Carlo V e le guerre

Carlo V e le guerre

 

 

 

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Carlo V e le guerre

I conflitti politici nell'età di Carlo V

 

1. Le guerre d'Italia.

L'incertezza e la frammentarietà dell'azione svolta in Ger­mania da Carlo V si spiegano in parte con la molteplicità degli impegni politico-militan ai quali l'imperatore dovette far fronte. Accanto alla difesa dalla minaccia turca ad Oriente e nel Medi­terraneo, la lotta contro la Francia, che si svolse principalmente in Italia, assorbì gran parte delle energie di cui l'Asburgo poteva disporre. Movi menti religiosi, guerre in Italia, presenza turca sono elementi di un éomplesso quadro politico, nel quale la contesa tra Asburgo e Valois per il predominio sull'italia fu, nella prima metà del '500, il motivo più costante.
La ripresa della guerra tra Francia e impero dopo la pace di Noyon ebbe come obiettivo la conquista del Milanese, che era rimasto in mani francesi. Ma dopo l'elezione di Carlo V la posta in gioco era più importante. Per la Francia, la saldatura dei domini asburgici con quelli spagnoli non poteva non essere fonte d'inquie­tudine. Si aggiungevano le rivendicazioni asburgiche nei confronti della Borgogna che, un tempo parte dell'omonimo ducato, era poi dive­nuta una provincia francese. Per l'impero, la presenza francese nel Milanese (con la naturale appendice della egemonia sulla piccola repubblica di Genova) interrompeva la continuità di un dominio che dalla Spagna, attraverso l'Italia e i territori dell'im­pero, giungeva fino alle Fiandre. In sostanza l'Italia era divenuta il terreno di una lotta che aveva come obiettivo l'egemonia sul­l'Europa o almeno un equilibrio politico che interessava tutto il mondo occidentale.
Inizia con una serie di operazioni militari in Navarra * (dove Francesco I mise un esercito a disposizione dei sovrani spodestati) e nei Paesi Bassi, la guerra si spostò rapidamente in Italia, per concludersi, sia pure provvisoriamente, con una grave sconfitta subita dal re francese a Pavia (24 febbraio 1525). Francesco I fu fatto prigioniero e costretto a firmare un accordo gravosissimo che si affrettò a smentire appena tornato in libertà. Gli Stati italiani indipendenti erano stati favorevoli a Carlo V fino a quel momento. La vittoria dell'imperatore e l'inserimento del Milanese nell'ambito dei domini spagnoli comportava però una minaccia di subordinazione politica per tutto il resto della penisola. Il papa Clemente VII e la repubblica di Venezia accettarono quindi l'invito della Francia ad aderire alla Lega di Cognac, stipulata nel maggio del 1526. Era la premessa di una ripresa delle ostilità. Truppe imperiali, costituite dai cosiddetti lanzichenecchi e da mer­cernari italiani e spagnoli, vennero in Italia. La guerra non era ancora ricominciata quando si verificò un episodio clamoroso: rimasti senza paga, i soldati imperiali presero l'iniziativa di mettere a sacco Roma (maggio 1527), mentre l'impera­tore stava svolgendo trattative col papa. Molti sollecitarono Carlo V a cogliere l'occasione per costringere il papa, prigioniero a Castel 5. Angelo, a convocare una buona volta il desiderato concilio che avrebbe dovuto metter fine alla frattura della cristianità. Carlo invece preferì non esercitare nessuna violenza sul pontefice. Liberatolo, si accontentò di una promessa di neutralità dello Stato pontificio e di un contributo finanziario per pagare le truppe. Nel clima di esaltazione che si era creato dopoil sacco di Roma, Firenze si ribellò contro i Medici e ricostitui la Repubblica, che avrebbe avuto tuttavia breve durata. Francesco I ritenne che il momento fosse favorevole per dichia­rare la guerra. Una spedizione, sotto il comando di Lautrec, riconquistò la Lombardia e si spinse fino al regno di Napoli, dove alcuni grandi baroni inalberarono il vessillo francese. La defezione di Andrea Doria, doge di Genova, che, essendo prima al servizio della Francia, passò con la sua flotta dalla parte imperiale, mise in difficoltà il Lautrec che dovette ritirarsi. Questi improvvisi colpi di scena e le difficoltà finanziarie con­dussero alla pace di Cambrai (5 agosto 1529), preparata da Mar­gherita d'Austria, zia di Carlo V e viceregina dei Paesi Bassi, e Luisa di Savoia, madre di Francesco I. L'imperatore rinunziò alle sue pretese sulla Borgogna, ma ottenne la rinunzia da parte fran­cese alla Lombardia. Ormai padrone della situazione in Italia, egli poté così convocare un congresso a Bologna (1530) per regolare insieme al papa gli affari della penisola. In quella occasione rice­vette dalle mani di Clemente VII la corona imperiale e restaurò la signoria medicea a Firenze. Il tentativo di difesa fatto dalla repubblica (al quale collaborò anche Michelangelo Buonarroti) fu rapidamente travolto; la Lombardia fu assegnata a Francesco II Sforza, col patto che alla sua morte sarebbe entrato a far parte dei domini della corona spagnola. Ad aprire una nuova fase di guerra, dopo una tregua di sette anni, non fu tanto la morte del duca di Milano Francesco Sforza, quanto la possibilità che si offri al re di Francia di sfruttare il conflitto tra Carlo V e la Lega di Smalcalda. Con una spregiudicata azione diplomatica, Francesco I cercò anche un accordo con i turchi, inviando una missione a Costantinopoli per concertare una azione parallela delle due potenze. Malgrado questi preparativi, la guerra ebbe breve durata e si svolse su un teatro relativamente ristretto. Seguì un periodo di tregua (1538-1544), ed una nuova guerra che si concluse col trattato di Crépy (1544). La Lombardia fu definitivamente assegnata alla corona spagnola, mentre la Savoia (i e una parte del Piemonte furono annesse alla Francia. La morte di Franuesco I nel 1547 (quasi contemporanea a quella di Lutero e di Enrico VIII) non mutò la politica antimpe­riale della Francia. Il figlio e successore, Enrico Il, puntando più direttamente su un accordo éon i principi protestanti e su una più stretta collaborazione con i turchi, portò la guerra in Germania, occupando nel 1552 il territorio dei vescovadi di Metz, Toul e Verdun. Un mutamento radicale portò invece la decisione di Carlo V di giungere ad un accordo con i principi protestanti (pace di Augusta, 1555) e di abbandonare la scena politica assegnando al figlio Filippo Il la corona di Spagna (con i domini italiani, le colonie americane ed i Paesi Bassi), ed al fratello Ferdinando I i domini ereditari di Casa d'Austria e la corona imperiale. La pace di Cateau-Cambrésis (1559), stipulata tra Enrico Il e Filippo Il, segnò la vera conclusione del conflitto. Il ducato di Savoia fu restituito ad Emanuele Filiberto che, come generale al servizio del re di Spagna, aveva riportato una notevole vittoria sui francesi a San Quintino nell'Artois (1557). La Francia con­servò il possesso del marchesato di Saluzzo e il diritto di tenere guarnigioni in Piemonte; ebbe Calais, l'ultimo lembo di terra francese che gli inglesi tenevano dalla fine della guerra dei Cento anni; confermò il possesso dei vescovadi di Metz, Toul e Verdun. La Spagna mantenne i propri domini italiani (Lombardia, Regno di Napoli, Sicilia, Sardegna) ai quali si aggiunse un territorio in Toscana (lo Stato dei Presidi) formato da fortezze e porti (Tala­mone, Orbetello, Porto Ercole, Porto Santo Stefano e Monte Ar­gentario) che costituivano un punto importante nel sistema di comunicazioni tra la Spagna, l'Italia meridionale e Genova. Questa ultima mantenne la sua indipendenza, ma rimase strettamente legata, sia sul piano politico che su quello finanziario alla Spagna.

2.      Il conflitto con i turchi.

Il       lungo conflitto con l'impero ottomano non ebbe quella im­postazione religiosa che gli esponenti politici del mondo cristiano tentarono spesso di dargli. L'Austria, la Spagna e in una certa misura anche Venezia sostennero da sole l'urto. Se ebbero qualche aiuto da altri Stati cristiani, esso fu occasionale e di scarsa impor­tanza, al contrario, la Francia tentò di utilizzare a suo vantaggio il contrasto, giungendo fino a mettersi d'accordo con i turchi nel corso della sua lotta contro Carlo V. Venezia, da parte sua, era propensa a raggiungere un compromesso piuttosto che condurre una lotta ad oltranza. Nemmeno dalla parte opposta esisteva un fronte unico politico-religioso: se l'offensiva turca in Europa e nel Mediterraneo non poté essere condotta fino in fondo, ciò fu dovuto anche alla continua rivalità che opponeva la Persia all'impero otto­mano, rivalità che Carlo V e suo fratello Ferdinando, l'arciduca d'Austria, cercarono di sfruttare. Il conflitto si svolse in due zone distinte (Ungheria e Mediter­raneo), nelle quali furono rispettivamente impegnati Ferdinando d'Asburgo e Carlo V. Il loro grande avversario, il sultano Solimano, appena salito sul trono, si impadronì di Belgrado (1521) ecacciò da Rodi i cavalieri Gerosolimitani che si installarono a Malta (1522). La prima offensiva contro l'Ungheria fu effettuata nel 1526: Solimano ottenne una grande vittoria nella battaglia di Mohàcs, nella quale perì Luigi Il Jagellone, re di Boemia e di Ungheria. Ferdinando, che aveva sposato una sorella di Luigi, ottenne facil­mente il regno boemo. Assai più contrastata fu la conquista della corona ungherese. Sebbene la riunione dei tre domini d'Austria, Boemia e Ungheria offrisse la prospettiva della costituzione di un solido baluardo contro i turchi, la nobiltà magiara, contraria alla instaurazione di un forte potere regio, offri la corona al voivoda  di Transilvania, Giovanni Zapolyai. Ferdinando intraprese una cam­pagna contro il suo rivale, che fece appello a Solimano ponen­dosi sotto la sua protezione. Da quel momento il sultano si ritenne il signore dell'Ungheria, sul cui territorio stabilì una serie di fortezze e di guarnigioni. Solimano portò due volte l'attacco sullo stesso territorio austriaco: nel 1529 pose l'assedio a Vienna, senza tuttavia riuscire ad infrangere la resistenza cristiana; nel 1532 invase una parte dell'Austria, ma la campagna si trasformò in una serie di razzie, senza che i due eserciti avversari giunges­sero ad uno scontro. Nell'uno e nell'altro caso, la lontananza delle basi e le difficoltà dei rifornimenti (insieme ai problemi politici interni ed al permanente conflitto con la Persia) impedirono agli ottomani di portare fino in fondo l'offensiva.
Nel Mediterraneo, intanto, il capo della pirateria ottomana, Khair ad-Din, detto Barbarossa, si era impadronito del porto di Algeri, costituendovi una importante base navale. Poco più tardi la sua flotta, rafforzata da altre navi che il sultano gli aveva messo a disposizione, si impadronì di Tunisi (1534). La minaccia di perdere il controllo sul Mediterraneo occidentale provocò una immediata reazione di Carlo V e l'invio di una spedizione navale che liberò Tunisi e vi restaurò il principe vassallo che il Barba­rossa aveva cacciato l'anno prima. Il possesso di Algeri costituiva tuttavia un punto di forza per i musulmani, che muovendo da questa base continuavano a condurre rovinose razzie nel Mediter­raneo occidentale. La città di Otranto, in Puglia, ed il suo terri­torio furono conquistati e tenuti per qualche tempo dai pirati, che compirono analoghe imprese anche sulla costa spagnola e nelle Baleari. Un accordo tra il papa, l'imperatore e Venezia, riunì insieme le due maggiori flotte del Mediterraneo (genovese e vene­ziana), che affrontarono Khair ad-Din all'ingresso del golfo di Arta, al largo di Prevesa. L'esito della battaglia fu incerto; ma dimostrò che la potenza navale ispano-veneziana non era sufficiente ad eh­minare la presenza ottomana nel Mediterraneo. A partire da quel momento, i turchi conservarono l'iniziativa nel Mediterraneo. Un tentativo fatto contro Algeri da Carlo V si concluse con un insuc­cesso( 1541). L'imperatore non fu in grado di sostenere l'alleato genovese quando la flotta ottomana e quella francese condussero un' azione in Corsica, a sostegno di una insurrezione che sottrasse l'isola alla repubblica di Genova e la pose per qualche tempo sotto la sovranità della Francia. Venezia intanto aveva preferito raggiungere un accordo col sultano, assicurandosi la còntinuità dei suoi rapporti commerciali con l'impero, ma cedendogli le sue piazzeforti in Morea e le isole dell'Egeo che erano sotto il suo controllo. Contemporaneamente falliva un nuovo tentativo di Ferdinando di impadronirsi dell'Ungheria, dopo la morte di Zapolyai. All'im­pero di Solimano fu annessa tutta la parte centrale dell'Ungheria, comprendente anche la capitale Buda; agli eredi di Zapolyai rimase il principato di Transilvania. L'impero ottomano era giunto, così, al punto massimo della sua espansione. Le sue forze e quelle dell'altro colosso, l'impero asbùrgico, in antitesi e in equilibrio, dominavano il mondo.

 

3.      L'Italia sotto il dominio spagnolo.

La pace di Cateau-Cambrésis non portò mutamenti sostanziali nella situazione politico-territoriale che si era creata in Italia negli anni precedenti. Dopo il 1544, pur attraverso una serie di nuove guerre, tregue e paci, le conquiste spagnole (i domini italiani furono aggregati alla corona di Spagna e con questa poi trasmessi a Fillppo Il ed ai suoi successori) rimasero inalterate e sostanzial­mente immutato restò anche l'assetto del rimanente territorio della penisola. Eliminata l'occupazione francese dal Piemonte, due soli fatti nuovi si verificarono. Nel 1545 il papa Paolo III, d'accordo con l'imperatore, ottenne la creazione di un piccolo Stato auto­nomo, il ducato di Parma e Piacenza, per il proprio figlio Pier Luigi Farnese. L'altro mutamento fu la fine della repubblica di Siena, la quale si era schierata dalla parte della Francia e aveva cercato di promuovere in Toscana un movimento antimediceo. Dopo il fallimento di questo tentativo(1555), stroncato dalle truppe spa­gnole e fiorentine, il suo territorio fu incorporato nel ducato di Toscana, ad eccezione del cosiddetto Stato dei Presidi che, come si è detto, fu assegnato alla Spagna. Fino a quel momento, qualche resistenza antispagnola non era mancata. Come abbiamo visto, a Napoli l'offensiva di Lautrec diede occasione ad un pronunciamento antispagnolo di una parte della grande aristocrazia.~A Genova, nel 1547, fu orga­nizzata, con l'appoggio della Francia, una congiura contro i Doria, promossa e capeggiata dalla famiglia dei Fieschi. Ancora a Napoli, nello stesso anno, vi fu una rivolta contro il tentativo di intro­durre l'inquisizione spagnola e subito dopo fu scoperta una con­giura filofrancese organizzata da uno dei maggiori feudatari del regno, iJ principe di Salerno. Tranne che a Lucca, dove la con­giura di Francesco Burlamacchi, rivolta contro il governo mediceo, ebbe anche una base popolare, in genere tali tentativi fùrono ispirati e promossi dalla feudalità, ed ebbero come punto di riferimento e di appoggio la Francia. Nel caso del regno di Napoli, ciò avveniva perché soltanto questa classe era allora in grado di esprimere forze capaci di impostare una azione politica e di elabo­rare un programma di opposizione. Tale opposizione, però, anche, quando si ammantava dei motivi ideali della libertà e della indipendenza, più che esprimere gli interessi generali del paese soggetto, rifletteva velleitarie ambizioni di ritorno ad una situazione di tipo medievale, ad un rapporto di potere ormai superato tra monarchia e baronaggio. In altri termini, alcuni baroni rifiutavano di prendere atto della nuova realtà e della presenza di una monarchia più potente di quelle che in passato avevano regnato a Napoli. Certo, c'era il pericolo che il regno fosse ridotto ad una sorta di colonia; ma c'era anche la possibilità che per la prima volta anche in Italia, particolarmente nella parte meridionale dove la prepotenza baronale' era stata sempre senza limiti, si potesse final­mente realizzare una politica assolutistica. Agitando lo spauracchio di quel pericolo, fu soprattutto contro questa prospettiva che si indirizzò l'indipendentismo nobiliare napoletano; e tale fu anche l'ispirazione della lotta contro il tentativo di introdurre a Napoli l'inquisizione spagnola (indipendente da Roma), poiché coloro che vi   si opposero non intendevano battersi per la libertà religiosa (e infatti sostenevano la non meno rigorosa inquisizione « roma­na ») bensì contro un potente strumento di pressione e di potere politico nelle mani della monarchia. Del resto, queste forme di opposizione si vennero ben presto esaurendo, sia perché alcuni tra i più cospicui esponenti della vecchia feudalità furono eliminati, sia perché la monarchia spa­gnola preferì la strada dell'accordo e si dimostrò propensa a rispet­tare i privilegi e le prerogative tradizionali dell'aristocrazia, la­sciando ad essa ampie possibilità di controllo politico. Il Parlamento a Napoli ed in Sicilia ed il Senato a Milano, organismi rappresentativi che esprimevano quasi esclusivamente gli interessi nobiliari, continuarono ad esercitare la loro funzione e costituirono un freno per l'azione dei viceré (a Napoli ed a Paler­mo) e del governatore (a Milano). L'accrescimento dell'autorità monarchica fu affidato soprattutto allo sviluppo dell'apparato buro­cratico, secondo la linea propria dello « Stato rinascimentale ». La creazione di un largo gruppo di funzionari, esperti nel diritto e devoti alla corona, permise un maggiore controllo statale nel campo amministrativo, che si rivelò un fattore di relativo equi­librio interno. Quanto agli Stati della penisola non soggetti direttamente al dominio della Spagna, Genova e Firenze erano per diversi motivi nell'orbita della sua influenza. Genovà era legata alla Spagna soprattutto dai suoi interessi finanziari, poiché i suoi banchieri e finanzieri avevano nella monarchia spagnola il cliente più impor­tante: ad essa fornivano cospicui crediti ed anticipi, ricevendo in cambio rendite sulle entrate pubbliche, feudi e diritti (special­mente nel regno di Napoli, dove nel corso del '500 si creò un gruppo notevole di feudatari genovesi di origine mercantile). I traffici finanziari genovesi erano regolati da una sorta di società, la Casa di San Giorgio, la cui potenza politica, all'interno della repubblica, era naturalmente adeguata alla sua importanza econo­mico-finanziaria. Legami solidi, dunque, tra Genova e la Spagna, la quale in più d'una occasione intervenne a garantire l'ordine interno nella repubblica e il potere dell'abile casta finanziaria. In Toscana, la restaurazione dei Medici avvenne, come sappiamo, grazie all'appoggio di Carlo V; e già questo costituiva un motivo di subordinazione politica dello Stato (che nel 1569 divenne granducato) alla Spagna. Un rafforzamento del potere si ebbe du­rante la signoria di Cosimo I (1537-1574), che cercò di contro­bilanciare l'influenza spagnola - resa possibile, tra l'altro, dalla presenza di truppe nello Stato dei Presidi - rinsaldando i legami politici con la Santa Sede. Nello Stato pontificio, il principale problema politico interno L era costituito, come nel regno di Napoli, dallo spirito anarchico
e dalla prepotenza dei baroni: un problema che per lungo tempo rimase senza soluzione. Paolo III (1534-1549), Giulio III (1550-1555), Paolo IV (1555-1559), Pio IV (1559-1565), Pio V (1566-1572) furono impegnati soprattutto nella riorganizzazione della Chiesa, ma non trascurarono i problemi di politica interna, senza tuttavia riuscire a stroncare l'anarchia nobiliare ancora vigoreg­giante alla fine del pontificato di Gregorio XIII (1572-1585).
Più salda costituzione interna aveva la repubblica di Venezia, che sotto questo aspetto, oltre che per il fatto di essere riuscita a salvaguardare la sua indipendenza, si offriva quasi come un modello agli intellettuali e agli uomini politici italiarii del Cinque­cento. Ad alimentare il « mito » di Venezia contribuiva anche la maggiore libertà culturale che, in un periodo di generale inaspri­mento dell'intolleranza, essa era riuscita a mantenere, soprattutto grazie alla stabilità e all'equilibrio raggiunti sul piano politico. La sua costituzione era rigidamente oligarchica, poiché il potere era riservato alle famiglie patrizie; in più, mentre prima il Consiglio grande ed il Senato esercitavano una larga funzione di controllo, ora il Consiglio dei Dieci ed i Tre Inquisitori divennero gli organi esclusivi di governo, i depositari di un potere quasi assoluto. Ep­pure la politica del governo, corrispondendo agli interessi di un ceto mercantile ancora attivo, intraprendente e capace di assicurare alla repubblica una posizione di rilievo sul piano internazionale, non era così strettamente particolaristica come quella dei gruppi dominanti negli altri Stati italiani. Una impronta tendenzialmente assolutistica, modellata sul- j l'esempio della monarchia francese, ebbe la politica di Emanuele Filiberto nel ducato di Savoia, riacquistato con la pace di Cateau­Cambrésis dopo che aveva subito circa un ventennio di occupa­zione francese. Quando Emanuele Filiberto ritornò in possesso del suo dominio, il centro politico del ducato gravitava ancora in territorio francese, in Savoia, e io Stato (che comprendeva, oltre la Savoia, anche il principato di Piemonte e la contea di Nizza) era ancora un insieme di piccole signorie locali male amalgamate e poco disposte a sacrificare ad un forte potere centrale i loro privi­legi, le loro consuetudini, la loro autonomia. La parte italiana del ducato, il Piemonte, non si distingueva, sotto questo profilo, dalle altre parti del territorio. Il periodo dell'occupazione francese aveva già visto uno sforzo di riordina­mento amministrativo e di riunificazione, sia pure in parte contro­bilanciato dagli ~ffetti negativi della guerra e dalla presenza di eserciti combattenti. Emanuele Filiberto proseguì in questa opera tendente a smantellare la rete di resistenze localistiche e feudali; nello stesso tempo, valorizzò politicamente la parte italiana del ducato, creando a Torino gli stessi organismi di governo (parla­menti, Camera dei Conti) che erano già in funzione nella capitale, Chambery (Savoia). Le vecchie istituzioni rappresentative feudali (Stati generali e provinciall) perdettero la loro importanza, mentre veniva creata una nuova organizzazione amministrativa diretta dal Consiglio di Stato. Emanuele Filiberto tentò anche di eliminare la servitù della gleba (quasi dappertutto scomparsa nell'Europa occidentale), senza peraltro riuscirvi, e di attuare una politica economica favorevole all'incremento del commercio. A tale scopo egli si adoperò per assicurare al Piemonte lo sbocco sul mare, collegandolo con Nizza attraverso l'annessione della contea di Tenda, ed acquistando Oneglia dai genovesi. Anche il fatto di aver per­messo l'inserimento di gruppi di mercanti ebrei dimostra quale interesse il duca avesse allo sviluppo commerciale dei suoi domini. Un aspetto importante dell'opera di Emanuele Filiberto fu la creazione di un esercito nazionale attraverso l'imposizione del­l'obbligo di leva per i sudditi. Anche questo era un momento tutt'altro che secondario di una evoluzione politica che tendeva ad allentare le maglie della struttura feudale ed a creare al piccolo Stato condizioni di maggiore sicurezza nei rapporti internazionali. Proprio per il suo carattere di Stato cuscinetto, il ducato ebbe possibilità di manovra ed autonomia di iniziativa maggiori che gli altri Stati della penisola. Una volta consolidato il suo interno ordinamento, esso doveva cercare di mettere in atto, con mag­giore o minor fortuna, le possibilità offerte dalla sua particolare situazione, appoggiandosi all'una o all'altra delle due potenze che sul suo suolo si erano scontrate durante una lunga fase delle guerre d'Italia.

 

LA CONTRORIFORMA

 

1.      Speranze di riconciliazione ed esigenze di riforma interna.

La richiesta di convocazione di un concilio generale della Chiesa, dopo l'inizio della riforma protestante, mirava in origine a creare le condizioni per ricomporre, attraverso un franco dibattito e la rea­lizzazione di una riforma interna, l'unità religiosa dei cristiani. Molti cattolici « erasmiani » e lo stesso imperatore miravano a questo obiettivo. Diverse circostanze ritardarono la convocazione del concilio e resero poi inattuabili queste speranze: il timore del papato di vedere risorgere le posizioni conciliariste già emerse a Costanza ed a Basilea, il fallimento dei tentativi di conciliazione, la nuova ondata di protestantesimo intransigente sollevata dalla riforrna ginevrina e, infine, la diffusione del movimento protestante in Italia. Mentre la speranza di una riconciliazione si esauriva, restava tuttavia aperto il problema della riforma interna della Chiesa, con la prospettiva di una controffensiva cattolica che arginasse il dila­gare delle nuove idee religiose ma anche, sia pure a più lunga scadenza, di una attenuazione dei motivi di contrasto. Il dibattito aperto dai protestanti aveva creato non poche incertezze anche nel campo dogmatico, al punto che, almeno fino ad un certo mornento, posiziorii eterodosse trovarono accoglienza perfino nei più alti gradi della gerarchia ecclesiastica. Un primo mutamento di rotta si ebbe nel 1542 quando il pontefice Giulio III, per ispirazione del cardinale Gian Pietro Cara/a, istitui il Santo Ufficio dell'Inquisizione generale romana, unificando l'attività inquisitoriale fino allora esercitata vescovi nelle singole diocesi. Si creò una organizzazione repressiva unitaria che fu tanto più efficace in quanto il movimento riformatore in Italia era disperso, formato da piccoli gruppi di individui che non avevano tra loro legami organizzativi. L'esempio veniva dalla Spa­gna, dove il Carafa aveva potuto direttamente sperimentare, du­rante la sua permanenza in quel paese come nunzio pontificio, l'efficacia di quello strumento repressivo. La creazione di un nuovo e potente apparato inquisitoriale non poteva però esaurire le esigenze e le aspettative di coloro che invocavano, per diversi motivi, la convocazione di un concilio. Il problema non era sol­tanto di reprimere le eresie, ma anche di riordinare la Chiesa; e per arrestare l'ondata scissionistica era necessaria una rinascita di religiosità che certo non poteva scaturire dalle persecuzioni. Fermenti di iniziative e di proposte dimostravano che uno spirito di ripresa veniva maturando in seno al cattolicesimo: si trattava di dare ad esso un indirizzo unitario, di promuoverne l'espansione. Tali iniziative ponevano l'accento ora sulla necessità di un più intenso esercizio delle opere caritative e assistenziali, ora sulla povertà e sulla purezza di vita (ordine dei Teatini, 1525, dei Cappuccini, 1528), ora sulla predicazione unita all'esempio della carità e della virtù (Barnabiti, 1533), ora sull'istruzione popolare e sull'educazione degli orfani (Somaschi, 1528). Un segno della volontà di rinnovamento della Chiesa fu anche la nomina da parte di papa Paolo III, nel 1537, di una commis­sione che aveva il compito di esaminare la situazione e proporre un piano di riforma. Il documento che la commissione elaborò (Consilium de emendanda Ecclesia) non affrontava questioni dottri­nali, ma, dopo aver tracciato un quadro della corruzione esistente nell'apparato ecclesiastico, proponeva una serie di interventi nel campo disciplinare e morale, non senza concessioni ai propositi repressivi (come la proposta di istituire una censura sui libri e di bandire dalle scuole i Colloquia di Erasmo). Era il massimo che le tendenze riformatrici interne potevano strappare all'ala più con­servatrice e tradizionalista della Curia romana, rappresentata da Gian Pietro Carafa, il futuro Paolo IV.

2.      La Societas Jesu.

Una funzione assai più importante nel quadro generale della Controriforma ebbe un nuovo ordine religioso fondato dallo spa­gnolo 1gnazio di Loyola (1491-1556)  la Compagnia di Gesù. Il clima religioso e cultu­rale della Spagna era più che mai favorevole alla foritura di un modo nuovo di impegno religioso. Qui l'energica volontà di lotta per la difesa del cattolicesimo, educata nel corso della secolare esperienza antimusulmana, si intrecciava con ogni atto della vita, penetrava nella realtà quotidiana. La più intensa tensione religiosa tendeva a risolversi, secondo una inclinazione tradizionale, verso forme di acceso misticismo che riprendevano atteggiamenti medie­vali e talvolta, come nel caso degli alumbrados (illuminati), sfiora­vano l'eresia. Quando le opere di Erasmo furono proibite dall'Inquisizione (dopo il 1551) esse avevano già dato il loro frutto, promuovendo la ripresa ed il rinnovamento degli studi teologici, nell'ambito di una rigorosa ortodossia ma fuori dallo schematismo e dal formalismo che la scolastica tardo-medievale aveva acquistato. Né mistica né erasmiana fu però l'esperienza spirituale di Ignazio dopo la « conversione »; ma proprio per la sua novità e originalità rispetto alle precedenti esperienze (e, per certi aspetti, per la sua antitesi nei confronti del tradizionale spirito monastico ed ecclesiastico) essa fu tale da offrire alla Chiesa i mezzi e la prospettiva della riscossa. L'orientamento di Ignazio, pur dopo la decisione di mutare vita, rimase sempre pratico, militante: e si incanalò all'origine verso forme di « azione » arcaiche, per molti cattolici già superate, come il pellegrinaggio in Terrasanta. La vera storia di Ignazio comincia quando l'entusiasmo reli­gioso, abbandonate le vie medievali, riesce ad assimilare e far proprie, nel concetto e nella pratica della vita attiva, le esperienze dell'uomo moderno, in parte anche quelle che hanno trovato espres­sione nel movimento umanistico. In questo quadro non può esserci attività senza cultura. E' il successo pratico che dà la misura reale della vocazione. Santo è colui che riesce effettiva­mente ad incidere con la sua attività nel mondo esterno. Nel 1539 Ignazio elabora in cinque paragrafi (Formula insti­tuti) i principi fondamentali della comunità; l'anno dopo, supe­rate le resistenze della Curia romana, la Compagnia di Gesù viene riconosciuta dal papa. All'originario voto di castità e povertà si è aggiunto quello dell'obbedienza al papa ed ai superiori, una obbedienza incondizionata . Nella scelta dei suoi membri, la Compagnia non si lascia fuorviare da pregiudizi sociali o razziali. Il reclutamento degli adepti (per i quali è sta­bilito un rigoroso e lungo curriculum, che mira a verificare e formare le qualità del carattere) avviene in tutti gli strati sociali. Tutto è regolato in funzione dell'idea della vita attiva. Anziché distaccarsi dal « mondo » i gesuiti mi­rano ad inserirsi in esso più profondamente: il campo preferito della loro azione è l'educazione dei, giovani e la presenza nelle corti e nei palazzi signorili come confessori di monarchi, di prin­cipi, di signori. Il collegamento che essi così realizzano tra la Chiesa e le classi dirigenti laiche darà frutti importanti per secoli. Il rigorismo gesuitico si esaurisce sul piano disciplinare. Per il resto l'atteggiamento dei gesuiti tende a non esasperare gli interni conflitti religiosi; all'estremo opposto dell 'ossessione lute­rana del peccato si pone la comprensione dei gesuiti verso le possibili cadute e debolezze dell'uomo; né i gesuiti condividono, per ciò che riguarda la Chiesa nel suo complesso, le evangeliche nostalgie di semplicità e povertà. Al contrario, lo sfarzo e la grandiosità degli edifici del culto, l'esteriore solennità dell'appa­rato rituale (che più tardi troveranno espressione nel barocco) sono ritenuti adatti ad accentuare l'influenza della Chiesa sulle masse. Sul piano teologico, le loro posizioni sono conservatrici. Ge­suiti come il Lainez e il Salmeron hanno dato un contributo fonda­mentale alle formulazioni dogmatiche del Concilio di Trento. Le novità sono specialmente sul piano tecnico e organizzativo, nella capacità della Compagnia di suscitare una nuova ondata di energie. In questo senso esse si accordano con lo spirito della Controri­forma e, in gran parte, lo creano.

 

3.      Il Concilio di Trento.

Quando giunse l'ora della convocazione del concilio, non erano ancora esaurite, come si è detto, le speranze che esso fosse la grande occasione della riunificazione, tant'è vero che fu scelta una sede prossima ai confini del mondo germanico, la città di Trento; e non erano pochi coloro che si attendevano una definizione dogmatica tale da consentire una certa elasticità di interpretazione, specialmente nella dottrina della giustificazione per fede e dei sacramenti, e l'accoglimento di alcune tra quelle che apparivano le più fondate tra le suggestioni della dottrina lute­rana. Al gruppo di questi fautori del « dialogo » appartenevano, tra gli altri, i cardinali Reginald Pole, Jacopo Sadoleto e Giovanni Morone.
Indetto nel novembre 1544, il Concilio ebbe inizio il 13 di­cembre del 1545. Fu trasferito a Bologna nel marzo 1547 e sospeso nel febbraio 1548. Riaperto a Trento nel 1551 fu interrotto nel 1552 per circa un decennio e ripreso nel gennaio del 1562. I lavori si conclusero il 14 dicembre 1563.
Durante la più lunga interruzione si svolse il pontificato di Paolo IV, Gian Pietro Carala (1555-1559), la cui intransigenza ed intolleranza diedero il colpo definitivo alle residue tendenze riformatrici ancora presenti in seno alla Chiesa (che da allora non ebbero più diritto di cittadinanza in essa) e dispersero gli ultimi nuclei protestanti ancora presenti nella penisola. Furono allora sottoposti a processo anche i cardinali Pole e Morone e l'orga­nismo ecclesiastico fu spinto ad irrigidirsi nei confronti delle istanze che venivano dal mondo protestante e dalla cultura rinascimentale. Proveniente da una famiglia di antica nobiltà napoletana, Paolo IV si fece interprete anche dell'antispagnolismo che gruppi di quella aristocrazia coltivavano ancora. Le due correnti che si scontrarono nel Concilio (e che finirono poi per convergere) furono quella che tendeva a porre in primo piano le riforme morali e disciplinari (rappresentata soprattutto dai delegati spagnoli) e quella che intendeva accantonare questi problemi (lasciandoli all'autorità del pontefice) per dare al Con­cilio la funzione esclusiva di pronunciare una condanna contro le dottrine protestanti. In definitiva, il Concilio riuscì a realizzare un compromesso tra i sostenitori delle due posizioni ed a rag­giungere un orientamento unitario. Respinta la teoria della giustificazione per fede, il Concilio ribadì la necessità delle opere al fine della salvezza eterna; furono confermati, secondo la tradizione, il numero dei sacramenti e la loro efficacia obiettiva; l'interpretazione ufficiale delle Sacre Scrit­ture fu riconosciuta come la sola valida, contro la teoria del libero esame fu riconfermata l'istituzione divina del sacerdozio. L'opera di riorganizzazione e moralizzazione della Chiesa si può riassumere nella definizione dell'obbligo di residenza dei vescovi, nel divieto del cumulo dei benefici ecclesiastici, nella riconferma del celibato ecclesiastico, nel controllo sui predicatori, nella promozione dell'istruzione ecclesiastica attraverso l'istituzione di seminari in ogni diocesi. Importante fu infine il riconoscimento che le decisioni del Concilio avrebbero avuto validità soltanto dopo l'approvazione del papa. Raccolte nella Professio fidei tridentinae, esse furono infatti approvate e pubblicate da Pio IV il 13 novembre 1564. In tal nodo il Concilio ribadiva solennemente il tradizionale ordinamento gerarchico della Chiesa, culminante nella indiscussa ed assoluta autorità del pontefice. Tutta questa materia fu poi ridotta in forma più semplice ed accessibile nel Catechismo Tridentino (1566). Un nuovo strumento di pressione ideologica fu creato da Pio V (1566-1572) con la Congregazione dell'Indice alla quale fu affidato il compito di aggiornare l'elenco dei libri proibiti pubbli­cato per la prima volta nel 1559. Con questa nuova iniziativa, la rottura tra la Chiesa e le esigenze di rinnovamento che si ricollegavano alla critica umanistica ed alla nuova teologia protestante fu compiuta.
L'applicazione delle norme conciliari fu tutt'altro che agevole non solo per la resistenza opposta dalle incrostazioni di vecchie e perniciose abitudini, abusi, passività, ma anche perché a lungo continuarono a sussistere atteggiamenti più aperti verso le nuove istanze religiose, una volontà di discussione che il papato non intendeva più consentire. Una volta eliminate le incertezze che si erano create nel campo dogmatico, l'individuazione e la condanna degli eretici divennero più facili, con i conseguenti roghi o le abiure che concludevano i più frequenti processi dell'Inquisizione.
Nell'attuazione dei decreti del Concilio si distinsero alcune notevoli figure come quella di san Carlo Borromeo, che si prefisse specialmente il compito di rialzare, con l'esempio e con una instan­cabile attività, il livello morale e intellettuale del clero a lui sottoposto. La punta di diamante di questo nuovo attivismo fu la Compagnia di Gesù, alla quale si affiancarono a poco a poco anche gli altri ordini rellgiosi, vecchi e nuovi; l'entusiasmo missionario, se trovò un limite nelle zone in cui ormai il protestantesimo si era consolidato, si diffuse in altre terre, in America e in Asia.
La restaurazione cattolica si svolse, dunque, su due piani: l'uno, puramente repressivo, della Controriforma; l'altro, di una riforma cattolica che, senza toccare i principi, si propose l'obiettivo di risvegliare le energie del mondo cattolico e di impegnarle a fondo nella difesa della fede e della Chiesa.

 

Fonte: http://www.adripetra.com/DidatticaDispense/PrimoTr/Storia/Carlo%20V-ConcilioTrento.doc

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