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Significato dei termini utilizzati nei libri
Dagherrotipo (1840-1860). [Dal fr. Daguerréotypie, comp. Del nome dell’inventore l.-J.-M. Daguerre (1787-1851) e -typie, «-tipia»]. (1840-1860). 1. Con questo termine si indica sia l’immagine fotografica ottenuta con la tecnica della dagherrotipia, sia l’apparecchio utilizzato per la dagherrotipia. È il primo procedimento fotografico pubblicamente annunciato, inventato da louis jacques mandé daguerre (1787-1851), al quale è dovuta la scoperta che una lastra di rame argentata e trattata con iodio, per esposizione alla luce e successivo sviluppo con vapori di mercurio, dava luogo ad un’immagine. Si ritiene che l’anno della scoperta fosse il 1831. L’origine della fotografia inizia però ben prima: nel 1727, il tedesco j.H.Shultze aveva evidenziato la sensibilità alla luce dei sali d’argento e nel 1802 l’inglese t. Wedgwood aveva prodotto stampe fotografiche su pelli precedentemente sensibilizzate con nitrato d’argento. Le immagini ottenute da wedgwood non erano però stabili. Successivamente, nel 1818, joseph nicèphore nièpce aveva prodotto le prime eliografie su peltro sensibilizzato con bitume. Lo stesso nièpce era stato collaboratore di daguerre per alcuni anni, anzi era stato con lui in società dal 1829 al 1833 e non si può escludere, pertanto, che all’invenzione del daguerre abbiano contribuito in modo non marginale alcune informazioni fornite da nièpce. La notizia ufficiale dell’invenzione del dagherrotipo fu data all'académie des sciences di parigi tramite françoise dominique arago (astronomo e segretario permanente dell’accademia) soltanto nel 1839 (una prima comunicazione il 7 gennaio, un rapporto completo il 3 giugno, una pubblicazione del procedimento il 19 agosto in una seduta congiunta dell'académie des sciences e dell'académie des beaux arts). Essa coincise particamente con la presentazione ufficiale (25 gennaio 1839) del disegno fotogenico (immagine di sagome di carta poste a contatto di carta fotosensibile per il trattamento con nitrato d’argento), ma soprattutto precedette solo di un anno l’invenzione del calotipo di henry foz talbot del 1840 (brevetto inglese del 1841). Le due tecniche sostanzialmente coeve, sono tra loro molto differenti. Infatti mentre la prima deve la sua fama a immagini particolarmente dettagliate, delicate ed uniche, la seconda deve la sua fama al fatto di costituire il fondamento del procedimento negativo-positivo, che consente la realizzazione di più copie della stessa immagine. Il dagherrotipo è costituito da una lastra di rame che ne costituisce il supporto. Questa lastra era argentata, lucidata e trattata con acido nitrico diluito. Seguiva poi la sensibilizzazione, cioé la formazione di uno strato superficiale sensibile all’azione della luce e questo si otteneva ponendo opportunamente la lastra all’interno di una camera di fumigazione. In essa, da dischi riscaldati di ioduro di potassio, si sviluppavano fumi che, a contatto con la superficie d’argento, davano luogo ad un sottile strato di ioduro d’argento. Questa sostanza, come altre simili quali il bromuro ed il cloruro d’argento, se esposta alla luce in una camera fotografica, subiva una modificazione non visibile, ovvero dava luogo ad un’immagine potenziale detta per questo latente. Era necessario quindi renderla visibile con un rivelatore, cioé un elemento, una sostanza o una soluzione chimica con proprietà tali da agire soltanto sui cristalli di alogenuro d’argento colpiti dalla luce e non su quelli non esposti. Diversamente dalla maggior parte di altri materiali fotografici, il dagherrotipo era sviluppato con vapori di mercurio riscaldato con una lampada a spirito, questo agiva sui cristalli esposti, o meglio sull’argento fotolitico prodotto dalla luce, formando un amalgama bianco. Le zone della lastra in cui era presente l’amalgama corrispondevano quindi ai punti o alle aree più luminose del soggetto o della scena riprodotti. Il successivo fissaggio rendeva solubili i cristalli di ioduro d’argento non esposti, così che alle zone meno luminose della scena corripondeva sulla lastra la supercie d’argento. La superficie argentata riflette la luce incidente più dell’amalgama, ma la situazione si inverte (l’amalgama diventa più chiaro dell’argento) se il dagherrotipo è osservato con un’inclinazion di crica 45°. L’immagine, che appare in tal modo positiva, risulta speculare rispetto all’originale, ma a questo inconveniente si poteva ovviare effettuando la ripresa non del soggetto direttamente, bensì della sua immagine riflessa in uno specchio. L’immagine in bianco e nero rappresentava evidentemente un limite e così molti dagherrotipi furono colorati. I primi metodi di colorazione risalgono al 1841: john baptiste insenring introdusse un metodo manuale basato sulla applicazione a seccco di colori trasparenti. Un altro metodo consisteva, invece, nell’utilizzare colori ad umido ed un altro ancora depositando a secco con un pennello i colori sulla superficie ed alitandovi poi sopra per fissarli. Ciò era possibile soltanto se la lastra era stata dorata con il metodo proposto da hippolyte fizeau nel 1840: solo in questo caso, infatti, erano ridotti al minimo i rischi di danneggiare con il pennello stesso la delicata superficie che costituiva l’immagine. Per evitare graffi, nel 1842 benjamin stevens e lemuel morse proposero di trattare la superficie del dagherrotipo con uno strato trasparente di gomma, prima di applicare il colore. M.G. Jacob (1992, 41-54) descrive anche una colorazione chimica, o meglio elettrochimica: il colore era depositato mediante elettrolisi, una pellicola protettiva permetteva, rimuovendola opportunamente, di selezionare le zone da colorare. In alcuni casi i metodi descritti erano applicati simultaneamente.
Fonte: http://www.cricd.it/pages.php?idpagina=13&idContenuto=6151
Sito web da visitare: http://www.cricd.it/
Autore del testo: Carlo Pastena C.R.I.C.D.
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