Riassunto Teorie e tecniche dei Linguaggi Radiotelevisivi

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Riassunto Teorie e tecniche dei Linguaggi Radiotelevisivi

Teorie e tecniche dei Linguaggi Radiotelevisivi

I media elettronici

 

CAPITOLO UNO. I media e la comunicazione
1. La comunicazione. Che cos’è e a cosa serve

Media : strumenti tecnici e apparati di rilevante importanza sociale che servono a comunicare. ( radio e televisione).
Comunicazione: ogni scambio di messaggi, dotati di significato, tra individui che condividono un codice per interpretarli.
La più elementare e diffusa forma di comunicazione è quella interpersonale: due o più persone parlano fra loro, si scambiano reciprocamente messaggi in forma di parole. Questa è una comunicazione punto a punto.
Nella comunicazione punto a punto, ciascuno dei due punti è, di volta in volta, emittente e ricevente. Una comunicazione in cui il ricevente ha la possibilità di rispondere e di interagire a sua volta con l’emittente di chiama comunicazione interattiva.
La comunicazione di massa è invece una forma di comunicazione da uno a molti. In questo tipo di comunicazione, le funzioni di remittenza e di ricezione tendono a polarizzarsi ai due estremi; una persona emittente, molti riceventi.
Si chiama unidirezionale una comunicazione in cui gran parte dei messaggi vanno in una sola direzione, da un solo emittente a molto riceventi.
Nelle società antiche e in quelle primitive la comunicazione di massa, anche in questa forma faccia a faccia, è un’esperienza eccezionale, legata ad occasioni speciali.
Una comunicazione evoluta è un tipo di comunicazione che va oltre la vicinanza fisica dei comunicanti, utilizzando la tecnologia. Perché questo avvenga è necessario riprodurre e/o trasportare a distanza il messaggio attraverso appositi mezzi tecnici. Questi strumenti di riproduzione e/o trasporto sono “mezzi”, cioè media. I media però non bastano. Per la comunicazione a distanza è essenziale una rete.
In una società primitiva, prima della scrittura, sia la riproduzione che il trasporto a distanza hanno limiti molto forti. Praticamente, l’unico supporto disponibile per immagazzinare un messaggio è farlo imparare a memoria da un messaggero, che poi sarà inviato nel luogo in cui di vuole recapitare il messaggio.
Si può anche mettersi d’accordo con un ricevente lontano: se avverà un determinato evento, accenderemo un fuoco su una montagna, oppure suoneremo un tam-tam; altrimenti non lo faremo. Si stabilisce cioè un codice, per il quale il rumore del tamburo o la vista del fuoco significano una certa cosa.
C’è una notevole differenza tra l’invio del messaggero e il suono del tam-tam, o l’accensione del fuoco. Nel primo caso si ha il trasporto fisico del messaggio; nel secondo caso, c’è comunicazione senza trasporto fisico del messaggio (comunicazione sincrona).
Siamo di fronte alla differenza tra la trasmissione di un messaggio fisico e quella di un messaggio immateriale: una differenza che percorre tutta la storia della comunicazione umana. All’inizio prevaleva la trasmissione immateriale; dopo l’invenzione della scrittura e poi della stampa prevale il trasporto fisico dei messaggi scritti.

2. Leggere e scrivere

L’invenzione della scrittura può essere vista come la prima forma di industrializzazione della comunicazione, così da superare i più gravi limiti della comunicazione orale.
La scrittura propriamente detta appare solo dal momento in cui si costituisce un insieme organizzato di segni o di simboli, attraverso i quali è possibile materializzare e fissare con chiarezza ogni pensiero. La prima scrittura vera e propria, con segni fonetici che rimandano al suono delle parole nella lingua parlata, in Occidente è la scrittura cuneiforme dei Sumeri, risalente al 2000 a.C. circa.
La scrittura nasce come “comunicazione di Stato” o come “comunicazione di affari”, o comunque tutte e due le cose insieme. Solo più tardi essa sarà posta al servizio della comunicazione letteraria e sarà introdotto l’uso della scrittura nella comunicazione privata e famigliare.
La scrittura è la prima forma di “ingegnerizzazione del pensiero”, che permette di archiviare, inventariare, trasportare, modificare, correggere i nostri pensieri a aiutare la nostra memoria a ricordare dati, calcoli, formule, quantità. La sua affidabilità è così superiore alla memoria che, nella comunicazione a distanza, il trasporto fisico del messaggio prevarrà in maniera schiacciante sulle altre immateriali. La supremazia di questo tipo di messaggio sarà assoluta fino al Ventesimo secolo, cioè all’avvento della radio e della televisione: comunicazioni sincrone e immateriali. Inoltre l’efficienza della scrittura è tale che l’immagine perderà di centralità nella comunicazione umana: una centralità che riconquisterà solo nel Novecento, con il cinema, la fotografia, la televisione, la pubblicità, la stampa illustrata.
La parola scritta si distaccherà dal canto e dalla musica; anche la musica conoscerà poi, con l’invenzione delle note, la sua scrittura. L’oralità e il suono riacquisteranno nuovamente una centralità nel Novecento, che non è solo il secolo dell’immagine, ma anche della registrazione del suono, della canzone, della musica leggera di massa, della radio.
Com’era escluso dalla scrittura, il grande pubblico rimase ai margini della stampa. L’invenzione della stampa è un decisivo passo avanti verso l’ulteriore industrializzazione della comunicazione scritta. In Occidente la stampa a caratteri mobili fu inventata dal monaco tedesco Johann Gutenberg di Magonza, la cui prima opera stampata, una Bibbia, è del 1450. La sua invenzione ebbe un successo straordinario.
La diffusione della stampa ha come limite invalicabile l’analfabetismo.
La comunicazione di massa rivolta al vasto pubblico, infatti, prendeva forme diverse dalla comunicazione scritta:

  1. la comunicazione orale “da uno a molti”, in piazze, chiese, spazi aperti, con tutti i problemi dovuti alla difficoltà logistica di radunare le persone
  2. le arti figurative e l’architettura. L’imponenza scenografica dei palazzi e dei giardini, dei templi e delle Chiese
  3. lo spettacolo teatrale,le attrazioni itineranti, i giochi sportivi
  4. la festa,il carnevale (momenti di rovesciamento delle regole)
  5. la fiera e il mercato

Se osserviamo bene queste forme ci rendiamo conto che si tratta sempre di atti unici, di eventi irripetibili, di accadimenti dal vivo.
Mentre la comunicazione di massa destinata al grande pubblico aveva questo carattere effimero, la comunicazione stampata rappresentava un grande passo verso la riproducibilità tecnica e la serialità delle opere d’arte e dei frutti dell’ingegno.
La riproducibilità tecnica preesiste alla stampa; la fusione di più statue di bronzo da un solo originale-matrice, l’utilizzo di cartoni per facilitare la produzione di mosaici, la copia dei manoscritti in officine specializzate.
Il concetto di serialità definisce la produzione in serie di oggetti tutti uguali, di costo infinitamente inferiore a quello che avrebbe un pezzo unico, destinati d una larga circolazione.
L’invenzione della stampa accentua il predominio della scrittura su tutte le altre forme espressive, in particolare quelle legate al suono, alla voce, all’immagine, penalizzate da un maggiore impaccio nella riproducibilità tecnica e quindi nella diffusione.

I mass media nella società di massa
1. Nascita dei media

La situazione culturale che abbiamo fin qui descritto si può riassumere in questo modo: una prevalenza della scrittura  della stampa nella cultura e nella comunicazione, che però esclude grandi maggioranza di persone che non sanno leggere e scrivere per le quali la comunicazione di massa è una risorsa molto scarsa, limitata ad alcune occasioni festive. L’Ottocento è il secolo in cui questo quadro viene radicalmente messo in discussione. Sia nel 1° emendamento della Costituzione americana del 1787, che nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 viene affermato il principio della libertà di stampa, che sta insieme alla libertà di parola e di espressione.
La libertà e la diffusione della stampa ricevono dalla Rivoluzione Francese un grandissimo impulso; la rivoluzione industriale introduce le tecnologie con cui nasceranno altri media, centrati sul suono e sull’immagine, ce metteranno in discussione il primato della scrittura come forma principe della diffusione della cultura e consegneranno al Novecento tutti gli elementi per il primato delle forme di comunicazione riprodotta su quelle dal vivo, faccia a faccia.
L’Ottocento è il secolo dell’elettricità. Il secolo si apre con la presentazione a Napoleone da parte di Alessandro Volta della pila elettrica. La prima applicazione dell’elettricità alla comunicazione è il telegrafo elettrico, introdotto da Samuel Morse. Morse è anche l’inventore dell’alfabeto omonimo, un codice ce permette di trasmettere a distanza lettere dell’alfabeto sotto forma di linee e punti. La comunicazione viaggia sotto forma di impulsi elettrici attraverso fili fino ad arrivare a destinazione, dove un altro operatore decodifica il messaggio e lo inoltra, con un fattorini, al destinatario: punto a punto. Ogni punto della rete può emettere un messaggio, riceverne un altro , rispondere. E’ la prima comunicazione a distanza senza il trasporto fisico di un messaggio.
Il telefono realizzato da Graham Bell nel 1876, è sempre una comunicazione punto a punto, col vantaggio rispetto al telegrafo di non richiedere un operatore specializzato che codifichi e decodifichi il messaggio. Di qui il successo, anche domestico.
Il telegrafo sarà sempre più limato a quelle forme di comunicazione in cui è importante che ci sia una traccia scritta del messaggio, finchè non sarà sostituito dal fax.
Il telefono divenne un mezzo di comunicazione privato. Molti media conosceranno prima una fase pubblica e solo successivamente una fase domestica.
A rimanere per sempre pubblico è soprattutto lo spettacolo dal vivo, il teatro, o ciò che richiede un luogo dedicato e attrezzature speciali.
Il telegrafo e il telefono in sé, non sono mass media, ma sono piuttosto perfezionamenti della comunicazione punto a punto. Sono media vuoti, perché non contengono alcun messaggio proprio, ma si limitano a trasmettere i messaggi dei comunicatori. Il giornale, il cinema, la radio, la televisione saranno invece media pieni perché i comunicatori sono loro, in quanto trasmettono ai riceventi un proprio contenuto.
Nell’Ottocento c’è un grande sviluppo di culture e di tecnologie che interessano la comunicazione. Avremo macchine da stampa sempre più veloci (rotative). Si affermeranno tecnologie del suono come la pianola. Nel 1879 Edison inventa il fonografo, uno strumento per la registrazione del suono su un rullo che nelle sue intenzioni doveva essere uno strumento per l’ufficio, ma che si affermò come apparato domestico per la riproduzione della musica, soprattutto quando Berliner inventò il grammofono, che utilizzava dischi invece di rulli e aveva un motore. Il disco poteva essere  facilmente stampato e riprodotto in un numero di esemplari teoricamente illimitati, a costi contenuti. Per la prima volta di industrializza la riproduzione del suono e lo si sottrae all’obbligo dell’esecuzione dal vivo.
Anche l’immagine viene riprodotta tecnicamente, Daguerre presenta nel 1839 il suo dagherrotipo, la prima fotografia, prodotta impressionando attraverso un obiettivo una lastra trattata chimicamente e sviluppata in camera oscura. La sua invenzione è un perfezionamento chimico-ottico-meccanico del ritratto borghese e, al pari di esso, richiede un operatore specializzato, il fotografo. Eastam produce nel 1888, una macchina fotografica assai più semplice, che poteva essere utilizzata da chiunque. Questa macchina si chiamava Kodak e doveva la sua semplicità di funzionamento alla pellicola, un’ altra invenzione di Eastman, che aveva sostituito la lastra.
Nel 1936, in Francia, esce un giornale, “La Presse”, in cui per la prima volta in una pagina (la quarta) ospita a pagamento la pubblicità.
La metropolitana di Londra, dal 1861, presenta cartelloni pubblicitari sulle pareti esterne dei vagoni. Nella seconda metà dell’Ottocento, a partire dalla Francia, il manifesto anche di grandi dimensioni esposto al pubblico diventa la forma primaria della comunicazione commerciale.
Come abbiamo visto, non si tratta soltanto di tecnologia ma di “usi sociali” dei nuovi ritrovati. L’Ottocento è il primo secolo in cui la comunicazione ha un uso sociale forte. Sta nascendo una società di massa. In questa società massificata la comunicazione di massa tecnicamente riprodotta è il modo più efficace, ma anche l’unico possibile, di mettere in circolo le idee, di proporre acquisti, di tenere unita la società.

 

2. Spazio pubblico e spazio privato

Nella città moderna, nella metropoli, vi è un ampio “spazio pubblico”. Questo luogo, sociale e fisico, a ben vedere racchiude due concetti distinti:

  1. una sfera pubblica di libera espressione, di comunicazione e di discussione di idee e progetti, ance attraverso libri, giornali e altri mezzi, da parte di singoli cittadini e loro forme associative, che costituisce una forma di mediazione fra la società civile e lo Stato;
  2. una scena pubblica, in cui accedono alla visibilità pubblica persone, istituzioni, aziende, oggetti, ma dove anche gli eventi e i problemi sono rappresentati, e quindi diventano visibili e sono avvertiti come rilevanti.

La comunicazione di massa circola attraverso i giornali, ma sempre più attraverso i suoni e le immagini per un largo pubblico che non ha pratica della lettura o tempo per praticarla. Accanto ai cartelloni pubblicitari, una delle principali forme sono gli spettacoli dal vivo.
Lo spazio pubblico definisce per contrasto uno “spazio privato” dove si svolge la vita individuale e famigliare. La moderna casa urbana è collegata da reti di servizio, come l’acqua potabile, le fognature, l’elettricità, ma anche delle linee tranviarie che permettono di edificare periferie lontane, da cui siano raggiungibili sia i luoghi di lavoro che il centro cittadino. Si pongono così alcune premesse sociali affinché il domicilio diventi luogo gradevole per trascorrere il tempo libero, e quindi per un uso domestico del grammofono, della pianola, della fotografia amatoriale, senza recarsi nello spazio pubblico che ha avuto sinora il monopolio dell’intrattenimento e dello spettacolo.

3. Il cinema

Questo è l’ambiente in cui nasce il cinema. Fra le diverse attrazioni del varietà, nasce un’ attrazione meccanica. Le prime proiezioni cinematografiche in pubblico dei fratelli Lumière si svolgono infatti al Gran Cafè di Parigi. Il cinema riproduce e industrializza l’immagine in movimento. Utilizzando la pellicola, esso produce molte immagini al secondo (16 fotogrammi al secondo per il cinema muto e di 24 per il cinema sonoro, mentre la televisione ne avrà 25) che, fissandosi sulla retina dell’occhio, ci danno l’impressione del movimento. Di ogni pellicola si possono fare molte copie; l’industrializzazione e la riproducibilità tecnica giungono anche nello spettacolo.
Fin dall’inizio infatti il cinema è presentato come una forma di spettacolo pubblico. All’inizio prevalgono quelli che oggi chiameremmo “documentari”, ma già nella prima serata a pagamento c’è la scenetta umoristica dell’annaffiatore innaffiato”.
Il film imboccherà decisamente la strada della finzione; il documentario e l’informazione rimarranno genere minori. La lentezza dello sviluppo e del montaggio tolgono al cinema la possibilità della diretta. La diretta ci sarà solo con la televisione.
Dal 1910 il cinema di dota di sale di proiezioni fisse, e rimane così un medium pubblico fino all’avvento delle videocassette.
Il cinema, ha istituito una divisione del lavoro rigorosa. Il cinema obbedisce a standard di formato, di lunghezza, di tempi e modalità di lavorazione che ne fanno un prodotto industriale, sia pure non seriale. Nel Novecento non vi saranno mass media a carattere individuale. Tutta la loro produzione sarà il frutto di un lavoro di èquipe e standardizzato. Perfino i mezzi di espressione tipicamente individuali (il romanzo, il racconto) incontreranno, al momento di essere riprodotti e diffusi in forma di libro stampato, il lavoro collegiale delle case editrici.

4. Lo spettacolo riprodotto

Le differenze di forma culturale fra teatro e cinema sono per questo molto profonde. Siamo di fronte alla comparsa di una forma nuova, lo spettacolo riprodotto. Lo spettacolo teatrale di ogni sera è un originale, un’opera autentica.  “La prestazione artistica dell’interprete teatrale – scrive Benjamin – viene presentata definitivamente al pubblico sa lui stesso in prima persona; la presentazione artistica dell’attore cinematografico viene invece presentata attraverso un’apparecchiatura. Quest’ultimo elemento ha due conseguenze diverse. L’apparecchiatura che propone al pubblico la prestazione dell’autore cinematografico non è tenuta a rispettare questa prestazione nella sua totalità. Manovrata dall’operatore, essa prende costantemente posizione nei confronti della prestazione stessa. La seconda conseguenza dipende dal fatto che l’interprete cinematografico, poiché non presenta direttamente al pubblico la sua prestazione, perde la possibilità, riservata all’attore di teatro, di adeguare la sua interpretazione al pubblico durante lo spettacolo.”
Il teatro è dunque un evento rituale unico, autentico, il cinema un prodotto sintetico e composito, riproducibile tecnicamente.
Il cinema si rivolge ad un’utenza popolare urbanizzata, perché i biglietti possono avere un costo modesto. Lo sviluppo del cinema di fiction rappresenta l’esigenza sociale di una rappresentazione narrativa industrializzata e standardizzata, diversa dallo spettacolo “artigianale” del teatro. La diffusione e la popolarità del teatro  subirono un ridimensionamento, simile a quello che subirà la radio dopo l’avvento della televisione. Il limite del teatro rispetto al cinema è l’impossibilità di divenire un fenomeno industriale riproducibile; ma questa è stata anche, paradossalmente, la sua salvezza: infatti è la chiave del suo fascino.
Il cinema coltiva il nuovo tipo di pubblico, rappresentando la prima forma di svago industriale comprensibile a tutti, perché fondato sull’immagine e non sulla parola scritta. L’immagine comincia così la sua risalita nei confronti della scrittura, che lo porterà a conquistare in Novecento, alimentandosi anche con il divismo, il culto delle attrici e degli attori che già era stato anticipato dal teatro ma che troverà nel cinema popolare la sua sede più geniale. All’inizio del Novecento il cinema è già uno strumento potentissimo, capace di orientare interi gruppi sociali: è proprio quello che succede in America, dove i moltissimi immigrati trovano nel cinema un fondamentale elemento socializzante.
Si cerca quindi di realizzare un prodotto medio, capace di mobilitare il grande pubblico e di superare le frontiere, proponendosi in paesi diversissimi tra loro.

La radio della telegrafia al broadcasting
1 Wireless

La radio è stata inventata nel 1895. Essa è un’applicazione pratica della scoperta delle onde elettromagnetiche da parte del fisico tedesco Hertz negli anni Ottanta dell’Ottocento. Hertz scopre che l’etere può essere percorso da onde, di varia frequenza, che l’uomo può generare artificialmente. Guglielmo Marconi, come molti altri inventori, ingegnerizza questo principio.
La radio è il primo strumento di comunicazione di massa che non richiede alcun tipo di supporto materiale. Esso infati si fonda esclusivamente su una trasmissione di natura immateriale, cioè sulla generazione di onde elettromagnetiche che vengono ricevute da un apparecchio ricevente e decodificate.
L’invenzione di Guglielmo Marconi non è in realtà la radio che conosciamo oggi. Marconi aveva chiamato il suo ritrovato “telegrafo senza fili”; la sua intenzione era quella di superare le difficoltà di applicazione del telegrafo in particolari contesti. Il telegrafo elettrico infatti poteva comunicare solo con luoghi già collegati con il “filo”, escludendo quindi le zone più remote ed impervie ma soprattutto le navi in mare aperto; in Italia la Marina ed il ministero delle Poste rifiutarono il suo progetto che fu invece accettato in Inghilterra.
In seguito all’accettazione del suo dispositivo, Marconi fondò la Compagnia Marconi che in Gran Bretagna esiste ancora. Le applicazioni navali della nuova invenzione furono immediate e vastissime, tanto che ancor oggi il radiotelegrafista di una nave si chiama marconista. La prima dimostrazione dell’utilità della radio nota al grande pubblico si ebbe al momento dell’affondamento del Titanic quando il SOS venne intercettato da un giovane marconista dell’American Marconi di nome David Sarnoff, che poi sarebbe diventato il presidente della Radio Corporation of America. La radio fu utilizzata massicciamente durante la prima guerra mondiale. Questa radio non ha comunque quasi nulla a che vedere con quella odierna. Il telegrafo senza fili è un mezzo di comunicazione punto a punto, da un mittente a un destinatario che sono intercambiabili, mentre la radio moderna è una forma di comunicazione di massa, tra una stazione emittente ed un pubblico ascoltatore.

2 On air

Nel 1906 Lee de Forest inventò una valvola elettronica, il triodo (che lui chiamò audion) che permetteva di trasmettere la voce umana invece dell’alfabeto telegrafico Morse utilizzato da Marconi; durante la prima guerra mondiale si trovò il modo di produrre industrialmente il triodo come una comune lampadina. Dopo la guerra mondiale le industrie avevano sviluppato tecnologie e linee di produzione, ma non avevano più le commesse militari. Gli Stati Uniti ritennero allora conveniente lanciarsi nella produzione di semplici apparecchi radio solo riceventi per uso domestico. La complessità dell’apparato radiotelegrafico si scindeva in due corpi asimmetrici, in un apparato trasmittente molto complesso (la stazione radio) ed in uno ricevente molto semplice (la radio di casa). Era nata la radio come mezzo di comunicazione di massa.
Ma che cosa si poteva ascoltare con la radio? Un contenuto era necessario, perché la gente sentisse il bisogno di acquistarla. Si pensò di rifornire questi apparecchi con musica e parole, trasmessi da una potente stazione e ricevuti da tutti gli apparecchi sparsi nell’area di ricezione, senza bisogno di alcun collegamento materiale. Questa è una rete piramidale solo discendente, con un vertice che è la stazione emittente e una base costituita da apparecchi solo riceventi che non possono comunicare né con l’emittente né tra di loro. La trasmissione via etere in questa forma fu chiamata “broadcasting”, un termine inglese che significa propriamente “semina larga”. Il neologismo “narrowcasting”, “semina stretta”, sarà coniato negli anni Ottanta del Novecento per definire invece la trasmissione delle televisioni a pagamento.
Il broadcasting è una forma di comunicazione in grado di penetrare nel domicilio, con la differenza che se il telefono è una comunicazione punto a punto ed una rete “vuota”, la radio assolverà a ben altre funzioni perché trasmette  “piena” di contenuto. Mentre il cinema si assesta saldamente nello spazio pubblico e costruisce le sue sale sempre più grandi ed imponenti, la radio tesse una rete immateriale, che arriva gradualmente in tutte le case, inserendosi nella vita privata ed aggiungendosi alle altre reti a cui è collegata.
La radio diventa un servizio “a flusso”: è disponibile in casa quando lo si desidera e viene erogato finchè non si chiude il collegamento. L’unico effettivo atto di acquisto, ormai dimenticato, è quello iniziale di quando abbiamo acquistato l’apparecchio. La fruizione è domestica e quindi ciascuno ne usufruisce come e quando crede, anche in contemporanea con altre attività.
I concetti di pubblico e privato ne escono stravolti. Lo spettatore era sempre stato associato allo spazio pubblico. Parliamo di “pubblico della radio” quando i membri che lo compongono non sono fisicamente compresenti e si trovano tutti nel privato. Parliamo di “comunicazione di massa” , ma in realtà la massa non c’è più. Per essere più precisi , una massa che ascolta c’è, ma non è riunita nello stesso posto: ciascuno è a casa sua.
Inizialmente della radio (come della televisione) è stato fatto un uso collettivo poiché gli apparecchi costavano ancora molto e per questo ci si recava nei pochi luoghi in cui essi erano presenti, in un bar o anche da un vicino di casa più facoltoso. Ma appena si è potuto, si è realizzato un ascolto familiare e poi individualizzato.
Di questa dimensione collettiva per necessità fu fatto negli anni Trenta un uso politico: il fascismo ed il nazismo hanno usato la radio come forma di informazione in tempo reale del regime, come un altoparlante per i propri comizi.
La radio rappresenta il trionfo dell’uso domestico della comunicazione e della quotidianità rispetto al giornale che presuppone alfabetizzazione e “impegno”. Il livello di attenzione e di concentrazione che richiede e che le viene prestato è minore rispetto ad altri mezzi di comunicazione di massa, come avverrà anche per la televisione. Si tratta di una rivoluzione sociale di notevole portata, perché in grado di raggiungere le fasce sociali più basse, perché è gratuita, perché non richiede la capacità di saper leggere e scrivere, perché è compatibile con le attività quotidiane e non richiede uno spostamento nello spazio pubblico né un atto di acquisto.

 

3 Il broadcasting in USA e in Europa: due modelli

Negli Stati Uniti, dove la radio è nata, un primo tentativo di farne un monopolio della Marina da guerra fallì sul nascere. Essa costituì sempre un’attività commerciale, svolta da un colosso come la RCA (Radio Corporation of America), costituita nel 1919. La radio era vista come un affare: si distribuivano gratuitamente i programmi perché i cittadini-clienti comprassero gli apparecchi radio. Quando il mercato degli apparecchi fu saturo, il ruolo del finanziatore sarebbe stato preso dalla pubblicità. Per la prima volta, questa rappresentava l’unica fonte di entrata di un mezzo di comunicazione.
Nel 1927 fu emanata una legge, il Radio Act, che diceva: chiunque può effettuare trasmissioni radiofoniche purchè in possesso di una licenza, che assegnava anche le frequenze su cui trasmettere. Poco dopo fu creata per questo un’autorità federale, la FRC (Federal Radio Commission dal 1934 FCC, Federal Communication Commission)
La radio americana si organizzò in tre grandi network: NBC, CBS, ABC, che poi diventarono anche televisivi. Ciascun network è collegato con un gran numero di stazioni locali affiliate che ripetono il loro segnale. I network forniscono solo una parte della programmazione giornaliera, comprensiva di pubblicità; nelle altre fasce orarie le emittenti locali mandano in onda programmi propri con pubblicità locale. Possono anche consorziarsi con altre stazioni per la produzione di programmi o la ricerca di pubblicità; questi consorzi prendono il nome di “syndication”
In Europa la radio si sviluppò secondo un modello opposto. La radio si consolida come un monopolio diretto o indiretto dello Stato che si sovvenziona attraverso una tassa o un canone d’abbonamento ed esclude o lascia ai margini la pubblicità. In nessuno dei paesi europei, l’industria radioelettrica avrebbe avuto le dimensioni necessarie a finanziare, come in America, la nascita dei programmi radiofonici.
L’esempio più tipico fu quello inglese. Nel 1926 viene costituita un’impresa pubblica, la BBC che aveva il monopolio delle trasmissioni radiofoniche ed era dotata di una precisa missione: “istruire, informare, intrattenere”. La BBC non ammetteva la pubblicità e si finanziava soltanto attraverso fondi pubblici. La radio è vista come un “servizio culturale” che lo Stato eroga potenzialmente a tutti i cittadini; si parla per questo di una “impostazione” pedagogica del servizio pubblico.
Il carattere pubblico della radio e poi della TV europea favorisce la costituzione di grandi apparati culturali legati alla politica, che governa gli enti radiotelevisivi.
I paesi autoritari non si lasciarono sfuggire le opportunità propagandistiche proprie del nuovo mezzo. In Italia il governo fascista esercitava un controllo di fatto sull’EIAR (Ente italiano per le audizioni radiofoniche) che operava in regime di monopolio. L’uso più persuasivo della radio fu operato tuttavia dal nazismo tedesco. Dopo la seconda guerra mondiale anche l’Italia e la Germania si ispirarono al modello della BBC. In Italia l’EIAR lasciò il posto alla RAI (Radio audizioni italiane, 1944- poi Radiotelevisione italiana).

La televisione
1. Nasce la tv

Tra la radio e il cinema muto si era stabilita una tacita spartizione di campi. Il cinema era il leader dello spettacolo nello spazio pubblico, la radio era la regina dell’intrattenimento domestico. L’uno aveva le immagini, l’altra i suoni. Dal 1927 però il cinema diventò sonoro, con immediato successo. Le aziende radiofoniche compresero che il loro spazio sociale non era più intoccabile ed era minacciato. La televisione apparve loro come una risposta efficace e insieme un’evoluzione desiderata della radio. Per questo quando la nuova invenzione fu pronta, essa ebbe come contenitore naturale le stesse imprese, la medesima filosofia aziendale, lo stesso quadro di riferimento giuridico della radio. La televisione, diversamente da altre invenzioni, non ebbe bisognosi cercare un uso sociale che le permettesse di crescere: essa aveva una funzione sociale già stabilita, quella di perfezionare e allargare il ruolo già svolto dalla radio. Il gradimento popolare della televisione è dovuto al fatto che essa offre una percezione quasi completa. La televisione non affatica, permette di seguire i programmi senza sforzo e senza particolare concentrazione, dando una sensazione di verità e di completezza.
Nel corso degli anni Trenta vari paesi effettuarono esperimenti di televisione che in Germania, Inghilterra, Stati Uniti portarono all’inizio ufficiale delle trasmissioni tra il 1936 e il 1939. La guerra però bloccò tutto. Soltanto nel dopoguerra si verificarono le condizioni sociali di sfondo che potevano rendere plausibile la televisione. Tra l’altro, solo nel dopoguerra il nome “revisione” prevalse nell’uso generale rispetto a “radiovisione”.
Negli Stati Uniti il decollo della tv fu rapido tra il 1948 e il 1952. In Europa la televisione giunge negli anni ’50, insieme allo motorizzazione privata. In Italia il servizio televisivo inizia il 3 Gennaio 1954 ed è svolto dalla RAI in regimi di monopolio e sotto controllo governativo. La grande espansione della tv in Italia avviene tra il 1956 ed i primi anno ’70; dal 1961 ci sarà un secondo canale, dal 1979 un terzo.

 

2. TV all’americana

Il modello televisivo americano è fondato sulla competizione tra più catene televisive indipendenti (Network), finanziate dagli investitori pubblicitari e gratuite per lo spettatore.
L’obiettivo di un network è quello di realizzare il massimo di ascolto e di farlo diventare costante e fedele. Dal 1950 la società di ricerche di mercato Nielsen diffuse negli USA indici di ascolto delle tv che concorrevano a formare le tariffe pubblicitarie e, più in generale affermavano l’attendibilità della televisione.
Per conseguire questi obiettivi i programmi della tv americana sono basati sull’intrattenimento, su giochi e quiz su varietà, sulla fiction. I network non hanno dunque preoccupazioni pedagogiche.
La centralità dell’intrattenimento, tuttavia, lascia un ampio spazio ai notiziari, che sono svolti con l’indipendenza di giudizio e l’alto livello propri della stampa americana, e all’approfondimento delle notizie ad opera di un “anchorman”, un giornalista dalla forte personalità, connotato anche politicamente, che conduce uno spazio fisso. All’informazione si aggiunge il periodico inserto di eventi spettacolari, sportivi, o anche politici, in diretta. La televisione americana raggiunge e talvolta supera la qualità dei servizi pubblici europei, che pagano il prezzo di un più stretto legame con la politica.

3. TV all’europea

Anche le televisione europee s’ispirarono per i loro programmi all’esperienza radiofonica e ne proseguirono le caratteristiche di monopolio e di sevizio pubblico. Era un’offerta televisiva limitata e senza concorrenza, in bianco e nero, e su un solo canale, disponibile in un ristretto numero di ore. Solo negli anni ’60 arriverà in Italia il secondo canale RAI che obbedirà a regole di complementarità rispetto al primo,e negli anni ’70 il colore.
Questa televisione aveva un palinsesto settimanale e non giornaliero. Nel palinsesto. Ogni serata era dedicata ad un diverso genere: si pensava dunque ad una televisione di appuntamenti attesi con ansia, che veniva accesa quando si era interessati ad un determinato programma, non alla fruizione continua del televisore acceso come in USA. L’indice di ascolto non interessava i dirigenti delle tv europee.
La televisione europea trasmetteva in diretta grandi eventi, produceva in studio “rubriche”. In Italia lentamente si fanno strada i “rotocalchi”, dedicati all’approfondimento delle notizie.
L’intrattenimento era rappresentato sa misurati spettacoli di varietà, con cadenza settimanale, realizzati in grandi studi con la presenza del pubblico, e da quiz e giochi che erano il genere più “americano”: spesso prodotti acquistando il “format” negli USA. Inoltre comparvero da subito prodotti di fiction americani. Il film in Tv fu un genere scarso, per l’intenzione di non fare concorrenza al cinema nelle sale, anche quando la RAI diventò un produttore cinematografico di qualità. Infine la pubblicità: esigua in Italia, considerata risorsa accessoria e rigorosamente messa in parentesi.

4. Radio libera

La televisione tolse rapidamente alla radio il ruolo di medium mainstream,  conquistando un grande successo, prima ancora di diffondersi nelle case. La radio seppe tuttavia trovare un nuovo ruolo, ridefinire i suoi linguaggi e le sue modalità di rapporto con il pubblico. In particolare negli Stati Uniti degli anni Cinquanta la si inserì stabilmente nei consumi di una precisa fascia di pubblico, i giovani, che proprio negli stessi anni cominciavano ad affermare una propria individualità anche con tratti di una forte ribellione nei confronti degli adulti, e ad esercitare proprie scelte di consumo.
Questa ribellione assunse i tratti della nuova musica rock e la radio divenne la sua naturale alleata. Lo stesso nome “rock’n’roll”  fu probabilmente coniato da Alan Freed, conduttore dell’emittente Wins di New York e principale esponente di un nuovo tipo di radio, quasi esclusivamente musicale, fondata sulla ripetizione ciclica di dischi di musica leggera, presentati da un disc jockey.
Dal 1953 si diffonde in America la radio in modulazione di frequenza (FM): più semplice da trasmettere e da ricevere, permette di avere un audio stereofonico. Dal 1957 l’industria giapponese diffonde in Occidente la radio FM a transistor, svincolata da una presa elettrica e quindi dall’obbligo di rimanere a casa. Questo enorme vantaggio del suono sull’immagine aiuta la radio a trovare una nuova strada e un nuovo ruolo. Tascabili ed economiche accompagnano la vita dei giovani fuori dai riti e dai luoghi della famiglia e si insediano nel cruscotto delle automobili. Nel 1979, un’altra tappa fondamentale di questo percorso sarà il walkman. La radio diventa così il primo personal medium e, contemporaneamente , il primo mezzo mobile.
Alla radio si sviluppano presto forme di interattività differita attraverso il telefono. Dalla dedica alla confessione, al dibattito vero e proprio, la radio porta in pubblico elementi di vita personale narrati “ad armi pari”, essendo tutti i componenti del flusso comunicativo dotati esclusivamente delle voce.
In Europa le emittenti radiofoniche del servizio pubblico faticavano a cogliere, per la loro funzione pedagogica, le novità della programmazione musicale americana perché consideravano la musica leggera un genere minore. Per questo la musica americana giunse in Europa attraverso Radio Luxemburg; nacquero però anche radio pirata come Radio Veronica e Radio Caroline. Sistemate su vecchie navi, trasmettevano dalle acque internazionali al largo delle coste inglesi, francesi, olandesi… Il successo di queste emittenti, in cui il ruolo dei dj come collane tra la musica e le parole era decisivo, fu così ampio che sfondò le resistenze inglesi alla musica rock.
La BBC ingaggiò i dj più seguiti di queste radio e trasformò il suo primo canale in una radio musicale e parlata per i giovani. BBC One divenne il mezzo principale di diffusione del rock americano.
La RAI cedette qualche ora di programmazione alla musica giovanile, ma non un flusso continuo. Nell’Italia settentrionale si riceveva però Radio Montecarlo, che trasmetteva in italiano dal 1966 e rappresentò la versione melodica della radio pirata. Dunque una radio straniera, tacitamente riconosciuta dalla RAI, aprì la strada in Italia alla radiofonia privata, pur senza diffondere la cultura del rock, che arrivò invece nella seconda metà degli anni Settanta.

5. La rottura del monopolio pubblico e l’arrivo dell’emittenza privata

Negli anni Settanta i monopoli televisivi pubblici furono messi in discussione in tutta Europa. Con l’elettronica i costi di tutte le fasi dell’attività televisiva si riducevano sensibilmente, telecamere e videoregistratori di ridotte dimensioni e prezzo modesto erano oramai largamente disponibili; l’economia era molto cresciuta ed era possibile pensare di realizzare grandi profitti aprendo alla pubblicità spazi in televisione che il monopolio attribuiva con il contagocce, ma che emittenti private non avrebbero certo lesinato. 
Tutti i paesi d’Europa affrontarono la spinta ad aprire e privatizzare almeno in arte la radiotelevisione, anche ai livelli locale e sopranazionale.
In Italia, dopo molti anni di discussione, una legge del 1975 ribadì il monopolio e modificò largamente al RAI. Il controllo sull’azienda passava dal Governo al Parlamento. La legge introduceva un terzo telegiornale e una terza rete televisiva, dedicata alla cultura e al decentramento regionale. Testate e reti, ciascuna garantita da un partito di riferimento, erano largamente autonome e concorrenziali tra loro.
L’anno successivo, tuttavia, una sentenza della Corte costituzionale ammetteva l’emittenza privata, radiofonica e televisiva, purchè in ambito locale; negando di fatto il monopolio radiotelevisivo. Cominciarono a sorgere come funghi radio e TV private.

6. Neotelevisione

Emittenti televisive private nacquero in tutte le città e le regioni e all’inizio furono un fenomeno di costume.  Presto però cominciarono a rafforzarsi e ad allargare l’area di ricezione potenziando i loro impianti. Intanto la RAI ampliava e rinnovava la propria offerta sotto l’impulso della nuova legge, mentre dal 1977 era stato introdotto il colore, con molto ritardo rispetto al resto d’Europa.
Il monopolio sostanzialmente finì quando, all’inizio degli anni Ottanta, apparvero circuiti nazionali efficienti di televisioni private commerciali. Nel 1984 la Fininvest raggiunse lo stesso numero di reti nazionali della RAI e le superò per fatturato pubblicitario; la televisione italiana cominciò ad essere una partita a due RAI- FIninvest, quello che è stato definito un “duopolio”.
L’effetto combinato di queste novità modificò profondamente i linguaggi della televisione italiana. I modi espressivi e la forma culturale della TV cambiarono radicalmente, e per loro Umberto Eco coniò un nuovo termine “neotelevisone”. Tutta la TV precedente, quella del monopolio, è diventata così paleotelevisione. La televisione che vediamo oggi è al 90% neotelevisione.
Nella neotelevisione il rapporto fra intrattenimento e altre forme di programmazione, come l’informazione e la cultura, si sposta verso l’intrattenimento molto più di quanto fosse possibile per una televisione pubblica in regime di monopolio. L’intrattenimento tende ad inglobare gli altri generi, diventando il vero tessuto connettivo della programmazione.
La concorrenza in cui vive la neotelevisone non è soltanto economica, ma culturale e sociale. Per questo essa tende ad assumere un formato “generalista”, cioè con programmi, argomenti e contenuti rivolti a tutte le età e a tutte le categorie sociali, che si presumono graditi alla grande maggioranza, alla generalità degli spettatori. Dal 1986 anche l’Italia ha una misurazione quantitativa degli indici di ascolto grazie a una società super partes, l’AUDITEL: adesso non sono più i dirigenti del monopolio a decidere cosa gli spettatori devono vedere, e in quali giorni ed orari, ma loro stessi, con un colpo di telecomando: lo strumento che proprio negli stessi anni si diffonde e che permette di “navigare”, comodamente seduti in poltrona. Si entra così in un regime di molteplice e varia offerta televisiva e di maggior potere del pubblico, con cui le emittenti devono scendere a patti, (patto comunicativo) visto che molti agguerriti programmi si contendono lo stesso pubblico. Gli italiani vedono la TV molto più di prima e le ore di trasmissione aumentano in modo esponenziale, ma si tratta spesso di una visione casuale, distratta, disincantata, ripartita tra più canali frequentemente interrotti dalla pubblicità. Ciascuna rete cerca di farsi scegliere e far permanere lo spettatore sul proprio programma, possibilmente anche durante gli spot pubblicitari, tenendo conto dei bassi livelli di attenzione e della pratica dello zapping. La trasmissione viene così suddivisa in brevi frammenti narrativi, ciascuno dotato di un senso proprio, capaci di essere immediatamente compresi dai telespettatori, di invogliarli a rimanere, di non avere cali di tensione e di tono. Ciò permette al pubblico di unirsi al programma anche se è già iniziato da tempo. Le cesure tra una trasmissione e l’altra, o tra il programma e la pubblicità, sono pericolose perché possono invogliare lo spettatore a cambiare canale o a spegnere al tv.
Questa modalità di offerta televisiva è stata chiamata “flusso televisivo” da Williams, uno studioso inglese che durante un soggiorno in California nel 1972, aveva visto con occhi europei la TV commerciale americana. Il flusso televisivo invita non a stabilire particolari nessi tra la realtà e la sua rappresentazione, ma semplicemente a scegliere, fra i molti spettacoli offerti, i frammenti che più ci interessano.

7. Broadcasting e narrowcasting. La TV a pagamento

Da qualche anno la neotelevisione è stata affiancata dal “narrowcasting”: una forma di televisione non generalista, ma tematica, che è pagata dagli spettatori in abbonamento. (pay TV). Successivamente è arrivata anche la Pay per view, in cui l’utente paga solo gli spettacoli che sceglie di vedere. Sia l’una che l’altra non hanno bisogno di raggiungere grandi masse di spettatori ma solo i loro abbonati: per questo si parla di semina stretta.
In Italia la TV a pagamento è arrivata in ritardo rispetto agli altri paesi europei e agli USA, perché il duopolio RAI-Fininvest concentrava su di sé tutte le risorse ed era in grado di sbarrare la strada, anche per le sue aderenze politiche, ai nuovi arrivi e alle tecnologie che li favoriscono. La televisione a pagamento, infatti, è particolarmente adatta ad essere irradiata via cavo e via satellite.
Il cavo si afferma in America negli anni Sessanta; in ogni città “cable-operatrs” (gestori di tv via cavo) offrono, in abbonamento la ricezione di canali specializzati oltre alla ritrasmissione dei network televisivi già ricevibili via etere. Il pacchetto di canali ha un affollamento pubblicitario assai ridotto rispetto ai network e permette di seguire molti interessi specializzati: vi sono canali per il cinema, lo sport, ect… vengono definiti canali tematici.
In Europa, dagli anni Settanta i paesi più previdenti hanno differenziato i compiti e le funzioni tra servizio pubblico e la nascente televisione privata, destinando  prevalentemente al servizio pubblico la trasmissione via etere e indirizzando al cavo e al satellite le televisioni commerciali.
Tentativi di televisione a pagamento compaiono in Italia negli anni Novanta ma il vero lancio della TV a pagamento si ha solo nel 1997, quando diventa operativo il primo satellite digitale che copre tutti l’Italia (Hot Bird II); sempre nel 1997 la legge 249 liberalizza di fatto i servizi di telecomunicazione, ivi compresa la TV via cavo e via satellite.
La televisione digitale permette di inviare immagini di grande qualità, ma soprattutto di comprimere fino ad otto programmi video digitali su un canale. Una legge 2001, stabilisce che nel 2006 tutte le trasmissioni televisive dovranno essere irradiate esclusivamente con tecnica digitale.
Oggi ci sono più di 2,5 milioni di antenne satellitari, mentre la ricezione via cavo è limitata ad alcune città dove il comune o società private hanno posato i cavi a larga banda.
Circa una famiglia su dieci è abbonata a Telepiù o Strema, le due “piattaforme digitali. La trasmissione è codificata o “criptata”, ad “accesso condizionato”, cioè visibile solo attraverso un apparecchio decodificatore che richiede l’inserimento di una smart card che contiene il codice.
Canali che nella televisione  via etere morirebbero in poche settimane perché troppo specializzati, possono trovare posto nel bouquet di una tv digitale, che permette di dare spazio anche a esigenze minoritarie nella popolazione.
La televisione  tematica ha però molti difetti. Aderisce ai nostri gusti ma non offre quell’effetto piazza che dà la TV generalista.

8. Radio e TV di fronte alla comunicazione mobile e a Internet

Nuove tecnologie e nuovi medi a si sono affacciati nelle case. Già l’uso del videoregistratore domestico a cassette ha ampliato la possibilità di scelta del pubblico. I videogiochi collegati al televisore hanno permesso di esplorare le pratiche dell’interattività e rappresentano la più diffusa esperienza di realtà virtuale.
Il pc non è stato mai soltanto una macchina da ufficio; con sicura progressione è entrato nelle case offrendo non solo la possibilità di scrittura e di lavoro, ma di intrattenimento e di gioco. Con Internet il pc, è entrato nella rete del www, in cui la tradizionale distinzione tra media pieni e media vuoti perde gran parte del suo senso.
Internet è insieme comunicazione punto a punto, comunicazione di piccoli gruppo, una forma particolare di comunicazione di massa. La diffusione delle web cam, telecamere semplificate collegate al computer e visibili su Internet, permette di ampliare all’infinito la possibilità di mostrare e di osservare, portandoci molto lontano dalla tradizionale esperienza televisiva.
Il futuro prossimo dei media è caratterizzato dalla convergenza multimediale, ossia un processo di avvicinamento fra tecnologie e media. I tentativi di creare una televisione che fosse contemporaneamente un computer con una tastiera per ora sono falliti, soprattutto per i diversi modi di fruizione. Pc visione attenta, desk viewing, tv couch viewing, visione dal divano. In futuro però le cose potrebbero cambiare. Una parte della casa sarà forse dedicata all’intrattenimento mentre la tv rimarrebbe una delle possibilità per la gestione del tempo rilassato.
Intanto radio e televisione fanno i conti con Internet. La trasmissione radio via Internet,  rende la radio ascoltabile ovunque con ridotti investimenti materiali, superando tutte le frontiere, gli impacci burocratici, i controlli. Mentre l’introduzione della e-mail nei rapporti con gli ascoltatori sta cambiando il linguaggio dei dj e il loro contatto con il pubblico, tecniche come la webcam collocata nello studio della radio ed accessibile dal suo sito internet forzano le caratteristiche della radio, facendola assomigliare alla TV.
La televisione tende sempre più a realizzare trasmissioni generaliste che abbiano anche un sito web e trasmissioni pay sui quali si possa vedere più di quanto va in onda, tendenzialmente per tutte le 24 ore. Il Grande Fratello è un esempio di questo plurimo sfruttamento del marchio, in cui la cultura della webcam diventa la forma culturale prevalente del canale a pagamento , e non soltanto del sito web; non garantisce perciò uno spettacolo, ma offre la possibilità di vedere se qualcosa accade. Il canale in chiaro offre invece una selezione già operata dall’emittente, presentata in un formato comunicativo più tradizionale. (una conduttrice in studio, il pubblico, una gara e un sondaggio)

 

I linguaggi della radio

Il medium sonoro
1. Comunicare il suono

La radio è il primo strumento di comunicazione che non ha bisogno di alcun tipo di supporto né di connessione materiale. La sua natura è quella di una comunicazione sonora totalmente immateriale.
Se diminuisco le dimensioni di una fonte di immagini la qualità della percezione diminuisce; invece una fonte sonora può essere miniaturizzata a piacimento, senza che la percezione peggiori o che sia richiesta una maggiore attenzione. Infatti la visione è parziale e direzionale, l’orecchio invece captai suoni da qualsiasi direzione provengano,anche quando la fonte del suono è fuori la nostra portata. Si pensa che i media stiano nel mezzo tra emittente e ricevente, ma i media sonori li possiamo portare addosso, attaccati al nostro corpo.
Del resto, se qualcosa non ci piace possiamo distogliere lo sguardo o chiudere gli occhi, ma è più difficile distogliersi dai suoni perché la natura non ci ha dato la possibilità di chiudere gli orecchi. Il suono ha la proprietà di estendere la sua azione anche al di là di quello che si desidera. Questa caratteristica è stata definita “àcusma” e il suono che si sente senza vedere la fonte da cui proviene è stato definito “acusamatico”.L’acusma  può essere miniaturizzata fino a sparire ma si può ascoltare senza impegnare lo sguardo e dunque mentre si svolgono altre attività.
La radio è stata dunque recentemente investita da processi tipici della modernità, che ci fanno dimenticare che ha più di un secolo di vita : la miniaturizzazione, la mobilità, la flessibilità , una stretta vicinanza al singolo utilizzatore che ne fa un medium personale e non collettivo e familiare. Una tendenza molto simile a quella che ha interessato il telefono e che suggerisce, come per il telefono, il passaggio da un uso formale e ufficiale a quello informale e intimo. In questo senso si può definire la radio il primo dei nuovi media.

 

2. Oltre la “perfezione audiovisiva”

Un luogo comune di cui tutti siamo portatori è quello per cui, nella comunicazione riprodotta, la forma perfetta è quella audiovisiva (audio+video) perché è la più vicina a come avviene l’interazione diretta (faccia a faccia) fra le persone. Di fronte a questa “perfezione audiovisiva”, i mezzi che non dispongono di questo binomio appaiono come incompleti. E’ questo il senso di espressioni come cinema muto o sorella cieca. Se ci fermiamo a questo la radio ci appare un mezzo inferiore, oppure la fase primitiva di mezzi più complessi ( la tv) destinati a sostituirla.
La vitalità della radio è proprio nella sua aderenza alle speciali caratteristiche del suono e della voce. Essendoci oggi una grande offerta di contenuti audiovisivi e una elevata disponibilità di apparecchi televisivi, l’ascolto della radio non è frutto di una necessità ma di una precisa scelta.
Il fatto che il suono non partecipa a quell’effetto di costruzione della realtà che fa parte integrante dello statuto dell’immagine e che,negli audiovisivi, è convalidato e verificato dalla presenza del suono.
Il suono non ha il vincolo di dover rappresentare la realtà, ma di accompagnarla. La sensazione sonora è correlata alla sfera emotiva, evocativa, simbolica; ci richiede di immaginare ciò che solo suggerisce,ci fa pensare. Ad ogni parola o motivo musicale abbiamo mentalmente l’immagine che non vediamo; ciascuno di noi ricostruisce un’immagine diversa, proiettando i suoi sentimenti e i suoi ricordi.
Inoltre nella società attuale al radio è una delle poche forme in cui la parola non arriva in forma scritta o accoppiata all’immagine. Oggi siamo abituati a vedere la voce trascritta in un testo che la fissa, impedisce variazioni a ambiguità e per questo tutte le cose ritenute importanti (sentenze, contratti) devono avere forma scritta.
Mentre lo stile prevalente di fruizione nell’era dell’abbondanza televisiva è lo zapping, per l’ascoltatore della radio il telecomando non esiste e ciò corrisponde non soltanto alla vicinanza tra l’apparecchio e la nostra persona, ma alla propensione a restare sintonizzati sulla nostra emittente abituale per lunghe campiture di tempo.
La comunicazione radiofonica per questo mantiene una forte impronta di comunicazione personale e non massificata, e può dare spazio anche a formati assai specializzati, che nella televisione in chiaro sarebbe subito eliminati e dovrebbero caso mai trovare posto nella televisione satellitare, a cui infatti guardano oggi con attenzione le emittenti radiofoniche.

3. L’ascolto radiofonico come pratica sociale

Sentire la radio è qualcosa di molto diverso da altre esperienze di fruizione mediale, come la lettura di un libro o di un giornale. Queste esperienze ci danno l’impressione di una indipendenza dal tempo, che possiamo gestire secondo i nostri ritmi, la radio invece è sempre adesso, nel momento in cui la si ascolta, non si può rileggere : quello che non abbiamo sentito bene o che ci è sfuggito non è recuperabile. Si tratta di un dato di cui chi parla alla radio deve sempre tenere conto , pronunciando con chiarezza le informazioni. La radio appare sempre come un segnale dell’attualità, una testimonianza della società. Per questo l’ascolto, anche nella forma più privata, è sempre una esperienza sociale. Questa esperienza risponde in realtà a molteplici esigenze sociali, che possiamo ricondurre a tre ordini di funzioni: connettive, partecipative, identitarie.  Le funzioni connettive sono largamente presenti nell’utilizzo della radio. Quando svolgiamo un’attività, nel lavoro come nel tempo libero, spesso proviamo il desiderio di essere accompagnati da suoni e voci che ci danno l’idea di non essere isolati e lasciati a noi stessi, ma di essere connessi alle altre persone.
In un ambiente sociale segnato sempre più dalle differenze, viene spesso richiesto alla radio di esercitare una funzione identitaria. Le persone conformano i loro stili di vita sulla base di nicchie e tribù. La radio dà la sensazione di partecipare a qualcosa anche quando stiamo per conto nostro, difesi dalla nostra privacy.
Nella funzione identitaria della radio giocano un ruolo particolare le nicchie musicali molto caratterizzate, i dialetti, le appartenenze etniche, culturali, politiche, religiose. Non è necessario che una determinata emittente sia l’organo ufficiale di quella comunità; basta che sia percepita come collegata in qualche modo alla sua cultura. McLuhan ha definito la radio tamburo tribale.
La radio ci fornisce inoltre buona parte delle informazioni che ci servono per affrontare la vita sociale e svolge in questo senso funzioni partecipative. Si tratta prima di tutto di quel complesso di informazioni di cronaca e istituzionali, aggiornamenti... che Roland Barthes ha chiamato infrasperi.
Questo complesso di informazioni i richiama la presenza costante di una sfera pubblica che pur frequentiamo saltuariamente. E’ assimilabile a questa funzione partecipativa l’uso, molto diffuso,di tenere una radio parlata sempre accesa in molte postazioni di lavoro individuali comunicando a chi entra una appartenenza attiva ai ritmi sociali.

CAPITOLO DUE. Fare la radio
1. Andare in onda

Fare la radio comprende sostanzialmente 4 concetti:

  1.  predisporre e assemblare dei contenuti da trasmettere, a seconda del formato e della tipologia dell’emittente; è              quello che chiamiamo broadcasting;
  2. mettere in onda questi contenuti, generalmente trasmettendoli via etere; ma anche via Internet, via cavo, via satellite. Nell’affollato mondo radiofonico, tutte le principali emittenti trasmettono 24 ore su 24.
  3. Ricercare la risposta del pubblico predisponendo forme di interazione via telefono, fax, posta elettronica, SMS,
  4. Promuovere la radio attraverso altri mezzi. Non essendo un mezzo mainstream, ma dovendosi sempre fare spazio fra altri media più potenti, la radio ha il massimo interessa a passare sugli altri media, a realizzare contenuti multipiattaforma, che possono cioè circolare su vari mezzi, e a intrecciare il broadcasting con eventi dal vivo attraverso quella formidabile arma che è la radiocronaca, secondo la formula on air, on site, on line.

Nei primi anni della radiofonia privata lo spettro elettromagnetico era come il Far West: si occupava una frequenza libera e la si teneva. Adesso non c’è più una frequenza disponibile e tutte quelle impegnate sono state assegnate agli occupanti; allora l’unico modo è “comprarne” una da una radio che la mette in vendita. Formalmente la frequenza è un bene pubblico inalienabile, che è oggetto di concessione alla singola emittente, e quindi non potrebbe essere venduta. Basta però che una società cede a un ‘altra il ramo d’azienda che ha la concessione radiofonica, ed è tutto a posto. Il problema semmai è l’elevato costo. Le radio nazionali per affermarsi in tutte le città italiane hanno dovuto fare un sostanzioso shopping di frequenze ed ora i prezzi sono elevati: trasmettere su una frequenza a Roma costa almeno 350 mila euro, a Milano 500 mila.
Se disponete di una frequenza, la messa in onda avviene con un impianto trasmettitore, generalmente collocato sul tetto dell’emittente. E se l’edificio è molto basso, attorniato da enormi grattacieli? Si trasporterà il segnale in bassa frequenza, via cavo telefonico, fino ad un luogo adatto da cui sarà trasmesso in alta frequenza.
La bassa frequenza comprende tutto ciò che riguarda la registrazione e il trasporto del suono all’interno degli studi e dei locali tecnici di una emittente, l’alta frequenza invece riguarda il segnale trasmesso nell’etere.
Il segnale irradiato da un trasmettitore può avere maggiore o minore potenza (misurata in watt). La necessità di una potenza elevata è figlia della concorrenza.
Su due onde con la stessa frequenza , provenienti da diverse stazioni , si toccano, si realizza una interferenza, il risultato pratico è che non si sente bene nessuna delle due, Per questo quando il segnale si affievolisce è necessario un impianto ripetitore, che capta il segnale e lo ritrasmette secondo un’altra frequenza molto diversa dalla precedente. Per questo motivo i piani delle frequenze sono un po’  labili, di qui la difficoltà, spostandosi in automobile, di seguire lo stesso programma. A questo problema sono stata tentare varie soluzioni: l’RDS (radio data system) su radio predisposte permette di memorizzare le varie frequenze delle radio prescelte, in modo da spostarsi in ogni momento sulla frequenza migliore fra quelle assegnate a una determinata stazione. La RAI su molti dei tratti servita dalla società autostrade ha realizzato un servizio per gli automobilisti in isofrequenza sulla frequenza fissa di 103.3, con impianti molto complessi: una catena di micro-trasmettitori e di cavi fessurati nelle gallerie.
Naturalmente quando arriverà la radio digitale tutte queste limitazioni verranno meno.

 

2. Musiche registrate e parole in diretta

Se ci siamo procurati una frequenza su cui trasmettere, possiamo affrontare la produzione dei contenuti, cioè i programmi da trasmettere. I contenuti possono essere prodotti appositamente per la radio o provenire da eventi esterni; possono essere predisposti prima, registrati e poi messi in onda, oppure essere predisposti nello stesso momento in cui sono mandati in onda: è la trasmissione in diretta, con tutto il suo fascino e i suoi rischi. In radio la diretta è molta anche per via del suo costo contenuto, non ci sono scenografie, non ci sono costumi, ect…
La parte di programmazione radiofonica che da sempre è registrata è la musica. La radio infatti è stata preceduta dalle tecniche fonografiche di registrazione del suono su cilindri prima e su dischi poi, e si è accompagnata alla crescita della registrazione su nastro. All’inizio della radiofonia privata con una semplice collezione di 45 giri e LP, sorvolando sui diritti, si poteva mettere su un’emittente.
Oggi naturalmente la situazione è più complessa: anche le emittenti private pagano i diritti d’autore.
In generale è possibile enunciare questa regola: IN RADIOFONIA TUTTA LA MUSICA TENDE AD ESSERE REGISTRATA E TUTTO IL PARLATO TENDE AD ESSERE IN DIRETTA.

3. Nello studio radiofonico

Il cuore della produzione radiofonica è dunque lo studio. Non dobbiamo pensare a grandi superfici : lo studio radiofonico tradizionalmente è una stanza abbastanza minuscola, accuratamente insonorizzata con materiali fonoassorbenti e con una porta molto spessa e silenziosa, in cui è collocato un tavolino ricoperto da un panno di feltro, su cui penzolano alcuni microfoni, in vista di un grande orologio. Un doppio vetro divide lo studio dalla regia, in cui un regista e un tecnico audio gestiscono le uscite dei microfoni collocati nello studio e le varie fonti di suoni e rumori che provengono da lettori di CD, piatti giradischi, registratori a bobina e a nastro attraverso uno strumento chiamato “MIXER”. Un tempo i rumori erano procurati dal rumorista. I compiti del regista sono rilevati , ma non così incisivi come avviene nel cinema o nel teatro.
Nella stanza della regia trovano posto anche altri collaboratori al programma., ad esempio coloro che filtrano le telefonate del pubblico. Nella loro dotazione ci sono i telefoni “ibridi” che permettono di tenere in attesa l’ospite. Il tecnico del suono provvede intanto all’istallazione e alla manutenzione dei microfoni che sono necessari.
Chi parla si accomoda nello studio, sistema davanti a sé con attenzione i fogli di carta con la scaletta del programma, il bicchiere con l’acqua minerale, le sigarette, poi indossa le cuffie e fa una prova voce. Nelle cuffie gli giunge il parlato della trasmissione ed eventualmente il consiglio del regista quando non siamo in onda. Una luce rossa accesa segnale che una trasmissione è in corso per evitare ingressi indesiderati.
In uno studio come questo al grande difficoltà era costituita dai rapporti fra regia e speaker, che avvenivano a gesti, o con cartelli appoggiati al vetro, o con un monitor collegato ad una telecamera posta sopra ad una lavagna su cui si scriveva. Poi è arrivato il pc, oggi ve n’è uno in regia, e almeno uno in studio.
Se questa era la classica tipologia degli studi RAI, la radiofonia privata ai suoi esordi prese a prestito un’altra tipologia di attrezzature: il bancone della discoteca. Dietro il bancone il dj parlava al microfono, metteva i dischi a suo gradimento, li mixava.
Oggi tutte le radio importanti hanno studi che sono la versione tecnologicamente aggiornata del tradizionale studio con il vetro in mezzo, spesso con la presenza di web cam che poi ritroviamo sul sito della radio.
Nagra= oggetto diventato simbolo del giornalismo d’inchiesta radiofonico.  Registratore a bobine da portare a tracolla molto affidabile. Verrà sostituito da un modello Sony più leggero.

Interviste, dichiarazioni e rumori devono essere accuratamente montati e mixati, cioè sovrapposti gli uni agli altri. Oggi ciascuno deve saper montare i propri pezzi.

CAPITOLO TRE. I generi radiofonici
1.Dal palinsesto al formato

Quando la radio ha dovuto abbandonare il salotto domestico, perché incalzata dalla televisione, si è rivolta decisamente al pubblico giovanile e comunque alla fidelizzazione di nicchie di pubblico precise. Lo strumento tecnico di gestione dei contenuti radiofonici nella settimana era stato il palinsesto, che la televisione adottò subito, proprio mentre la radio si decideva ad abbandonarlo. Per interessare un pubblico di nicchia il palinsesto non era la formula più felice, perché non teneva conto a sufficienza delle differenze dell’interno del pubblico. Per questo negli Stati Uniti degli anni Cinquanta il cambiamento di ruolo della radio si accompagnò a una decisa scelta in direzione della musica giovanile e conseguentemente all’adozione di un nuovo schema delle trasmissioni, detto “formato”.
L’introduzione del rock’n’roll alla radio non rappresentò infatti soltanto la sostituzione di un genere musicale con un altro, la musica si interseca con il parlato, il ritmo del rock invade anche la parola, la recitazione di un annunciatore è sostituita dal parlato caratterizzato, denso di inflessioni e di ammiccamenti al suo pubblico, di un personaggio che viene dalle discoteche, il disk jockey.
Il formato di una radio prende in considerazione una sola giornata, e si ripete ogni giorno nello stesso modo con una sola distinzione fra i giorni feriali e il week end. Diversamente dal palinsesto, il formato è studiato sulla nicchia che si vuole perseguire e contiene in sé quella determinata miscela tra generi e stili musicali. Tutti gli ingredienti che formano la programmazione di una stazione devono stare in un rapporto reciproco costante, che viene subito riconosciuto dall’ascoltatore abituale mentre cerca la sintonia in un’affollata offerta di emittenti.
Il concetto fondamentale della radio è la ROTATION, non è più il pubblico a doversi adeguare agli appuntamenti fissi che il palinsesto collocava con cura nella settimana; l’emittente gli viene incontro ripetendo la programmazione in cicli periodici. HEAVY ROTATION= ripetizione più accelerata e più frequente.
L’intervallo tra due successivi inizi della programmazione , generalmente della durata di un’ora, è chiamato CLOCK, come il quadrato di un orologio. Ogni clock contiene al suo interno i suoi isoritmi, tutti gli elementi cadenzati che contribuiscono a identificarla e distinguerla dalle altre: sigle di identificazione, ripetizione del nome della stazione e del conduttore, annunci. Il clock è un po’ come il dna dell’emittente, quello che contiene la sua particolare formula e che riesce  a dare un ordine e un senso al lavoro creativo di chi compone la playlist ed individua un particolare formato comunicativo: quel particolare ritmo e tono che non capiscono i critici improvvisati che dicono che tutte le radio sono uguali. Il clock distingue una radio professionale dalle improvvisazioni dilettantesche, rappresenta il passaggio da una fase artigianale a un’industria culturale matura.
Il primo dei nuovi formati radiofonici è molto semplice, e proprio per questo si è diffuso con una certa rapidità. Si chiama “TOP 40” e consiste nella ripetizione, partendo dalla posizione più bassa in classifica, di una hit parade di canzoni condotta e commentata dal dj. In questa prima fase le emittenti si distinguono fra loro prevalentemente per il genere musicale. La struttura circolare del clock favorisce intarsi di frammenti parlati, specie per notiziari aggiornamenti, previsioni del tempo… Nascono così formati talk&music, news&talk ect…
Oggi i principali formati della radio americana sono più di una decina. I più diffusi sono:

  1. News/talk/information, parlato (con il 15,8% dell’ascolto)
  2. AC, adult contemporary, musicale e parlato (15,3%)
  3. CHR, contemporary hit radio, musicale, l’evoluzione del top 40

Seguono poi il Rock (dagli anni 70 a oggi), il Country, il formato Oldies fondato sulla ripetizione di vecchi successi, Urban, le radio Hispanic e Black. Con percentuali minori seguono New Age,Jazz, stazioni religiose.
Questa classifica afferma con l’evidenza delle cifre che la radio di formato, nata intorno alla musica e in opposizione ad una radio di palinsesti prevalentemente parlata, ha progressivamente scoperto la parola e, adattando ad essa i ritmi sincopati della musica, ne ha fatto in America il genere più diffuso soprattutto nei formati specializzati come All News, talk, News/Talk. Nelle radio di aprola il ruolo del DJ non c’è più e al suo posto emergono conduttori (host) della forte personalità.
In Europa la radio di formato giunge 10 anni dopo, con Radio Luxembourg, Radio Montcarlo e le radio pirata. In Italia arriverà ancora più tardi, all’inizio degli anni 80, non solo per ragioni di legge, ma per la particolare situazione della musica leggera italiana dove pesano molto le tradizioni. Negli anni 80, RTL 102,5 sarà la prima radio privata nazionale a presentare un formato Contemporary Hit. Successivamente la radio di formato sarà la marca distintiva delle radio private nazionali rispetto alla radio pubblica, rimasta ancorata alla radio di palinsesto.
RADIO DI FLUSSO, diventa sinonimo di Radio di formato. In radiofonia il servizio pubblico ha solo un quarto dell’ascolto. Il grosso dell’ascolto restante di distribuisce in maniera equilibrata fra circa 15 soggetti.
Dal 1983 l’ascolto della radio, prima stagnante, ha ricominciato a crescere, particolarmente in occasione della Guerra nel Golfo nel 91, in cui la radio ancora una volta ha mostrato le sue potenzialità informative come è stato confermato dopo gli attacchi dell’11 settembre.
L’ascolto radiofonico, nella giornata, ha un andamento perfettamente complementare alla fruizione televisiva. Le prime ore del mattino sono le più pregiate.

2.Scegliere musica per la radio

La scelta della musica da mandare in onda (playlist) rispetta con grande fedeltà il formato adottato. Contrariamente a quanto si crede, i dj non hanno alcuna voce in capitolo nelle scelte musicali. Alcuni formati distinguono la nazionalità (solo musica italiana), altri prevedono una scelta netta di genere musicale(solo rock) mentre alcune radio si dedicano prevalentemente alle classifiche del momento. I formati più raffinati sono quelli che tengono conto di tutti questi fattori. Un’altra variabile importante è il ritmo; ai tradizionali parametri empirici lento7veloce, si sono aggiunte valutazioni più oggettive, assistite dal computer, che di ogni brano misurano l’”energy” (rapporto tra ritmo e oscillazioni del volume) e il BPM (numero di battute per minuto). Essa nasce come misura del battito cardiaco dell’uomo.
Una buona playlist è composta di segmenti in cui si alternano, come pasi di danza, brani dal ritmo diverso secondo cadenze costanze. Occorre inoltre tener conto dell’accordo musicale con cui inizia o termina ciascun brano , perché la sequenza risulti fluida e senza accostamenti sgradevoli. Infine influiscono sulla composizione della playlist anche l’orario della giornata, la differenza feriale, week end, la stagione e il periodo dell’anno, e particolari atmosfere ed eventi, come il Natale ma anche fatti esterni particolarmente importanti come gli attentati dell’’11 settembre.
I brani nuovi hanno uno SLOT, una finestra temporale di circa 2 mesi in cui vengono programmati come novità emergenti, se non hanno successo escono rapidamente di scena.
Le regole che abbiamo qui indicato variano da un’emittente all’altra, e rappresentano solo una piccola parte di un ampio complesso di indicazione di formato, di precedenze e intervalli da rispettare, di procedure di modifica della rotation per l’inserimento di eventi, di raccordi tra parlato e musica, tra pubblicità e testi; esse vengono gelosamente tenute nascoste come un segreto aziendale, costituendo l’identità stessa dell’emittente. Da una ventina d’anni sono in circolazione software per generare playlist sulla base delle convenzioni proprie di quella emittente (scheduling cioè mettere in scaletta), che sono in grado anche di procedere automaticamente alla messa in onda da libraries automatizzate che contengono le musiche, i testi, gli spot pubblicitari e ogni altro contenuto, consentendo grandi risparmi di tempo e di personale. Il primo e più noto è il SELECTOR.

3. Radio e pubblico giovanile

L’ascolto giovanile della radio si inserisce in un rapporto intergenerazionale in cui la scuola, la famiglia ed anche la televisione perseguono un modello di socializzazione verticale e discendente, le radio hanno scelto invece una comunicazione orizzontale, dove lo scambio è in un gruppo di coetanei  o in una comunità che condivide determinate scelte musicali e conseguenti stili di vita. Esse puntano dunque a stabilire legami orizzontali, amicali, fondati sulla condivisione da parte di un gruppo di un nucleo emotivo che la musica rappresenta e descrive.
In particolare le radio nazionali italiane si sono specializzate in un’offerta prevalentemente rivolta a giovanissimi, giovani e giovani adulti. Il problema di questo tipo di programmazione è che i giovani crescono e tendono ad uscire dal target della radio. Una prima risposta è stata la creazione da parte delle principali radio di marchi bis con un formato musicale più oldie e uno spazio più ampio attribuito alla parola e all’informazione.
Nate come un fenomeno del Nord, le radio nazionali sono divenute un tratto della cultura nazionale. Ciò ha comportato una qualche presa di distanza dai ritmi della musica anglosassone e internazionale e l’affermazione di nicchie “etniche” (radio italia solo musica italiana) necessariamente più melodiche, spesso di stile mediterraneo (radio kiss kiss di Napoli9 e talvolta musicalmente conservatrici.
Si è operata insomma una mediazione tra i formati giovanilistici e metropolitani delle origini nordiste e una miscela più soft, in cui entrano formati classic e una contaminazione della musica con l’intrattenimento parlato.
La differenza tra radio di formato e radio di palinsesto, che ha segnato gli ultimi 25 anni di radiofonia italiana, è dunque in una fase di attenuazione. Ciò avviene in corrispondenza di una crescita della dimensione d’impresa delle radio nazionali e del loro crescente inserimento all’interno di gruppi editoriali nazionali.
La necessità di un rafforzamento redazionale e tecnologico mette in difficoltà le radio di dimensioni medie e piccole; una soluzione può essere la syndication: una catena di radio che per alcune ore al giorno mandano in onda programmi in collegamento nazionale o sovraregionale, eventualmente con inserimenti pubblicitari e sponsorizzazioni.

4. La radio di palinsesto

Un buon esempio di radio di palinsesto è costituito dalla RAI. La radio pubblica italiana dispone di 3 canali, tutti e 3 sia in AM che in FM, ciascuno dei quali dà spazio a vari generi radiofonici. Il primo canale ha una vacazione prevalentemente informativa. Esso propone una vasta scelta di giornali radio. Su questa rete vi sono anche numerose trasmissioni di servizio e approfondimenti delle notizie.
Il secondo canale è dedicato all’intrattenimento leggero, prevalentemente parlato secondo le tradizioni del servizio pubblico, e propone una serie di appuntamenti di intrattenimento . Vi sono ripetuti appuntamenti informativi e di servizio, con una propria sigla anche se la redazione è unificata e appuntamenti di confidenze e dialogo con gli ascoltatori.
Il terzo canale ha un’impostazione culturale e musicale, nel senso sella classica e sinfonica, del jazz, del folk. Anche qui vi sono ripetute edizioni di un giornale radio, sempre con una distinta sigla e un tono adattato all’identità di rete, e numero si appuntamenti dedicati alla cultura.
L’offerta RAI si completa con un canale specializzato nell’informazione parlamentare e un servizio di informazioni sul traffico e intrattenimento per gli automobilisti, non particolarmente brillante, che si chiama Isoradio ed è svolto in convenzione con la società Autostrade.
Lo sport è uno dei punti di forza della RAI, con una copertura molto ampia degli eventi, anche in sinergia con i colleghi della televisione, e una grande esperienza nelle radiocronache.
Molto importante per l’evoluzione della radio di palinsesto è stato l’arrivo del telefono, perché ha modificato radicalmente le rubriche dedicate ai vari temi e gruppo del pubblico che punteggiavano il palinsesto. Con il telefono le rubriche sono diventate una sorta di contenitore tematico in cui uno o più conduttori dialogano con gli ascoltatori a casa, intervistano qualche esperto al telefono, propongono brani musicali, presentano libri e film.

5. L’ibridazione come forma culturale della radio

I generi, sono definitivamente tramontati con l’arrivo del telefono e quindi la diversa interazione con gli ascoltatori, per le modalità di ascolto più casuali e frammentarie, per gli effetti della concorrenza tra numerose emittenti radiofoniche, pubbliche e private, e per la plurima offerta mediale in cui la radio ha dovuto destreggiarsi fra televisioni in chiaro e satellitari, Internet, CD, ect.
Il risultato è un’ibridazione tra generi (metageneri) che, nel momento in cui la radiofonia privata si accosta al parlato, riguarda sia il segmento pubblico che quello privato.

 

GENERI RADIOFONICI IERI E OGGI

IERI

OGGI

CULTURA

 

INTRATTENIMENTO CULTURALE

prosa: radiodramma commedia

fiction: radiotelenovela, soap opera,cinema alla radio

concerti di musica lirica, sinfonica, cameristica

eventi musicali in diretta, brani di musica classica nei contenitori culturali

rubriche culturali
dibattiti culturali
incontri con pers.cultura
recendioni

contenitori al telefono

 

 

INTRATTENIMENTO

INTRATTENIMENTO LEGGERO

Rubriche

Contenitori al telefono
Programmi di confidenza

Varietà
Giochi e quiz
Musica leggera

Light intratainement
Scenette con comici
Formati talk della radio di flusso
Eventi musicali e concerti in diretta

 

 

INFORMAZIONE

INFORMAZIONE

Giornali radio

Giornali radio
Radio flash
Giornali radio tematici
Breaking news

Dibattiti di attualià
Interviste
Inchieste e reportage

Contenitori di approfondimento con telefono “filo diretto”

Radiocronache

Radiocronache

Radiocronache sportive

Radiocronache sportive

Dibattiti politici

Radio parlamento

Rubriche religiose

Radio di preghiera

 

Come si vede, l’uso del telefono in rubriche mandate in onda in diretta, mentre vengono prodotte, ha sostituito buona parte dei contatti col mondo che la vecchia radio era riuscita a intavolare. La radiocronaca resiste come testimonianza diretta della partecipazionedell’istituzione radiofonica agli eventi, ma gran parte degli altri contatti sono mediati dal telefono.

 

6. Parlare alla radio

Parlare alla radio richiede molta attenzione. Il microfono è uno strumento molto sensibile che non registra e amplifica soltanto tutti i rumori dello studio, ma anche lo stato d’animo di chi parla. Occorre quindi prepararsi bene, essere  sicuri di ciò che si vuol dire e utilizzare una intonazione e una emotività coerenti con il tipo di messaggio. Se abbiamo qualcosa di importante da dire o qualche informazione da dare, diamola subito senza preliminari e introduzioni, scegliamo solo gli elementi fondamentali eliminando quelli meno significativi e non diamo nulla per scontato.

7. La radio digitale

La radio sta compiendo il suo passaggio al digitale. Il DAB (digital audio broadcasting) permette di mantenere costante  sul territorio la modulazione, e quindi di non dover cambiare frequenza, sfruttando meglio lo spettro elettromagnetico perché la compressione digitale permette di trasmettere fino a 6 canali su una sola frequenza. E’ possibile così trasmettere, oltre alla musica e al parlato, dati di vario tipo (immagini fisse, disegni, testi).
In molti paesi d’Europa, fra cui l’Italia, si prevede per il DAB di utilizzare le reti terrestri, con “piattaforme nazionali DAB”, su cui vengono collocati i vari broadcaster pubblici e privati. Il compito del DAB tuttavia è più difficile rispetto alla televisione perché richiede un apparecchio radio più ingombrante dell’attuale e ingenti finanziamenti per costruire le reti. E’ possibile che tutto ciò in futuro sia superato.

8. Radio Internet

La straordinaria diffusione di Internet mostra tutti i limiti di adattamento dei media unidirezionali, e principalmente della televisione, quando alla comunicazione broadcasting, unidirezionale e discendente, vengono contrapposti il principio e l’etica della interattività e della connessione. Mentre l’interazione della televisione con la rete è ancora cauta e difficile, la radio al contrario attraversa una nuova e straordinaria ibridazione.
Dal 1996 esistono software (il primo è stato RealAudio) che permettono di ascoltare un file audio in formato MP3 dal proprio computer senza la necessità di scaricare il file per intero prima di farlo eseguire. Questo processo chiamato streaming, permette di ricevere dati in un flusso continuo, praticamente in tempo reale. MP3 è uno standard di compressione di file audio messo a punto dal MPEG.
La radio è favorita dall’agilità dei file MP3, ma ancor più dalla propria sovrapposizione del proprio pubblico con quello della rete. Oggi oltre 2000 radio trasmettono solo in Internet e molte di più trasmettono via etere e ripetono il segnale via Internet. Una internet radio non richiede licenze, frequenze su cui trasmettere o autorizzazioni, evitando complicazioni burocratiche, costi e censure, e può essere ascoltata in diretta in tutto il mondo a costi bassissimi.
Intanto l’introduzione di e-mail e di sms nei rapporti con gli ascoltatori sta cambiando il linguaggio dei dj e il loro contatto con il pubblico; tecniche nuove come la web cam collocata nello studio della radio, facendola assomigliare a un reality show. Si tratta di contenuti multipiattaforma con eventi dal vivo, streaming sul web, archivi testuali sempre in rete, collegamenti continui e bidirezionali via e-mail, cellulare, sms.
Un’altra direzione che ha preso l’interazione fra radio e internet è la “music on demand” , cioè la diffusione di canali audio tematici digitali.
Infine la radio ha buone possibilità di implementare internet fornendole l’interfaccia audio. L’ambiente sonoro di internet è un tema di crescente importanza e in cui non mancano aspetti problematici, per la banalità di molte sue interfacce audio, per la durezza di certi stacchi sonori e dei rumori di accompagno di tante pagine in rete, per il silenzio imbarazzante che promana da molti siti internet.
La radio è il luogo del contatto tra il suono e la vita quotidiana di migliaia di persone e il suo modo di trattare la musica e la voce può diventare la sonorità della rete Internet.

 

I linguaggi della televisione

Capitolo Uno. Grammatica e sintassi delle immagini
1.In TV esiste solo quello che si vede

Se portate un gruppo di spettatori a visitare lo studio in cui viene realizzato il loro programma preferito, passata l'emozione di in­contrare i personaggi televisivi noterete un moto di delusione: il sa­lotto del talk show, che appariva così ampio in TV, è molto più an­gusto; i colori, così vivi sullo schermo, sono opachi; gli arredi e la scenografia sono logori. La sola percezione della realtà televisiva che ha lo spettatore è ciò che guarda sullo schermo e ascolta dagli altoparlanti del televi­sore. La realtà non «parla da sola», secondo uno dei più vieti luoghi comuni; ma soltanto se il programma televisivo è capace di comunicare una situazione in mo­do credibile per gli spettatori, selezionando le immagini e i suoni che meglio creano questo effetto. Mentre a teatro uno spettatore può rivolgere lo sguardo in ogni punto del palcoscenico (e anche altrove), e non necessariamente dove si sta svolgendo la scena, lo spettatore televisivo dipende totalmente dalle immagini che ven­dono scelte per lui e si aspetta che siano comprensibili per capire cosa sta succedendo. L'immagine televi­siva non ha solo un significato documentario, ma un intento narra­tivo e rappresentativo con una forte connotazione emotiva (patemica) e sentimentale.
Gli stimoli visivi e sonori devono raccontare una storia, e il re­gista deve selezionarli in base a questa loro capacità, modificando i dati esistenti quando non si prestano. L'illuminazione artificiale e il trucco servono a modificare in questa direzione i dati di partenza. Le immagini hanno una loro grammatica, cioè le regole per la correttezza di ogni singola immagine (shot). Non basta puntare la telecamera a caso verso il soggetto e lasciare che lo spettatore veda per conto suo, occorre che gli elementi di una scena siano disposti nell'inquadratura in un modo facilmente e piacevolmente leggibile. Gli elementi più importanti dell'immagine sono tre: la composizio­ne, l'inquadratura, l'angolazione.
La composizionedell'immagine televisiva deve tenere conto dei due principali handicap che ha, per cercare di nasconderli. In­tanto lo schermo è molto piccolo e la definizione molto più bas­sa dell'immagine cinematografica e delle fotografie che siamo abi­tuati a vedere sui rotocalchi. L'immagine quindi non deve essere statica, ma richiedere qualche movimento dell'occhio. Nell'imma­gine migliore gli oggetti non sono collocati al centro dell'immagi­ne, ma agli incroci di un reticolo ideale che divide lo schermo in tre parti, in altezza e in larghezza: una versione abbreviata del principio della «sezione aurea» (5/8), applicato alle arti visive già dagli antichi greci. Inoltre lo schermo ha soltanto due dimensio­ni. La profondità deve essere costruita privilegiando sempre le linee oblique e quelle curve rispetto a quelle orizzontali e vertica­li, che appaiono banali, e collocando un soggetto in primo piano nei paesaggi. Quando il soggetto dell'immagine è una persona, deve avere ab­bastanza «aria» sopra la testa e non essere attaccato al bordo su­periore del televisore; se il soggetto cammina, deve avere uno spazio vuoto davanti a sé, per fare capire dove sta andando. Spesso i personaggi in campo sono più di uno, così i perso­naggi televisivi vanno riuniti in immagini collettive che siano di fa­cile lettura, con le opportune gerarchie tra di loro, senza troppa di­stanza fra l'uno e l'altro, eliminando gli eccessivi dislivelli di altez­za, evitando che siano in asse con rami d'albero, oggetti, arredi che possano creare accostamenti non voluti. Le regole sono simili a quelle della fotografia. L'inquadratura (framing) è lo spazio visivo ripreso dall'obiettivo della telecamera. La TV ha seguito il cinema nella denominazione delle varie inquadrature, distinte in «piani» e «campi». Nei piani appare solo una persona o un oggetto; nei campi una scena più am­pia.
L’angolazionedella camera è un altro fattore importante. Ge­neralmente la camera è collocata «in piano», cioè all'altezza degli occhi del soggetto principale, ma può essere angolata vertical­mente; una ripresa «dal basso» accentua l'importanza della persona, che viene ripresa, mentre una «dall'alto» ottiene l'effetto op­posto.
La telecamera può essere anche collocata su un'auto di Formu­la 1, sul casco di un pilota da caccia, o più semplicemente essere si­stemata dal punto di vista del soggetto, facendo vedere la scena co­me la vede lui stesso. Si parla in questo caso di soggettiva, ed è un'immagine molto coinvolgente. La telecamera ha anche un'ango­lazione orizzontale: può riprendere un personaggio frontalmente, di tre quarti, di profilo. L'angolazione di ripresa che da maggiore profondità è quella di tre quarti, ma quella frontale è più coinvol­gente sul piano emotivo. Quella di profilo generalmente si evita, perché lo spettatore ha la sensazione che manchi qualcosa alla sua percezione del personaggio.

 

PIANI E CAMPI DELL’IMMAGINE VIDEO

PIANI

  1. DETTAGLIO: il particolare di un volto, una mano, un oggetto
  2. PRIMISSIMO PIANO: la parte essenziale del viso, dai capelli al mento
  3. PRIMO PIANO: il volto completo
  4. PIANO MEDIO: o mezzo primo piano, il mezzo busto
  5. PIANO AMERICANO: tutta la persona fino alle ginocchia
  6. FIGUARA INTERA: tutta la persona dalla testa ai piedi

 

CAMPI

  1. CAMPO MEDIO: l’immagine complessiva di un ambiente
  2. CAMPO LUNGO: scena in cui prevale la profondità, specie per gli esterni
  3. CAMPO LUNGHISSIMO: quando la profondità è ancora maggiore
  4. CONTROCAMPO: inquadratura in cui si vede un personaggio di spalle e un secondo mezzo busto, molto efficace perché mostra un rapporto o un dialogo fra loro, Secondo l’altezza della camera rispetto ai personaggi, varia la percezione del loro reciproco rapporto.

2. Guardare in macchina

C'è un tipo particolare di ripresa: il «guardare in macchina», che distingue il cinema dalla TV e una parte della TV dall'altra1. Quan­do guardiamo la televisione, un conduttore ci presenta un suo ospi­te, un cuoco baffuto ci spiega la ricetta di un dolce, una gentile si­gnorina annuncia che sta per cominciare un programma o quanto è comodo il materasso marca XY (o tutte e due le cose insieme). Tutti questi personaggi parlano a noi dall'altra parte del vetro, guardando verso di noi, sono inquadrati frontalmente e puntano gli occhi dentro l'obiettivo.
Al cinema quando c'è buio in sala nessuna signorina annuncia il titolo del film che sta per cominciare; è pleonastico, visto che ab­biamo pagato il biglietto per quello. Gli attori non guardano in mac­china, sono intenti a fare le loro cose, si guardano fra loro e anche quando sono inquadrati frontalmente non guardano noi, ma un punto dietro la macchina da presa.
In verità chi parla guardando in camera rappresenta se stesso (il conduttore televisivo, l'annunciatrice, il comico che recita un mo­nologo), chi non guarda in camera rappresenta un altro, è un atto­re che interpreta un personaggio fittizio. Coloro che guardano in camera fanno qualcosa che si ritiene (o si finge di ritenere) che av­verrebbe anche se la televisione non ci fosse, mentre chi non guar­da in camera sottolinea il fatto che il suo discorso e la sua stessa presenza si materializzano solo grazie alla televisione.
Per questo, anche in televisione la fiction non guarda in macchi­na: i protagonisti di Un posto al sole o di Beautiful conversano tra loro e si guardano a vicenda come se la ripresa non ci fosse, esatta­mente come nel cinema2; ma non è così per quasi ogni altro perso­naggio della TV. Collocato davanti ai suoi interlocutori domestici, li avverte implicitamente che c'è qualcosa di vero e reale nel reciproco rapporto che si sta istituendo fra loro, e dice: «Io non sono un personaggio di fantasia, sono qui davvero e sto parlando davve­ro a voi». Molti spettatori televisivi grazie a questo artificio della messa in scena sentono come vera una presenza che è invece rico­struita tecnicamente a distanza; come rivolto esclusivamente a loro quello che è trasmesso alla generalità del pubblico; come dialogo quello che è un monologo; come naturale ciò che è frutto di una raffinata macchina scenica e della sua riproduzione tecnica.

 

3. La sintassi delle immagini

Finora abbiamo parlato di una singola immagine e della sua gram­matica. Le immagini televisive però sono moltissime, 25 al secondo (una più del cinema, che ne ha 24), e ci sono regole anche per come mettere insieme le immagini fra di loro: la sintassi delle immagini. Se la telecamera è fissa, le immagini cambiano solo con i movi­menti dei soggetti inquadrati. Se una telecamera continua a inqua­drare della frutta su un vassoio, l'immagine sarà ferma: una natura morta. Se invece riprende una rockstar che canta una canzone, l'im­magine cambierà con i movimenti del cantante e delle luci. Questo però è il caso più semplice: le telecamere possono cambiare inqua­dratura senza smettere di riprendere.
Le telecamere da studio sono montate su un pesante supporto (piedistallo) dalla testa snodata che permette spostamenti (panora­miche) in orizzontale e in verticale. In orizzontale la telecamera può ruotare sul suo supporto, anche di 360°. Ad esempio, la ripresa con­clusiva di uno spettacolo di varietà, con tutti i personaggi in scena per il gran finale, può puntare su un campo medio dei personaggi e poi, con una lenta rotazione, arrivare fino al pubblico che applaude sulle tribune. Questo tipo di ripresa si chiama panoramica orizzontale.
La camera può compiere anche uno spostamento in verticale, fi­no a circa 60° in alto e in basso. Per esempio, durante la trasmis­sione del Festival di Sanremo il conduttore saluta i suoi colleghi che trasmettono il festival per radio, collocati in una cabina ai piani al­ti del teatro: la ripresa d'obbligo è uno «stacco» dal pubblico fino al vetro della cabina, da cui quelli della radio salutano con la ma­nina {panoramica verticale).
Sulla telecamera è montato poi uno speciale obiettivo, lo zoom, che permette di inquadrare una scena in campo lungo e poi «zoomare» restringendo rapidamente la visuale fino a inquadrare solo un piccolo particolare; oppure partire da un particolare e allargare la scena fino a renderla molto ampia. Tecnicamente, lo zoom è un obiettivo la cui distanza focale può variare con continuità, mante­nendo la messa a fuoco; è stato inventato nel 1948 in ambito foto­grafico ed è arrivato in televisione negli anni Settanta.
Per effettuare movimenti più consistenti bisogna spostare la te­lecamera e modificare il punto da cui viene effettuata la ripresa. Il carrello è una piattaforma mobile a ruote su cui è montata la tele­camera. La carrellata è una ripresa della telecamera su un carrello. Il movimento può essere in linea retta o ad arco.
Il dolly invece è un carrello con un braccio telescopico che per­mette di sollevare il cameraman di oltre tre metri, di riprendere una scena dall'alto e soprattutto di effettuare riprese in elevazione che si allontanano o si avvicinano gradualmente al set: una ripresa chia­mata ascensore.
Talvolta insieme alle telecamere fisse si fa lavorare, anche in stu­dio, una telecamera leggera, a spalla, che da vivacità alle riprese. Fra parentesi, un tempo era tassativamente proibito mostrare nelle riprese le telecamere o le attrezzature di scena, al pari del cinema.  Invece adesso esibire le telecamere è quasi un obbligo, come se la televisione dovesse testimoniare la sua ricerca della realtà. Il paradosso, già segnalato da Umberto Eco, sta nel fat­to che nel momento in cui vediamo sullo schermo una telecamera sia­mo sicuri che non sta funzionando, è solo un simulacro3.
Un'evoluzione della camera a spalla in studio è la steadycam. Si tratta di una telecamera posta su un braccio meccanico con pesi e molle che letteralmente lega la telecamera al corpo dell'operatore.
Muovendosi a balzi felpati come un ginnasta, egli può realizzare riprese continue di grande fluidità mantenendo una grande stabi­lità della macchina.

4. Costruire le sequenze

Un insieme di immagini dotate di senso compiuto, che descrive un oggetto, che racconta una sua storia, si chiama sequenza. General­mente la sequenza è composta da immagini provenienti da varie telecamere, ma non sempre: in particolare lo zoom, la steadycam o il carrello permettono di avere sequenze riprese da una sola ca­mera. Questa forma della narrazione, composta da una sola in­quadratura senza stacchi o cesure, è chiamata piano sequenza e da un particolare senso di immediatezza e di partecipazione allo spet­tatore.
Costruire una sequenza, come narrare una storia, richiede una presentazione, uno sviluppo, una conclusione. Ci vorrebbe un in­tero corso dedicato alla narrazione per immagini; qui prendiamo un esempio semplificato, quello di uno scarno gioco televisivo pome­ridiano. Si tratta di una produzione seriale da studio, piuttosto con­venzionale e a basso costo, con un conduttore, la sua assistente, al­cuni concorrenti, niente pubblico. Il meccanismo del gioco pre­suppone una sede per elaborare le domande, misurare il tempo che i concorrenti hanno a disposizione, controllare l'esattezza delle ri­sposte: questo apparato tuttavia è sempre fuori campo, una voce e un segnatempo, una specie di oracolo che non si vede mai, pur cam­biando a suon di soldi la vita delle persone. Un abile espediente del­la sceneggiatura, dettato soprattutto da corpose ragioni economiche: tutto quello che non si vede non costa.
Dopo la sigla, la prima inquadratura è generalmente un totale dello studio, poi un primo piano del conduttore, che saluta il pub­blico e quindi si rivolge alla sua assistente. Totale della valletta con lo sfondo della scenografia, poi suo primo o primissimo piano men­tre dice qualche cosa. Totale del conduttore che chiama i concorren­ti, poi primo piano su ciascuno che saluta. Ad ogni loro battuta se­gue un primo piano del conduttore, ad ogni scambio compiuto un totale dello studio. Il gioco viene mostrato alternando medi primi piani o primi piani del conduttore, della valletta e dei concorrenti (da soli, o con il loro avversario), con qualche controcampo (il con­duttore di tre quarti davanti ai concorrenti) sempre utilizzando campi più lunghi e totali dello studio come elemento di cesura.
Gli stacchi pubblicitari avvengono invece dopo un primo piano del conduttore; in questo modo egli ammicca al pubblico perché ri­manga sul canale e, contemporaneamente, un po' della sua autore­volezza o simpatia si trasferiscono sullo spot. Per questo i condut­tori più autonomi e potenti evitano questo tipo di inquadratura.
Se il gioco ha una macchina scenica (una ruota della fortuna, un vistoso orologio, una slot machine colorata) è un personaggio an­che lei che ha diritto ai suoi primissimi piani e ai suoi dettagli. Al termine della competizione, il giocatore eliminato ha l'onore di un congedo in primo piano nel quale deve apparire sorridente e senza atteggiamenti contestativi, poi il conduttore lo saluta con un primo piano e la mesta uscita del perdente non viene registrata dalle tele­camere. Si passa poi al vincente che ora viene ripreso in gruppo con il conduttore o con la valletta (non prima di aver vinto: la ripresa suggerirebbe al pubblico un favoritismo, una complicità fra loro) e partecipa a un piccolo dialogo. La conclusione ha l'andamento in­verso della presentazione: totale dello studio, primo piano del con­duttore che saluta la valletta, primissimo piano della valletta, di nuo­vo primo piano del conduttore che dice arrivederci a domani al pubblico a casa, totale dello studio.
Si tratta naturalmente di uno schema molto semplificato: anche i giochi televisivi hanno una trama più complessa e una messa in scena più barocca. Tuttavia, se farete un po' di pratica guardando la televisione, vi renderete conto che tutte le sequenze rispondono a questo intento e a questo sviluppo narrativo; non a caso, infatti, se la trasmissione non va in diretta il regista fa sempre riprendere delle scene di «riserva» prima di cominciare il programma. Si trat­ta dei «piani di ascolto», cioè primi piani dei vari personaggi nel­l'atteggiamento di chi ascolta un altro che parla e non viene inqua­drato; poi il regista fa riprendere anche qualche totale dello studio da vari punti di vista, anche in panoramica. Sono tutte riprese che possono risultare utili come cesura tra un'inquadratura e l'altra.
Come avrete capito da tutti questi accorgimenti, non si può reg­gere una sequenza da un unico punto di vista perché è monotona; ma anche il passaggio da una telecamera all'altra deve essere curato è congiunto con movimenti di macchina altrettanto veloci; viene usato con moderazione perché la visione rilassata della TV è rite­nuta più adatta ad un lento fluire di figure, dove non si abbia mai la sensazione di aver perso, per essere andati in cucina a prendere un bicchier d'acqua, immagini fondamentali.

5. Unire le immagini fra loro

Due scene possono essere semplicemente giustapposte l'una al­l'altra, senza elementi intermedi (stacco, cut) o unite con particola­ri effetti. Quando la televisione era molto giovane, aveva una forte ansia di separare un frammento narrativo dall'altro quasi per consentire ad un pubblico popolare di assimilare il suo linguaggio; oggi prevale il semplice stacco, e sono usati meno effetti co­me la dissolvenza, lo sfumo,, la tendina,, l'in­tarsio.
La dissolvenzasi ha con un progressivo aumento di intensità del­l'immagine che subentra. Se contemporaneamente la precedente perde gradualmente di intensità si ha la dissolvenza incrociata, che da l'impressione di un processo in divenire. Nello sfumol'immagine perde lentamente di intensità fino a di­ventare nera o di altro colore: si usa in particolare come conclusio­ne di una trasmissione. La tendinaè un modo di passare da un'im­magine all'altra coprendo progressivamente il quadro; se il proces­so si ferma a metà, il video è diviso tra due immagini (split screen). Nelle telecronache delle partite di calcio, l'uso della tendina segna­la spesso che la prossima sequenza sarà una ripetizione (replay) di un'immagine appena passata (un goal, un fallo controverso), even­tualmente al rallentatore (rallenti). L’intarsioè l'inserimento nell'immagine di una scritta, di un ef­fetto, di un'altra immagine: si costruisce così un'immagine compo­sita, che prende alcuni elementi da una e altri dall'altra, scegliendo le informazioni sulla base di una determinata «chiave» (per questo si chiama key)L'impiego principale dell'intarsio è però quello che usa come criterio il colore: appunto il chroma key. Tutte le parti dell'immagi­ne di un determinato colore vengono sostituite con un'altra. Un giornalista sportivo che non ha niente di blu nel vestito parla in stu­dio davanti ad un fondale blu. L'altra immagine è ripresa dalle tri­bune di un ippodromo. Con il chroma key il giornalista apparirà al pubblico come se si trovasse nell'ippodromo. Si tratta di un'imma­gine di grande realismo che comporta un abbattimento di costi e una semplificazione produttiva notevoli. Gli effetti del chroma so­no particolarmente suggestivi quando si usa il limbo, un raccordo morbido e neutro tra pavimento e fondale: i personaggi in scena so­no così immersi totalmente nell'immagine che ha sostituito il colo­re del fondale.
Tutti questi effetti sono elettronici, perché sfruttano le proprietà del segnale video, ma analogici, quindi senza digitalizzazione del­l'immagine. Ne parliamo perché costituiscono la «cassetta degli at­trezzi» dei registi televisivi di oggi, ma sono strumenti che hanno cinquanta, quaranta, venticinque anni e li dimostrano tutti. La di­gitalizzazione permette di generare immagini sintetiche, di trattar­le, muoverle, deformarle come si vuole, di far vivere personaggi sto­rici morti da tempo che stringono la mano ad attori di oggi (lo ab­biamo visto nel film Forrest Gump), di fondere persone e cose (co­me abbiamo visto in Matrix): tutto questo lavorando al computer con software sempre più sofisticati.

Capitolo Due. Fare la televisione
1. Televisione, una parola che vuole dire molte cose.

Ciò che comunemente chiamiamo «televisione» in realtà compren­de tre attività diverse:
a) la prima è il broadcasting, ossia la gestione di un'emittente. Ciò significa comporre un insieme di contenuti video in un palinsesto continuo (anche 24 ore su 24), in modo che da essi appaia una speci­fica e riconoscibile identità dell'emittente. Il broadcasting è soggetto a una condizione preliminare: la disponibilità di una rete di trasmis­sione per far giungere i contenuti nelle case degli spettatori;
b) la seconda è la produzione dei contenuti, senza i quali non c'è niente da diffondere;
e) la terza è la messa in onda, cioè la trasmissione attraverso im­pianti tecnici e una modalità di diffusione dei contenuti del broadcasting, in modo che siano ricevuti dagli appa­recchi televisivi collocati nelle case.
Della messa in onda ci occuperemo brevemente. A noi basta sa­pere che i contenuti video possono essere diffusi sul loro supporto fisico (film, nastri magnetici, videocassette, DVD) oppure attraver­so una rete di trasmissione. La televisione si caratterizza per l'invio in tempo reale di un flusso continuo di contenuti e dunque richie­de sempre una rete di trasmissione. La prima rete di trasmissione è stata quella via etere, basata su trasmettitori che emettono segnali composti da onde elettromagnetiche, e da ripetitori piazzati sulle montagne che lo captano e lo ritrasmettono quando si affievolisce o è impedito da un ostacolo naturale. «Etere» significa semplice­mente atmosfera, aria (di qui l'espressione «on air», in onda). Le reti di impianti trasmettitori e ripetitori, montati su antenne e tralicci, si chiamano in gergo «reti terrestri». La modalità di trasmis­sione «via etere» o «via rete terrestre» è in Italia quella prevalente. Il pubblico riceve il segnale, che si propaga attraverso l'aria, con una antenna metallica sul tetto dell'abitazione, da cui è trasportato con un cavo fino al televisore.
Successivamente si è affermata in America la trasmissione via ca­vo, che si è diffusa anche in Europa (non in Italia), e che permette di diffondere, in abbonamento, la televisione a pagamento. Un ope­ratore commerciale (cable operator) offre ai clienti di una determi­nata città o zona di collegare le loro abitazioni con un cavo coassia­le. Il cavo finisce nel set top box, la centralina collegata sopra il te­levisore dell'abbonato.
Negli anni Novanta i satelliti artificiali, già da tempo utilizzati per collegamenti di telecomunicazione, hanno compiuto un decisi­vo progresso tecnologico che li ha resi ricevibili direttamente dalle nostre abitazioni con un'antenna circolare (parabola) di piccolo co­sto e dimensioni: sono i satelliti DTH (Direct to Home), detti an­che DBS (Direct Broadcasting Satellite). Dalla metà degli anni No­vanta sono disponibili satelliti digitali e reti in cavo a fibre ottiche (di grande portata) che rendono possibile la televisione digitale. In­fine, tutte le modalità di trasmissione possono essere in chiaro o co­dificate (criptate): leggibili solo grazie al decoder integrato nel set top box, che permette il pagamento del servizio.

2. Make or buy?

Supponiamo di disporre di un'emittente che si sia già garantita l'ac­cesso a una rete di trasmissione. Adesso deve attivare una funzione di creazione del palinsesto e definire un'identità di rete, cioè le ca­ratteristiche della sua riconoscibilità in mezzo alle altre. Subito do­po deve pensare ai programmi, cioè ai contenuti da trasmettere.
Dal punto di vista di chi debba costruire un palinsesto i pro­grammi appartengono a due distinte tipologie:
a) i programmi a utilità ripetuta. Si tratta di film e fiction tele­visiva, generalmente seriale ad episodi e anche documentari, che possono essere mandati in onda quando si vuole, senza particolari riferimenti all'attualità. La serialità permette un'oculata gestione delle repliche: trascorso un certo tempo, la disponibilità del pubblico a rivedere un episodio di una serie a lui ben nota è assai maggiore rispetto a quella del cinema;
b) i programmi a utilità istantanea. Sono trasmissioni che han­no un senso solo in una determinata finestra temporale, molto stretta; dopo perdono gran parte del loro significato, anche se un brano potrebbe sempre tornare utile in qualche occasione. Una ru­brica sportiva che commenta i risultati della domenica calcistica ha senso soltanto il lunedì di quella particolare settimana; una vol­ta trasmessa, è buona solo per l'archivio. Naturalmente i notiziari e gli approfondimenti informativi hanno una rapida obsolescenza; e anche le rubriche, i quiz, i giochi.
Come si vede, i programmi a utilità ripetuta richiedono gene­ralmente grande impegno produttivo, come il film e in generale la fiction; quelli a utilità istantanea coincidono in buona parte con le più semplici produzioni «da studio» come giochi, quiz, talk show, e con la diretta. Si chiamano in gergo «cotti e mangiati». Nel palinsesto le due tipologie di programmi si alternano di con­tinuo; in particolare, solo la fiction a cadenze fisse e in dosi consistenti produce ascolti significativi continui e non episodici. Per questo ri­sulta fondamentale, per chi fa il palinsesto, la capacità di produrre in studio i programmi «cotti e mangiati» da mandare in onda immedia­tamente e contemporaneamente la disponibilità di un «frigorifero» per conservare cibi pron­ti, prevalentemente titoli importanti di fiction. Questo frigorifero è la library, o magazzino programmi.
Fare in proprio o acquistare i programmi? Questa domanda per­corre tutta l'attività televisiva. Nella TV tradizionale tutto avveniva all'interno dei monopoli televisivi, gli acquisti erano limitati, effet­tuati all'estero e i prodotti esteri venivano rigorosamente inquadra­ti in una cornice nazionale. Oggi invece, in una situazione di gran­de concorrenza fra emittenti, la convenienza del produrre in proprio deve essere dimostrata di volta in volta e la risposta è molto diversa per le piccole emittenti rispetto alle grandi.
Le produzioni «cotte e mangiate» e più in generale i programmi da studio vengono quasi sempre prodotti in proprio, anche dalle TV locali. In questo tipo di prodotti appaiono i personaggi a cui è affidata la riconoscibilità dell'emittente: lo speaker del telegior­nale, la conduttrice del talk show. Controllare questo tipo di produzione, poterla modificare in ogni momento, è ragione stessa di vita anche per una piccola emittente. Si tratta inoltre delle produ­zioni più economiche, per l'elevata serialità delle puntate e la pre­senza di molti elementi costanti (personaggi, scenografie, tipo di se­quenze). Generalmente vengono mandate in diretta (live, air show), che è anche il sistema più semplice, oppure con una breve differi­ta tecnica (live on tape), che permette di eliminare qualche imper­fezione, di esercitare uno stretto controllo sui contenuti, di otti­mizzare i tempi di uso dello studio.
Il discorso è completamente diverso per i prodotti a utilità ri­petuta. Esiste ormai un mercato internazionale dei programmi te­levisivi, par­ticolarmente di fiction americana o di cartoni animati dell'Estremo Oriente. Sul mercato sono disponibili centinaia di episodi seriali di qualità media, a prezzi molto inferiori a quelli necessari a una gran­de televisione nazionale italiana per produrre qualcosa di analogo. Per una piccola emittente simili impegni produttivi sarebbero sem­plicemente impossibili.
Perché esistono prodotti a prezzo così basso? Il mercato dome­stico della televisione americana ha una tale ampiezza che permet­te di ripagare totalmente i costi di produzione del prodotto già con le vendite ai network televisivi di casa propria; i costi di produzio­ne peraltro sono molto bassi per la precoce integrazione (già dagli anni Cinquanta) con lo «studio System» di Hollywood, la produ­zione standardizzata di cinema commerciale. Le case di produzio­ne americane possono così vendere all'estero un prodotto abbon­dante, collaudato e completamente ammortizzato, il cui prezzo può essere costruito sulle capacità di pagamento, anche ridotte, del si­stema televisivo dei vari paesi e sul loro grado di concorrenza. Que­sta cessione a prezzi irrisori serve anche a creare una domanda per questi prodotti, diffondendo l'«american way of life» e formando il gusto dei consumatori locali. Intanto in Giappone si è formata una scuola di disegno animato semplificato, con minor numero di carto­ni e animazione approssimativa, a prezzi assai bassi che si riduco­no ulteriormente nelle imitazioni realizzate in altri paesi dell'Estre­mo Oriente. Nonostante molte rozzezze e qualche contenuto vio­lento, questi cartoni animati hanno conquistato il mercato della tele­visione per bambini. Senza questa grande disponibilità di prodotti di fiction seriale non si sarebbe affermata in Italia la televisione commerciale. Quan­do si compra un programma, non se ne acquista la proprietà ma il diritto esclusivo di trasmetterli per un certo numero di volte («pas­saggi»). Serie televisive datate sono disponibili anche per televisio­ni locali, che ne fanno largo uso.
Il responsabile degli acquisti è dunque un personaggio importan­te delle televisioni. Non tutta la fiction, tuttavia, viene acquistata al­l'estero: in parte viene realizzata o comprata in Italia. Ciò è stato fat­to, particolarmente dalla RAI, per motivi di prestigio e di difesa del­la cultura nazionale, ma da qualche anno si è sviluppata una signifi­cativa industria della fiction italiana, a cui una recente legge di tutela (legge n. 122 del 30 aprile 1998) ha sicuramente dato impulso.

3. La produzione televisiva

Veniamo adesso a quei programmi che l'emittente ritiene di non do­ver acquistare all'estero ma produrre in proprio o nella cerchia ab­bastanza ristretta dei propri fornitori.
La televisione è un medium eclettico e ibrido, che ha assorbito pratiche e teorie dalla radio, dal teatro, dalla fotografia e dal cine­ma. La produzione televisiva è un lavoro di gruppo che richiede lo sforzo combinato di un numero elevato di professionisti con com­petenze e culture diverse. Nella TV tradizionale gran parte di que­ste tipologie di professionisti erano lavoratori dipendenti, funzionari o dirigenti a tempo pieno degli enti televisivi. Oggi è in atto un complessivo processo di privatizzazione concorrenziale: le emitten­ti cercano di avere come propri dipendenti nuclei ristretti di diri­genti decisionali, e di ingaggiare le altre professionalità sul merca­to, in concorrenza fra loro, con contratti relativi a quella specifica produzione o comunque a tempo determinato.
Sia la progettazione che la realizzazione dei programmi seguono questa tendenza alla privatizzazione e alla competizione. La televi­sione è un'industria di prototipi: non fabbrica prodotti tutti uguali ma ha sempre bisogno di nuove trasmissioni. La vecchia televisione tendeva a produrre in proprio gran parte dei programmi che non aveva comprato all'estero; l'idea iniziale nasceva all'interno, o dalla pro­posta esterna di un autore. Poi si diffuse la tendenza ad appaltare al­l'esterno parti del processo di produzione o l'intera realizzazione del programma, con procedure spesso poco trasparenti.
Nell'era della concorrenza, il bisogno di nuovi programmi cre­sce. Oggi esistono numerose società, piccole e grandi, che proget­tano programmi televisivi in proprio, oppure acquistano i diritti al­l'estero di un format che adattano alla situazione italiana e di cui talvolta realizzano un prototipo, un «pilota» o un «numero zero».
Spesso e volentieri, dunque, le televisioni affidano a società ester­ne sia la progettazione dei programmi o di intere fasce orarie, sia la loro esecuzione. In questi casi l'emittente nomina un «producer», o delegato alla produzione, che segue tutti gli aspetti del progetto e del­la realizzazione, curando gli interessi dell'emittente e garantendo che il prodotto sia congruo con la sua linea editoriale. Questa tendenza è probabilmente irreversibile ed è coerente con l’outsourcing che con­traddistingue tutte le attività produttive.

4. Le fasi della produzione

La realizzazione di un prodotto televisivo passa attraverso tre fa­si, che si chiamano ancora preproduzione, produzione, postproduzione.
La preproduzionecomprende tutte le fasi di ideazione, decisio­ne e progettazione preliminari alle riprese, che costituiscono la pro­duzionevera e propria. La postproduzionecomprende invece il mon­taggio, la grafica, gli effetti speciali, e tutte le altre operazioni di edi­zione (editing) del prodotto.
Naturalmente, se la trasmissione va in diretta la postproduzione dovrà essere in parte precedente alla produzione (ad esempio, bra­ni già registrati e trattati da inserire), in parte contemporanea (ef­fetti realizzati in cabina di regia). L'unica postproduzione che ri­mane è l'archiviazione.
Nella preproduzione vengono prese le decisioni fondamentali sul contenuto del programma. Un programma deve essere scritto; esso ha quindi uno o più autori che presentano un soggetto, un trat­tamento, una sceneggiatura. In questa fase vengono anche com­missionate le musiche per il programma, le sigle di apertura e di chiusura, i costumi e gli abiti di scena, le scenografie.
Le scenografie definiscono l'ambientazione del programma (set), che può essere realistica (un salotto), o fun­zionale (una struttura neutra), o spettacolare (grandi scalinate, co­struzioni sceniche, vari piani su cui trovano posto gruppi diversi). Anche se gli addetti ai lavori non amano dirlo, in questa fase co­mincia anche il marketing del programma. Gli autori dovranno pre­vedere spazi per la pubblicità che non appaiano come interruzioni in­naturali; i venditori della concessionaria di pubblicità cominciano a cercare uno sponsor o una telepromozione, se previsti, tenendo con­to che ciò ha qualche conseguenza sulle scenografie, i costumi, le si­gle, ma anche - è difficile negarlo - qualche rapporto, almeno indi­retto, con la scrittura e i contenuti del programma. Poi c'è il plac-ment: la ricerca di aziende fornitrici di arredi, divani, abbigliamento ed altro che forniscono gratuitamente i loro prodotti in cambio del­l'inserimento nei titoli di coda, o sono pronte a pagare per l'esibizio­ne del loro marchio o una citazione da parte del conduttore.
Molto importante anche il casting, ossia la ricerca dei protago­nisti della trasmissione. La scelta dei conduttori e dei professionisti che si esibiranno è una trattativa assai riservata; ma se il program­ma richiede personaggi «presi dalla vita») la loro selezione può assumere caratteristiche di massa (co­me la selezione delle «veline» per Striscia la notizia) ed avere una larga copertura da parte della stampa. Nella preproduzione è già attivo infatti l'ufficio comunicazione, che deve suscitare nei media e nell'opinione pubblica una aspettativa nei confronti del program ma, realizzando anche un suo sito web prima dell'inizio della tra­smissione. Oltre a valorizzare il casting, l'ufficio comunicazione fa circolare anticipazioni sui protagonisti del programma e ogni det­taglio che li riguardi, in particolare il gossip, cioè il pettegolezzo su flirt, gelosie e invidie, feste e vacanze, e le photo opportunities (oc­casioni per servizi fotografici, spesso fintamente rubati), entrambi ottimi per la cronaca rosa di giornali e settimanali che parlano sem­pre volentieri di televisione, caso unico di un medium che favori­sce il suo concorrente.
Nella fase di preproduzione il regista assume progressivamente un ruolo di coordinamento delle scenografie, dei costumi, delle lu­ci; sulla sceneggiatura, comincia con il suo aiutoregista (che è un gradino più su dell'assistente alla regia) a studiare la disposizione e i movimenti delle telecamere, e il tipo di inquadrature e di sequen­ze che saranno necessarie. Se si tratta di una produzione importan­te, lavoreranno con lui un direttore della fotografia, incaricato di as­sicurare la migliore qualità delle riprese, o ad­dirittura un art director che si occuperà della qualità estetica com­plessiva del prodotto, comprese le scritte, la videografica, gli effet­ti speciali.
La fase di preproduzione si conclude con la scelta di uno studio di proporzioni e caratteristiche adatte e con il suo allestimento. Poi, sotto la direzione del regista, si eseguono le prove, particolarmente importanti se la trasmissione andrà in diretta.

5. Le riprese

La fase della produzione coincide con le riprese del programma e contempla tre diverse pos­sibilità:
a)  il programma al termine delle riprese passerà in postproduzione e verrà inserito nel magazzino programmi (la library), per es­sere usato al momento opportuno;
b) il programma è in diretta. La postproduzione deve essere fat­ta prima o durante le riprese, e assemblata in regia durante la tra­smissione.
c) il programma viene trasmesso in una breve differita, correg­gendo qualche piccolo errore e cautelandosi da piccoli o grandi scandali (bestemmie, parolac­ce, rischi di querele per diffamazione); una specie di rete di prote­zione.
La forma più semplice di produzione televisiva è la produzione in studio Essa permette di concentrare in unico luogo la produzione e la registrazione del programma e tutte le ope­razioni accessorie (costumi, scenografie, trucco), al riparo da inter­ferenze esterne, in condizioni di luce, temperatura e suono ottima­li, e con attrezzature e macchinari pesanti, permanentemente collo­cati nello studio. La produzione di studio è la soluzione preferita, e la più economica, per i contenitori, quiz, giochi, programmi di in­trattenimento, varietà, talk show, e anche per l'informazione (tele­giornali).
Per la sua semplicità, la produzione da studio è stata largamente usata anche per la fiction televisiva, mentre il cinema ha grande sim­patia per le ambientazioni e gli esterni.

6. Lo studio

Lo studio è il cuore della produzione televisiva. È uno spazio tecnico insonorizzato e climatizzato, collocato generalmente al pianterreno e con ampie en­trate per movimentare pesanti macchinari e scenografie. Le porte hanno controporte per evitare che luci, polvere e rumori filtrino dal­l'esterno e che l'ingresso del ragazzo del bar con i caffè rovini una ripresa; per questo una spia rossa segnala all'esterno quando una trasmissione è in atto.
Le dimensioni sono variabili: un grande studio per spettacoli di varietà con orchestra e pubblico può superare i 1.000 mq, i tele­giornali richiedono 100-250 mq, ma per registrare un'intervista possono bastarne 20 e per un annuncio ancora meno. Spesso que­ste produzioni semplici vengono realizzate in un angolo di uno stu­dio occupato dalle scenografie di un'altra trasmissione. Lo studio ha due zone principali e ben distinte: l'area di ripresa e la regia.
Vediamo adesso com'è fatta l'area di ripresa. All'altezza del sof­fitto è sistemato un parco luci, manovrabile elettricamente o elet­tronicamente, o un ponte sospeso praticabile, insieme ad altre at­trezzature teatrali, come su un palcoscenico. Sostanzialmente, si tratta di un teatro senza la platea per il pubblico: il pubblico non c'è, oppure è parte dello spettacolo e allora sta in scena. Sotto il soffitto c'è anche un potente impianto di condizionamento dell'a­ria; molto importante perché le luci di scena sviluppano quantità ingenti di calore, faticose per chi lavora e dannose per gli appa­recchi. Il pavimento è ignifugo e liscio, stabile e opaco, general­mente di colore grigio; anche le pareti sono dipinte in colori opachi. Ogni tre o quattro metri vi sono prese a muro che permetto­no di connettere le camere e i microfoni con la regia senza eccessivo ingombro di cavi.
In quest'area vengono montate le scenografie della trasmissione, cioè i fondali e gli arredi che compariranno nelle inquadrature, una volta di legno e gesso, poi di polistirolo. Le scenografie sono fa­cilmente smontabili, per utilizzare lo stesso studio per trasmissioni diverse. Già oggi la tecnologia digitale permette di avere scenografie virtuali (un fondale costruito al computer), che si stanno dif­fondendo.
Lo scenografo deve costruire l’ambientazione della trasmissione, con scenografie, pannelli e arredi che possono essere costruiti appositamente, affittati per l'occasio­ne da imprese specializzate, reperiti in qualche magazzino dal trovaro­be. Può anche sostituire parte dell'ambientazione con il chroma key.
Davanti alle scenografie del programma trovano posto, dopo aver indossato gli abiti di scena ed essere passati dal parrucchiere e dal trucco, i conduttori, i partecipanti e l'eventuale pubblico. La ri­presa è assicurata dalle telecamere, di solito almeno tre; possono es­sere in numero minore in una piccola emittente locale, molte di più per un programma importante, mentre il sonoro è registrato da un numero variabile di microfoni. «Fuori campo» (cioè nell'area non inquadrata dalle telecamere) c'è un monitor che mostra cosa sta an­dando in onda e il «gobbo», un supporto per i cartelli che suggeri­scono le battute ai personaggi. Da tempo è diffuso il gobbo elet­tronico (teleprompter), un grosso video da computer su cui scorro­no i testi della trasmissione. Più il gobbo è vicino alla telecamera più il conduttore potrà «guardare in macchina» (mentre invece sta leggendo quello che deve dire) con un maggiore effetto realistico: è quello che accade in tutti i telegiornali.
Nell'area fuori campo lavora l’assistente di studio, collegato via radio con la regia, che coordina la ripresa. A gesti, o con cartelli, comunica con i partecipanti indicando l'attacco (cioè l'inizio delle riprese), la necessità di andar più piano o di accelerare, il momen­to della conclusione, e fa segno al pubblico quando deve applaudi­re. Talvolta l'assistente è sostituito dal teller, un radiomicrofono mi­niaturizzato fissato nell'orecchio, con cui la regia comunica con il conduttore.
La regia è una specie di ponte di comando, generalmente una cabina in posizione elevata rispetto allo studio. I segnali video e au­dio vengono inviati qui, dove una serie di monitor mostra ciò che è ripreso dalle singole telecamere; su altri monitor appaiono altre fonti di immagini che potranno essere inserite nella trasmissione: collegamenti esterni, sigle, inserti filmati.
Talvolta, ma non sempre, un vetro insonorizzato mostra lo stu­dio sottostante.
Il regista e i suoi collaboratori trovano posto davanti ad una grande consolle e ai monitor. Con il regista siedono l'aiutoregista e vari tecnici: il tecnico addetto al mixer video e quello audio, ossia i due professionisti che gestiscono le varie fonti dell'audio e del vi­deo che arrivano dallo studio o che sono già state registrate e at tendono di essere immesse nel programma. Se è necessario (ad esempio nei TG), c'è anche un titolista. Lo staff della regia è colle­gato in cuffia sia con i cameramen   per dar loro indicazioni sulle riprese, sia con l'assisten­te di studio o il conduttore (tramite il teller).
La collocazione delle telecamere e dei microfoni, i movimenti delle camere e delle luci e le sequenze di massima sono indicati sul­la scaletta del programma e controllati dal direttore della fotogra­fia e dal tecnico audio. Si stanno affermando, specie dove servono inquadrature prevedibili, come i TG, telecamere comandate a di­stanza.
Il compito principale della regia, dopo la lunga preparazione delle riprese, è quello di scegliere in ogni momento quale singola telecamera e quale audio (o quale miscela fra loro) va in onda, e/o viene videoregistrata, rispetto alle varie fonti disponibili; questa scelta viene fatta, alle dirette dipendenze del regista, dal mixer vi­deo e dal mixer audio. Un ulteriore monitor (preview) mostra qual è l'immagine che sta per andare in onda. Praticamente, delle varie telecamere che riprendono, una sola produce l'immagine che va in onda. Questa telecamera ha una luce rossa accesa (il tally), che è un aiuto prezioso per i partecipanti: consente loro infatti di «guardare in macchina», cioè di rivolgersi verso l'obiettivo: l'inquadratura più efficace.
Vediamo, in sintesi, le principali professio­nalità che agiscono nella fase la produzione:
• il regista e l'aiutoregista;
•  il mixer video e il mixer audio;
•  il direttore della fotografia;
•  il direttore di produzione;
•  il tecnico video (addetto al controllo delle telecamere);
•  il tecnico delle luci o capoelettricista;
•  i cameramen (operatori di ripresa);
• l'assistente di studio.
Ce ne sono molte altre, tuttavia: il truccatore, il parrucchiere, l'addetto al guardaroba, il sarto, i macchinisti che spostano corpi illuminanti o carrelli con le telecamere: ora meno necessari di un tem­po, sostituiti da servomeccanismi o dall'evoluzione degli obiettivi. Inoltre, quando si tratta di gestire ospiti importanti, masse artistiche numerose (cori, corpi di ballo, gruppi musicali), o quando c'è il pubblico o dei concorrenti, sono necessarie persone esperte che li intrattengono, dicono loro quando entrare in scena, impartisco­no consigli, gestiscono aree di «backstage» («dietro le quinte») con bibite e rinfreschi, anche per spezzare la tensione che spesso ac­compagna il loro ingresso in scena. Per i protagonisti sono invece allestiti dei camerini per il trucco e il relax. Inoltre, circolano ovunque gli addetti alla sicurezza e alla prevenzione antincendio.

7. Gli esterni

Oltre alla produzione in studio, in cui la televisione si trova così a suo agio e ben protetta, qualche volta è indispensabile uscire all'e­sterno. Una partita di calcio, una prima teatrale, non si svolgono, almeno per il momento, in studi televisivi. Se si deve raccogliere un messaggio del papa da Piazza San Pietro, intervistare i sopravvissuti a un terre­moto che sono in ospedale, girare un inseguimento sull'autostrada, occorrerà recarsi sul posto.
Come avrete notato, le situazioni illustrate sopra appartengono a due diverse tipologie. La partita, lo spettacolo in teatro, le mani­festazioni politiche sono eventi prevedibili, di cui si conosce la da­ta e l'ora e uno svolgimento di massima, che per la loro comples­sità richiedono apparecchiature tecniche sofisticate, sistemate in an­ticipo sul posto dopo opportuni sopralluoghi. L'inseguimento sul­l'autostrada è una fiction, di cui è la produzione a decidere il luogo (location), il giorno e l'orario, in base a considerazioni di economia e comodità. In tutti questi casi si parla di riprese esterne, definite anche EFP (Electronic Field Production, produzione elettronica sul campo).
Per raccogliere una dichiarazione o un'intervista, anche all'ulti­mo momento, è invece sufficiente un'attrezzatura leggera. In que­sti casi si parla di ENG (Electronic News Gathering, raccolta elet­tronica delle informazioni).
Per seguire un evento complesso in EFP è necessario portare sul luogo una attrezzatura simile a quella di uno studio. Tutte le appa­recchiature che in studio fanno capo alla cabina di regia sono qui raccolte in una regia mobile montata su un pullman speciale (generalmente si distingue in «pesante», «leggero», «tricamere» o «bicamere», a seconda del numero di apparati di ripresa che gestisce) che sarà portato sul posto insieme alle telecamere; se non basta re­gistrare l'evento, ma lo si manda in onda in diretta, è necessario disporre un collegamento con il centro di produzione via ponte radio oppure via satellite (con apposita antenna parabolica). Occorrono inoltre luci, cablaggi e un gruppo elettrogeno per l'energia in tutti i casi in cui il luogo non è attrezzato. Se l'evento è itinerante bisogna approntare telecame­re mobili su auto, motociclette, elicotteri e collocarne altre fisse lun­go il percorso. Come è facile immaginare, si tratta di un impegno produttivo complesso e molto costoso, con una vera carovana di pullman e furgoni attrezzati.
Fortunatamente da una trentina d'anni è comparsa una tecnica di ripresa esterna leggera, molto più economica e snella, e partico­larmente adatta all'informazione. Chiamata generalmente ENG, es­sa è basata su una telecamera leggera a batterie, con un videoregi­stratore incorporato e un microfono, detta camcorder (camera + videorecorder), su cui è possibile installare anche un diffusore lumi­noso. Questo permette ad una troupe anche formata da una sola persona di effettuare riprese e interviste molto rapidamente. Aprendo uno sportello della telecamera si preleva una video­cassetta che può essere portata subito in redazione, oppure inviata via satellite. Sempre grazie al satellite, è possibile anche effettuare una diretta molto efficace, facendo una cronaca o intervistando per­sonaggi avendo come sfondo il teatro degli eventi.

8. La postproduzione

La postproduzione si compie in un apposito spazio che si chiama «sala di montaggio» o «sala di postproduzione» con varie attrezza­ture. La soluzione più semplice (definita in gergo «saletta») com­prende due videoregistratori, uno per leggere il nastro di partenza e uno per registrare quello definitivo, chiamati in modo un po' sa dico slave e master, schiavo e padrone. Tra l'uno e l'altro c'è un editor, o centralina di montaggio: in pratica, un'unica tastiera per azionare entrambi i registratori che concorrono al montaggio. L'editor permette di fare con maggiore accuratezza e molta calma quelle operazioni che in una trasmissione in diretta vanno fatte in tempo reale tramite il mixer.
Con un editor e una titolatrice (un computer che genera scritte e grafici) si può già realizzare un semplice programma e infatti mol­ti servizi giornalistici ENG sono montati in salette come queste. La sala può essere più sofisticata aggiungendo altri slave, fino ad arri­vare a consolle complesse con mixer audio e video, videoregistra­tori e monitor abbastanza simili alla cabina di regia, che intanto vie­ne lasciata libera per altre produzioni. Anche lo staff è il medesi­mo: il regista e i suoi collaboratori, che procedono al montaggio sce­gliendo le immagini migliori e tagliando i tempi morti.
In questa fase si aggiungono le sigle, i titoli di testa e di coda, gli effetti speciali e tutte le altre operazioni di edizione (editing) del pro­dotto. Il trattamento digitale delle immagini ha modificato pro­fondamente, negli ultimi quindici anni, la postproduzione. Gran par­te degli effetti, della videografica, delle animazioni che vediamo in te­levisione sono ormai realizzate in digitale. Se le riprese e il processo di produzione sono effettuate in analogico, occorre convertire in ana­logico tutti i segmenti di produzione digitale; ma si stanno afferman­do tecniche di produzione interamente digitalizzate, a partire dalle telecamere che permettono di realizzare montaggio, edizione ed ef­fetti su un unico computer, con l'ausilio di software sempre più sem­plici per l'utilizzatore. Un ultimo cenno all'archiviazione del prodotto finito. Si stanno affermando presso i principali enti televisivi grandi tecniche computerizzate, in cui è automatizzato anche il prelievo di una cassetta dal suo posto, e sono tenuti sotto controllo tutti i parame­tri di sicurezza. Poiché in Italia non è esistito fino ad ora (e non esiste di fatto, nonostante una direttiva europea) l'obbligo della conservazione del materiale audiovisivo co­me per i libri e i periodici, una parte notevole della documentazio­ne storica della televisione è affidata solo a ciò che riportarono i giornali.

Culture e mezzi espressivi della neotelevisione

CAPITOLO TRE
1.Il governo del nuovo palinsesto

Abbiamo visto come, nella televisione del monopolio, il potere di decidere cosa gli spettatori potessero vedere appartenesse ai diri­genti delle televisioni pubbliche, che lo esercitavano in forma illu­minata e paternalistica. Se disponevano di due canali, proponeva­no due programmazioni complementari, anzi per comodità segna­lavano agli spettatori, con una freccia bianca in un angolo dello schermo, quando cominciava il programma sull'altro canale. Sug­gerire al pubblico di cambiare canale: oggi, nell'epoca del «restate con noi», sembra una cosa impossibile.
Le discussioni fra i dirigenti della televisione vertevano su «co­sa fosse più adatto agli spettatori», nel loro dibattito un punto di riferimento fondamentale era­no i «generi televisivi. Il punto di caduta di queste discussioni era, invariabilmente, una distribuzione ponderata dei generi nel cor­so del palinsesto settimanale. Generalmente ogni serata era dedica­ta ad un genere particolare: lunedì il film (perché era la serata che meno danneggiava il cinema nelle sale), martedì la commedia, gio­vedì il quiz, venerdì le rubriche culturali, sabato il varietà.
Nell'era dell'abbondanza televisiva la situazione cambia notevol­mente. Oggi la TV si presenta come un grande spazio che deve essere riempito in ogni singolo giorno con programmi, dotati di un senso com­plessivo che rappresenta l'identità dell'emittente.
Nella neotelevisione i generi tradizionali ammorbidiscono gra­dualmente i loro reciproci confini, amalgamati dal flusso. Dai ge­neri si passa così ai «metageneri», ampie partizioni tematiche che contengono, al loro interno, una trasfigurazione e composizione dei generi tradizionali. Programmare un genere troppo caratterizzato, infatti, è un lusso che la neotelevisione può permettersi raramente; l'ideale è una programmazione quotidiana che sia rivolta a tutte le età e a tutte le categorie sociali che presumibilmente a quell'ora pos­sono trovarsi davanti allo schermo. È quella che è chiamata una te­levisione «generalista». Non una televisione per élites ma un medium «di maggioranza», rivolto a maggioranze di spet­tatori a casa.
Francesco Casetti ha distinto fra una paleotelevisione «festiva» e una neotelevisione «feriale» e quotidiana. Nella televisione degli inizi si aspettava con ansia l'appuntamento settimanale con il gene­re preferito, come si attendevano le feste. La TV della concorrenza diventava feriale perché non aveva più un palinsesto settimanale ma tendeva a riprodurre ogni giorno la più ampia scelta di contenuti, per accontentare tutte le fasce del pubblico. Ciò comporta il pas­saggio da un palinsesto settimanale ad un palinsesto giornaliero. Questa collocazione giornaliera, sempre allo stesso orario, si chia­ma «programmazione a striscia» e rappresenta una delle strategie messe in atto dalla neotelevisione per rispecchiare la vita quotidiana degli spettatori. Sempre con lo stesso scopo c'è un palinsesto per i giorni feriali e uno diverso per il week-end per aderire alle diverse consuetudini del pubblico; ma bisogna anche tener conto dei cam­biamenti del clima, delle stagioni, delle festività, dell'agenda della po­litica e di quella del campionato di calcio. C'è inoltre una sensibilità diffusa e mutevole, un'opinione comune sui fatti della vita, l'influen­za di eventi esterni della vita pubblica, che devono essere quanto più possibile incorporati nella programmazione.
L'identità di rete e il governo del palinsesto sono dunque fun­zioni di grande finezza intellettuale, che sempre più sono aiutate da indagini qualitative, rigorosamente riservate, sugli atteggiamenti del pubblico nei confronti di vari fenomeni ed eventi esterni, condotte da aziende specializzate o da istituti universitari. Anche quando sembra un gesto distratto o casuale, sintonizzar­si su un programma è l'espressione di una scelta; ancor più, rima­nervi fedeli. Gli spettatori infatti hanno varie alternative.

2. Strategie della neo-TV

Per far vincere i propri canali i programmatori hanno applica­to, soprattutto agli inizi della neotelevisione, alcune vecchie regole piuttosto collaudate, adattate dall'America. Ecco le principali.
1)  Giocare sul sicuro.E una televisione che rischia poco, che ha bisogno di molti stereotipi culturali, perché lo stereotipo consente una più facile identificazione da parte del pubblico: esso rimanda ad esperienze comuni, condivise, e dunque facilita il consumo. Piut­tosto che inventare una nuova trasmissione, meglio comprare qual­cosa che ha già avuto successo in altri paesi: una serie di telefilm, oppure un «format», uno schema vuoto di trasmissione da adatta­re alla nostra realtà. Può anche non andare bene, ma il rischio di sbagliare è minore.
2) Fare spettacolo. Questo significa che il programma deve intrat­tenere, nel senso proprio: deve «trattenere» il pubblico, dirgli «resta con noi», deve tenersi stretto lo spettatore allontanando la sua noia, vincendo il desiderio di cambiare canale o di spegnere l'apparecchio. Lo spettatore deve poter vedere nella TV un naturale prolungamen­to della propria esperienza familiare e affettiva.
3) Riflettere i valori medi della società. Un'emittente deve espri­mere nel complesso della sua programmazione questi valori, anche se può talvolta allontanarsi da loro. Se il pubblico non sente come condivisibile la programmazione, si può spezzare la familiarità su cui è costruita la complicità tra programma e telespettatori. È il principio del LOP («Least objectionable program) il programma che suscita minori obiezioni.
4) Riconoscibilità. Un'emittente deve essere sempre identificabile, riconoscibile, composta di fatti (immagini e suoni) e di persone (volti, sorrisi, parole) conosciuti dal pubblico, familiari. Lo spetta­tore deve poter riconoscere subito una situazione, la scenografia di una trasmissione, o meglio ancora un volto noto
5) Giocare sugli errori degli altri. Non si corre da soli, ma in com­petizione con le altre emittenti. Bisogna sfruttare i loro punti de­boli, contrapporre ai loro programmi forti prodotti che possano sot­trarre pubblico e abbassare il risultato altrui. Anche gli orari sono importanti: possibilmente bisogna cominciare qualche minuto pri­ma di un altro programma concorrente. Il complesso di queste stra­tegie di attacco e contrattacco (fondate sull'attento studio dei pa­linsesti altrui) si chiama, significativamente, controprogrammazione.
6) Tutelare il prime time. Il prime time è la fascia oraria dalle 20,30 alle 22,30, la più pregiata, non solo in termini di pubblico e di pubblicità, ma di immagine complessiva dell'emittente e di fidelizzazione. Qui non ci si può permettere assolutamente di sbaglia­re, di compiere scelte azzardate, di lesinare gli investimenti, di com­piere cambiamenti bruschi. Conviene concentrare su questa fascia il massimo di attenzione, di risorse e di sforzo realizzativo, collo­cando in altre fasce minori programmi controversi, difficili, diretti a nicchie di spettatori. In queste fasce meno pregiate possono tro­var posto anche «programmi civetta»; costruiti non tanto per i lo­ro risultati di ascolto, ma perché siano graditi ad alcune categorie di leader d'opinione di cui l'emittente ha bisogno: i politici, i gior­nalisti della carta stampata, gli intellettuali tradizionali.
Queste strategie sono state proprie anche delle emittenti pub­bliche. Molti dei loro dirigenti temevano che, se l'ascolto fosse sce­so sotto un livello di guardia, la gente si sarebbe chiesta perché mai dovesse pagare un canone di abbonamento, o una tassa, per usu­fruire di un servizio che altri svolgevano gratuitamente. Ciò vale a maggior ragione per l'Italia, in cui la pubblicità incide in misura cre­scente sul bilancio RAI (nel 2000 le entrate pubblicitarie hanno rag­giunto il 50% dei ricavi).

3. Tre ondate

Questa forma di televisione ha ormai venticinque anni e quindi ha avuto, al suo interno, una profonda evoluzione. Noi distingueremo tre ondate successive, o meglio una progressiva stratificazione di ti­pologie di programmi, che parzialmente sostituiscono le preceden­ti ma soprattutto li riposizionano.
1. Nella prima fase la neotelevisione è fortemente consociativa, forse anche in coincidenza con la situazione culturale e politica del tempo segnata dai governi di «unità nazionale» e dal miraggio, mai realizzato, del «compromesso storico». Si cercano trasmissioni con­cepite per interessare quasi tutti e non dispiacere a nessuno e il pri­mo metagenere che questa ricerca assume è il «contenitore»: come dice la parola, una scatola, un involucro duttile che può durare mol­to a lungo (un intero pomeriggio), che si presta a farsi riempire con frammenti dei più vari generi, mediati e organizzati da un condut­tore. L'antesignano dei contenitori è considerato Domenica in del­la RAI (1976). Il talk show è invece una forma di intrattenimento parlato, un salotto televisivo popolato di ospiti di estrazione e to­nalità variabile, animato da un conduttore e fondato sulla conver­sazione intorno a vari argomenti, sia pubblici che privati, general­mente mescolati insieme. Spesso siedono l'uno accanto all'altro di­vi e gente comune. Il capostipite è Bontà loro, di e con Maurizio Costanzo, sempre nel 1976 sulla RAI.
In questa prima fase comincia la penetrazione della fiction seria­le USA e latinoamericana, per i suoi bassi costi e per la grande ab­bondanza dell'offerta. Soprattutto nelle piccole TV, l'aspetto com­merciale della neotelevisione si rivela con chiarezza, producendo un'ampia gamma di aste televisive, televendite, telepromozioni e fa­cendo emergere personaggi del tutto nuovi come imbonitori, maghi, donne fatali, venditrici di creme e unguenti, battitori d'asta.
2. Una successiva fase si colloca negli anni Ottanta. La neotele­visione ha ormai stabilito un rapporto diretto con il pubblico, co­struito su due elementi: da un lato c'è il successo popolare dei con­duttori di talk show e contenitori; dall'altro l'offerta larghissima di fiction gratuita, quasi esclusivamente importata, fatta non solo di prodotti seriali ma di una grande quantità di film pensati per il gran­de schermo e dunque contraddistinti da forme e intenzioni comu­nicative molto diverse da quelle televisive. La TV saccheggia i magazzini del cinema non soltanto per la loro ampiezza e disponibilità, ma per accreditarsi e incorporarne la funzione sociale. Nel 1989 si contano in media 100 passaggi televisivi di film al giorno; tra il 1980 e il 1992 il cinema perde in Italia il 65% dei biglietti e il 58% delle sale1. L'intrattenimento ha ormai una piena legittimità televi­siva, e la TV si afferma come la principale raccontatrice di storie (storyteller) del tempo. I generi televisivi hanno ormai ammorbidito i loro reciproci confini, e tutti si lasciano contaminare dall'in­trattenimento. Lo spettacolo tende ad essere la forma attraverso cui passano tutte le altre rappresentazioni, senza la quale non c'è ap­prezzabile significazione. Nascono cosìl'intratte­nimento sportivo, e l’ edutainment , la forma aggiornata delle rubriche culturali; ma il genere più rilevan­te è l’infotainment, l'informazione spettacolarizzata, con una forte connotazione politica.
3. La terza fase inizia alla fine degli anni Ottanta quando vanno in corto circuito le ultime distinzioni tra fiction e non fiction. Si cer­cano tinte forti e contenuti più pepati perché una certa usura ha lo­gorato la conversazione del talk show e del contenitore. La televi­sione ora è ansiosa di mettere in scena la verità, o la realtà, anche con scivolate nel melodramma, applicando le stesse modalità nar­rative che ha applicato alla fiction. Quando ormai tutto è stato visto e consumato, si cercano sensazioni sempre più forti rappre­sentando eventi sempre più strani, drammatici, sgradevoli; oppure si mette in scena la vita intima di persone qualunque, assimilabili agli spettatori stessi, in coincidenza con quanto avviene in Internet attraverso le webcam. Forse questa è già una quarta fase. La televisione oggi si presenta come sovrapposizione e intreccio di questi tre modelli di neotelevisione e dei loro ibridi e replicanti, ed è sempre più aperta a strategie individuali di fruizione. Gli stes­si formati dei programmi ci dimostrano come il rapporto del pub­blico con la TV si sia modificato.

La prima ondata della neotelevisione

CAPITOLO QUARTO
1.Il contenitore: un programma cornice

 

II primo prodotto neotelevisivo è il «programma contenitore»: un involucro lungoin cui un conduttore propone uno dopo l'altro frammenti anche molto diversi fra loro. Nel 1981 Mauro Wolf so­stenne che la novità principale della neotelevisione era proprio nel­la proposta di «cornici» capaci di comprendere in sé altre forme di spettacolo, di vario genere. Sostanzialmente il contenitore è una grande cornice: un «contratto comunicativo privo di tematizzazione» con il trasparente intento di unificare tutta la platea televisiva, di parlare a tutti (TV generalista), superando la fram­mentazione indotta dalla maggiore complessità della società e dall'accresciuta offerta di programmi TV. Capostipite della dinastia dei contenitori è considerato Domenica in nell'edizione del 1976.
L'assemblaggio di tanti prodotti diversi nel contenitore non può essere casuale e confuso, la selezione e la composizione devono rispondere a regole pre­cise e il programma deve avere una sua cifra stilistica particolare, che lo renda riconoscibile fra tanti altri. In queste operazioni di con­tenuto e di stile la televisione rivisita alcuni generi dello spettacolo dal vivo, come il varietà e il circo, di cui abbiamo già parlato, e che costituiscono torme di spettacolo tipiche della società di massa fine Ottocento, prima della riproducibilità tecnica assicurata dai media.
Circo e varietà nelle sue varie forme  erano spettacoli compositi, che riunivano tante «attra­zioni», o «numeri», privi di collegamento reciproco e largamente intercambiabili. La selezione dei numeri era affidata all’impresario e l'ordine in cui collocare i numeri scelti doveva rispondere a po­che regole compositive elementari:
a)  alternare sempre le tipologie di attrazioni, in modo che cia­scuna sia preceduta e seguita da altre di diverso tipo, seguendo la scansione parla/canta/balla;
b)  creare nel pubblico una serie di aspettative nei confronti di alcuni dei numeri ritenuti più attraenti e fatti oggetto di una op­portuna pubblicità, collocati nei punti strategici dello spettacolo;
e) le attrazioni sono sempre indipendenti l'una dall'altra e non in­teragiscono mai fra loro. È consentito, qualche volta, un gran finale con tutti gli artisti in scena a salutare;
d) mantenere una struttura molto duttile, in grado di assorbire bene gli imprevisti e gli incerti del mestiere.

2. Il contenitore: il ruolo dei conduttori

Il conduttore (host) è il personaggio chiave del contenitore, indispensabile per far funziona­re il programma. Nella veterotelevisione non c'era il conduttore, ma il «pre­sentatore», un ruolo meno protagonistico, che si limitava a porgere un prodotto già pensato da altri. Anche il più celebre personaggio di questa e delle successive stagioni televisive, Mike Bongiorno, si e sempre considerato, con straordinaria modestia, un presentatore .Qualunque sia la professione di partenza del conduttore  egli tende ad essere il «testimonial», il rappresentante, il ga­rante della rete. Il conduttore non si considera però un inquilino della rete, ma un proprietario della trasmissione, che in quanto pa­drone può «ospitare» altri; infatti si riferisce alla trasmissione di­cendo «il mio programma», come il tenutario di un locale o di un bar. Per la difficoltà del compito, ci sono esempi di conduzione in coppia (come Mondaini e Vianello), in trio, o con ospiti permanenti che sono attrazioni viventi (ad esempio, il mago Giucas Casella). Oppure il conduttore ha una «spalla»: così si definisce nel teatro comico l'attore che con la sua recitazione permette al prim'attore di pronunciare le sue battute. In questo caso generalmente è un uo­mo che come spalla  ha una don­na. Il rapporto è gerarchico, come l'arbitro con i guardalinee.
Nel contenitore troviamo inserti filmati, collegamenti con altri luoghi  e con altri programmi radiofonici e televisivi, cartoni animati, documentari, se­quenze informative. Ci sono anche piccoli programmi nel pro­gramma: ad esempio una breve fiction seriale ,altrimenti un gioco. Talvolta gli inserti sono composti di al­tri programmi accorciati e riciclati; in altri casi un inserto di suc­cesso viene dilatato fino a diventare una trasmissione a sé. Di Casa Vianello o Forum ci sono state versioni autonome, o inserite in pro­grammi contenitore (La Giostra su Canale 5).
Il compito del conduttore non è facile: i numeri e i personaggi potrebbero indifferentemente andare su altre trasmissioni, ma lui deve conferire al suo contenitore un'atmosfera e un'impronta par­titolare.
Il presentatore non è particolarmente bravo né a cantare, né a suonare, né a ballare: i suoi strumenti di lavoro sono la parola e il sorri­so. Il modo - l'unico - che lui ha di amalgamare tutti i diversi conte­nuti è la conversazione. È un curioso paradosso; in questa debor­dante abbondanza di immagini, chi poi le deve cucire è l'oralità tele­visiva, il mestiere di «fine dicitore» della conduzione. Con chi conversa il conduttore? Se la conduzione è collettiva, con i suoi com­pagni d'avventura o con la sua spalla. In un programma scritto bene questi rapporti non sono mai servili o stabiliti una volta per tutte, ma increspati da qualche bonaria dialettica.
In secondo luogo il conduttore si rivolge direttamente al pub­blico a casa di cui si considera amico, oppure risponde al telefono. Infi­ne, chiacchiera con i suoi «ospiti», che in realtà sono lì per fare il loro numero: cantare la canzone, rispondere all'intervista, parlare del film che sta per uscire e di cui sarà mandato in onda un brano. Come i re magi, gli ospiti del contenitore arrivano solo al momen­to giusto, quello della loro performance
C'è anche chi non si accontenta di fare il conduttore, e fa anche lo show­man. Questo non vale per le periodiche trasgressioni di Adriano Celentano. In un sabato del 1987 a Fantastico, la sera della vigilia del referendum sulla cac­cia, dichiarò in diretta, illegalmente, le sue intenzioni di voto e in­vitò anzi ad annullare la scheda con scritte contro la caccia ten­dendo (forse) un'imboscata alla rete perché sul copione non c'era niente del genere.
Per la TV di tutti giorni gli spettatori preferiscono una condu­zione di profilo più basso, più scorrevole, più misurata.
Molto importante è il cosiddetto «canale complementare» della conversazione, cioè i segni non linguistici, gesti, sguardi, atteggia­menti del viso, esclamazioni e mugugni, che spesso rappresenta il punto di vista più personale del conduttore. Naturalmente per il pubblico la dissonanza fra il canale linguistico e quello complementare è la cosa più divertente. La trasmissione diventa una partita a tre fra conduttore, pubblico a casa (de­stinatario degli ammiccamenti e dei borbottii) e l'ospite.
La duttilità del contenitore ha portato ad una rapida evoluzione della formula e alla sua ibridazione con tutto ciò che fa spettacolo e, contemporaneamente, ad una fortunata ascesa dei conduttori, in particolare di Pippo Baudo e di Raffaella Carrà, protagonisti dei contenitori. Il loro stato è un successo più che un potere: la bravu­ra dei due e di molti emuli li ha resi insostituibili nella conduzione di ogni programma ambizioso, che non potesse permettersi di per­dere; tuttavia il fatto di non prender mai posizioni, di non esprime­re mai opinioni, di presentare una scelta di ospiti neutra, ha ridotto il potenziale politico di questo potere, utilizzato infatti soprattutto per pendolare tra la RAI e l'allora Fininvest, in una specie di calcio-mercato.

3. Il talk show

II talk show è una forma di intrattenimento parlato, fondato sulla conversazione tra un conduttore e i suoi ospiti in studio o variamente collegati, con eventuali inserti filmati e la possibile presenza di un pubblico. In Italia arriva giusto al termine dell'esperienza del monopolio, con la triade Bontà loro, Acquario, Grand'Italia, tutti di Mau­rizio Costanzo. II talk show è molto diverso dai dibattiti dal vivo, o trasmessi per televisione, in cui due o più «esperti» o persone im­portanti, magari con opinioni contrapposte, discutono di un argo­mento, eventualmente rispondendo anche a domande del pubblico. Poiché gli esperti potrebbero accapigliarsi fra di loro, nel dibattito è richiesta la presenza di un «moderatore» che dia ordine al dibattito, faccia parlare tutti, dia la parola al pubblico e faccia anche gli onori di casa. I partecipanti, rigorosamente dietro un tavolo, parlano esclu­sivamente del tema per il quale sono stati chiamati e sul quale si pre­sume una loro competenza specialistica o autorevolezza.
Il talk show non ha tavoli, ma poltrone e divani. Nessuno viene invitato ad un talk show soltanto per la sua competenza; i partecipanti non sono chiamati a parlare soltanto di quello per cui sono importanti: ad esempio a un premio Nobel per la fisica si chiede anche come passa le domeniche, con il politico si discute di calcio, l'attrice famosa si rivela un'amica dei gatti o dei cani. Inoltre, spesso sono presenti nel talk show persone comuni. La loro presenza attenua la sensazione che la televisione non sia una finestra sul mondo, ma più propriamente una finestra su se stessa: essa mette in scena e ripropone continuamente se stessa, con il suo «circo mediatico», l'insieme di personaggi che si spostano da un programma all'altro, i conduttori che si invitano a vicenda nei loro salotti, i presenzialismi abituali.
Il talk show ha il suo elemento forte nella conversazione. Le regole del talk show non sono le stesse di un dibattito, ma piuttosto quelle di un ricevimento in un salotto: ad esempio, incon­trando ad una festa un architetto, sarebbe considerato poco elegan­te tempestarlo di domande sull'architettura, e decisamente volgare chiedere consigli gratuiti sulla ristrutturazione del proprio apparta mento. Si parla invece del più e del meno; nessun argomento viene sviscerato fino in fondo, ma si scivola tranquillamente da un tema all'altro, mentre il padrone di casa passa da un gruppo all'altro dei suoi ospiti, partecipando a frammenti di conversazione.
Nel talk show non è incorporato solo un rito mondano, comun­que piacevole, ma un ideale partecipativo e in qualche modo egalitario, perché rivela che anche i vip sono come noi, hanno passioni e hobby, ricordi e perfino amarezze; ma contemporaneamente rap­presenta un luogo assai ambito dai vip più intelligenti, che hanno una rara occasione per mettere in scena la loro umanità vera o pre­sunta.
Si accresce così il potere del conduttore, che non è soltanto una particolare visibilità, ma la sua capacità di rispondere contempora­neamente a due esigenze solitamente contrapposte: quella della gen­te comune, che gradisce vedere una volta tanto i potenti privi del­l'alone che li circonda, e dell'elite che ha un'occasione gratuita di rinforzare la propria immagine nel senso di una maggiore umanità e di un ge­nerico populismo. Nel talk il condutto­re è un essere «anfibio»; rappresenta la gente comune nel rappor­to con la classe dirigente ma contemporaneamente appartiene al jet set, si relaziona e interagisce pariteticamente con suoi esponenti, svolgendo un autorevole ruolo da intermediario, da interfaccia. Essendo il talk un programma for­temente personalizzato, i conduttori hanno presto accentrato in sé le decisioni cruciali sull'organizzazione della trasmissione, sui temi da affrontare, e soprattutto sulla delicata scelta degli ospiti da invi­tare, consentendo la formazione di un intreccio e scambio di reci­proci favori.

4. La macchina scenica del talk. show

II funzionamento del talk show ha innanzitutto un'esigenza compo­sitiva; quella di mettere ospiti abbastanza vari perché riescano a dialogare fra loro ma anche a non dire le stesse cose.
Il carburante della macchina scenica è il talk, la conversazione; perché tutto proceda come un meccanismo ben oliato, fluido, il conduttore deve dirigere l'andamento del parlato. È bene che ogni tanto vi sia­no frammenti di discussione animata, il personag­gio che capovolge gli argomenti comunemente accettati e il senso comune, o si mostra preda di qualche furia o passione: la fortuna televisiva di un personaggio come Vittorio Sgarbi nasce di qui. Tut­tavia la movenza classica del talk show è l'alternarsi di ospiti di va­ria estrazione e tonalità con cui il conduttore parla, sperando che riescano a conversare vivacemente fra loro, e spostando l'attenzione dall'uno all'altro, e quindi da una tonalità all'altra, appena il tono della trasmissione cala. Il pubblico mostra di non gradire una con­versazione con più di due o tre partner; si stanca quando tutti i par­tecipanti parlano contemporaneamente. Per questo il talk show è in realtà un flusso tra vari segmenti, «numeri», siparietti a cui cor­rispondono altrettanti frammenti di conversazione, cuciti insieme dal conduttore che guida le telecamere sui partecipanti che in quel momento parlano. Il conduttore dirige, ma raramente è parte della discus­sione. Se lo fa, interpreta un ruolo di avvocato della gente comune e del buon senso. Il talk show ha uno scenario fisso e un unico conduttore in sce­na (dunque è molto economico), ma è anche un formato molto duttile, che consente di rappresentare di volta in volta personaggi e storie molto diversi e di seguire lo spirito del tempo, adattandosi alle esigenze di una televisione generalista e modificando impercettibilmente la propria formula. Vi sono talk show in cui l'attualità è del tutto assente, e in cui prevale un aspetto mondano: i partecipanti parlano del bel loro mondo, è la formula che Luciano Rispoli ha adottato per anni nel suo Tappeto volante.  In altri, l'attualità è filtrata da un interesse pre­valente: è il caso di Harem condotto da Catherine Spaak e tutto gio­cato al femminile. In altri ancora, è il caso del longevo (dal 1982) Maurizio Costanzo Show, l'attualità partecipa a pieno titolo alla for­mula della trasmissione.

5. La fiction seriale d'importazione: soap, series, telenovelas

La fiction è una parte centrale dell'intrattenimento neotelevisivo per ragioni strutturali. Quando vediamo un film accettiamo per il no­stro divertimento di considerare provvisoriamente vero, per il tem­po che passiamo nella sala, quello che notoriamente è invece una costruzione di fantasia e non sempre credibile. Accettiamo questa che è stata chiamata «sospensione dell'incredulità», nella previsio­ne di guadagnarci qualche cosa, cioè il nostro piacevole intrattenimento o un arricchimento culturale.
La fiction della veterotelevisione aveva spesso una «morale del­la favola», cioè intendeva trasmettere valori o principi etici o poli­tici, in forma parabolica, o aveva una forte intenzionalità di elevazione culturale dello spettatore. La funzione parabolica si attenua molto nella neo-TV e tende spesso a coincidere con i valori della sfera privata nella società occidentale (amore, amicizia, famiglia, le doti individuali) e con la dialettica fra integrazione sociale e competitivita, perché sono i più rispondenti a un intento generalista.
La neotelevisione fa un largo uso di fiction importata (prima­riamente dagli USA, ma anche dall'America Latina per le telenove­las e dal Giappone ed Estremo Oriente per i cartoni animati). Ciò avviene per il basso costo di questi prodotti e il gran numero di pun­tate disponibili, per deviare sulle proprie reti l'immagine di succes­so dell'America, ma soprattutto per orientare drasticamente il pa­linsesto televisivo alla preponderanza della vita quotidiana con i suoi affetti e le sue emozioni, che sono la vera materia prima della fiction americana.
I bassi costi della fiction statunitense sono dovuti all'ampiezza del mercato americano, che permette di ripagare totalmente i costi di realizzazione, peraltro non elevati rispetto al cinema per l'ampia industrializzazione della produzione negli studios. È possibile così vendere all'estero un prodotto abbondante, collaudato e completa­mente ammortizzato, in cui sono già previste all'origine cesure per l'inserimento della pubblicità, e il cui prezzo può essere costruito sulle capacità di pagamento, anche ridotte, del sistema televisivo dei vari paesi. In pratica, in ogni paese del mondo c'è disponibilità di prodotto americano a prezzi inferiori a quelli che sarebbero stati necessari a produrre sul posto un programma, anche più modesto, di pari durata.
Le commedie sentimentali dall'infinito numero di puntate (di 30'), sempre imperniate sulle traversie amorose di pochi personaggi fissi, sono dette soap operas, perché un tempo sponsorizzate dalle in­dustrie dei detersivi, e sono di provenienza radiofonica.  La soap è una vera «opera aperta» in cui i personaggi, ad ogni puntata, fanno qualche cosa che turba l'e­quilibrio originario, che poi si ricompone e rimanda all'appun­tamento successivo. In generale, l'azione è ridotta al minimo: non im­porta tanto cosa accade, ma come i vari personaggi commentano l'ac­caduto; inquadratura tipica della soap opera (girata solitamente in elettronica) è il controcampo: le tre telecamere sfruttano il primo pia­no e l'asse orizzontale per sottolineare i turni di parola dei protago­nisti ed evidenziare la resa visiva dell'azione verbale, l'unica che con­ti, quasi un retaggio dell'origine radiofonica del genere.
La sitcom(«situation comedy») ha invece carattere più brillan­te, spesso umoristico. Anch'essa è realizzata in interni ed è compo­sta da quadri familiari con personaggi fissi di cui emergono periodicamente tratti caratteristici; programmata in orari più pregiati (nel tardo pomeriggio, a striscia, o nel week-end) ha invece personaggi più caratterizzati psicologicamente, e descrive un arco di esperien­ze più largo. La sitcom, che tipicamente dura mezz'ora, è animata da un dialogo vivace con molte battute, spesso con sottofondo di risate e applausi, che deriva dall'usanza americana di riprenderla in un teatro, davanti a un vero pubblico. La struttura narrativa è più forte, più vicina a quella del teatro leggero e del cinema di consu­mo americano.
I telefilm o serie televisive(«series») sono cicli di episodi, girati anche in esterni, costruiti attorno alle avventure di uno o più per­sonaggi, in cui a personaggi fissi e a situazioni costanti o ricorrenti si aggiunge, per ogni episodio, qualche «guest star» (attore ospite). Grazie alla presenza dell'ospite la sceneggiatura prevede qualche evento nuovo, che modifica il quadro fisso per poi ricomporsi im­mancabilmente alla fine dell'episodio, dandogli un senso compiuto e portando a termine una storia: si tratti del poliziotto di Serpico o dell'avvocato di Perry Mason, del cane di Lassie o del cavallo di Fu­ria.Di norma dura 50'-60'; il ciclo può comprendere dalla decina alle centinaia di episodi.
Nella sitcom e nel telefilm i protagonisti sono senza memoria; l'episodio è concluso in sé, non c'è un ordine predefinito delle pun­tate e la sequenza può essere alterata senza che nessuno se ne ac­corga. I personaggi rimangono uguali a se stessi, non crescono psi­cologicamente né impattano mai con eventi della sfera pubblica: mai si sentirà un riferimento al presidente degli Stati Uniti o al tifo­ne che ha sconvolto la Florida, perché questo ridurrebbe la fruzione «generalista» della serie in tutto il mondo e complicherebbe la vendita degli episodi, dando loro un ordine obbligato.
Una forma più recente di fiction americana è costituita dai se­rial:vicende narrative ben più complesse e sfarzose delle soap, in cui ogni puntata è un segmento narrativo incompiuto (pur avendo un significato a sé stante), concatenata alle precedenti e alle suc­cessive. La narrazione può procedere per anni e anni introdu-cendo nuovi personaggi ed eliminandone altri: come in Dallas o in Dynasty. Di norma ogni episodio dura meno di 30'.
La neotelevisione ha importato in Italia per la prima volta tele­novelasbrasiliane e di altri paesi sudamericani, attirata dal loro co­sto esiguo. Si tratta di una variante latina della soap opera dove l'e­lemento sentimentale è più cupo ed elementare; gli affetti sono un mondo geloso e chiuso, i sentimenti a fosche tinte con qualche ge­sto melodrammatico e saltuarie incursioni nell'occultismo e nella stregoneria. Diversamente dalla soap, la telenovela ha un meccani­smo narrativo chiuso, destinato a concludersi (anche per motivi pro­duttivi) dopo un numero determinato di puntate che però può es­sere molto elevato, fino a varie centinaia.
In Europa non si è mai smesso di produrre fiction televisiva e ci si è confrontati, con alterna fortuna, con la serialità. In particolare le televisioni pubbliche tedesche hanno prodotto telefilm di successo come L'Ispettore Derrick, o La clinica della Foresta Nera, in un nume­ro consistente di puntate che sono giunte anche in Italia. La specia­lità italiana è stata a lungo la cosiddetta miniserie, una produzione di pregio dalla piccola serialità (da due a sei puntate) di durata cinema­tografica (episodi di 90'). Discendente dal romanzo sceneggiato e fortemente connotata in senso nazionale, spesso diretta da affermati registi di estrazione cinematografica, è adatta ad una collocazione in prima serata ma è debole sul mercato internazionale. La produzione più nota è La Piovra, a tema mafioso, che ha avuto nove edizioni dal 1984 al 1998 e ha venduto largamente all'estero, mentre era accusa­ta in patria di aver dato una cattiva immagine dell'Italia.

6. Televendite, telepromozioni, magie

La natura commerciale della televisione privata è apparsa chiaramente con la comparsa, alla fine degli anni Settanta, della televen­dita, cioè una vendita di prodotti e servizi totalmente realizzata attraverso la televisione e il telefono, e della telepromozione, in cui un prodotto è propagandato all'interno di un programma - spesso dal suo conduttore in funzione di «testimonial» — ma è poi realizzata tramite i normali circuiti di vendita.
Il successo delle televenditeè stato molto largo e ha consentito a molte piccole emittenti di vivere. Il televenditore televisivo discende direttamente dal banditore delle aste, dal venditore ambulante nelle fiere e dal piazzista. Descrive il prodotto in forme iperboliche e roboanti, o in modo eccentrico ed esoterico. In televisione è stato venduto di tutto. La particolare natura del mezzo televisivo consente una gestione prevalentemente orale di transazioni che si fondano generalmente su contratti scrit­ti, documenti e controlli, e in cui i consuma­tori più semplici abbandonano le tradizionali diffidenze. Sono sta­nte così possibili numerose truffe, di cui la più famosa resta quella del «telefinanziere» Giorgio Mendella, che si dette alla fuga dopo aver raccolto centinaia di miliardi per fantomatici villaggi turistici in Romania attraverso la TV, spillando soldi anche a personaggi del­lo spettacolo come Alberto Sordi, Dalila Di Lazzaro e Nino Man­fredi, che diventarono di fatto suoi testimonial. La televendita ha prodotto o rivelato personaggi televisivi di grande statura, come l'ansimante Roberto Da Crema o come la controversa Vanna Mar­chi con la figlia Stefania, venditrice di creme di bellezza ora sospinta ai margini per ripetuti problemi con la giustizia, ma dotata di no­tevole presenza scenica.
La telepromozioneè invece la preferita per quei prodotti per i quali la clientela ama poter toccare con mano. Il mobilificio Aiazzone di Biella è stato il protagonista assoluto delle telepromozioni, prima della tragica morte del titolari  in un incidente aereo (1986). La televisione privata ha concesso poi un grande spazio a maghi, astrologi, occultisti,a cui il servizio pubblico avrà sbarrato il passo. Molti veggenti si possono consultare su piccole televisioni tramite telefono  e questo consente di farlo conoscere ad un pubblico più vasto, che peraltro sembra sempre interessato ad ascoltare i guai degli altri, L’immagine a colori ha consentito alla magia di esibire colorati costumi e complicati riti in cui prevale l’elemento egizio. Con il mago Otelma, ospite di vari talk show, nasce l’astrologia spettacolo.

 

 

La successiva ondata

Capitolo quinto
1. L'informazione

L'informazione distanzia profondamen­te la televisione dal cinema, che ne ha sempre fatto un uso mode­sto, subalterno alla sua primaria vocazione di raccontare la fiction. Della riluttanza del cinema verso l'informazione si possono dare spiegazioni tecniche: la lunghezza dei tempi di trasporto, sviluppo e montaggio della pellicola non avrebbero mai permesso al film di far concorrenza ai giornali nella diffusione delle notizie. Le ragioni primarie sono però estetiche: soltanto la recitazione di attori pro­fessionisti, la grandiosità degli esterni e degli scenari, la complessità della lavorazione con scene ripetute più volte fino al miglior risul­tato poteva valorizzare pienamente i grandi mezzi espressivi del ci­nema. Per questo il cinema si è limitato ad accompagnare il film in cartellone con un «cinegiornale», un notiziario con cadenza periodica che, come i settimanali stampati, non pretendeva di dare le no­tizie ma di approfondirne alcune, senza alcun obbligo di comple­tezza; oggi i cinegiornali sono praticamente scomparsi.
Dal dopoguerra invece la televisione mandò in onda i suoi notiziari quotidiani, come la radio. La TV non si sottraeva dunque a un «contratto di completezza» e lanciava ai quotidiani stampati un guanto di sfida. Un contratto comunicativo di completezza significa che per un giornale quotidiano, come per un TG o un giornale radio, è un grave infortunio professionale «bucare» una notizia importan­te, cioè che tutti gli altri organi di informazione in quel determinato giorno ritengono tale. Al contrario per un settimanale la decisione sugli argomenti da ap­profondire è una scelta redazionale più libera.
All'inizio il telegiornale era di tipo radiofonico: uno speaker se­duto ad una scrivania leggeva le notizie, mentre alle sue spalle venivano proiettate immagini fisse e in movimento. Queste rappresentavano un problema: anche la televisione aveva come il cinema il problema della lentezza di lavorazione della pellicola. Dopo il 1957 l'invenzione dell'Ampex, la videoregistrazione, facilitò la pro­lusione delle immagini. In America i telegiornali si dimostrano un genere di grande ascolto ed evolvono subito verso la personalizzazione. Essi so­no affidati ad un giornalista, anchorman, che è più di un direttore: presenta e «narra» il TG, ne garantisce l'attendibilità presso il pub­blico con la sua personale autorevolezza e dialoga con i corrispon­denti e gli inviati i cui servizi appaiono sullo schermo. Il termine fu coniato sulla personalità di Walter Cronkite, protagonista delle CBS News, che annuncerà al mondo l'assassinio di Kennedy nel 1963.
In Italia le edizioni regolari del telegiornale cominciano lo stesso giorno dell'inizio delle trasmissioni, il 3 gennaio 1954, alle 20,45.  II TG è dunque una marca comunicativa fondativa della TV italiana, da largo spazio alla componente istituzionale della politi­ca, adotta un tono comunicativo ufficioso: le notizie sono lette da un annunciatore e si presumono non scritte da lui, ma da una invi­sibile redazione rappresentativa della RAI. Dal 1968 i TG  saranno letti da giornalisti, non più da an­nunciatori: un inizio di personalizzazione.
Le modifiche alla struttura del TG sono tutte in direzione del modello americano: personalizzazione del giornalista che conduce telegiornale, che diventa a tutti gli effetti un divo, anche se non avrà l'autorevolezza dell'anchorman, superamento di un ideale di obiettività e di ufficialità con l'introduzione di elementi di tendenza e parzialità, arricchimento della musica, della grafica, della scenografia. Contemporaneamente alle edizioni principali dei TG, ;i metà giornata e in prima serata, si aggiunge un numero sempre maggiore di edizioni che spesso hanno la struttura di breve frammento propria della neotelevisione («notizie flash») e spesso sono inglobate nei contenitori. Fino al 1991 questi processi sono tutti interni alla televisione pubblica perché un limite precludeva l'informazione alla televisione privata; successiva­mente essi attraversano l'intero sistema televisivo italiano.

2. L'ìnfotainment

La televisione non si limita a dare le notizie; ne seleziona alcune per svilupparle e trattarle in modo più approfondito nei cosiddetti «programmi di approfondimento». Essi compaiono già nella vete-rotelevisione, e generalmente si fanno risalire a RT - Rotocalco te­levisivo del 1962, un programma quindicinale realizzato da Enzo Biagi. I programmi di approfondimento come i settimanali stampati sono composti di vari «servi­zi», mini-inchieste dedicate a vari eventi di attualità, di cronaca e di costume, generalmente meno ufficiose dei telegiornali. Negli Stati Uniti anche in questo formato prevaleva la figura dell'anchorman. Nella neotelevisione l'approfondimento informativo si intreccia con il talk show producendo un nuovo metagenere, l’Ìnfotainment, un ibrido tra information ed entertainment, una informazione spet­tacolarizzata, su cui si riverbera il compito di proiettare immagini pubbliche, che la politica non è più in grado di produrre autonomamente. Il talk show aveva aperto la strada riducendo radicalmente la deferenza nei confronti dei politici e costringendo la politica neitempi veloci della televisione: adesso era possibile fare della politica spettacolarizzata un genere di largo ascolto purché se ne accen­tuassero gli elementi di sfida tra awersari,
La trasmissione si svolge in uno studio, ma può anche svolgersi in un luogo emblematico per quella issue (ad esempio, Napoli per un Ìnfotainment sulla disoccupazione), procurandosi un teatro o una palestra. In sala c'è un pubblico e vari ospiti, fra cui esperti del tema e vari politici di diversi schieramenti, che potranno confrontare le rispettive policies. Altri ospiti possono essere in collegamento |da altre città; ogni emittente poi può usare come ospiti i propri volti: personaggi televisivi, opinionisti.  Si possono mandare in onda servizi registrati su questo o quell'altro aspetto della issue che viene trattata.
Rispetto al talk show, l'infotainment è assai più radicale,  la radicalità coinvolge anche il conduttore, che depone sostanzialmente la funzione arbitrale; anche quando non dichiara esplicitamente le sue opinioni, parlano per lui i servizi che manda in onda, la scelta dei collegamenti e degli invitati.
L'infotainment ha dunque un suo vigore drammatico, che lo allontana dal talk show. Se consideriamo i vari modi per parlare del­la politica - issue, policy, politics, gossip  - nell'infotainment c'è'un vettore che sale verso le issues, mentre nel talk show prevalgono po­litics e gossip. L'attenzione ai contenuti (issues, policies) dell'infotainment ha posto le basi per un avvicinamento fortissimo, quasi una coincidenza tra arena politica ed arena televisiva.

3. I metapersonaggi

Nella seconda ondata della neo-TV l'esigenza di narrazione spetta­colarizzata è ormai spesso superiore alle capacità dei protagonisti. Compaiono in questa fase sulla scena televisiva figure che corri­spondono da vicino alle maschere della commedia dell'arte. La maschera contiene in sé una carica spettacolare nettamente superiore a quella dei personaggi «normali» e ad essa fa ricorso la neotelevisione per penetrare più a fondo nei meccanismi dell'entertainment. Esisteva a Roma un teatro satirico, il Bagaglino, che tradizionalmente metteva alla berlina i politici, rappresentati da attori truccati a loro somiglianza. Nel 1987 il Bagaglino, prima tenuto un po' a distanza, sbarca alla televisione pubblica italiana (il primo programma è Biberon, del 87), da cui non si allontanerà più, sfornando a beneficio del pubbl­ico una collezione di sosia di uomini importanti. Contemporaneamente a Striscia la notizia compare il Gabibbo, una maschera che incarna il vendicatore dei torti subiti dalla gente comune, ma anche l'accompagnatore delle veline o il propagandista delle telepromozioni: una vera sintesi del populismo della televisione commerciale. Sotto la sua pelle di peluche si cela un ottimo attore che però non mostra mai il volto o il corpo ed è doppiato da un'altra voce: condannato dal suo gran successo a non comparire mai.
Chiamiamo «metapersonaggi» queste moderne maschere dalla grande carica spettacolare e che insieme esprimono la tendenza contemporanea alla virtualizzazione della realtà, come Platinette o la signora Coriandoli. L'uso scenico dei sosia non va confuso con la satira, che è un genere tutto sommato più tradizionale. Se Sabina Guzzanti ne l’ ottavo Nano fa la caricatura di Berlusconi, truccandosi come Berlusconi ed imitando la sua pronuncia, fa intervenire il personaggio in una finestra della trasmissione solo per il tempo necessario a mettere a segno la satira e con una partitura esclusivamente finalizzata essa. Altro è quando il sosia, il metapersonaggio, viene agito insieme a personaggi provenienti dalla realtà. Mai dire gol fa dei metapersonaggi la cifra della trasmissione: i veri animatori del programma sono le voci fuori campo dei tre irriverenti autori. Questa tendenza alla sovrapposizione e commistione del piano della realtà e di quello della finzione genera forti e felici ambiguità, che vengono sfruttate ai più diversi fini spettacolari. La presenza di un metapersonaggio come il Gabibbo è sempre garanzia del carat­tere virtuale di ogni evento e quindi della sua appartenenza alla sfe­ra dell'intrattenimento, anche quando il Gabibbo mostra e denun­cia episodi veri di spreco o malgoverno; ma ha anche un aspetto iperrealista, proprio perché interviene su storture vere con più evi­denza rispetto alle istituzioni reali che dovrebbero farlo. I metapersonaggi, infatti, non imitano ma creano la realtà. Il finto stilista Valentino, anch'esso di Striscia la noti­zia, nasce come imitazione caricaturale del Valentino vero, ma as­sume un'indipendente ed autonoma identità, prendendo definiti­vamente le distanze dal vero personaggio.

4. L'edutainment

Anche la cultura è adesso una forma di intrattenimento. L’edutainment rappresenta una forma di ibridazione tra intrattenimento e tra­smissioni educative. Quelle che sopravvivono nella loro forma tra­dizionale vengono spostate in ore morte del palinsesto (la notte) o spostate su canali tematici satellitari, perché pur essendo apprezza­te da nicchie di spettatori sono prive di attrazione per un pubblico che chiede una televisione più «forte», più spettacolare. L'edutain­ment non rinuncia ad una marca educativa, attraverso l'intervento di scienziati ed esperti e la proposizione di documentari più o me­no lunghi su temi naturalistici, fisici, ecc, ma li intarsia con forme provenienti dal contenitore. Quark, ad esempio, si compone di frammenti di tonalità diversa: oltre alla parte scientifica propriamente detta, c'è un'ampia parte del programma condotta con ospiti e con un conduttore.  In questa «terra di mezzo» tra scienza e fiction si incontra una  variante dell'edutainment ancora non molto diffusa in Italia : il docudrama. Si tratta della ricostruzione di un evento storico (ma anche di una conquista scientifica, di una corrente culturale) in cui non si ricorre solo alla forma espressiva del documentario, o a un talk show con esperti, testimoni, protagonisti, ma si punta decisamente sul lo­ro intreccio, sulla fiction, che può essere preesistente (spezzoni di film o di altri programmi televisivi) ma anche realizzata ad hoc.
Il docudrama permette di ricostruire «artificialmente» qualcosa che non si è in grado di documentare, e consente di creare una trasmissione forte di diversi ingredienti.
Spesso le operazioni di mix di questo tipo permettono di resti­tuire ad un argomento quell'intensità che solo la virtualizzazione sa dare, e che non trapela invece dai documentari. Si fondano su una ricetta simile programmi come Chi l'ha visto? o che ricostruiscono casi di cronaca nera o «gialli» irrisolti.
Nell’edutainment è contenuto un paradosso per cui ciò che è ricostruito è più efficace del reale. Simulare e ricostruire una situazione del genere risulta molto più rapido, economico ed efficace. Essendo tutto confezionato «su misura», ci consente di rendere al massimo quell'effetto-realtà che non si avrebbe facilmente in una ripresa dal vivo.

5. Lo sportainment

Anche lo sport televisivo si è profondamente intrecciato con la neo­televisione, anche perché stava compiendo lo stesso percorso da no profit a società per azioni che era proprio delle istituzioni televisive. Una trasformazione non da poco: l'obiettivo finale della società non è più il bel gioco, né il risultato agonistico, ma quello finanziario. Lo sport in televisione è un genere di pregio elevato perché rea lizza eventi la cui importanza e collocazione in palinsesto è larga mente prevedibile, anche se non se ne conosce il risultato, perché ha un calendario deciso con largo anticipo, perché ha un carattere-seriale (il campionato di calcio è un racconto a puntate), e perché il suo seguito popolare è assai vasto e fidelizzato. Quando parliamo di sport in televisione parliamo soprattutto di calcio, che è il genere più abbondante fra quelli ad alto ascolto. La Formula Uno di au­tomobilismo può realizzare ascolti anche maggiori, ma dispone di un numero di eventi annuali molto basso (i Gran Premi sono solo sedici) che si svolgono talvolta in ore infelici a causa dei fusi orari, e con una fidelizzazione assai più incerta, nonostante il fenomeno Ferrari, del tifo calcistico. 11 ciclismo ha il suo pubblico di appassionati, ma ha problemi di ripresa enormi, perché non si svolge in un luogo circoscritto, ma su strada: la corsa si snoda fra campi e valli per un'intera giornata, seguita da una variopinta carovana di auto.Il ciclismo è dunque, per una televisione, sopratutto un investimento di prestigio, ad alto costo.
Altri sport vantano gruppi di appassionati molto più ristretti o hanno un rendimento spettacalare modesto, riservato a pochi eletti, come il golf, l'equitazione, pallanuoto, i meeting di atletica che costringono la regia a spostarsi continuamente da una gara all'altra.
Nella neotelevisione gli sport più affermati sono partecipi dell'in­trattenimento televisivo e contribuiscono alla narrazione. Lo sport diventa tema, occasione, pretesto di narrazione televisiva; nei primi tempi della netoelevisione esso è riservato alla platea, pur vastissima, degli appassionati. Successivamente diventa totalmente generalista, fruibile da tutti.
La strada principale del calcio televisivo è quella di supera re il fanatismo degli adepti per diventare spettacolo di tutti. Una tap a fondamentale di questa legittimazione popolare del calcio sono i vittoriosi Mondiali del 1982 in Spagna, in cui la partecipazione appassionata del presidente della Repubblica Sandro Pertini alle partite e ai festeggiamenti successivi dimostrò irrevocabilmente la natura nazionalpopolare, corale, patriottica del calcio e la sua redenzione da genere culturale «basso». Addirittura, il protagonismo di Pertini, che ospitò la squadra sull'aereo presidenziale, rubò la scena ai giocatori.
La tappa successiva di questo racconto seriale sono i Mondiali del 1990. In questa occasione nasce su Telemontecarlo Galagoal, poi Go­leada, condotto da Alba Parietti. Per la prima volta una showgirl con­duce una trasmissione sul calcio, e per giunta manifestando aperta­mente di non sapere niente di sport e dunque violando il tabù della competenza. La sua sontuosa presenza attira il pubblico maschile, ma invia anche un segnale alle donne: si può partecipare al rito calcisti­co anche senza appartenere ad una nicchia di appassionati che san­no tutto. La strada verso un formato generalista è ormai aperta. Con Mai dire gol (anch'essa del 1990) si può addirittura prendere in giro il calcio e i suoi goffi specialisti e contemporaneamente attirare una parte degli appassionati in un contesto di nicchia culturale «alta», da cabaret. Il calcio riesce perfino ad essere snob e ciò comunica una raggiunta maturità culturale.
La Gialappa's Band che anima Mai dire gol proviene dalla radio e totalmente radiofonico è l'uso del commento fuori campo che fa da contrappunto ironico alle immagini o alle stesse surreali prestazioni della conduzione in video, volutamente sgangherata e incompetente. Anche Quelli che il calcio... è fortemente tributaria della radio. Essa infatti non mette in scena il calcio, ma l'attesa dei risultati ascoltati al­la radio, e quindi un'esperienza larghissimamente condivisa. C'è dunque una struttura narrativa molto forte, esemplata sulla trasmis­sione radiofonica Tutto il calcio minuto per minuto, ma con intarsi spettacolari molto più accentuati e destinati a radicalizzarsi ad ogni edizione per mantenere viva l'attenzione del pubblico. Per questo utilizza in modo spettacolare gli inviati negli stadi, scegliendo perso­naggi contraddistinti da una certa eccentricità e metapersonaggi in li­nea comunque con una certa vocazione conciliatoria e solidale del programma.

6. Gli eventi mediali

Si chiamano cosìi grandi eventi cerimoniali, spettacolari, sportivi o anche sociali e politici che la televisione periodicamente trasmette in diretta. La certificazione del carattere eccezionale, irrinunciabile degli eventi è data dall'ampiezza del loro pubblico su scala mondiale ed è spesso legata al loro valore storico o patriottico, comunque legata a valori forti e condivisi, adatti ad una par­tecipazione corale.
La drammaturgia di questi eventi appartiene a varie tipologie. Quando si tratta di eccezionali eventi tragici narrati in diretta (come recentemente l'11 settembre 2001 a New York e Washington), essi vengono messi in scena secondo i canoni dell'informazione televi­siva; quando si tratta di grandi eventi politici e sociali (cortei, manifestazioni, sommosse) assistiamo ad un braccio di ferro attorno alla regia dell'evento tra i suoi organizzatori ed i media, spesso con un terzo convitato che è costituito dalle istituzioni e dalle forze di polizia. La descrizione mediale di guerre e battaglie è anch'essa og­getto di una contesa tra i media e i militari, dopo che un'opinione diffusa (ma non esatta) attribuì alla televisione, ed alle sue crude corrispondenze di guerra, la disaffezione per gli americani per la guerra del Vietnam. Determinante, a questo proposito, la possibilità di avere accesso ad informazioni ed immagini «dall'altra parte», possibilmente realizzate da propri giornalisti, con la connessa que­stione deontologica: è lecito utilizzare solo nel circuito mediatico informazioni che, passate direttamente ai comandi militari, avrebbero salvato la vita di qualche soldato?
Quasi tutti gli eventi che non appartengono a queste tipologie sono cerimonie: eventi pubblici in grandi spazi, predisposti con notevole anticipo e comunque con grande dispiegamento di mezzi tecnici. Essi sono stati distinti in competi­zioni(gare sportive, duelli politici), conquiste(eventi in cui lo sforzo di pochi cambia la vita degli altri, come lo sbarco sulla Luna o i viaggi del papa in Polonia), incoronazioni(ma anche nozze e funerali regali, cerimonie, parate militari).
L'evento mediale si presenta come qualcosa di unico, distinto dal consueto flusso televisivo anche per il suo formato: l'assenza o minore incidenza della pubblicità, la lunga durata della trasmissione in di­retta, il commento impegnato e rispettoso del telecronista, la molteplicità dei punti visuali inaccessibili ai «veri» spettatori sul posto, la ricerca di inquadrature di alto significato simbolico, i totali di scene di folla, le inquadrature dall'alto con dolly ed elicotteri, e infine un uso liturgico delle musiche. Per queste sue speciali caratteristiche i media events favoriscono la parte­cipazione rituale ed emotiva degli spettatori.

7. Giochi e giochini

Una ferrea e infantile erudizione in particolari e astruse discipline era necessaria a superare i quiz della prima televisione (di cui La­scia o raddoppia costituisce l'archetipo). La televisione si incaricava di spiegare a tutti che migliorare la propria situazione era possibile, purché con applicazione e tenacia, e i quiz sembravano la metafora di un faticoso concorso per un posto fisso statale.
Nella neotelevisione i quiz sono sostituiti da giochi sempre più semplici, a cui si può rispondere con un po' di buon senso o di fortuna («game show»), magari ammettendo candidamente la propria ignoranza. Accanto ai concorrenti in studio, chiunque può , concorrere, telefonando da casa. Talvolta vincere è puro azzardo: c'è una slot machine, oppure una ruota che gira come alla roulette. In altri è richiesta qualche competenza, scegliere il sinonimo giusto fra quattro o cinque proposte, sapere il titolo della canzone, giocare al «Paroliamo» o al cruciverba. Ma la competenza non va oltre la prontezza di riflessi e la vincita è comunque sproporzionata alla facilità del quiz. Anche quando le vincite e le perdite sono notevo­li, almeno sulla carta, la neotelevisione fa di tutto per eliminare l'angosciosa tensione dell'azzardo: non si vogliono drammi né tragiche sconfitte. Meglio vincere, ma la perdita non procurerà alcun dispiacere al pubblico. Il game show rappresenta quindi un'icona di un benessere forse non consolidato, ma comunque raggiunto, dove «il denaro gira» e le chances ci sono, dentro e fuori la televisione.
Circolano molti sospetti che i giochi siano truccati o aggiustati in qualche modo. Se fossero veramente in diretta, potrebbe qual­che volta giungere una telefonata strana, con qualche proclama politico o delle oscenità, ma ciò non è mai accaduto. Casi inoppugnabili di giochi truccati si sono verificati.
Sicuramente gli investitori pubblicitari non vogliono associare il loro marchio alla sconfitta e quindi cercano che i concorrenti vincano. Il sistema più semplice è consegnargli le risposte in anticipo: del resto questa fu la causa del primo scandalo televisivo, avvenuto negli Stati Uniti nel lontano 19595. Si afferma che le televisioni non vogliono spendere e quindi c'è un tacito patto, stipulato prima e con dizione della partecipazione, per cui i premi «dichiarati» vengono consegnati con un ammontare ridotto. Altri sostengono che prendere la linea telefonica è impossibile semplicemente perché le telefonate sono false.
Queste leggende metropolitane testimoniano un declassamento del gioco televisivo, che nella neotelevisione viene espulso dalle scene più pregiate del palinsesto per approdare all'ora dei pasti o :il pomeriggio, assumendo un tono ludico che favorisce l'identificazione del pubblico e permette di impegnare conduttori anche non di primissimo piano. Spesso breve rappresenta un prodotto seriale a basso costo prati­cato specialmente - ma non solo - dalla televisione privata.

8. Il potere dei conduttori

Negli anni Ottanta, con l'evoluzione del talk show e l'introduzione dell'infotainment, i conduttori accentuano la loro funzione di in­terfaccia fra la gente comune, le istituzioni e il mondo dei potenti e il ruolo di interpreti delle esigenze di cambiamento. Il loro spa­zio di manovra aumenta, e con esso il loro potere. Significativo il caso del Maurizio Costanzo Show, una trasmissione ormai venten­nale che si svolge in un teatro di proprietà dello stesso Costanzo e viene realizzata da una casa di produzione da lui controllata, indi­pendente dal Gruppo Mediaset che preacquista, con un contratto a lungo termine, il prodotto man mano che viene realizzato. E una soluzione che permette elevati margini strutturali di indipendenza e che altri conduttori, come Giuliano Ferrara, cercheranno senza riuscirci; inoltre sancisce la trasformazione definitiva del condutto­re in impresario e imprenditore.
All'inizio degli anni Novanta lo scandalo di Tangentopoli, e la conseguente delegittimazione di un'intera classe dirigente, accentua progressivamente il ruolo della televisione. Essa, pur essendo a pie­no titolo uno degli elementi forti del «vecchio» potere, riesce abil­mente ad apparire uno dei fattori del cambiamento e a delineare­ una transizione alla Nuova Repubblica prevalentemente televisiva, con conseguenze di lungo periodo non facilmente reversibili e una permanente osmosi tra cultura televisiva e politica, certo non pre­vista da molti improvvisati fautori del «nuovo», rimasti vittime di un meccanismo da loro stessi alimentato.
La televisione infatti prende il ruolo dei partiti e con la trasmissione Un giorno in pretura manda in onda i processi in cui sono coinvolti i politici, oppure con l'infotainment Samarcanda ili Michele Santoro scende direttamente in piazza. Lo spettacolo politico sempre più coincide con lo spettacolo televisivo; il conduttore per alcuni anni è un attore politico a tutti gli effetti e la televisione è il traghettatore dal vecchio al nuovo.
Un giorno in pretura è un court show (la rappresentazione di un tribunale) che era stato visto spesso nei telefilm americani. Si deve ricordare che nei tribuna li anglosassoni non sono ammessi nemmeno i fotografi  per cui il pubblico ha una certa sete di immagini processuali. In Italia, con il con senso delle parti, è possibile riprendere i processi. Nascerà qui, ad esempio, il mito del pubblico ministero Antonio Di Pietro.
Dopo questo precedente di successo, anche i telegiornali ed al tre trasmissioni iniziano ad avere interesse per le aule di tribunale; il pubblico acquista dimestichezza con i processi e si abitua a vederli da casa come le partite di calcio, sebbene l'effetto-verità sia abbastanza discutibile. Si assiste così all'eclissi dei leader politici e alla demolizione di una parte della classe dirigente.
Dalla fine degli anni Ottanta sono così progressivamente emerse figure di conduttori di uno spettacolo politico che ha assunto le movenze di un serrato talk show, in cui ai politici non veniva più riservato il tradizionale e felpato ossequio o il cerimoniale dei più collaudati media events, ma un confronto spesso ruvido. Successi­vamente, con la normalizzazione di un sistema politico ormai bi­polare, il potere politico si consolida di nuovo e il potere dei conduttori, pur rimanendo importante, non cresce più. La televisione esporta nella comunicazione politica le tecniche di gestione del l'immagine e del marketing che le sono proprie: spettacolarizzazione e personalizzazione diventano le caratteristiche permanenti del la vita politica, non soltanto della TV.

La terza fase: TV realtà e oltre

Capitolo sesto
1. La TV verità

Alla fine degli anni Ottanta registriamo l'irruzione dell'esperienza profana e della testimonianza privata sulla scena pubblica. L'una e l'altra confluiscono in un nuovo metagenere televisivo, fondato sul­la messa in scena dell'esperienza e chiamato di volta in volta «TV realtà» («real TV» in inglese) o più spesso «TV verità». Esso è la principale marca comunicativa della battagliera Terza Rete della RAI, che punta, riuscendoci, al 10% dell'ascolto. Vuole essere una «televisione di servizio», met­tendo in scena drammi e problemi della gente comune, persone-scomparse, delitti irrisolti - come nei programmi Chi l'ha visto?, Te­lefono giallo, Mi manda Lubrano - con la dichiarata intenzione di aiutare a risolvere questi casi con l'aiuto degli spettatori, chiamati ad intervenire telefonicamente. Citando esplicitamente il Neoreali­smo, il genere cinematografico italiano (1945-1953) che aveva co­me riferimento le classi popolari e amava portare sullo schermo at­tori «presi dalla strada», la TV verità fa propri tutti i meccanismi narrativi dell'intrattenimento e della fiction per applicarli alla vita quotidiana: molta della residua «festività» della televisione è can celiata dalla presenza della gente comune da entrambi i lati del vetro, negli studi e davanti alla TV. L'intenzione era quella di «raccontare la realtà con la realtà», di «costruire un'offerta che avesse l'apparenza di una sorta di 'a tu per tu' con la più immediata materialità del mondo del quale noi, insie­me ai telespettatori, facevamo parte». Non più dell'apparenza: chiamare in causa la «realtà» o addirittura la «verità» è un suggestivo espediente retorico che mette in ombra l'artificio insito nella narrazione televisiva. L'impatto della TV verità sul modo di fare televisione è stato comunque profondo e ha generato un complesso di programmi investigativo-drammatici, di testimonianze, processi e con­fessioni su tutte le reti televisive, spesso perdendo di vista l'equilibrio e sconfinando in una TV dell'eccesso, esagerata e barocca, fondata sulla strumentalizzazione di situazioni dolorose e conflittuali, su litigi e risse, sull'esibizione di situazioni limite e di immagini choc  a cui è stato dato il nome di TV-spazzatura («trash TV).

2. Il reality show

La principale evoluzione della TV verità, a parte gli eccessi della trash TV, è il «reality show», che è il metagenere più rappresenta­tivo della TV generalista degli anni Novanta. La TV verità aveva una forte componente «di servizio»; manifestava in tutti i modi l'intenzione di stare «dalla parte dei cittadini»; non soltanto di quelli che illustravano i loro casi nelle varie trasmissio­ni, ma i cittadini in generale per i quali la «rappresentazione della realtà attraverso la realtà» doveva costituire uno strumento cono­scitivo, qualcosa di simile all'informazione, cioè una conoscenza di fatti che servono alla comprensione del mondo e alla costruzione sociale dell'individuo. In qualche modo si trattava di una televisione pedagogica che però non rinunciava all'attrattiva un po' ambigua legata al disfacimento di situazioni torbide, enigmatiche, delittuose, al fascino del la confessione in diretta, alla gioia popolare di vedere qualche potente ridicolizzato o messo alle strette per una sera.
Il reality show non ha simili intenti. Il confine tra informazione di servizio e intrattenimento che fidelizza è ulteriormente spostato verso il secondo termine.
Sempre più spesso però la TV arrangia in proprio situazioni e coincidenze, senza curarsi per niente di quanto siano «reali»: orga­nizza per Scherzi a parte finti arrivi di fattorini con fiori o telegrammi, con Chiambretti chiede aiuto per falsi scoop, promette premi per chi riesce a compiere le più disparate prove di abilità, abborda per stra­da l'anziano banchiere Cuccia con un sosia di D'Alema per incarico di Striscia la notizia. Insomma invade e provoca, e in difetto di realtà ne crea una a sua immagine e somiglianza, realizzando una vecchia affermazione di Umberto Eco: «Una complessa strategia di finzioni si pone al servizio di un effetto di verità [...] ci si avvia, dunque ad una situazione televisiva in cui il rapporto tra enunciato e fatti diventa sempre meno rilevante rispetto al rapporto tra verità dell'atto di enunciazione ed esperienza ricettiva dello spettatore»3.
La veterotelevisione già conosceva la «candid camera», la tele­camera nascosta che riprende le reazioni delle persone comuni di fronte ad un evento imprevisto: Nanni Loy che al bancone del bar intinge il proprio cornetto nel cappuccino del vicino {Specchio segre­to, 1962). Già in Paperissima e in molte altre trasmissioni si era fat­to un largo uso di video amatoriali o supposti tali; qui però la realtà non è mai «registrata passivamente ma provocata, costruita e preordinata in un formato, in una struttura narrativa standardizzata e di facile memorizzazione e assimilazione da parte del pubblico».
Dove i sentimenti non bastano, arriva il denaro. Un numero cre­scente di programmi di reality intreccia la narrazione dell'intimità e delle emozioni alla materialità del denaro, attraverso un qualche meccanismo di gioco nel quale è possibile vincere, in competizione con altri concorrenti, somme consistenti. Nel grande corpo del rea­lity show si delineano ormai varie componenti; spesso in ogni pro­gramma ce ne sono più d'una:
- l’emotainment, un neologismo che sta per un programma che affronta in forma d'intrattenimento questioni intime e passionali, con molte concessioni al narcisismo, di cui sono un buon esempio le trasmissioni di Maria De Filippi (Amici);
- extreme: definiamo così, dal titolo di una delle trasmissioni più note, i contenitori in cui il conduttore lega fra loro filmati e brani di varia provenienza tratti da eventi reali, con sport estremi, catastrofi, incidenti paurosi, rapine, inseguimenti polizie­schi, tumulti e delitti, salvataggi di bambini. La messa in scena del­l'altrui sofferenza provoca da sempre emozione o curiosità, come se esor­cizzasse il pericolo che anche a noi potesse capitare;
- la competizione attorno all'intimità: il game show che fruga nel l'intimità delle coppie distribuendo premi alla più affiatata, che inci­ta ai pettegolezzi su un assente premiando quelli che riceveranno un'effimera conferma. La competizione, come abbiamo visto, può essere utilizzata per «rinforzare» un formato che non ingrana.

3. La televisione dell'intimità

L'irrompere dell'intimità in televisione è la risultante di due pro­cessi convergenti: la privatizzazione della sfera pubblica e la pub­blicizzazione della sfera privata. Questo processo si colloca inte­gralmente, almeno per l'Italia, nei venticinque anni della neotelevi­sione ed attraversa varie fasi.
I primi a svelare la loro intimità sono gli «ospiti» dei talk show, specialmente personaggi pubblici e vip. I politici mostrano il loro lato umano rivelando il loro privato, hobby, aspirazioni non realiz­zate, cantando canzoni e magari accompagnandosi al pianoforte. Anche una trasmissione come Scherzi a parte mostra questo lato umano. Ciò non è soltanto una concessione dei politici alla televi­sione, ma rientra in quella che abbiamo chiamato privatizzazione dello spazio pubblico. Il discorso pubblico comprende quote cre­scenti di discorso privato, di esibizione dei propri familiari (da par­te dei politici); messaggi d'interesse generale non risultano credibi­li se non si intrecciano a una ricerca diffusa di soddisfazioni perso­nali e di benessere (materiale e psichico) individuale.
Successivamente viene esposto il lato intimo di persone comuni che però hanno avuto una particolare sventura, che hanno subito un evento fuori dell'ordinario. In Chi l'ha visto? la pubblicizzazio­ne del caso della persona scomparsa viene giustificato come un mo­do per farla ritrovare.
Negli anni Novanta viene messa in scena l'intimità delle persone comuni, i loro problemi, le discussioni familiari, i conflitti e anche i pettegolezzi. Le enunciazioni degli ospiti delle trasmissioni possono assumere la forma della confessione,, della confidenza tra simili ,testimonianza condivisa del messaggio con implicazioni sociali ,o di reazione alle complicate macchine sceniche messe in atto per loro.
Le novità sul piano dei contenuti che il metagenere comporta sono notevoli, e particolarmente adatte a «fare scandalo», far parlare della trasmissione quotidiani e settimanali, proseguire il rac­conto su altri media che lo illustrano o si prestano a dibatterlo:
1) i segreti dell'alcova, anche quelli gelosamente custoditi, si liberano della loro protezione per essere portati in piena vista sulla scena pubblica e talvolta prendono la forma di veri e propri atti d'accusa portati in pubblico al partner;
2)  modi di vita e abitudini confidenziali, segreti, fatti indicibili sono portati al mondo esterno: la gelosia, il denaro nei rapporti fa­miliari, le doppie vite, il primo amore, i segreti di famiglia, la ca­stità, la solitudine, la caduta sociale, il gioco, l'obesità e l'anoressia, l'alcolismo e le droghe, il suicidio degli adolescenti, il reinserimen­to degli ex detenuti, l'omosessualità;
3)  la mancanza di pudore, con un rovesciamento di valori tra­dizionali, è ammessa e talvolta diviene la norma;
4)  la conflittualità reciproca non è attutita né nascosta ma anzi valorizzata dalle telecamere e può essere perfino incoraggiata;
5) c'è spesso una miscela tra problemi strettamente privati (diffi­coltà relazionali e solitudine, gelosia, conflitti familiari), conseguen­ze sociali di situazioni particolari (il carcere, l'handicap), problemi sociali propriamente detti (periferie, emarginazione, immigrazione).
Qualche critico ha ricondotto questo bisogno di dire e di mo­strare, da parte di persone che conducono vite ordinarie, a un ma­lessere collettivo, a una crisi dei legami sociali. Se la televisione anche trent’anni fa avesse chiesto se c'erano persone pronte a mettere in piazza le proprie vite, probabilmente si sarebbero trovati migliaia di candidati a che allora. La televisione non apriva questo tipo di reclutamento per che aveva altri interessi da coltivare, perché era una TV di servizio pubblico, e perché c'era una morale diversa da quella attuale per quanto riguardava la sfera relazionale e sessuale, le coppie di fatto, l'omosessualità, ecc.
Anche se talvolta la TV «estorce» il discorso intimo qui nessuno origlia, nessuno spia o carpisce i segreti altrui, perché è noto in partenza il carattere pubblico delle enunciazione, diversamente da quanto accade in confessionale o sul lettino dell'analista. La confessione è una messa in scena della confessione, una sua mimèsi (imitazione). Nella sostanza, ciò che l'ospite dice al conduttore non è l'enunciazione più rilevante, ma soltanto la materia prima di una comunicazione fra emittente e il suo pubblico, quello con cui essa stabilisce un preciso contratto comunicativo. Quello è il vero spettacolo.

4. Il ritorno della fiction italiana

Alla fine degli anni Novanta l'opinione prevalente fra gli osservatori, forse intenti a un bilancio di fine millennio, era che il reality show avesse esaurito la sua spinta propulsiva. Esso era visto come una metafora di una TV generalista splendente che appariva in crisi, mentre avanzava la TV tematica fatta di più solidi contenuti. Non a caso, si aggiungeva, il settore più viva­ce della TV era la fiction, che finalmente cominciava ad emanciparsi dalla subalternità al prodotto americano e a trovare una propria strada nazionale.
Il successivo exploit di generi televisivi come la «docusoap» (Grande Fratello, Survivor) e la rinnovata capacità della TV generalista di amministrare l'invio di contenuti su altri media (televisione tematica, Internet, telefonini), ha ridimen­sionato questo giudizio. Non vi è dubbio però che la fiction nazio­nale esca con prepotenza dagli angusti recinti del prodotto d'autore e di ascendenza cinematografica. Già negli anni Novanta il genere tipico della produzione nazionale, la miniserie, si era evoluto nella «serie all'italiana», sempre contraddistinta dalla lunghezza di tipo cinematografico degli episodi (90'), ma dalla serialità più insistita, sfiorando quella decina di puntate che facevano forse sorridere i produttori internazionali, ma per il costume cinefilo italiano rap­presentavano una insopportabile catena di montaggio industriale. Nel 1996 la RAI realizza la prima soap opera italiana, Un posto al sole che va in onda quotidianamente su Rai Tre dall'ottobre dello stesso anno.Mediaset a sua volta produce la soap Vivere, lanciata nel 1998 e programmata a striscia nel pome­riggio di Canale 5 con un successo di pubblico ancor maggiore. La differenza di contenuto tra le due principali soap italiane è significativa: Un posto al sole della RAI è ambientata in un variopinto con­dominio di Napoli in cui abitano persone di diversa estrazione so­ciale; Vivere di Mediaset intreccia le vicende di quattro famiglie che vivono sul lago di Como. Le loro condizioni e attitudini sono diverse, ma tutte si muovono nell'imprenditoria, nelle professioni, nel commercio. Al di là delle differenze di ambientazione, che hanno riflessi sul linguaggio delle immagini e sui contenuti, le due produ­zioni sono accomunate dal forte investimento emotivo sul dialogo e dal riuscito tentativo di allestire una macchina produttiva effi­ciente e a basso costo: per entrambe circa 60.000 euro a episodio per 230 puntate all'anno, un decimo di una produzione di fiction da prima serata. Dal 1996 è iniziato dunque uno sviluppo della fiction nazionale che in cinque anni ha raddoppiato i livelli di produzione, toccando le 600 ore annue  e producendo titoli anche a media e lunga serialità che hanno sensibilmente influito sulle abitudini me­diali degli italiani: Incantesimo, L'avvocato Porta, Un medico in fa­miglia, Una donna per amico, La dottoressa Giò, Linda e il brigadie­re, II commissario Montalbano, La squadra, Distretto di Polizia, Com­messe, Non lasciamoci più. Come gli stessi titoli indicano, la fiction seriale racconta un'Italia più dinamica e «mossa» delle soap, e centrata su ambienti professionali in cui i giovani protagonisti affrontano uno alla volta, come vuole la serialità del prodotto, le tematiche sociali a cui è dedicato il loro settore di appartenenza (la me­dicina, l'ordine pubblico, il giornalismo, il commercio), mentre in forma ricorrente e trasversale affrontano le difficoltà relazionali e i problemi esistenziali legati alla loro età e condizione, ai sentimenti e agli amori in difficile equilibrio con la loro attività.
Nel 1998 è stata approvata la legge 122 che concretamente favorisce la diffusione televisiva di opere nazionali ed europee; la fiction italiana tuttavia non ha ancora dimostrato di «saper viaggiare», la capacità di esprimere situazioni non solo dialettali o circoscritti, che la rendano accettabile anche in altri paesi europei.

5. La docusoap e la enhanced TV
«II Grande Fratello», «Survivor» e gli altri

II 16 settembre 1999 il network privato olandese Veronica manda in onda la prima puntata di Big Brother. La trasmissione è un formato della Endemol, una società olandese, in Italia collegata alla Aran, che è leader di mercato in Europa per l'ideazione, la vendita e la produzione di formati televisivi. Dieci persone, cinque donne e cinque uomini, che non si sono mai conosciuti prima, vivranno per una durata massima di cento giorni in un piccolo appartamento collettivo, senza poter uscire e avere contatti con l'esterno se non abbandonando il programma. Non hanno giornali, radio o TV e so no in ogni momento monitorati da telecamere e microfoni. Devono eseguire piccoli lavori e prove di abilità mediante i quali possono aumentare la somma di denaro con cui, come reclusi, possono farsi comprare effetti personali e generi di conforto. I dieci sono anche dei concorrenti, in gara l'uno contro l'altro. Ogni due settimane entrano in un luogo appartato dell'appartamento, il «confessionale», in cui possono parlare con gli autori della trasmissione, con gli  psicologi, e devono indicare i due compagni che secondo loro devono essere eliminati. I due concorrenti più «nominati» vengono sottoposti al giudizio del pubblico che decide quale fra loro deve uscire. Chi sopravvive vince il premio finale.
Dopo vivi clamori e grande successo di pubblico in tutti i paesi il cui il format è stato adattato, nel settembre 2000 II Grande Fra­tello giunge in Italia su Canale 5 e per tutta la stagione si colloca ai vertici dell'ascolto e diventa un fenomeno di costume. I personaggi dello show diventano effimeri eroi popolari e tenteranno con scarsa fortuna la via del successo. Nella stagione 2001-2002 il pro­gramma viene ripetuto, ma non è più il fatto di cui tutti parlano.
Gli elementi del fascino del programma sono molteplici. Intanto, lo scandalo preventivo che batte soprattutto su tre punti: la violazione della privacy subita da vittime volontarie di scarsa saggezza, le scene di nudità, di sesso, alla toilette; il controllo pervasivo che è metafora di una società dove la democrazia è minacciata dal controllo, anche tramite la TV. Tutto ampiamente prevìsto (la prima citazione orwelliana è proprio il titolo) e capace di realizzare un'ottima e gratuita promozione del programma. In secondo luogo, la speciale narratività della soap, condotta al confine oltre il quale la recitazione si sfrangia fino a coincidere con la quotidianità stessa della vita. Gli abitanti della casa, scelti per favorire l'identificazione da parte di vari segmenti del pubblico e in particolare dei giovani, sono più istintivi o verosimili del portiere Raf­faele di Un posto al sole o dell'industriale Gherardi di Vivere; per programmi come II Grande Fratello è stato coniato il termine «do-pusoap»: un programma di intrattenimento derivato dal reality show nel quale.
Il pubblico ha così l'impressione (naturalmente inautentica) che non ci sia una sceneggiatura, ma le spontanee reazioni dei dieci protagonisti, e che il più grande intervento degli autori sia il casting. L'eccitazione del pubblico si mescola infatti con la sensazione che quanto succede nella casa non può essere preordinato, è rischioso e casuale, fuori controllo degli autori; I dieci personaggi sarebbero liberi di indirizzare la loro quotidianità, le loro relazioni affettuose, i loro conflitti dove meglio ritengono, purché si guadagnino la complicità del pubblico che deve farli restare e premiarli. Il pubblico è indotto a pensare che la macchina scenica si muova da sola, un meccanismo ad orologeria che gli apprendisti stregoni della regia non possono controllare più di tanto, dopo aver allestito un set chiuso come una cabina spaziale per astronauti. Come una carta geografica che si è dilatata fino ad essere grande come il territorio che rappresenta, la sceneggiatura è ora la vita dei personaggi nel suo farsi. Sulla messa in scena s'inserisce poi il potente meccanismo del gioco. Gli abitanti della casa non sono dei reclusi, sono dei concorrenti; sono tenuti a compiacere il pubblico, che esercita su di loro un giudizio gladiatorio.
Naturalmente sotto le relazioni interpersonali dei partecipanti, che sanno di essere osservati e giudicati, c'è la finzione. «I partecipanti mettono in atto strategie di seduzione, sfida, vendetta, persua­sione, tentazione che sono quelle tipiche [...] della narrazione. Si manifestano con emozioni e passioni che sembrano tratte dalla let­teratura di appendice [...] e mirano a raggiungere al meglio proprio ciò che sanno bene attenderli 'fuori': un palcoscenico e i conseguenti atti di divismo da parte degli 'altri', degli 'anonimi' che li se­guono per il momento sul teleschermo».
Questo effetto è moltiplicato dal fatto che Big Brother è un pro­getto multipiattaforma (TV generalista, pay, Internet, SMS quoti­diani sui telefonini, un settimanale ufficiale). La televisione in chia­ro manda in onda prima di tutto l'evento iniziale, l'ingresso nella casa dei protagonisti circondati da una folla di curiosi; poi una pun­tata quotidiana con gli eventi più importanti della giornata (dunque una compilation registrata), più uno show settimanale con le elimi­nazioni, le storie e i commenti; infine, la proclamazione del vinci­tore. La pay TV (in Italia Stream) trasmette in ogni momento su un solo canale il girato di quattro telecamere; Internet su uno speciale sito offre lo streaming di otto webcam: come si vede le possibilità di controllo da parte della regia sono notevoli, ma non scalfiscono l'effetto «Jennycam»: nel 1996 la studentessa americana Jennifer Kaye Ringley aprì un sito, ancora esistente, in cui una webcam pe­rennemente accesa mostrava e raccontava la sua vita quotidiana. Fu solo l'inizio; oggi sono più di 250.000 le webcam accese sul web, visibili, o a pagamento: si può guardare la cupola di San Pietro o la Piazza Rossa di Mosca, appartamenti o alcove, asili nido che per mettono alle mamme di vedere dall'ufficio i loro bambini. Mentre in TV programmi estremi ritagliano dalle migliaia di minuti di una telecamera di sorveglianza, piazzata davanti ad una banca, solo quei pochi secondi in cui avviene la rapina, e mandano in onda solo quelli, il fascino della webcam è di guardare lo scorrere ovattato della normalità.
Anche se solo una minoranza degli spettatori accede a queste forme dello spettacolo e si tratta comunque di una naturalità aggiustata, corretta, artificiale, il format è concepibile solo a valle di Internet e della Jennycam. All'indomani dell'affermazione del Grande fratello la vera questione è se si tratta di un successo effimero e se la docusoap è destinata a riaffermare una centralità che la televisione generalista sem­brava in procinto di perdere. Si sono ricercati antecedenti di Big Brother in vari episodi lontani e recenti della televisione america­na, ma più interessanti sembrano i suoi successori. Survivor, in onda dal 2000 su CBS, ha abbandonato un gruppo di concorrenti su un'isola sperduta al largo della Malesia esponendoli continuamente allo sguardo delle telecamere in una miscela ine­dita di alta tecnologia e vita primitiva in condizioni estreme. Lo stress è sorvegliato attentamente dagli psicologi: nella versione originale svedese del format, lixpcdttion Robinson, un concorrente eliminato dall'isola rimase così traumatizzato da suicidarsi sotto un treno. Altri formati si preparano: disperate fughe da un carceri braccati dalle guardie e, peggio, dalle spiate del pubblico, , allenamenti per diventare astronauti, viaggi in pro­miscuità su un autobus a due piani, concorrenti che devono vivere incatenati fra loro.
Non sappiamo quali di loro saranno definitivamente sviluppati, tuttavia appare da più parti evidente lo sforzo di arrivare ad una «enhanced TV», una televisione intensificata e migliorata, grazie ad un concorso di media e di tecnologie interattive, con la TV generalista sempre saldamente al timone.

 

Altre televisioni

Capitolo settimo
1. La TV digitale

I canali televisivi che vengono proposti a pagamento sulle piat­taforme digitali (in Italia Telepiù e Stream) hanno modalità pro­duttive e forma culturale profondamente diverse dalla televisione in chiaro, di cui abbiamo seguito gli sviluppi fino ai primi anni 2000. Questa diversità deve essere nettamente percepibile dal pubblico a casa che, pagando di tasca propria, è il vero cliente delle imprese che offrono pay TV e pay per view, sostituendo così gli investitori pubblicitari che sono importantissimi per la TV generalista ma qui giocano un ruolo marginale. Il cliente a casa deve nettamente per­cepire che sta pagando per un prodotto di nicchia alta, probabil­mente anche uno status symbol che lo distingue dalla gente comu­ne, consumatrice di TV in chiaro; la diversità deve apparire tale da giustificare ai clienti e al loro ambiente sociale il prezzo dell'abbo­namento o dei singoli eventi che si acquistano, secondo le regole del «consumo vistoso» che almeno per ora la televisione a paga­mento rappresenta (essendo presente nel 10% circa delle famiglie). L'assenza (o marginalità) delle interruzioni pubblicitarie è il pri­mo dato che la clientela può percepire. A fronte di una televisione in chiaro sempre interrotta da spot pubblicitari, telepromozioni e televendite, sponsorizzata, griffata con marchi e fondali promozio­nali, la TV tematica deve presentarsi senza intrusioni né interruzioni non richieste dal cliente e non previste dal contratto; che in questo caso non è soltanto un «contratto comunicativo» ma un contratto commerciale vero e proprio: il cliente che paga vuole che gli venga recapitata solo la merce che ha pagato, senza fastidiose aggiunte.
Come sappiamo, nel flusso televisivo la pubblicità non è una parentesi, un siparietto attentamente segnalato allo spettatore, ma contribuisce significativamente al tono generale del flusso, che vuole essere emozionale, coinvolgente, esortativo («restate con noi»), e cerca di esorcizzare il terribile momento in cui lo spettatore cambia canale (abbattendo lo share del programma) o addirittura spegne l'apparecchio. La televisione generalista è sostanzialmente una tecnologia push, che spinge verso uno spettatore distratto o riluttante i suoi contenuti in aspra competizione con altre offerte; l'effetto è quello di un mercato pieno di banchi stracolmi di merce in cui ci aggiriamo fra le grida dei venditori. La televisione tematica è piuttosto una tecno­logia pulì, che rende disponibili elenchi di contenuti, da cui lo spet­tatore preleva (letteralmente: tira verso di sé) solo ciò che è di suo gradimento: qualcosa di simile a un ristorante raffinato, in cui sce­gliamo i cibi in un menù, e cioè in un'offerta larga ma non illimita­ta, che rispecchia i gusti dello chef e la disponibilità del mercato (in qualche modo, la «forma culturale» del ristorante).
Nel passaggio da push a pulì si perdono quasi tutte le caratteri­stiche della neotelevisione. Poiché lo spettatore sceglie un conte­nuto determinato, non c'è flusso, non c'è necessità di inglobare ogni spettacolo dentro un contenitore, non c'è la necessità di raggiun­gere in ogni momento tutte le tipologie di spettatori presumibil­mente in ascolto fornendo loro qualche frammento che li interessi. Tutte queste modalità espressive sono anzi respinte dallo spettato­re della TV tematica.
La televisione tematica ha problemi opposti; non deve offrire un'alluvione di contenuti, ma una scelta dotata di una intima coe­renza.
Tuttavia, mentre la TV generalista da il senso di ciò che accade nel mondo, i canali tematici da soli non possono restituirci il clima politico e sociale del nostro paese, non danno notizie pratiche o politiche di immediata utilità, né aiutano a sostenere una conversazione a carattere generale. Per questo motivo in nessun paese al mondo la TV tematica ha sostituito la TV generalista con il suo sperimentato «ef­fetto piazza», e appare più probabile che questo nuovo formato si affianchi ad essa, piuttosto che sostituirla.

2. Contenuti e palinsesti tematici

La televisione a pagamento sceglie dunque contenuti che la televi­sione generalista non da, o non da con completezza e tempestività sufficiente, per ragioni di costo o di pubblico. Tali contenuti sono organizzati in canali, generalmente dedicati ad un solo tema e per questo definiti «tematici». Ogni piattaforma offre gratuitamente oltre 150 canali televisivi esteri e nazionali , una ventina di canali audio per tutti i gusti, e un «bouquet» di canali a pagamento. Il marketing, che tende a offrire ai clienti una grande varietà di soluzioni contrattuali, si è in caricato di ridurre fortemente la distanza fra pay TV e pay per view ciò che è in abbonamento secondo un determinato tipo di contratto può anche essere acquistato in pay per view, per singoli eventi o pacchetti, dagli altri clienti. I canali cinematografici e quelli sportivi (calcio e Formula Uno) costituiscono la parte centrale dell'offerta. In Italia, dove la televisione ha sempre offerto una grande abbondanza di film sulle reti in chiaro, è stato lo sport e non il cine­ma - contrariamente a quasi tutti gli altri paesi - a far decollare la televisione digitale.
Accanto a questi canali, notevole importanza hanno i canali d'archivio che offrono film classici, vecchie produzioni televisive e altri materiali di repertorio; essi sono in genere prodotti da RAI e Mediaset che riescono in questo modo a valorizzare i propri magazzini. Vi sono poi canali appositamente creati per la televisione digitale che appartengono al genere sport , viaggi, natura, avventure, che offrono programmi di qualità per bambini e ragazzi, informazione,hobby. Stanno nascendo inoltre ca­nali delle singole squadre di calcio, canali di shopping e molti altri ancora fra i quali, vinte le titubanze iniziali, i canali porno offerti da entrambe le piattaforme.
Questo primo elenco ci dice che mentre il broadcasting in chia­ro è un'attività tipicamente nazionale, la televisione digitale è for­temente internazionalizzata ed integrata con le grandi società per la produzione dei contenuti, che stanno diventando una risorsa scar­sa. Sono significative le proprietà dei due principali gestori: Telepiù è di proprietà al 98% di Canai Plus (di base in Francia, con 15 mi­lioni di abbonamenti in 11 paesi) Stream era divisa a metà fra Telecom Italia e il grande editore australiano-americano Rupert Murdoch, proprietario fra l'altro di BSkyB, la televisione digitale inglese. Il settore più largamente internazionalizzato sono le news, dove le grandi emittenti internazionali come CNN, BBC World e altre hanno un influsso profondo anche sull'informazione della TV generalista.
La disarticolazione dell'aspetto nazionale che era proprio del broadcasting avviene anche a livello regionale e locale, facendo del la TV tematica un vero medium «giocai» (global + locai). Entram­be le piattaforme stanno tentando la strada dell'informazione loca­le; in particolare Telepiù offre INN, un canale di informazione rea­lizzato dalla società Sitcom in collaborazione con 20 emittenti re­gionali. L'affitto di un canale satellitare può essere accessibile ad un'amministrazione regionale o a forze economiche locali: canali re­gionali si stanno affacciando (Napoli International, Sicilia Interna­tional, Sardegna 1). In ogni modo, nonostante lo splendore della sua TV generalista l'Italia non ha spessore internazionale nella te­levisione a pagamento e suoi principali broadcaster, RAI e Mediaset, hanno una posizione marginale, dovuta solo in parte ai limiti imposti dalle normative precedenti al 1997.
Questa distanza è rafforzata dalle regole di genere proprie della TV digitale. Costruire il palinsesto di un canale tematico è un lavoro molto diverso dall'analoga attività nella televisione in chiaro e asso­miglia piuttosto alla programmazione di una sala cinematografica, in cui lo stesso film sta in cartellone («tenitura») per un periodo deter­minato e viene programmato a orari fissi più volte al giorno. La cele­brazione e mimesi della diretta e dell'attualità che è presente nella te­levisione generalista svaluta le repliche, confinate nelle zone meno pregiate del palinsesto (notte, mattina). Al contrario la televisione te­matica ripropone uno spettacolo per più giorni consecutivi e in ora­ri diversi per intercettare le diverse abitudini del suo pubblico. Fare il palinsesto significa qui soprattutto dare un'immagine di rete coe­rente, dove un filo linguistico e culturale cuce fra loro i vari prodotti offerti facendone una collezione. Questo non richiede solo di pre­sentare dei film o delle partite ma di introdurre degli elementi di nar­razione da cui la televisione non può più prescindere, e quindi intro­durre rubriche, antologie, talk show, magazine, notiziari - sempre su quel tema specifico cinematografico, sportivo o altro - fino a sfiora­re la televisione generalista con una specie di «generalismo su un te­ma solo». Quando poi la programmazione è composta di materiali d'archivio, rarità poco conosciute, trasmissioni e serie ormai dimen­ticate, la contestualizzazione è obbligatoria, con l'obiettivo di tra­sformare in «cult», in evento, in occasione culturale unica l'assem­blaggio di vecchie pellicole.

3. La televisione musicale e il videoclip

Anche se in Italia è stata sempre ricevuta in chiaro, la televisione musicale nasce negli Stati Uniti per essere collocata nei bouquet via cavo. MTV, il primo e ineguagliato modello, nasce il 1° agosto 1981 come terzo canale del pacchetto Warner (il primo era cinematografico il secondo dedicato ai bambini); una scelta di marketing, effettuata a tavolino, per ampliare verso i più giovani il bacino di utenza della televisione e attenuare un problema che la TV ha sempre avuto e continua ad avere: lo scarso appeal verso gli adolescenti e i giovani adulti, fidelizzati piuttosto dalla radio attraverso la musica pop.
La materia prima della televisione musicale è il videoclip, un «corto», un ritaglio, un breve video musicale della durata media di quattro-cinque minuti; «to clip» in inglese vuoi dire «tagliare con le forbici». Nella lunga ricerca di formati audiovisivi che potessero comunicare la musica  comparvero brevi filmati inglesi con le esibizioni dal vivo di complessi come i Beatles, i Rolling Stones o gli Who, che venivano utilizzati dalla televisione nelle trasmissioni, in numero crescente, dedicate al rock e al pop. Il genere gradualmente acquistò autonomia creativa rispetto alla mera registrazione del concerto, ma soltanto l'emergere della televisione musicale creò un fabbisogno così elevato che la produzione di video clip e lo sviluppo di stili e linguaggi propri decollarono. La produzione del videoclip diventa cosi un elemento necessario della promozione del disco, prendendo il posto che era stato una volta del «tour», della tournée dell'artista.
Il videoclip è il principale prodotto televisivo che è riuscito ad entrare nel territorio elettivo della radio, la musica pop, imitando le sue logiche di programmazione e l'attenzione per lo stesso targa giovanilistico. Una volta tanto, è la TV che cannibalizza la radio e il titolo del primo video mandato in onda da MTV, Video Killed the Radio Stars cantata dai Buggles, la dice lunga. Come la radio, la televisione musicale è fondata sulla «playlist ». Un elenco di video da trasmettere che ha come base le classifiche ­dei dischi più venduti. La playlist è soggetta a una «rotation», proprio come alla radio, secondo un clock di un'ora. MTV  ha avuto molti emuli ma nessuna vera concorrenza, assoluta superiorità commerciale della musica anglosassone ha reso i suoi prodotti disponibili a costo zero per il mercato internazionale senza neanche il piccolo costo aggiuntivo del doppiaggio. MTV ha potuto quindi creare proprie edizioni nazionali ovunque ne erano le possibilità, dal Brasile all'Asia, giungendo in più di paesi diversi; dove queste possibilità non c'erano, come in Italia cui la televisione a pagamento è prodotto tardivo.
Dunque non una MTV in chiaro ma qualcosa di più, che l'esiguità del mercato giovanile in Italia non poteva mantenere, e che finirà nelle mani di Cecchi Gori come Tmc 2 nel 1995. La linea editoriale del produttore cinematografico, presidente della Fiorentina Calcio ed ex senatore dell'Ulivo, risulterà fallimentare perché perennemente incerta fra il mantenimento della linea giovanile, purgata di ogni trasgressione e creatività, e la rincorsa a una formula generalista per la quale mancavano anche le risorse. MTV entra in Italia un po' alla chetichella nel 1995, proprio nel momento più difficile di Videomusic, e attende per affermarsi la vanificazione della sua concorrente. Un fenomeno più recente è la creazione di canali musicali satellitari da parte delle emittenti radiofoniche :Video Italia Network, specializzato in musica italiana, e Deejay Television, a cui si aggiunge Match Music che basa il suo palinsesto quasi esclusivamente sulla rotazione di clip.
I videoclip sono ormai un prodotto maturo, pienamente inserìto nella musica di consumo ma senza perdere un alone trasgressivo e qualche volta feticistico con il quale ampliano l'area di suggestione che il personaggio e la musica riescono a suscitare.
Si è voluto distinguere nel video clip una tipologia espressiva, che può essere costruita da una performance (la rappresentazione di un gruppo o di un cantante mentre esegue il brano), da una narrazione libera, che si lega maggiormente al formato cinematografico con una dimensione temporale, spesso interrotta da flashback e flashforward, o da un videoclip «concettuale», in cui le immagini non narrano una storia, ma esprimono un concetto senza essere però didascaliche. Secondo lo stesso Sibilla, tuttavia, queste distinzioni perdono progressivamente significato di fronte all'eclettismo e alla commistione di generi e stili che contraddistingue il video musica le di oggi.
 

 

4. I formati «all  news»

Nell’esaminare i bouquet delle piattaforme digitali, abbiamo incontrato vari canali tematici integralmente dedicati all'informazione. Il capostipite di questo formato è la CNN (Cable News Network), fondata ad Atlanta nel 1980 dall'imprenditore dei media Ted Turner espressamente per rifornire i bouquet della TV via cavo, e contraddistinta da una rotation di tipo radiofonico, con notiziari cadenzati 24 ore su 24 e una grande cura nell'aggiornamento delle notizie .Tra un notiziario e l'altro trovano spazio notiziari tematici e approfondimenti o magazine, mentre la cadenza può essere interrotta in ogni momento per le «breaking news». notizie dell'ultimo momento. Pochi sarebbero stati disposti a scommettere sull'affermazione della CNN ma hanno dovuto ricredersi. La crescita della rete è stata continua, anche perché contraddistinta sin dall'ini­zio da una forte capacità di raccogliere in proprio le notizie, svincolandosi al massimo dalle rete delle agenzie internazionali di immagini e costituendo una propria efficiente rete di inviati e corrispondenti di grande motivazione e aggressività.
Durante la Guerra del Golfo del 1991, in cui i militari americani esercitarono una stretta censura sulle operazioni militari, confinando la stampa internazionale a Kuwait City e fornendo solo materiali preconfezionati, la CNN investì massicciamente nella copertura diretta degli avvenimenti, molto più degli altri network americani, e fu l'unica a raccontare in diretta televisiva i bombardamenti americani sull'Iraq grazie ad un suo reporter, Peter Arnett, collo­cato nell'Hotel Rashid di Baghdad. Pur condizionato dalla censura Irachena, come dichiarò più volte in video, Arnett inviò immagini e tracce audio di grande suggestione che fecero il giro del mondo. La CNN acquistò una visibilità e una autorevolezza che ne fecero  una fonte primaria di informazione anche per gli altri media e per le stesse au­torità politiche.
Dopo il 1991 cominciano a comparire altri esempi dì televisioni “all news”, come Sky TV, poi Fox News di Rupert Murdoch,. Gli investimenti per un formato all news sono ingenti ma non irraggiungibili.
Verso la fine degli anni Novanta tutte le reti televisive di infor mazione internazionale si sono dotate di siti per l'informazione on line che sono stati all'inizio una vetrina per le rispettive emittenti ma presto hanno guadagnato in autonomia, si sono trasformati in portali e hanno percorso le vie proprie dell'informazione on line, contraddistinta da un maggior peso del testo scritto, da una mino re incidenza delle immagini, dal carattere ipertestuale delle notizie trattate, da una capacità di rispondere a specifiche richieste dell'u­tenza in modalità pulì, dalla superiore velocità dell'aggiornamento delle notizie che vengono modificate non a orari fissi, ma seguendo il corso stesso degli eventi. Il carattere di flusso continuo del l'informazione on line ha effetti notevoli sugli altri media anche del lo stesso gruppo: ad esempio, il network che acquisisce una notizia in esclusiva e la inserisce subito sul suo portale Internet ha la possibilità di fare uno scoop non soltanto rispetto ai concorrenti, ma anche rispetto a se stesso. Si è posto così il tema, tipico dei media nell'era di Internet, di un'unica redazione, di un desk integrato che formatta le informazioni secondo le caratteristiche dei vari suppor­ti e mezzi con cui esse vengono diffuse (agenzie, stampa, radio, TV generalista e a pagamento, Internet, telefonini e così via).
In Italia inizia nel 1999 l'esperienza di Rai News 24, un all news 24 ore su 24 pubblicato in Internet (sia come web TV che come si­to) che è trasmesso in chiaro su un canale satellitare e, nelle ore morte, sulla Terza Rete televisiva. Lo schermo appare diviso in più parti, come una schermata di computer. Gli aggiornamenti e gli in­dicatori economici principali compaiono in forma ricorrente in una zona dello schermo, mentre un'altra viene occupata da video, mappe, grafici (in mancanza di meglio, immagini della redazione al la­voro e del giornalista) e in altre ancora i titoli delle notizie che si stanno trattando e informazioni ulteriori, compresi i link Internet. Le finestre interagiscono tra loro; ad esempio un giornalista inquadrato  può indicare con un gesto l'indice Dow Jones che appare sullo schermo in basso, o un titolo sopra di lui.

5. L'interattività televisiva e il web

L'interattività è presente nel concetto stesso di pay per view. Intatti per ordinare un prodotto video devo premere un tasto del telecomando quando una scritta sullo schermo televisivo me lo chiede. Poiché da casa i clienti non hanno modo di comunicare con il satellite, si tratta di una interattività differita: nel set top box è contenuto un modem che, via telefono, si mette in contatto con l’emittente che, a sua volta, comunica al decoder il logaritmo necessario alla decodifica di quel determinato prodotto. Solo la televisione via cavo e a  banda larga permette una comunicazione bidirezionale con l'emittente. In molti canali tuttavia cominciano ad affacciarsi forme superiori di interattività, che appartengono a varie tipologie. C'è un prima area di interattività che ricorda i servizi di Internet:
a) canali di shopping nei quali si possono ordinare, come su Internet gli articoli che si desidera acquistare;
b) informazioni di servizio (meteo, oroscopi);
e) home banking (informazioni e operazioni sul proprio conto Scorrente bancario);
d)  home trading (compravendita di titoli azionari);
e) canali di videogiochi interattivi;
f) TV-mail (posta elettronica sul televisore).
Una seconda direttrice di sviluppo, forse più promettente, ha come oggetto l'ampliamento della facoltà di scelta, da parte dello spettatore della modalità con cui seguire un determinato evento o con cui ricevere informazioni aggiuntive (audio, video o dati). Essa si fonda su tre principi:
a) ipertestualità, e cioè un sistema di organizzazione delle informazioni non gerarchica e rigida, ma che permette all'utilizzatore di  raccogliere un insieme di informazioni a sua scelta se, come e quando lo desidera; b) il mosaico: lo schermo televisivo è diviso in vari riquadri, in cui appaiono contemporaneamente diversi canali o differenti angoli visuali dello stesso evento da cui è possibile scegliere. Il mosaico diventa così un'interfaccia, ossia il luogo dove avviene lo scambio informativo fra la persona (non più soltanto uno spettatore) e la macchina televisiva (non più sol tanto un riproduttore di immagini);
e) educazione a distanza: sulla piattaforma Stream il canale Tv insegna l'inglese presentando una fiction in lingua originale con sottotitoli e proponendo soluzioni interattive per la verifica dell'apprendimento.
Le tipologie interattive più vicine a Internet sono in diretta concorrenza con quello che offre l'e-mail, l'e-commerce e le altre applicazioni via computer, mentre le informazioni di servizio sono più simili a quelle fornite dai portali.
Inoltre l'interattività televisiva è stata fino­ra complicata da un serio problema di standard: fino al 2000 le due piattaforme attive in Italia richiedevano due tipi di decoder diversi.  Unprovvedimento dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazione  ha imposto l'obbligo di un decoder unico per le due piattaforme, ma a tutt'oggi (gennaio 2002) non è possibile accedere ai servizi interattivi di entrambe le piattaforme e bisogna sceglierne una sola.
L’ipertestualità, mosaico, educazione a distanza sembrano particolarmente adatti al grande schermo televisivo; nei videogiochi il contenitore non è tanto il computer, ma la PlayStation 2.
Da tenere sotto controllo anche la web TV, una forma di televisione «netcast», diffusa attraverso la rete Internet e visualizzata sul lo schermo del computer. Le difficoltà che incontrano i contenuti video nel passare rapidamente e con qualità accettabile attraverso la rete (ma ancora per quanto?) non hanno favorito finora lo sviluppo delle web TV che sono un fenomeno molto più ridotto delle «web radios»; inoltre mentre i formati musicali e parlati delle radio su Internet sono gli stessi delle radio via etere, la web TV n chiede un drastico accorciamento dei formati che assumono l'este­tica del corto, del videoclip, del cartoon. Vi è stato però un primo fenomeno di costume, Gino TV, un telegiornale condotto all'interno di My-TV da un pollo di nome Gino, un metapersonaggio dei cartoni animati. Dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, un video clip ideato da Andrea Zingoni e Joshua Held mostrava Gino can tare Tu vuo' fa' o talebano, forse l'unica reazione ironica alla tragedia. Diventato oggetto di culto, trasmesso in e-mail ad amici e colleghi, è finito poi in Blob e ha esercitato la sua influenza sulle trasmissioni più giovaniliste (come Le iene) dei network. Un esempio che potrebbe ripetersi, e che ci segnala future convergenze e ibridazioni.

 

Fonte: http://www.scicom.altervista.org/radiotelevisivi/TeorieetecnichedeiLinguaggiRadiotelevisivi.doc

Sito web da visitare: http://www.scicom.altervista.org/

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