seppure con qualche originalità, Edgar Degas. Un posto separato lo occupano, tra la schiera dei pittori definiti impressionisti, Edouard Manet, che fu in realtà il precursore del movimento, e Paul Cézanne, la cui opera è quella che per prima supera l’impressionismo degli inizi.
Date fondamentali per seguire lo sviluppo dell’impressionismo sono:
1863: Edouard Manet espone «La colazione sull’erba»;
1874: anno della prima mostra dei pittori impressionisti presso lo studio del fotografo Nadar;
1886: anno dell’ottava e ultima mostra impressionista.
L’impressionismo non nacque dal nulla. Esperienze fondamentali, per la sua nascita, sono da rintracciarsi nelle esperienze pittoriche della prima metà del secolo: soprattutto nella pittura di Delacroix e dei pittori inglesi Constable e Turner. Tuttavia, la profonda opzione per una pittura legata alla realtà sensibile portò gli impressionisti, e soprattutto il loro precursore Manet, a rimeditare tutta la pittura dei secoli precedenti che hanno esaltato il tonalismo coloristico: dai pittori veneziani del Cinquecento ai fiamminghi del Seicento, alla pittura degli spagnoli Velazquez e Goya.
Punti fondamentali per seguire le specificità dell’impressionismo sono:
1. il problema della luce e del colore;
2. la pittura en plein air;
3. la esaltazione dell’attimo fuggente;
4. i soggetti urbani.
Le rivoluzioni tecniche sul colore e sulla luce
La grande specificità del linguaggio pittorico impressionista sta soprattutto nell’uso del colore e della luce. Il colore e la luce sono gli elementi principali della visione: l’occhio umano percepisce inizialmente la luce e i colori, dopo di che, attraverso la sua capacità di elaborazione cerebrale distingue le forme e lo spazio in cui sono collocate. La maggior parte della esperienza pittorica occidentale, tranne alcune eccezioni, si è sempre basata sulla rappresentazione delle forme e dello spazio.
Il rinnovamento della tecnica pittorica, iniziata da Manet, parte proprio dalla scelta di rappresentare solo la realtà sensibile. Su questa scelta non poca influenza ebbero le scoperte scientifiche di quegli anni. Il meccanismo della visione umana divenne sempre più chiaro e si capì meglio il procedimento ottico di percezione dei colori e della luce. L’occhio umano ha recettori sensibili soprattutto a tre colori: il rosso, il verde e il blu. La diversa stimolazione di questi tre recettori producono nell’occhio la visione dei diversi colori. Una stimolazione simultanea di tutti e tre i recettori, mediante tre luci pure (rossa, verde e blu), dà la luce bianca. Questo meccanismo è quello che viene definito sintesi additiva.
Il colore che percepiamo dagli oggetti è luce riflessa dagli oggetti stessi. In questo caso, l’oggetto di colore verde non riflette le onde di colore rosso e blu, ma solo quelle corrispondenti al verde. In pratica, l’oggetto, tra tutte le onde che costituiscono lo spettro visibile della luce, ne seleziona solo alcune. I colori che l’artista pone su una tela bianca seguono lo stesso meccanismo: selezionano solo alcune onde da riflette. In pratica, i colori sono dei filtri che non consentono la riflessione degli altri colori. In questo caso, sovrapponendo più colori, si ottiene, successivamente, la progressiva filtratura, e quindi soppressione, di varie colorazioni, fino a giungere al nero. In questo caso si ottiene quella che viene definita sintesi sottrattiva.
I colori posti su una tela agiscono sempre operando una sintesi sottrattiva: più i colori si mischiano e si sovrappongono, meno luce riflette il quadro. L’intento degli impressionisti è proprio evitare al minimo la perdita di luce riflessa, così da dare alle loro tele la stessa intensità visiva che si ottiene da una percezione diretta della realtà.
Per far ciò adottano le seguenti tecniche:
1. utilizzano solo colori puri;
2. non diluiscono i colori per realizzare il chiaro-scuro, che nelle loro tele è del tutto assente;
3. per esaltare la sensazione luminosa accostano colori complementari;
4. non usano mai il nero;
5. anche le ombre sono colorate.
Ciò che distingue due atteggiamenti fondamentalmente diversi, tra i pittori impressionisti, è il risultato a cui essi tendono:
– da un lato ci sono pittori, come Monet, che propongono sensazioni visive pure, senza preoccuparsi delle forme che producono queste sensazioni ottiche;
– dall’altro ci sono pittori, come Cézanne e Degas, che utilizzano la tecnica impressionista per proporre la visione di forme inserite in uno spazio.
Monet fa vaporizzare le forme, dissolvendole nella luce; Cezanne ricostruisce le forme, ma utilizzando solo la luce e il colore.
La pratica dell’en plein air
La pittura, così come concepita dagli impressionisti, era solo colore. Essi, pertanto, riducono, e in alcuni casi sopprimono del tutto, la pratica del disegno. Questa scelta esecutiva si accostava all’altra caratteristica di questo movimento: la realizzazioni dei quadri non negli atelier ma direttamente sul posto. È ciò che, con termine usuale, viene definito en plein air.
L’en plein air non è una invenzione degli impressionisti. Già i paesaggisti della Scuola di Barbizon utilizzavano questa tecnica. Tuttavia, ciò che questi pittori realizzavano all’aria aperta era in genere una stesura iniziale, da cui ottenere il motivo sul quale lavorare poi in studio rifinendolo fino alla stadio definitivo. Gli impressionisti, e soprattutto Monet, portarono al limite estremo questa pratica dell’en plein air realizzando e finendo i loro quadri direttamente sul posto.
Questa scelta era dettata dalla volontà di cogliere con freschezza e immediatezza tutti gli effetti luministici che la visione diretta fornisce. Una successiva prosecuzione del quadro nello studio avrebbe messo in gioco la memoria che poteva alterare la sensazione immediata di una visione.
Gli impressionisti avevano osservato che la luce è estremamente mutevole. Che, quindi, anche i colori erano soggetti a continue variazioni. E questa sensazione di mutevolezza è una delle sensazioni piacevoli della visione diretta che loro temevano si perdesse con una stesura troppo meditata dell’opera.
La poetica dell’attimo fuggente
La scelta dei pittori impressionisti, di rappresentare la realtà cogliendone le impressioni istantanee portò questo stile ad esaltare su tutto la sensazione dell’attimo fuggente.
Secondo i pittori impressionisti la realtà muta continuamente di aspetto. La luce varia ad ogni istante, le cose si muovono spostandosi nello spazio: la visione di un momento è già diversa nel momento successivo. Tutto scorre. Nella pittura impressionista le immagini trasmettono sempre una sensazione di mobilità.
L’attimo fuggente della pittura impressionista è totalmente diverso dal momento pregnante della pittura neoclassica e romantica. Il momento pregnante sintetizza la storia nel suo momento più significativo; l’attimo fuggente non ha nulla a che fare con le storie: esso coglie le sensazioni e le emozioni. E quelle raccolte nella pittura impressionista sono sempre sensazioni e impressioni felici, positive, gradevoli. L’impressionismo, per la prima volta dopo la scomparsa della pittura rococò, rifugge dagli atteggiamenti tragici o drammatici. Torna a rappresentare un mondo felice ed allegro. Un mondo dove si può vivere bene.
L’attimo fuggente della pittura impressionista ha analogie evidenti con la fotografia. Anche la fotografia, infatti, coglie una immagine della realtà in una frazione di secondo. E dalla fotografia gli impressionisti non solo prendono la velocità della sensazione, ma anche i particolari tagli di inquadratura che danno alle loro immagini particolare sapore di modernità.
I soggetti urbani
Sul piano dei soggetti l’impressionismo si presenta con un’altra notevole caratteristica: quella di rappresentare principalmente gli spazi urbani. E lo fa con una evidente esaltazione della gradevolezza della vita in città. Questo atteggiamento è una novità decisa. Fino a questo momento la città era stata vista come qualcosa di malefico e di infernale. Soprattutto dopo lo sviluppo della Rivoluzione Industriale, i fenomeni di urbanesimo avevano deteriorato gli ambienti cittadini. La nascita delle industrie avevano congestionato le città. Erano sorti i primi effetti dell’inquinamento. I centri storici si erano affollati di immigrati dalle campagne, le periferie sorgevano come baraccopoli senza alcuna qualità estetica ed igienica. Le città erano dunque viste come entità malsane.
L’impressionismo è il primo movimento pittorico che ha un atteggiamento positivo nei confronti della città. E di una città in particolare: Parigi. La capitale francese, sul finire dell’Ottocento è, sempre più, la città più importante e gaudente d’Europa. In essa si raccolgono i maggiori intellettuali ed artisti, ci sono i maggiori teatri e locali di spettacolo, si trovano le cose più eleganti e alla moda, si possono godere di tutti i maggiori divertimenti del tempo.
Tutto questo fa da sfondo alla pittura degli impressionisti, e ne fornisce molto del suo fascino. I luoghi raffigurati, nei quadri impressionisti, diventano tutti seducenti: le strade, i viali, le piazze, i bar, gli stabilimenti balneari lungo la Senna, i teatri (da ricordare soprattutto le ballerine di Degas), persino le stazioni, come nel famoso quadro di Monet raffigurante «La Gare Saint-Lazare».

 

Fonte: http://www.diversamentesocial.it/pluginfile.php/152/mod_folder/content/0/storia%20dellarte-riassunto%20dal%20gotico.docx?forcedownload=1

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