Storia sport automobilistico

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Storia sport automobilistico

 

STORIA DELLO SPORT AUTOMOBILISTICO ITALIANO

Perché si corrono le corse? Perché si rischia ogni volta la propria vita per un decimo di secondo in meno? Forse perché nella velocità, e nella competizione unita alla velocità, risiede lo spirito del Novecento. “Tutto, nell’esistenza umana, diventa ogni giorno più veloce e febbrile. Ciascun uomo moderno vive dieci vite, e ciascun punto della terra partecipa contemporaneamente all’esistenza di mille altri”, così scriveva “Rapiditas” (che in latino significa velocità), la bellissima rivista dell’Automobile Club di Sicilia all’inizio del secolo scorso. E la “Stampa Sportiva” del 1906 scriveva già che é “la rapidità turbinosa della nostra esistenza, nella corsa più affettata con cui il nostro tempo si consuma” la caratteristica più palese della nostra epoca. La morte provocata da una velocità eccessiva pareva già allora mille volte preferibile a quella su un tavolo di camera operatoria: “Le tragiche morti ci fanno quasi odiare i nostri bei mostri lucenti che sono mezzi di vita e pure strumenti di morte. Ma possiamo noi rinunciare ad essi per sempre? L’automobile è tutta l’umanità, l’età nostra fatta di febbri, di ansie, di conquiste, di lotte…” Lanciata all’estrema velocità, un’automobile è “un veicolo che rasenta l’orlo di un abisso, un proiettile a traiettoria essenzialmente instancabile, una corsa in balia di mille pericoli che crescono sempre…Ma questo non pensa il pilota…un solo sentimento occupa il suo animo, e ci si crede nell’istante qualcosa di sovrumano, di divino, un dominatore e un signore delle distanze e dello spazio…
Rischiare, dominare, vincere, è una vertigine ancora più affascinante se si utilizza lo strumento, dall’attrazione perversa, della velocità. Gli italiani lo sanno bene, tanto da essersi inventati le corse più belle del mondo, da annoverare, già a partire dall’inizio del Novecento, un grande numero di campioni delle due e delle quattro ruote, dall’aver realizzato per primi al mondo una strada studiata appositamente per sfrecciare in automobile, l”autostrada” (è la Milano-Laghi, inaugurata nel 1924). Dire che all’inizio dell’automobilismo, quando cominciarono a diffondersi le prime automobili e a sorgere le prime industrie, l’Italia era molto indietro. Era abissale il distacco tra la nostra circolazione automobilistica e quella nel resto d’Europa. Nel 1922 in Inghilterra vi erano 600.000 automobili; in Francia 300.000; in Italia appena 41.000. Il rapporto era dunque di 1 auto ogni 1000 abitanti, in Italia; di 8 auto ogni 1000 abitanti in Francia; di 15 auto ogni 1000 abitanti, in Inghilterra. Per non parlare dell’America, dove circolavano allora dieci  milioni di autovetture, una ogni 100 abitanti.
L’Italia infatti soffriva ancora di un comparto industriale fragile, poco sviluppato soprattutto nel sud; di un’economia prevalentemente agricola; di una capacità di consumo bassissima, viste le ridotte possibilità economiche della famiglia media. Per lunghi anni l’automobile restò un consumo di lusso, molto al di fuori della portata di un “padre di famiglia” che facesse l’operaio, il contadino, l’impiegato; e fu soltanto con gli anni cinquanta che cominciò a


diffondersi nella società italiana un po’ di benessere, che si tradusse nell’acquisto dei primi elettrodomestici e soprattutto nel potersi finalmente permettere un’utilitaria come la Fiat 600 o la Fiat Cinquecento.
Ancora più meritori dunque la determinazione e il coraggio con cui gli italiani del primo Novecento capirono l’importanza delle corse automobilistiche come campo di prova e di sperimentazione delle macchine di serie, e anche come ineguagliabile strumento pubblicitario. Chi vinceva una gara otteneva una ribalta e un risalto che non avrebbe potuto raggiungere con i mezzi pubblicitari allora a disposizione, e sottoponeva la propria vettura ad un test che poteva dare indicazioni utilissime per la successiva produzione in serie. Inoltre una gara attirava pubblico, giornalisti, appassionati, curiosi: dunque portava movimento, commercio, notorietà… L’automobile era il segno più tangibile del progresso tecnologico: per questo costruire la macchina più veloce, più potente, più affidabile significava essere all’avanguardia industriale. Vincenzo Florio, armatore, industriale, grande signore siciliano, amante del progresso e della modernità, sportivo e pilota egli stesso, si fece portavoce di questa fede nel progresso tecnologico e nel futuro e ideò la gara che porta il suo nome, la Targa Florio, una delle più antiche del mondo. Ebbe infatti l’idea di organizzare una gara in Sicilia, su un percorso necessariamente difficile ed accidentato per la pessima condizione delle  strade (non esisteva certo l’asfalto, le strade erano spesso solo piste battute, che frequentemente potevano trasformarsi in acquitrini o diventare deserti di polvere). Un atto di coraggio e allo stesso tempo un’idea geniale, perché per la prima volta si pensava ad un circuito, ossia ad un percorso chiuso, da compiersi più volte. Fino a quel momento le corse si erano svolte su tragitti lunghissimi, da Parigi a Madrid, o da Parigi a Berlino, su strade ovviamente aperte al traffico normale di carri, carretti, carrozze, biciclette, animali, mandrie e umani. Ed era stata una strage: gli incidenti furono innumerevoli, e accentuarono la naturale paura che l’automobile destava nella maggior parte delle persone, spaventate dal rumore, dal fumo e appunto dalla velocità. Era molto più facile invece organizzare un servizio di sicurezza, e magari chiudere al traffico, le strade su cui la corsa si svolgeva quando il percorso era “circolare”, da compiere un certo numero di volte. Inoltre un tragitto misto, di curve, salite e discese, di vie a mezza costa e strade di montagna, di rettilinei e di attraversamenti di paesi, poteva a tutti gli effetti diventare un test di affidabilità e resistenza. Per questo, fin dalla sua prima edizione, la Targa Florio nacque come gara riservata alle vetture da turismo. Come dice il regolamento della prima edizione, nel 1906, erano ammesse tutte le vetture il cui prezzo di catalogo dello chassis fosse inferiore alle diecimila lire, e costruite in almeno dieci esemplari.
La Targa Florio portò il nome della Sicilia in tutto il mondo e partecipare significò ben presto entrare in contatto con una regione di immensa e selvaggia bellezza, e contemporaneamente con il bel mondo europeo che vi accorreva in massa. L’eleganza, la signorilità, l’ospitalità    dell’organizzazione


di Florio fecero di questa difficilissima competizione un “must” del mondo sportivo mondiale. Chi vinceva, e fu la Itala alla prima edizione del 1906, la Fiat alla seconda del 1907, la Isotta Fraschini alla terza del 1908, diventava per ciò stesso una marca sulla bocca di tutti.
Altre marche italiane entrarono nelle maggiori competizioni, che allora, oltre alla Targa Florio, erano il Grand Prix dell’Automobile Club de France, la Coppa dell’Imperatore di Germania, e i grandi raids, come quello da Pechino  a Parigi vinto da un’Itala, e da New York a Parigi, vinto moralmente da una Zust. Queste altre marche erano la Diatto, la Chiribiri, l’Aquila Italiana, la Lancia, tutte di Torino, che andarono a vincere ovunque, persino sui campi di gara americani. I piloti si chiamavano Cedrino, Lancia, Nazzaro, Cagno, Bordino: uomini dalla resistenza fisica sovrumana, dal coraggio ineguagliabile, dalle capacità eccelse. I costruttori, infatti, montavano motori con cilindrate sempre maggiori e quindi sempre più potenti. Gli assali erano rigidi, non esistevano ammortizzatori, gli sterzi erano pesanti e senza autoritorno, i freni poco efficaci. Sulle fragili ruote di legno, si montavano pneumatici lisci che duravano poche centinaia di chilometri se tutto andava bene, ma che invece si foravano assai più spesso (date le strade piene di buche, ciottoli taglienti ed altri oggetti), o addirittura scoppiavano, spesso con gravi conseguenze. Fino al 1906 non si potevano cambiare i cerchi e l’equipaggio doveva smontare la gomma con i mezzi di bordo, rimontarla, gonfiarla e riprendere la gara…Il pilota era seduto molto in alto, esposto al vento, alla pioggia, alla polvere, ai sassi senza alcuna protezione. Il meccanico era seduto sull’altro lato della macchina, con le gambe fuori dalla vettura, attaccato a qualche maniglia di soccorso e da questa incomoda posizione doveva controllare la lubrificazione a gocce, pompare l’aria nel serbatoio di benzina, avvisare il suo pilota se qualche macchina appariva nel polverone e voleva passare, segnalare i pericoli ovunque essi fossero. E spesso i meccanici portavano anche con loro dei coltellacci per tagliare i copertoni e le camere d’aria avariate e poterle così togliere rapidamente di mezzo per procedere al cambio, dopo uno scoppio o una foratura…Questa tortura durava per ore ed ore. Al guidatore ed al suo secondo occorrevano eccezionali doti di coraggio, forza fisica, abilità e resistenza perché per guidare quei bolidi pesanti più di una tonnellata, con i freni solo sulle ruote posteriori, senza quasi una carrozzeria, a velocità che sfioravano anche i 140 km/h bisognava essere o pazzi o incoscienti, e in entrambi i casi molto bravi.
Nel primo dopoguerra comincia il dominio della Fiat, ma sono tante le marche italiane che le contendono il primato: la Lancia, la Bianchi, l’Isotta Fraschini, la Spa, la Scat, l’Itala, la Diatto, la Chiribiri, la Temperino, l’Alfa Romeo, la Maserati. Comincia anche a prevalere la convinzione che una gara non si vince più solo di potenza, di forza, ma che occorra una preparazione a tavolino, una strategia di squadra, una organizzazione perfetta, come avevano dimostrato i tedeschi della Mercedes quando avevano trionfato al Grand Prix dell’ACF  del  1914. Fu  quella  una  gara fondamentale nella  storia  dello sport


automobilistico perché si affermò la moderna concezione della vettura da corsa, con motori monoblocco a quattro cilindri, la trasmissione a cardano, una forma della carrozzeria rastremata nella parte posteriore; le Fiat in particolare avevano una carrozzeria profilata con coda lunga e due ruote di scorta ai lati della macchina. Tutte le macchine impiegavano ruote smontabili a raggi metallici, tutte avevano le valvole in testa. Altra fondamentale novità, l’impiego dei freni sulle ruote anteriori. Ma di un altro aspetto ci si rese conto con quella gara: l’importanza degli allenamenti e delle prove, di una sperimentazione che le case non potevano compiere soltanto negli ultimi giorni precedenti la gara. Per questo in Italia si decise, con una rapidità che ancora oggi lascia sconcertati, la costruzione di un autodromo destinato a diventare uno dei più famosi del mondo: quello di Monza, inaugurato con il Gran Premio d’Italia del  1922.  “L’iniziativa dell’Automobile Club di Milano – si scrisse – segna una data memorabile e una nuova era nella storia automobilistica nazionale”. Ancora una volta l’industria motoristica era considerata l’industria tipo “la pietra di paragone, la eccellente tra le industrie meccaniche”, nella convinzione che “la nazione che batte le altre in una gara automobilistica dimostra di avere materiali, menti direttrici, esperienza e valore di braccia capaci di batterle anche in tutte le altre industrie”. Un Gran Premio era considerato già allora “il sommo avvenimento sportivo nazionale: non vi è altra prova in alcun altro genere di sport…che possa neppure lontanamente stare al confronto per importanza, per commozione, per significato, per ampiezza, per richiamo di folla…è un formidabile cimento industriale, un’eccezionale prova di valori tecnici, scientifici, costruttivi”. Sono parole attuali ancora oggi.
In pochi mesi, dal febbraio al settembre 1922, il circuito di Monza fu  costruito. Aveva uno sviluppo di 4,5 km, superiore sia alla pista di Brooklands (4 km) sia a quella di Indianapolis (4,2 km), su progetto dell’ingegner Puricelli, lo stesso che progettò e realizzò due anni dopo la prima autostrada del mondo. Il circuito di Monza da allora ospitò il Gran Premio d’Italia, salvo rare eccezioni, e vide da subito, per le edizioni del Gran Premio d’Italia del 1922 e del 1923, la vittoria della Fiat, il cui predominio però stava per essere seriamente messo in discussione dall’emergere di una giovane marca milanese, l’Alfa Romeo, dove era appena arrivato un tecnico di  straordinarie capacità, l’ingegnere Vittorio Jano. Le vetture da lui progettate,  a partire dalla Alfa Romeo P2 del 1924, furono tra le più vincenti al mondo, ed assicurarono alla marca un netto predominio. Furono anni di grandi progressi nella tecnica automobilistica, grazie anche alla guerra che aveva  fatto progredire sensibilmente la metallurgia e gli studi sui motori leggeri e veloci, destinati ai veicoli militari e agli aeroplani. A tutti i progettisti si era imposta la distribuzione ad alberi a camme in testa, erano apparsi i cambi in blocco  con  il  motore,  si  erano  affermati  i  freni  anteriori,  le      carrozzerie


tendevano a divenire filanti ed affusolate, e i centri di gravità ad abbassarsi. Comparve per la prima volta anche il compressore, priorità italiana: fu infatti al Gran Premio d’Europa corso a Monza nel 1923 che debuttò la prima Fiat sovralimentata. Da allora fino allo scoppio della seconda guerra mondiale nessuna grande corsa venne più vinta da macchine con motori atmosferici, carburati con miscele speciali a base di benzolo, alcool metilico, etilico ed altri additivi della benzina, a dosi minime.
Il 1927 fu per lo sport automobilistico italiano un anno particolare: sia perché la Fiat decise di ritirarsi dalle corse, privando l’agone sportivo di una delle case più forti, sia perché nacque una corsa straordinaria, la Mille Miglia, una leggenda dell’automobilismo. Si svolgeva lungo un percorso di 1600 chilometri (appunto, mille miglia) che toccava gran parte dell’Italia, da  Brescia a Roma e quindi di nuovo a Brescia, e risultò la corsa più suggestiva e coinvolgente, la cui eco si è protratta ben oltre la sua fine (nel 1957, a causa di un terribile incidente). Vi partecipavano dai piloti più famosi del mondo agli sconosciuti che vi si iscrivevano con vetturette rielaborate in casa, suscitando una partecipazione di popolo che non ebbe nessun’altra gara. L’Alfa  Romeo, la marca italiana più forte di questo scorcio di anni, grazie non soltanto ai suoi progettisti ma anche ai grandi piloti che vi militarono, come Ascari, Campari, Sivocci, Wagner, Nuvolari, e ad un direttore sportivo dal grande avvenire, un certo Enzo Ferrari, vi trionfò molte volte. Ma non ebbe vita facile perché ritiratasi la Fiat già sorgeva un’altra grande marca italiana, capace di mirabolanti imprese: la Maserati, che per esempio si aggiudicò il record di velocità a Cremona, con Borzacchini, il 28 settembre 1929.
I piloti italiani di quell’epoca indimenticabile erano numerosi e correvano in tutte le squadre del mondo. Alcuni erano ancora della vecchia guardia, come Ascari, Bordino, Nazzaro, a cui si erano aggiunti Campari, Arcangeli, Biondetti, Bonetto, Borzacchini, Brilli Peri, Brivio, Costantini, Fagioli, Farina, Maggi, Masetti, Materassi, Minoia, Pintacuda, Sivocci, Taruffi, Trossi, Villoresi, , e i due grandi, inarrivabili Tazio Nuvolari e Achille Varzi, il fuoco e il ghiaccio, che si dividevano in parti uguali i favori del pubblico italiano e non solo. Fu uno di loro, il pilota toscano conte Gastone Brilli Peri, ad aggiudicarsi il Primo Campionato Automobilistico del Mondo, nel 1925, naturalmente su un’Alfa Romeo, che doveva ancora dominare per almeno altri dieci anni, fino cioè all’arrivo delle temibili vetture tedesche, anche se poi l’Alfa Romeo, nell’immediato secondo dopoguerra, riprese saldamente il suo abituale dominio. Per esempio la sua famosa P3, derivata dalla P2 che abbiamo visto, dal 5 giugno 1932, giorno del debutto al Gran Premio d’Italia, al 6 luglio 1934, giorno in cui vinse il Gran Premio di Francia, aveva preso la partenza 62 volte, terminato la gara 57 volte, e vinto 22 su 26 grandi corse. In sette gare si classificò addirittura ai primi tre posti. Sulla P3 il grande Nuvolari fu protagonista di una straordinaria vittoria al Gran Premio di Germania del 1935,   unica   volta   di   quell’anno   in   cui   ad   affermarsi   in   una    grande


competizione non fu una vettura tedesca. Questo eccezionale record di un unico modello è paragonabile solamente a quello delle 158 e 159 del dopoguerra, sempre dell’Alfa Romeo. Dal 1925, per i dieci anni seguenti, il progresso tecnico nel campo delle competizioni vide perfezionamenti di dettagli, di materiali, di disegni di particolari. Debuttarono motori posteriori, sospensioni indipendenti, motori avalve, comandi desmodromici, trazione anteriore. In questo panorama, costituì una grande novità la monoposto costruita dall’Itala nel 1925, progettata dall’ing. Giulio Cesare Cappa, che e fu una macchina di estrema avanguardia, con carrozzeria ben rastremata e  con il telaio costruito anche con elementi di legno. Aveva le quattro ruote indipendenti e la trazione anteriore con un interessante motore a 12 cilindri  in due versioni: una da 1,5 litri e l’altra da 1 litro. Questa magnifica vettura  non venne mai presentata né in prova né in corsa. Subì però i bombardamenti della seconda guerra mondiale e ancora si può vedere nella carrozzeria il foro di un colpo ricevuto. Interessante anche la prima Maserati. Si chiamò modello 26 perché fu progettata appunto nel 1926 dai fratelli Maserati di Bologna. Era una classica otto cilindri in linea, cilindrata da due litri, derivata dalla Diatto da corsa progettata sempre da Alfieri Maserati. Nel 1926 vinse la sua classe nella Targa Florio e a Monza due esemplari guidati da Ernesto Maserati, uno dei fratelli, ed Emilio Materassi, tennero brillantemente testa per i primi giri alle Bugatti vincitrici, prima di doversi fermare. Questa 8 cilindri fu la progenitrice della grande generazione di vetture sportive Maserati.
In questi anni erano anche nate in Italia le prime scuderie automobilistiche:  la più famosa era la Scuderia Ferrari, fondata da Enzo Ferrari, che utilizzava vetture Alfa Romeo e ne gestiva il reparto corse. Doveva rivelarsi la più grande, la più solida e durò fino alla guerra mondiale. Nel dopoguerra, Ferrari fondò la sua casa, e cominciò a partecipare alle corse con vetture che portavano il suo nome.
Dopo la seconda guerra mondiale, nel campo delle vetture Grand Prix, ora chiamate di F1, si fecero ulteriori grandi progressi, per esempio sui freni, sulle sospensioni, sui materiali, sulle gomme, sulla tenuta di strada, mentre rimase sostanzialmente invariata l’architettura generale fino alla fine degli anni cinquanta. A parte l’impiego dei freni a disco, nulla di veramente nuovo comparve sulla scena delle grandi competizioni che non si fosse già visto e sperimentato prima della guerra. Alla fine degli anni cinquanta invece la tecnica delle vetture da corsa doveva subire una fondamentale trasformazione destinata a rivoluzionare in modo radicale l’architettura della macchina da corsa.
La Formula 1 si inaugurò ufficialmente nel 1947 e prevedeva motori di 1500 cc con compressore e 4500 senza compressore. Il carburante era libero e quindi le miscele alcoliche permisero ai motori sovralimentati di prevalere ancora  per un certo tempo, prima cioè che tutti i nuovi motori senza compressore venissero sviluppati fino al loro limite. Nel 1947 vi fu anche un altro fatto


significativo: cominciarono a circolare le prime macchine sport con il marchio Ferrari e il tipico Cavallino Rampante, retaggio glorioso dell’asso dell’aviazione italiana Francesco Baracca. In questi anni perciò la lotta per la supremazia si sviluppò tra le due marche italiane Alfa Romeo e Ferrari.
Ognuna aveva scelto una soluzione diametralmente opposta nel dilemma proposto dalla F1. L’Alfa Romeo, infatti, insisteva nell’evoluzione del motore 1500 sovralimentato. Si trattava di un modello nato nel 1937 presso la Scuderia Ferrari di Modena, e fu realizzato dal personale tecnico della casa milanese. Chiamata inizialmente Alfetta, poi 158 poi, nelle successive evoluzioni del dopoguerra, 159, aveva quattro ruote indipendenti, motore a otto cilindri in linea, cilindrata da 1,5 litri con compressore Roots. La Ferrari realizzò invece il miglior motore 4,5 litri senza compressore apparso fino a quel momento. Gli anni 1950 e 1951 furono gli ultimi in cui i Gran Premi furono disputati alla vecchia maniera, con distanze di gara mai inferiori ai 500 chilometri e quindi corse davvero massacranti per vetture e per piloti. Le macchine sfioravano potenze da 400 HP, i motori sovralimentati rombavano sonoramente, con il sibilo dei compressori che si avvertiva a distanza. Le vetture senza compressore a dodici cilindri facevano sentire anch’esse tutta la loro potenza. Non erano  certo docili e stabili come quelle moderne. Occorreva guidarle e tenerle ben forte con le mani attaccate al volante, correggendo continuamente la traiettoria. I grandi assi sapevano entrare in curva mettendo le macchine in “derapata controllata” e le quattro ruote assumevano aspetti ben poco ortodossi per chi non conoscesse l’arte della guida ad alta velocità. Le vetture arrivavano al limite dello sbandamento e i piloti migliori riuscivano a dominarne i capricci con opportune manovre di acceleratore e sterzo. Durante un Grand Prix le vetture con compressore dovevano fermarsi almeno due volte per rifornirsi di carburante alcolico (i potentissimi motori erano in parte raffreddati dall’enorme quantità di miscela gassosa che passava nei cilindri) e cambiare  le gomme che si consumavano nelle “pattinate” e nelle “derapate” continue. Le macchine senza compressore, a rigore, potevano percorrere tutti i giri della corsa senza rifornirsi, poiché i loro motori consumavano molto meno carburante delle vetture sovralimentate, ma era il consumo delle gomme ad imporre spesso un arresto. Quindi la strategia e la tattica delle grandi  squadre, che correvano spesso con quattro o cinque vetture ciascuna, erano di primaria importanza. I consumi, di gomme e di carburante, e quindi i sistemi di guida, erano spesso elementi decisivi. Le soste ai box, la rapidità dei rifornimenti e dei cambi ruote effettuati da meccanici appositamente allenati, la scelta del sistema di corsa secondo gli sviluppi della gara, diventarono tutti aspetti interessanti ed emozionanti, e costituivano la parte cruciale di un Grand Prix di importanza mondiale. Lo spettacolo era certamente grandioso.  I piloti si distinguevano facilmente perché erano ben visibili nel loro abitacolo. Portavano spesso abbigliamenti differenti e conosciuti, il loro stile  di  guida  si  poteva osservare e giudicare  chiaramente, si poteva   riconoscerli senza dover leggere il numero di gara. I freni di allora si consumavano facilmente se il pilota non ne dosava sapientemente l’impiego. La tenuta di strada era molto diversa da quella di adesso, e rendeva la guida ben altrimenti faticosa ed impegnativa. Le moderne vetture di oggi si guidano con la precisione di un congegno elettronico (perché sono congegni elettronici), mentre allora si guidava come se si dovesse domare la belva celata nella vettura. Una volta per esempio si guidava seduti quasi diritti, con  ampio spazio laterale per muovere le braccia facilmente e poter correggere le impercettibili sbandate volute e anche quelle maggiori non volute. Oggi si guida semisdraiati, incapsulati in abitacoli che non permettono il minimo movimento se non una specie di “mira” attraverso il minuscolo volante di guida (sempre che si possa chiamare “volante” e non una consolle con una serie di pulsanti elettronici).
Strepitosa l’annata 1950 per le Alfa Romeo 158/159: in cinque mesi parteciparono a dieci corse vincendole tutte, conquistando anche sette  secondi posti, tre terzi posti e un quarto posto. Nel 1951 questo stesso modello rendeva 425 HP a 9300 giri/minuto, e montava nuovi immensi serbatoi di carburante, sistemati anche lateralmente, la cui capacità complessiva toccava  i 300 litri. Ma nel 1951 vi fu una gara storica, il Gran Premio d’Inghilterra, corso a Silverstone il 14 luglio. Fu storica perché segnò la prima vittoria Ferrari. Dopo cinque anni e ventisei corse consecutive, vi fu una affermazione italiana non dell’Alfa Romeo, e proprio per merito di Enzo Ferrari, l’uomo a cui per oltre venti anni erano state indissolubilmente legate le fortune  sportive dell’Alfa, e che ora era riuscito finalmente a battere la più potente macchina da corsa del dopoguerra con una vettura che portava il suo nome.


Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino 2002

Fonte: http://www.museoauto.it/website/images/stories/articoli/corse/storia_dello_sport_automobilistico_italiano.pdf

Sito web da visitare: http://www.museoauto.it/

Autore del testo: Donatella Biffignandi

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