Dal segno alla scrittura
Dai cacciatori preistorici ai primi contabili
Come nacquero i primi alfabeti.Tutte le scritture del mondo.
La diffusione della scrittura in Italia centrale
Le numerose iscrizioni nelle tombe etrusche mostrano che in questa regione la scrittura era al servizio dell'aristocrazia
Dom inique Briquel
Una tomba scavata recentemente nella necropoli dell'Osteria dell'Osa, presso l'antica città latina di Gabi, ha fornito un documento inatteso: un vaso di produzione locale, appartenente al periodo Il B della cultura italica che fioriva allora nel Lazio e che si data generalmente fra l'830 e il 770 a.C., recante cinque lettere rozzamente incise. Questa iscrizione, da leggere probabilmente «eulin», rimane enigmatica. Data l'origine del vaso, è certo che il testo fu scritto sul luogo, da un individuo che conosceva almeno i rudimenti della scrittura alfabetica. Dobbiamo pensare a un Latino che abbia voluto scrivere qualcosa nella sua lingua? Oppure abbiamo a che fare con un Greco che abbia voluto mostrare agli abitanti del luogo un esempio dell'alfabeto che l'Ellade aveva da poco creato? L'interpretazione più soddisfacente consiste nel completare la parola leggendola come «eulinos», che in greco significa «buona filatrice» e che potrebbe allora o indicare la defunta (la deposizione era probabilmente femminile) o riferirsi a divinità preposte al destino, come le Parche, che venivano rappresentate con la conocchia in mano, intente a filare la trama del destino umano. Tuttavia, questa rimane un'ipotesi.
Se queste cinque lettere sollevano ancora molte domande, vi è almeno un punto che appare chiaro: nei primi anni del'VIII secolo a.C., in un periodo in cui l'Italia cominciava ad aprirsi al mondo esterno, la scrittura alfabetica, sviluppata dai Greci a partire da quella fenicia, aveva raggiunto l'entroterra laziale - un sito dei Monti Albani a una certa distanza dal mare - e questo a una data precedente a quella di tutte le iscrizioni ritrovate finora nelle colonie greche. In queste città, fondate dapprima sull'isola di Ischia, l'antica Pithecusa, verso il 775 a.C., e poi a Cuma, nel 750 a.C. circa, i documenti scritti appaiono solo a partire dal 725 a.C., in particolare con una iscrizione in versi sulla cosiddetta «coppa di Nestore». Uno dei coloni di Pithecusa - che era originario della città di Calcide in Eubea e quindi utilizzava la variante detta «calcidica» della scrittura greca - paragona la coppa per bere sulla quale iscrive questo testo al recipiente posseduto dal re di Filo e che nell'Iliade viene definito «coppa di estrema bellezza». Si può capire quanto siano rimasti sorpresi gli archeologi nello scoprire un'iscrizione di oltre mezzo secolo più antica in ambiente indigeno. A dire il vero, la testimonianza fornita da questa iscrizione arcaica rimane isolata: è pressoché certo che l'innovazione non ebbe seguito, almeno non immediato. Bisognerà attendere oltre un secolo per ritrovare, nella stessa necropoli, un'altra iscrizione su un vaso: un saluto in latino - «salvetod Tita» (salve, Tita) - rivolto alla defunta sepolta nella tomba.
Ciononostante, la presenza di una iscrizione, anche isolata, nel Lazio, in un orizzonte cronologico precoce come l'inizio dell'VIII secolo a.C., è un fatto di importanza capitale: già allora gli abitanti dell'Italia centrale erano venuti in contatto con l'innovazione costituita dalla scrittura, ne erano stati attratti e vi avevano fatto ricorso, almeno sporadicamente.
Malgrado il suo carattere eccezionale, l'iscrizione dell'Osteria dell'Osa è emblematica di ciò che dovette rappresentare la conoscenza della scrittura per gli abitanti dell'Italia centrale: questo significato può essere dedotto dai più antichi documenti che ci siano pervenuti in numero significativo, risalenti al periodo fra l'VIII e il VII secolo a.C.
Il successo folgorante della scrittura
Per comprendere ciò che dovette rappresentare l'acquisizione della scrittura, conviene lasciare il Lazio e rivolgere l'attenzione a quanto avveniva più a nord, in Etruria. È in effetti nel territorio etrusco che la scrittura conobbe il primo sviluppo notevole: le più antiche iscrizioni, provenienti dalle grandi città di Cerveteri e Tarquinia, compaiono verso il 700 a.C., prima del maggiore sviluppo delle iscrizioni nel Lazio, e la diffusione della scrittura nel territorio etrusco non ha paragoni rispetto a quello latino: oggi possediamo oltre 300 iscrizioni etrusche risalenti al VII secolo, in confronto alle circa 10 trovate nel Lazio dello stesso periodo. Per di più, la scrittura latina non è in realtà altro che un adattamento di quella etrusca alle necessità della lingua latina, e non una scrittura autonoma derivata dal greco.
In questo periodo in cui la scrittura appare e si diffonde in Etruria, si può parlare quasi di un'infatuazione per questa novità. Le iscrizioni, come abbiamo detto, si ritrovano subito in gran numero: molte tombe forniscono vasi o altri oggetti che portano, scritti nell'alfabeto che gli Etruschi idearono imitando la scrittura dei Calcidesi insediati a Pithecusa e Cuma, il nome del proprietario o altri tipi di iscrizioni. È notevole che molte di queste ultime siano abbecedari, ossia serie alfabetiche complete, e che compaiano su oggetti provenienti da alcune fra le tombe più ricche mai scoperte.
L'alfabeto del signore
L'esempio più celebre, ossia l'abbecedario di Marsiliana d'Albegna, risalente alla metà del VII secolo a.C., si presenta come una tavoletta per scrivere in avorio, con una linguetta a forma di leone, il cui bordo superiore reca iscritta la serie alfabetica completa. Queste tavolette per scrivere, di forma rettangolare e dotate di incavo centrale, erano destinate a ricevere uno strato di cera su cui si scriveva per mezzo di uno stilo. Nella stessa tomba si sono del resto rinvenuti tre stili, anch'essi in avorio, nonché due raschietti che servivano a cancellare il testo presente sulla cera per scriverne uno nuovo. Le tavolette erano uno dei supporti più correnti della scrittura, prima che la diffusione del papiro egiziano, all'indomani della conquista dell'Egitto da parte di Alessandro, e poi quella della pergamena, che deve il suo nome alla città di Pergamo, dove fu inventata nel periodo ellenistico, introducessero altri supporti.
Non c'è dubbio che questi oggetti siano appartenuti al potente signore etrusco sepolto in questa tomba del «circolo degli avori» di Marsiliana. Costui aveva dunque scelto di farsi accompagnare nella sua ultima dimora da qualcosa di equivalente alle moderne lavagne, quaderni e matite. L'idea può far sorridere, ma se ci si riferisce al contesto dell'epoca, non ha nulla di ridicolo: il nobile di Marsiliana e i suoi parenti vollero che le loro tombe contenessero un abbecedario per dimostrare che sapevano leggere e scrivere, che padroneggiavano un sapere in grado di conferire, in una società ancora poco alfabetizzata, un prestigio eccezionale. In fondo, è ciò che ancora traspare nell'impiego, in latino, della parola litteratus - da cui viene il nostro «letterato» - per indicare un uomo colto: prima di riferirsi a una cultura più vasta, nella quale l'apprendimento delle basi della scrittura non rappresenta che il primo passo, questo termine indicava semplicemente la conoscenza delle litterae, delle lettere dell'alfabeto. Conoscere l'alfabeto era allora indice di una cultura fuori dal comune, che distingueva il possessore di una simile conoscenza dalla massa ignorante.
Il prestigio dell'esotismo
L'importanza conferita in quell'epoca alla padronanza della scrittura spiega perché gli abbecedari etruschi compaiano sovente su oggetti di valore. Così, quello scoperto a Viterbo e oggi al Metropolitan Museum di New York è un piccolo vaso a forma di gallo realizzato nella ceramica di qualità chiamata «bucchero», che gli Etruschi avevano inventato nel VII secolo a.C. e la cui colorazione, di un nero lucido e brillante, voleva imitare l'effetto del vasellame prezioso d'argento. La tavoletta per scrivere di Marsiliana d'Albegna, nonché gli stili e i raschietti che le erano associati, era realizzata non in legno, come dovevano esserlo gli esemplari di uso corrente, ma in avorio, materiale importato ad alto costo dall'Oriente tramite i commercianti greci o fenici. Si tratta dunque di oggetti di pregio, ed è a questo titolo che vennero posti nel corredo di tombe dove gli aristocratici si compiacevano di esibire il loro fasto al di là della morte, accumulandovi gioielli in oro, vasi in argento, calderoni in rame o vasetti egizi.
Questi oggetti appartengono allo stesso universo esotico che esprime l'attrazione provata dagli abitanti dell'Italia di allora per un mondo orientale considerato infinitamente più ricco e più sviluppato della loro terra, appena uscita da una preistoria in cui si viveva in capanne di legno e argilla coperte di rami e ci si accontentava di ceramica grossolana,scura e lavorata in modo approssimativo. L'avorio dell'abbecedario di Marsiliana e la figurina di leone che lo decora mostrano che la scrittura appartiene a quella corrente di influenze venute d'oltremare, veicolate dai mercanti greci e fenici che la ricchezza in metalli del sottosuolo dell'Etruria attirava in questi luoghi. In cambio di queste indispensabili materie prime, i commercianti recavano le più preziose produzioni del mondo greco e orientale.
Questi apporti dall'esterno sconvolsero la civiltà etrusca dell'VIII e VII secolo a.C., e di conseguenza anche quelle delle regioni limitrofe, come il Lazio. Essi permisero l'emergere di una cultura nuova, alimentata da questi apporti ma reinterpretata dagli indigeni stessi. Sul piano artistico, ciò si traduce nell'arte cosiddetta orientalizzante, che, come nel pettine mostrato in apertura dell'articolo, ostenta figurazioni di leoni, pantere e altri animali esotici che gli Etruschi conoscevano solo attraverso gli oggetti di importazione. Nel caso della scrittura, questo processo portò alla creazione di una forma locale, che permetteva di annotare la lingua degli Etruschi e che essi diffusero a loro volta fra i popoli confinanti dell'Italia centrale che parlavano lingue indoeuropee del gruppo italico, come i Latini e i Sabini.
La scrittura al servizio dell'aristocrazia
La scrittura che gli Etruschi misero a punto e poi trasmisero era ripresa da quella utilizzata dai Calcidesi di Pithecusa e di Cuma, i Greci con i quali erano più direttamente in contatto. Essi non la modificarono che in maniera molto marginale. In effetti, si limitarono a dare alla lettera greca gamma, che corrispondeva a un suono g non utilizzato dall'etrusco, il valore di k - poi passato alla C della scrittura latina - e a trovare espedienti per annotare il suono f, presente nalla loro lingua ma non nel greco: in un primo tempo lo espressero con un gruppo di due lettere, FH, dove la F era l'antico digamma, che a quest'epoca esisteva ancora nell'alfabeto greco, e la H era ancora una notazione per il suono h, prima che, in una parte degli alfabeti greci, il suo valore venisse modificato e destinato alla notazione della vocale lunga e (divenuta la éta dell'alfabeto greco classico). A testimoniare questa fedeltà al modello greco, gli Etruschi conservarono addirittura nel loro alfabeto, almeno in forma di lettere morte presenti nell'abbecedario teorico, lettere che non corrispondevano ad alcun fonema della loro lingua e che, per questo motivo, non si incontrano mai nelle iscrizioni, come i segni consonantici B e D o il segno vocalico O.
Data la sua derivazione, la scrittura etrusca era di tipo alfabetico. Comprendeva un numero ristretto di segni - 26 in tutto - che permettevano di trascrivere i fonemi - suoni elementari, vocalici e consonantici - attraverso cui si esprimevano le parole della lingua. Si trattava dunque di una scrittura abbastanza semplice, agli antipodi dei sistemi complessi che richiedevano un numero considerevole di segni, come le scritture a base ideografica e sillabica del mondo egizio e mesopotamico. Questo fece sì che nel mondo etrusco o in Italia centrale non si sviluppasse una casta di scribi: la scrittura era, per così dire, alla portata di tutti. Per tale motivo, dovette avere una funzione sociale originale, che ne spiega la grande espansione e che non si ritrova nel mondo greco, da cui pure proveniva l'alfabeto che è all'origine della scrittura etrusca. Sembra in effetti erroneo ritenere, come si è fatto per un certo tempo, che la grande e rapida diffusione della scrittura etrusca fosse dovuta alla funzione di facilitare scambi e transazioni.
Doni «firmati»
I documenti scritti che si sono rinvenuti in Etruria non comprendono alcun elenco di oggetti né alcun contratto o documento amministrativo o commerciale del genere di quelli che sono stati portati alla luce in grande abbondanza in Mesopotamia, in Egitto o anche nella Grecia dei palazzi micenei. Certamente si può pensare che per simili scritti si impiegassero supporti deperibili, spariti senza lasciare tracce. L'esistenza di scribi incaricati di contabilizzare e registrare questo tipo di dati è peraltro attestatanel mondo etrusco a partire dal 500 a.C. Tuttavia non è affatto certo che questi impieghi della scrittura, documentati in epoca più tarda, esistessero nel momento in cui questa apparve, nel VII secolo a.C. Molte di queste iscrizioni, risalenti ai primi tempi dell'uso della scrittura in Etruria, sono formule di dono: in una sequenza stereotipata, l'oggetto su cui è posta l'iscrizione sembra rivolgersi al lettore per affermare di essere stato donato. Questo si esprime in etrusco con la formula «mini muluvanice» («mi ha donato»), seguita dal nome del donatore, con eventuale indicazione di colui a cui il dono è stato fatto.
Simili formule si ritrovano su oggetti sovente di grande valore: bei vasi di bucchero, o preziose ceramiche importate dalla Grecia, oppure gioielli in oro. Un caso particolarmente interessante è quello di una fibula d'oro trovata a Chiusi e oggi al Louvre, la cui iscrizione di dono (che segnala che il gioiello è stato donato da un certo Mamurke "Tursikina) è realizzata con una fine granulazione d'oro che costituisce la decorazione della lunga staffa dell'oggetto. In altri termini, questa fibula venne realizzata espressamente per servire come dono. Non è un esempio isolato: si potrebbe citare il caso parallelo di una grande anfora di ceramica ritrovata a Vulci recante, iscritto a grandi lettere in rilievo che vennero modellate simultaneamente al vaso, il testo «mini muluvanice piana velethnice»; le ultime due parole sono il nome del personaggio donatore. Il ruolo del dono era essenziale nel fun
zionamento della società aristocratica alla quale si riferiscono questi corredi funerari. sempre appartenuti a rappresentanti della classe sociale più elevata, i «principi» di cui parlano i testi. La scrittura sottolinea l'importanza di questa pratica.
Da quanto detto, si comprende perché la scrittura si sia diffusa con tale rapidità in seno al mondo etrusco del VII secolo a.C., e si sia trasmessa immediatamente alle popolazioni vicine, che avevano una struttura sociale confrontabile. Le società dell'Italia centrale erano allora dominate da potenti aristocrazie, fra le quali si stabilivano legami tramite scambi, relazioni di ospitalità e di matrimonio, in maniera analoga a ciò che descrive, per il mondo greco, l'epopea omerica. Gli incontri originati da queste relazioni erano altrettante occasioni per procedere a uno scambio solenne di doni. Come dimostra nell'Iliade l'episodio dei funerali di Patroclo, persino le cerimonie funebri, con i giochi atletici che vi si svolgevano, si traducevano in distribuzioni di doni sontuosi. Ma, contrariamente a quanto si osserva in Grecia, l'aristocrazia che presiedeva ai destini dei popoli dell'Italia centrale sfruttò le nuove risorse offerte dall'invenzione della scrittura per solennizzare questi doni, contrassegnandoli con un testo che ne conservasse la memoria.
La scrittura venne posta al servizio dei principi e fu utilizzata non per necessità tecniche di contabilità, ma per dare una dimensione durevole allo sfoggio di doni cerimoniali. Così, la scrittura svolgeva un ruolo essenziale nei costumi con i quali i principi affermavano il proprio prestigio. Dopo tutto, grazie ai Fenici e poi ai Greci, la scrittura non era più una scienza complicata: anche un nobile poteva imparare a leggere e a scrivere.
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