Cronologia unità Italia

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L’Italia unita

Il 17 marzo 1861 il primo parlamento dell’Italia unita proclamò la fondazione del regno d’Italia, conferendone la corona a Vittorio Emanuele II.

L’organizzazione del nuovo stato unitario

Il 27 gennaio 1861, poche settimane prima che, a Torino, Vittorio Emanuele proclamasse il regno d’Italia, si erano svolte le prime elezioni politiche del nuovo Stato. Gli iscritti alle liste elettorali non superavano 450 mila, pari a meno del 2 per cento della popolazione (22 milioni circa). Infatti, la legislazione elettorale sabauda, sancita dallo statuto albertino, che era stata estesa a tutti i territori annessi al nuovo regno d’Italia, limitava il diritto di voto a quei cittadini abbienti che avessero superato i 25 anni d’età e soprattutto che sapessero leggere e scrivere. Ma se si pensa che più dell’80 per cento della popolazione non conosceva l’italiano, si può ben capire quanto fosse ristretta la base elettorale del nuovo stato. Per essere eletti era sufficiente ottenere qualche decina di preferenze, quindi il delicato compito di eleggere il parlamento era affidato a una ristrettissima minoranza. Questa ristretta base elettorale era costituita principalmente da proprietari fondiari e ricchi imprenditori agricoli, industriali e aristocratici, agiati commercianti e alti gradi militari, funzionari di Stato e affermati professionisti. Era in sostanza la nuova classe dominante sorta dall’integrazione tra vecchi proprietari fondiari di origine nobile e aristocratica e i nuovi ceti borghesi legati all’industria e alla finanza. Il nuovo Stato nasceva quindi facendo leva su una limitatissima base sociale, che escludeva dai diritti politici la stragrande maggioranza della popolazione. Il nuovo Stato si servì nei primi anni della sua esistenza di un personale politico prevalentemente piemontese allargato ad alcuni rappresentanti del moderatismo toscano.
Si  riaffermava così quella continuità istituzionale tra il vecchio regno sabaudo e il nuovo Stato unitario. Questa continuità si fondava essenzialmente sul fatto che l’organizzazione costituzionale del nuovo Stato (rapporti tra i poteri dello Stato e tra la monarchia e parlamento, natura dei compiti delle camere) era stabilita dal vecchio statuto albertino, promulgato negli Stati sardi nel 1848. Il sovrano del nuovo regno, Vittorio Emanuele II, mantenne la stessa numerazione ereditaria, come se nulla fosse cambiato rispetto alla sua precedente carica di re di Sardegna. Inoltre non venne modificata la numerazione progressiva delle legislature. Eppure i plebisciti, con cui si era stabilita l’annessione dei vecchi stati al nuovo regno, con la loro vasta partecipazione popolare avevano indicato come fosse diffusa l’aspirazione a una più vasta partecipazione politica e come fosse sentita l’esigenza di un profondo rinnovamento, soprattutto in campo sociale. Ma allargare il suffragio e consentire anche agli strati popolari di esprimere la propria volontà politica era un rischio troppo grosso per quella ristretta oligarchia che aveva saldamente governato il processo di unificazione nazionale in nome di un rigoroso conservatorismo sociale.
Questo ristretto gruppo dirigente nel parlamento era diviso in due tendenze politiche distinte: nei banchi di destra sedevano i moderati, liberali conservatori, seguaci delle idee e dei metodi di Cavour; in quelli di sinistra i progressisti, provenienti dal movimento democratico d'ispirazione mazziniana e garibaldina. Alla Destra, definita storica, gli elettori e la monarchia affidarono il difficile compito di dirigere la vita politica e di amministrare lo Stato nel primo quindicennio dopo l’unificazione nazionale. Questo compito si presentava molto difficile e complesso perché l’Italia, pur unificata politicamente, mancava ancora di una struttura amministrativa, di ordinamenti scolastici, militari, giuridici unitari e omogenei. Anche gli abitanti delle varie regioni erano separati da barriere secolari fatte di tradizioni e di culture diverse. Di fronte a questi problemi, emersero due ipotesi d’intervento. La prima puntava ad accentrare tutti i poteri nelle mani del governo e si proponeva di estendere la legislazione sabauda alle nuove regioni annesse; la seconda propugnava invece un cauto decentramento, prevedendo la formazione di un istituto intermedio fra i comuni, le province e lo Stato, cioè le regioni. Questa proposta aveva l’intento di salvaguardare spazi di autogoverno nelle diverse zone del paese operando con gradualità l’integrazione delle classi dirigenti dei vecchi stati nel nuovo Stato unitario. Ma il timore di non riuscire a governare il paese, sia perché il processo di unificazione era ancora troppo fragile e precario, sia perché le spinte democratiche e repubblicane erano ben presenti in molti settori della popolazione, portò la Destra a scegliere la prima soluzione, concentrando nel governo il controllo totale della macchina statale. Il 22 dicembre 1861 il governo presieduto da Ricasoli estese a tutta l’Italia la legge comunale e provinciale esistente nel Piemonte che sancì la nascita di una nuova struttura: i prefetti. Il prefetto, rappresentante del governo in ogni provincia, fu lo strumento principale per realizzare quella gestione politica e amministrativa dal centro, che i moderati avevano imposto. A lui facevano capo la tutela dell’ordine pubblico, la direzione degli organismi sanitari provinciali, il controllo sulla scuola e sui lavori pubblici, la nomina dei sindaci e dei deputati provinciali.
Vennero soppresse tutte le barriere protezionistiche che tutelavano il tessuto industriale dei singoli stati e l’instaurazione di una politica liberistica di ispirazione cavouriana. Nel 1862 fu adottata la legge Casati che prevedeva quattro anni di scuola elementare, dei quali i primi due erano gratuiti e obbligatori; nel 1865 vennero promulgati il nuovo codice civile e le norme di pubblica sicurezza; nello stesso anno venne imposto in tutto il regno l’obbligo del servizio militare. Già dal 1861 migliaia di italiani del Sud si ribellarono al governo dei piemontesi, dando vita al vasto fenomeno del brigantaggio.

La questione meridionale

Il dibattito sulla questione meridionale ebbe inizio nel 1873. Per il Nord, ed in particolare per i Piemontesi, era difficile capire quale era la dimensione globale del problema del Mezzogiorno e ritenevano anzi, che si trattasse di un malessere di dimensioni locali, causato dai briganti, dallo schiavismo dei bambini, dai latifondisti, dalla fame, dalla mancanza di acqua e dalla disperazione sociale delle città. Al momento dell’Unità d’Italia si scopriva però che essa era divisa in due parti che non avevano i presupposti per integrarsi spontaneamente: il Sud era essenzialmente agricolo e non aveva prodotti che interessassero al Nord, non poteva fornire neanche i suoi prodotti agricoli, perché il Nord aveva un’agricoltura ancora più sviluppata. Se nel settore agricolo il Sud tentò di sviluppare culture pregiate come viti, olivi ed agrumi, il Nord era da tempo anche dedito all’allevamento bovino. Investire nel Mezzogiorno, in un’economia precaria come quella del neonato Stato Italiano, avrebbe dunque significato, una scelta politica lungimirante ma senza immediato “ritorno” economico. Per quanto riguarda il sistema elettorale, la situazione politica evidenziava le differenze tra il “paese legale” e il “paese reale”, senza capacità di intervenirvi, dato che la classe politica era in buona parte espressione degli interessi di un ceto sostanzialmente omogeneo in cui i latifondisti del Sud e gli agrari del Nord tendevano a mantenere i loro privilegi, non certamente a migliorare la situazione dei contadini e dei braccianti. Come conseguenza, nello stesso Mezzogiorno, si allargava la distanza tra la disperazione dei contadini, che avevano come unica prospettiva l’emigrazione e l’assorbimento del vecchio notabilato nel pubblico impiego e nelle professioni.

Il brigantaggio e il divario tra Nord e Sud

Il distacco tra Nord e Sud si è manifestato in forma gravissima sin dai primi giorni dell’Unità, con un fenomeno che investì l’intero Meridione tra il 1861 ed il 1865: il brigantaggio. Le sue cause sono antiche e profonde, ma la delusione creata dal passaggio garibaldino prima e dall’accentramento amministrativo poi sono i motivi più recenti del fenomeno. La situazione si aggravò subito dopo la vendita all’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici. I compratori appartenevano prevalentemente alla nuova borghesia rurale che si stava rilevando più tirannica dei vecchi padroni. L’aggravarsi delle condizioni dei contadini causò la ripresa dei disordini che in pochi mesi assunsero le proporzioni di una vera e propria guerriglia. In Calabria, Puglia, Campania, Basilicata, bande armate di briganti iniziarono nell’estate del 1861 a rapinare, uccidere, sequestrare, incendiare le proprietà dei nuovi ricchi. Si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni.
Il grosso delle bande era costituito da braccianti, cioè contadini salariati esasperati dalla miseria; accanto ad essi lottavano anche ex garibaldini sbandati, ex soldati borbonici e numerose donne, audaci e spietate come gli uomini. All’inizio essi combattevano per due scopi l’uno in contrasto con l’altro:

  • ottenere la riforma agraria che Garibaldi non aveva concesso deludendo le loro speranze;
  • impedire la realizzazione dell’Unità d’Italia per far tornare i Borboni, cioè proprio quei Re che avevano sempre protetto i latifondi della nobiltà e della Chiesa, negando ogni riforma.

A creare questa confusione agivano numerosi fattori:

  • l’odio per i nuovi proprietari, sfruttatori di manodopera;
  • l’incomprensione per le leggi del nuovo Stato, che apparivano non “italiane” ma “piemontesi”, cioè altrettanto straniere quanto lo erano apparse quelle austriache ai Lombardi;
  • la protezione concessa ad ecclesiastici e aristocratici, necessaria ai briganti per sopravvivere, ma condizionata dalla fedeltà al Re di Napoli in esilio;
  • l’equivoco che lo Stato Italiano “laico e liberale”, fosse in realtà uno stato ateo, cioè uno stato senza-dio, pronto a distruggere le chiese e a eliminare i preti offendendo la profonda religiosità delle masse contadine meridionali.

I briganti non furono “criminali comuni”, come però pensò la maggioranza degli italiani, ma un esercito di ribelli che, all’infuori della violenza privata, non conoscevano altra forma di lotta. Tenuti per secoli nell’ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e non riuscivano ad immaginare alcuna prospettiva di cambiamento attraverso i mezzi legali. Questa sfiducia in ogni forma di protesta e di lotta organizzata fu il nucleo della vera “Questione Meridionale”. Il fenomeno del brigantaggio ne fu solo una drammatica conseguenza.
Lo stato italiano rispose con una vera e propria guerra a questa rivolta sociale che durò oltre quattro anni: alle truppe già stanziate nel Sud al comando del generale Cialdini, il governo ne aggiunse altre, cosicchè nel 1863 ben 120.000 soldati erano impegnati nella lotta al brigantaggio. Nello stesso anno venne dichiarata la legge marziale: processi sommari, fucilazioni, incendi e saccheggi furono gli strumenti impiegati da Cialdini nell’opera di repressione, non solo contro i briganti, ma contro tutti i fiancheggiatori. Nel 1865 il brigantaggio era stato praticamente sconfitto. Lo Stato aveva vinto la guerra, ma compiendo proprio gli errori che Cavour aveva cercato di scongiurare. Dopo una repressione e la legge marziale, la frattura tra il Sud e il resto dell’Italia non fece che approfondirsi. Le classi povere, soprattutto contadine, immaginarono spesso i briganti come degli eroi popolari e anche nella stampa dell’epoca furono proposte figure di briganti “buoni”.

La formazione del mercato nazionale  e la società italiana

Uno dei primi obiettivi che il nuovo Stato si pose fu quello di costruire una efficiente rete di comunicazioni stradali e ferroviarie. Insieme con l’abolizione delle barriere doganali essa avrebbe dovuto consentire una libera e agevole circolazione delle merci per fare dell’Italia un unico grande mercato. Alla vigilia dell’unificazione il Sud era praticamente sprovvisto di strade ferrate.
Grazie all’ampliamento delle comunicazioni i prodotti industriali del Nord riuscirono a raggiungere i mercati meridionali. Inoltre i gruppi capitalistici trovarono nelle costruzioni ferroviarie una delle prime forme redditizie d’investimento e di accumulazione. Questo processo accentuò le differenze sociali già esistenti. L’impatto dell’industria del Nord con quella del Sud, meno sviluppata e moderna, significò il crollo di quest’ultima, incapace di reggere la concorrenza.  Il Sud veniva condannato a essere una regione agricola, dipendente dall’industria settentrionale per quanto riguarda i mezzi di produzione, macchinari, manufatti di largo consumo. La creazione di un moderno mercato nazionale significò la lenta scomparsa dell’artigianato locale e del lavoro a domicilio. La diffusione della produzione industriale cancellò questa diffusa attività contadina con la forza delle sue tecnologie e dei suoi bassi prezzi. Migliaia di contadini, tra il 1860 e il 1900, e migliaia di produttori vennero di fatto privati del lavoro e occupati stabilmente come operai salariati nelle moderne manifatture. Questo fenomeno non riguardò soltanto l’industria tessile, ma toccò anche altri settori produttivi, come quello meccanico, siderurgico e alimentare. Nonostante l’avvio di un irreversibile sviluppo industriale dell’economia nazionale nei primi decenni postunitari , l’Italia rimaneva ancora un paese marcatamente agricolo. I contadini non erano proprietari delle terre che lavoravano: erano braccianti, coloni, mezzadri, piccoli affittuari, generalmente poverissimi. La mezzadria (patto fra un proprietario e un contadino con l’obbligo di fare a mezzo del prodotto e l’obbligo di residenza della famiglia colonica nel fondo agricolo) era una forma di conduzione superata e in crisi perché più legata all’autoconsumo che al mercato. Il bracciante che rappresentava la maggioranza della forza - lavoro agricola nella Pianura Padana e in Puglia non aveva fissa dimora e abitava dove trovava lavoro. Nella diversità delle esperienze e delle condizioni di lavoro una sola cosa univa i contadini italiani: quasi tutti non sapevano né leggere né scrivere. Nelle città brulicava un popolo minuto di artigiani, fattorini, ciabattini, calzolai, cappellai, muratori e manovali. I lavoratori agricoli e urbani erano accomunati da uno stato di notevole povertà, che si traduceva in condizioni di vita estremamente precarie. La speranza di vita della popolazione non superava comunque i 35-40 anni, e la mortalità rimaneva a livelli molto alti. A causa della scarsa alimentazione la popolazione era esposta ai rischi delle malattie epidemiche che imperversavano nelle città e nelle campagne. La legislazione era inadeguata e lo Stato investiva assai poco nella tutela della salute pubblica. Il vaiolo mieteva numerosissime vittime. La bonifica idraulica della zone paludose, concentrate nel Mezzogiorno e nella Maremma tosco- laziale, non era ancora stata programmata e diffondeva il rischio malarico.
Sul bilancio dello Stato gravavano i debiti ereditati dagli stati preunitari, le spese affrontate per realizzare l’unità e per combattere il brigantaggio e inoltre quelle necessarie per organizzare la nuova burocrazia e i servizi indispensabili , come ospedali e scuole. Lo Stato si trovò, quindi, nella necessità di spendere molto di più di quello che incassava con la tassazione in vigore agli inizi degli anni sessanta. Il bilancio dello Stato era in deficit, cioè in disavanzo. Per irrobustire le finanze statali, i governi della Destra imposero a tutti i cittadini di pagare  tasse più alte. L’inasprimento non riguardava tanto le imposte dirette, bensì quelle indirette, vale a dire quelle che gravavano in maniera uguale per tutti, sulle singole merci di larghissimo consumo come la farina, il sale, il carbone, i fiammiferi. Ciò consentì di far pagare le tasse anche a chi non aveva redditi tassabili, cioè alla maggioranza della popolazione italiana. L’aumento dei prezzi dei prodotti di largo consumo contribuì così ad aggravare le condizioni di vita già misere dei contadini e dei lavoratori urbani, determinando uno stato di grave tensione sociale. Nel 1868 la tassa sul macinato fece esplodere una violenta protesta popolare contro la politica del governo che richiese l’intervento dell’esercito. Nonostante le gravissime tensioni sociali che innescava questa politica, perseguita con estrema fermezza soprattutto dal ministro delle finanze Quintino Sella, nel 1876 sortì l’effetto voluto: il pareggio del bilancio.
Alla fine degli anni ‘80 i contrasti che portarono a una vera e propria guerra economica con la Francia – maggior cliente del Mezzogiorno agrario- inflissero un duro colpo all’agricoltura meridionale. In questi stessi anni la reazione alle nuove condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno trovò sbocco nel movimento migratorio  torrenziale che nel giro di un paio di decenni portò alle lontane Americhe alcuni milioni di meridionali e di Siciliani.

L’emigrazione italiana

A partire dal  1876 sotto la guida di L. Bodio s’iniziò a rilevare con regolarità l’emigrazione italiana anche se il fenomeno assunse la consistenza di un vero fenomeno di massa già dal 1870. Dal 1887, per l’aumentata offerta di lavoro del mercato americano, si sviluppò rapidamente l’emigrazione transoceanica e la media annua complessiva raddoppiò. La Francia, seguita a una certa distanza dall’Austria, dalla Germania e dalla Svizzera, tenne sempre il primo posto tra i paesi di destinazione dell’emigrazione continentale; l’Argentina e il Brasile, che assorbivano la maggior parte dell’emigrazione transoceanica nei primi venti anni, si videro invece sorpassare dagli Stati Uniti verso la fine del secolo. L’incremento  dell’emigrazione transoceanica e lo spostamento della sua direzione dall’America meridionale alla settentrionale, si devono mettere in relazione sia alle mutate condizioni del mercato del lavoro nei paesi americani che con la diversa partecipazione delle varie regioni d’Italia all’espatrio.
Nei primi anni del Regno emigrarono soprattutto abitanti delle regioni settentrionali, socialmente più progredite e con popolazione più numerosa; nelle regioni meridionali, meno densamente popolate, il fenomeno fu per lungo tempo irrilevante, a causa del loro isolamento, della scarsa viabilità e dell’ignoranza, ma anche del tradizionale attaccamento alla terra e alla casa e di minori necessità economiche, derivanti da una vita esclusivamente agricola e patriarcale. In pochi decenni il rapporto si invertì sia a causa dell’intenso ritmo di accrescimento demografico sia per le poche floride condizioni economiche che non permettevano l’eccesso di manodopera. Negli ultimi anni del secolo XX, la quota fornita all’emigrazione complessiva dell’Italia settentrionale diminuì, mentre crescevano quella dell’Italia meridionale, insulare e dell’Italia centrale. In questo periodo il fenomeno fu lasciato a se stesso: la sola legge varata dal Parlamento del 30 dicembre 1888 si limitava a sancire quasi esclusivamente norme di polizia in vista dei molteplici abusi degli incettatori di manodopera. I soprusi degli speculatori cessarono solamente quando fu approvata una legge organica dell’emigrazione e fu creato un organo tecnico specifico per l’applicazione della legge stessa:

  • furono abolite le agenzie e subagenzie;
  • il trasporto fu consentito solo sotto l’osservanza di determinate cautele e garanzie;
  • si crearono organi pubblici, per fornire le necessarie informazioni ai desiderosi di espatrio;
  • si stabilirono norme per l’assistenza sanitaria e igienica, per la protezione nei porti e durante i viaggi e, successivamente, anche per la tutela giuridica dell’emigrazione e la disciplina degli arruolamenti per l’estero.

Assistita ed organizzata l’emigrazione aumentò nei primi anni del secolo XX.

Roma capitale

Mentre il Veneto era stato annesso nel 1866 con la partecipazione del regno italiano alla guerra austro - prussiana (terza guerra d’indipendenza), restava ancora aperta la delicata questione dell’annessione dei territori dello Stato della chiesa, nota come “questione romana”. Cavour con la formula “ libera Chiesa in libero Stato” aveva proposto un nuovo rapporto fra Stato e Chiesa, la quale , rinunciando al potere temporale, avrebbe meglio svolto la funzione spirituale che le era propria. Ma tutte le trattative che i governi della Destra cercarono di avviare con Pio IX per una soluzione pacifica della questione si scontravano con l’intransigenza del pontefice. Il movimento democratico premeva con forza perché si proceda alla sua liberazione, ma un primo tentativo guidato da Garibaldi venne fermato dall’esercito che intercettò il manipolo in Aspromonte; ne seguì un conflitto a fuoco, in cui venne ferito lo stesso Garibaldi. Nel 1967 un secondo tentativo fu invece stroncato dalle truppe francesi che sconfissero gli insorti a Mentana. Il momento favorevole giunse infine alla caduta del secondo Impero, dopo Sedan. Il 20 settembre le truppe regolari italiane, aperto un varco a Porta Pia, entrarono a Roma che venne proclamata capitale del Regno d’Italia. Il 13 marzo 1871 il governo italiano approvò una serie di norme (legge delle guarentigie) che garantivano alla chiesa la libertà di culto e la piena sovranità sul Vaticano. In tutta risposta il papa dichiarò di ritenersi prigioniero della Stato italiano e interdisse a tutti cattolici qualsiasi forma di partecipazione alla vita politica (non expedit).

 

Fonte: http://www.studenti.it/download/scuole_medie/Italia%20unita.doc

Sito web da visitare: http://www.studenti.it/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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