Prima guerra mondiale riassunto e cause

Prima guerra mondiale riassunto e cause

 

 

 

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Prima guerra mondiale riassunto e cause

STORIOGRAFIA.  LA PRIMA GUERRA MONDIALE

L'attentato dei 28 giugno 1914 in cui perse la vita l'arciduca austriaco Francesco Ferdinando segnò la fine dei «lungo» secolo XIX. Le accuse rivolte dall'Austria alla Serbia, il fallimento delle iniziative internazionali per arrivare ad una composizione diplomatica, l'ultimatum dei 23 luglio, l'incapacità dell'Internazionale Socialista di arginare la marea montante dei bellicismo, la mobilitazione russa, la dichiarazione di guerra tedesca sono le tappe sempre più incalzanti dello scivolamento verso la guerra generale. Quando, una cinquantina di mesi più tardi, finalmente le armi tacquero, il mondo e l'Europa non erano più gli stessi di prima. I milioni di morti, le centinaia di migliaia di profughi in movimento attraverso le nuove ed incerte frontiere, le distruzioni fisiche, il tracollo di ben quattro imperi, l'affermazione di nuove nazionalità erano i segni più visibili dell'immane tragedia che si era consumata. Ma, se lo scorrere dei tempo riuscì a spegnere abbastanza rapidamente, o almeno ad attenuare, il ricordo delle sofferenze patite e a cicatrizzare alcune delle dolorose ferite aperte dalla guerra, altre fratture che si erano aperte nella storia dei mondo, più profonde e nascoste, dovevano rivelarsi irreversibili. Erano tali la rivoluzione russa, la decadenza dell'Europa, il nuovo ruolo egemonico degli Stati Uniti, il decollo delle spinte anticoloniali, l'accresciuto ruolo dello stato, la crisi dei sistema finanziario e monetario internazionale, l'irruzione incontenibile delle masse sulla scena politica. Sui fronti della prima guerra mondiale, era nato, tra lacrime e sangue, il ventesimo secolo.

Non tutti se ne accorsero, subito. Anzi: l'impervia definizione dei trattati di pace, le polemiche riattizzate sulla responsabilità della guerra e la rapida eclissi delle prospettive wilsoniane ingenerarono in alcuni statisti la fatale illusione che i vecchi strumenti della diplomazia e dei compensi territoriali fossero ancora adeguati a costruire la pace. Non mancarono osservatori più disincantati che si resero conto di quanto la guerra aveva inciso sulle strutture politiche e sociali dei mondo; ma furono voci di minoranza, ridotte al silenzio dall'incalzare di quelle stesse passioni che avevano scatenato la guerra e che della sua conclusione non erano sazie.
Oggi, a distanza, le cose sono profondamente cambiate. Non più le risentite polemiche di un tempo, l'accanita ricerca delle responsabilità o l'accorata deprecazione della guerra, ma lo sforzo di comprendere le ragioni profonde e vere dei conflitto ed il suo significato nella storia politica, sociale ed economica dei mondo contemporaneo.

                Per nessun altro evento gli storici hanno a disposizione altrettanto materiale quanto per le origini della prima guerra mondiale. Già poche settimane dopo lo scoppio della guerra i vari governi curarono la pubblicazione di raccolte di documenti diplomatici con l'intento propagandistico di dimostrare che non avevano voluto la guerra e che vi erano stati spinti dalla protervia dei loro nemici. in particolare ebbe successo la propaganda storiografica dell'intesa che sostenne la tesi che all'Austria e soprattutto alla Germania si dovesse imputare il premeditato scatenamento delle ostilità. Le cause di questa aggressività tedesca erano individuate nell'aspirazione della Germania a conquistare mercati adeguati al suo potenziale economico-industriale; nella diffusione, presso il popolo tedesco, di una volontà di affermazione e di potenza che si nutriva dei richiami alla missione civilizzatrice della Germania e di concezioni statolatriche e militariste; nei desiderio di cancellare i rovesci che la diplomazia di Guglielmo II aveva subìto cercando di inserirsi con vantaggio nelle difficoltà e nelle rivalità delle altre potenze, dal Sud Africa al Marocco.
Ma nel 1917 la rivoluzione aveva portato al potere in Russia i bolscevichi i quali erano convinti che la guerra di natura imperialista fosse connaturata al sistema capitalista. Per dimostrare perciò quanto fosse inattendibile la tesi secondo cui i paesi dell'Intesa, ed in particolare la Russia, erano stati senza colpe, essi iniziarono la pubblicazione integrale delle carte diplomatiche russe. Per motivi analoghi, a guerra finita, fecero lo stesso i nuovi governi di Berlino e di Vienna, anch'essi ostili ai vecchi regimi a cui erano succeduti ed interessati a dimostrarne le responsabilità. Senonché avvenne, abbastanza paradossalmente, dice Curato, che proprio la pubblicazione di una più integrale documentazione recò pesanti pregiudizi alla tesi, precedentemente accolta sia in sede storiografica, sia in sede diplomatica (con l'art. 231 dei Trattato di Versailles), delle responsabilità austro-tedesche. Cominciarono così a prendere piede tesi storiografiche revisioniste che con sfumature e accentuazioni diverse distribuivano un po'a tutte le grandi potenze la responsabilità di aver preparato e voluto la guerra. Secondo Curato le conclusioni di questo revisionismo possono essere sintetizzate con la formula di uno storico francese, Fabre Luce, il quale scrisse che «la Germania e l'Austria hanno fatto i gesti che rendevano la guerra possibile, la Triplice Intesa ha fatto quelli che la rendevano certa». In particolare si pose l'accento sul fatto che era stata la mobilitazione russa a scatenare l'estensione dei conflitto, fino ad allora localizzato tra Austria e Serbia, e molto si insisté su una presunta congiura tra l'ambasciatore russo a Parigi, Isvolski, ed il Presidente francese Poincaré per giungere alla guerra contro la Germania. Questo tipo di rilettura delle origini della guerra fu diffuso soprattutto in Germania, ma non restò senza eco neppure nei paesi vincitori: in Italia, ad esempio, se ne fecero portavoce Palamenghi-Crispi e Lumbroso. In questa situazione anche i paesi dell'Intesa pubblicarono raccolte sempre più ampie ed esaurienti dei loro materiale diplomatico mettendo a disposizione degli storici una documentazione che poté presto definirsi più che soddisfacente. Ma naturalmente le controversie non cessarono per questo e i fautori della tesi antitedesca poterono contare sui nuovi contributi di Fueter e Vermeil. Però, già nell'opera di questi due grandi storici, si respirava un'aria diversa da quella delle requisitorie antitedesche degli anni precedenti. Oggetto della ricerca infatti non era più la concatenazione degli eventi che aveva condotto nell'estate dei 1914 alla guerra, ma tutto il periodo storico precedente. In questa prospettiva più ampia, però, le responsabilità della Germania diventavano ancora più schiaccianti, dal momento che il bellicismo tedesco veniva presentato come lo sbocco fatale dell'incontro tra il latifondismo degli Junker, la rapida industrializzazione, la mancanza di democrazia e le tradizioni di militarismo che risalivano fino alla Prussia di Federico II e dei suoi «perpetui soldati».
Intanto Renouvin, con uno studio dei 1927, cominciava a delineare una problematica diversa: dalla ricerca delle responsabilità, si passava, pian piano, alla ricerca delle cause. Anche se, evidentemente, l'aggressività della politica nazista e la seconda guerra mondiale ridiedero fiato alle trombe della storiografia antitedesca, si può dire che dagli anni '30 si era ormai venuta affermando una considerazione più equilibrata circa le origini della grande guerra. Il rischio era, se mai, di arrivare a presentarla come una fatalità iscritta nella storia europea dei decenni precedenti. Scriveva bene uno studioso italiano, il Torre: è legittimo parlare «solo di responsabilità storica, ossia di quell'insieme di fattori che ad un certo momento hanno fatto sì che le potenze europee siano venute a conflitto fra loro. Il che è lo stesso che identificare la responsabilità con quelle che storicamente vengono chiamate le origini e le cause».
Un'eco parziale delle antiche discussioni è però possibile vedere nella polemica vivacissima che nella Germania di questo secondo dopoguerra ha accompagnato la pubblicazione del libro del Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918. In quest'opera Fischer sostiene la tesi che la guerra fu effettivamente e deliberatamente perseguita e provocata dalla Germania, nella speranza di affermarsi come grande potenza mondiale. Fischer, in particolare, non è disposto ad accettare che gli obiettivi di guerra indicati dal governo tedesco nel corso della guerra possano considerarsi la conseguenza di un'esasperazione del nazionalismo provocata dalla guerra stessa. Anzi, egli ritiene che dal Kaiser, fino ai membri dei governo e dei Parlamento, ai militari e alla stampa, esistesse, fin dall'inizio delle ostilità, una radicata solidarietà. È il nazionalismo tedesco che preesiste alla guerra e che l'ha provocata. Non solo: in Fischer, e ancora più esplicitamente in alcuni suoi allievi, si giunge alla conclusione che esiste una sostanziale continuità di questo aggressivo nazionalismo da Guglielmo II fino ad Hitler. Gli storici tedeschi più conservatori sono insorti fremendo di sdegno patriottico contro l'opera dei Fischer. Tra i più accaniti fu il Ritter, insigne studioso delle tradizioni militari tedesche. Il fatto è che non si trattava più solamente delle origini della prima guerra mondiale, ma di una questione più generale che investiva anche le radici storiche dei nazismo. La storiografia conservatrice tedesca era infatti orientata a considerare il nazismo come una sciagurata parentesi nella storia tedesca ed era, tutt'al più, disposta a riconoscere ad Hitler la responsabilità di avere scatenato le seconda guerra mondiale (ma, si aggiungeva anche: la colpa delle sua ascesa al potere non era proprio delle scelte antitedesche fatte dagli Alleati a Versailles nel 1919?). Si potrebbe dire, mutuando i termini da un altro contesto, che Fischer opponeva alla tesi del nazismo-parentesi la tesi dei nazismo-rivelazione. Per questo motivo egli fu accusato di infangare l'intera storia tedesca e bollato come traditore, anche a livello di mass-media.
Come si è detto, il principale avversario di Fischer è stato Ritter. Egli riconosce sì l'esistenza di spinte belliciste negli ambienti militari tedeschi e si spinge fino ad ammettere che esse presero sempre più campo nel corso della guerra: tipica, in tal senso, l'accettazione da parte dei governo dell'estensione della guerra sottomarina che era caldeggiata dai militari e che ebbe, come si sa, conseguenze funeste per la Germania. Tuttavia si preoccupa, in primo luogo, di far vedere che queste spinte non erano affatto condivise dalla classe politica ed in particolare dal Cancelliere Bethmann-Hollweg ed in secondo luogo di escludere che il militarismo fosse una componente sempiterna della storia tedesca. Secondo Ritter il fenomeno dei militarismo deve essere circoscritto, «negando il riconoscimento dei nesso fra forze sociali, militarismo e imperialismo come nesso chiave per spiegare la genesi e lo sviluppo della politica tedesca culminata nella prima e nella seconda guerra mondiale». L'affermazione dei militari deve invece essere ricondotta a due ordini di fattori: l'uno, più contingente, è l'allontanamento di Bismarck dal potere, a causa dei quale venne meno la naturale preponderanza dei potere civile su quello militare (capovolgimento che non è da collegare ad una particolare struttura della società tedesca, ma ad un morbo spirituale che toccò l'apice con Ludendorff prima e con Hitler poi); l'altro, di carattere più generale, è l'esaltazione nazionalistica delle masse prodotta dalla trasposizione sul suolo tedesco dei principio giacobino della sovranità popolare proclamato dalla rivoluzione francese.
Il risultato più duraturo, per la storiografia tedesca, di questa controversia, così come dei contributi di Vermeil e degli studi di Wehler sulle radici sociali dell'imperialismo guglielmino, è stato alla lunga quello di ricondurre la discussione sulla politica estera tedesca alle sue motivazioni e ai suoi condizionamenti di ordine interno. Si è affermato, come scrive Collotti, il «primato della politica interna», cioè la ricerca delle radici economiche, sociali, politiche, culturali, interne alla Germania, della Weltpolitik seguita agli inizi dei Novecento. Con il che, certamente, si recupera, sottraendola però alla stereotipata ripetizione dei cliché dei tedesco-soldato, la prospettiva di una continuità della storia tedesca, almeno a partire dei 1848, che appare sempre più come il vero anno fatale della Germania moderna.

Riprendiamo adesso il filo dei discorso che abbiamo interrotto. Dicevamo che il dibattito storiografico stava ormai abbandonando il problema delle responsabilità della guerra per spostarsi su quello delle sue cause.

Il tipo di documentazione disponibile e la stessa direzione lungo cui si era mosso il dibattito precedente portarono a privilegiare la storia diplomatica. I grandi imputati furono la politica dell'equilibrio e la politica delle alleanze: in una parola la diplomazia segreta degli anni precedenti. Si disse che non poteva essere duratura una pace affidata ai precari meccanismi di un equilibrio che ad ogni mutar di congiuntura doveva ristrutturarsi su diversi sistemi di alleanze. Non appena si fosse verificata una crisi più grave, più difficilmente riassorbibile, quegli stessi sistemi di alleanza che avrebbero dovuto funzionare come deterrenti contro la guerra sarebbero serviti invece a trasformare una scintilla in un incendio generale. Proprio questo accadde quando l'Europa fu investita dall'onda d'urto provocata dall'estensione su scala mondiale delle nuove realtà degli stati nazionali. Il tracollo dell'impero ottomano, a seguito della guerra con l'Italia e delle successive guerre balcaniche, diede fuoco alle polveri: tutti i nodi accumulatisi negli anni, il revanscismo francese, la rivalità anglo-tedesca, i contrasti di interesse tra Russia ed Austria, le aspirazioni indipendentistiche degli slavi vennero al pettine nell'estate dei 1914. Tuttavia, rimane un dubbio, ha scritto il Taylor, che è uno dei maggiori conoscitori della storia diplomatica dei tempo: il sistema internazionale, alla vigilia dei 1914, era sostanzialmente lo stesso degli ultimi trentacinque anni, durante i quali era riuscito a salvaguardare la pace, o almeno ad impedire una conflagrazione generale. Sarebbe perciò più esatto dire, osserva il Taylor, che la guerra fu causata dalla crisi di questo sistema internazionale, piuttosto che dalla sua esistenza. Senonché, se ci chiediamo quali furono i fatti nuovi che lo misero in crisi, ovverosia se ci chiediamo come mai non fu possibile trovare alla crisi dei '14 una composizione diplomatica come era avvenuto in occasione di altre crisi precedenti, non disponiamo di una risposta davvero convincente.
Recentemente l'apertura degli archivi militari ha consentito ad alcuni studiosi di formulare l'ipotesi che la guerra scoppiò nell'agosto dei 1914 perché alcuni Stati Maggiori stimarono che le condizioni ed i rapporti di forze fossero in quel momento particolarmente favorevoli ai rispettivi paesi. Ma anche questa ipotesi convince solo fino ad un certo punto: non solo perché presuppone; evidentemente, che da parte di qualcuno ci fosse un errore di calcolo (ipotesi questa che potremmo senz'altro accettare: ben altri errori di calcolo avrebbero fatto gli ambienti militari negli anni successivi!), ma perché dà per scontata la capacità dei militari di condizionare in modo decisivo le scelte dei rispettivi governi. È vero che, a guerra iniziata, fu ovunque applicato il principio che tutte le questioni connesse con la sua conduzione erano di esclusiva pertinenza delle autorità militari ed è anche vero che ciò fu la conseguenza delle scelte operate negli anni precedenti, quando i complessi problemi dell'organizzazione di eserciti di massa determinarono una specie di delega in bianco della gestione militare a caste chiuse di ufficiali, dominate dall'aristocrazia e dalle destre politiche. Tuttavia non è affatto dimostrato che la casta militare fosse in grado di imporre senz'altro le proprie scelte. Del resto, quando fu chiaro che la guerra non si sarebbe affatto risolta nei tempi brevi previsti, accadde un po' ovunque che si pensasse all'opportunità di ridimensionare gli spazi di direzione politica concessi ai militari.

Altre diagnosi sono state fatte, perciò, circa le origini e le cause della prima guerra mondiale: le chiameremo, a titolo indicativo, quella della guerra imperialista, della guerra nazionalista, della guerra restaurazione. Nessuna di queste tre versioni esclude, ovviamente, l'esistenza di quegli attriti internazionali sui quali insisteva la tradizionale storiografia diplomatica. La tendenza però è a vedervi solo le punte emergenti di tensioni più profonde, se non addirittura poco più che semplici «scuse» per giustificare scelte di guerra motivate diversamente.

La concezione della guerra mondiale come guerra imperialista risale ai primordi stessi della letteratura marxista sull'imperialismo: basti pensare al libro di Lenin dei 1917. Senza entrare nei dettagli diciamo che, secondo la più classica storiografia marxista, fu una guerra per la «redistribuzione» delle aree mondiali di mercato tra le grandi potenze capitalistiche. L'inasprimento delle relazioni internazionali che si cominciò a registrare verso la fine dei primo decennio dei secolo fu la conseguenza dell'interruzione, avvenuta nel 1907-8, della favorevole congiuntura economica internazionale. Come altre crisi precedenti anche questa favorì «la tendenza alla creazione di zone economicamente chiuse, quasi autarchiche, da parte di potenze egemoni alle quali spettava lo sfruttamento dei paesi soggetti». La concorrenza perciò si fece sempre più dura, anche perché, a seguito dell'ondata colonialista dei decenni precedenti, si erano ristrette le aree disponibili. Catalano, a conclusione di alcune pagine in cui passa in rassegna taluni dei contributi più significativi a questa interpretazione, scrive: «protezionismo, imperialismo, monopolismo e interventismo statale caratterizzarono la vita economica europea prima dei 1914 e la guerra scoppiò quando una rigida politica protezionistica dei mercati rese praticamente impossibile la conquista pacifica dei mercati, indispensabile ad ogni paese per mantenere alto il proprio ritmo produttivo».
Ma nel 1910 era uscito il libro dello scrittore inglese Norman Angeli, La grande illusione, nel quale si sosteneva, al contrario, che nel mondo contemporaneo, data l’interdipendenza economica esistente tra i vari paesi, è appunto una grande illusione quella di pensare che una guerra possa portare, anche ai vincitori, qualche consistente vantaggio economico. La tesi, che sarebbe piaciuta a Schumpeter, di una intrinseca incompatibilità tra guerra e capitalismo ebbe il successo di pubblico che arride sempre alle tesi rassicuranti: la guerra è antieconomica, dunque assurda e impossibile.
Non è da escludere che proprio valutazioni di questo tipo, decisamente ottimistiche, inducessero i gabinetti europei a un gioco sempre più spericolato. Ma non è certamente un caso che l'opera di Angeli venisse esplicitamente richiamata da Elie Halévy che in alcune conferenze tenute nel 1929 si propose, a chiare lettere, di contrastare l'interpretazione marxista (economicistica) della guerra. Partendo dalla premessa che «la base della storia non è materialista, ma ben idealista ed è l'idealismo che fa le guerre e le rivoluzioni», si doveva piuttosto comprendere l'origine di quelle «potenti ondate di passioni collettive che divisero i vari paesi». È infatti da escludere che il capitalismo avesse avuto un qualche interesse alla guerra, preferendo arrivare a un regolamento pacifico delle questioni, come era successo, ad esempio, ad Agadir. Dei resto la teoria che «la guerra non paga», osserva Halévy, aveva fatto «la sua strada negli ambienti dei commercio e della finanza: alla vigilia stessa della guerra, noi vediamo banchieri, uomini di Borsa, proprietari di miniere, uomini dei cotone, dell'acciaio, dei carbone affollarsi negli appartamenti dei Cancelliere dello Scacchiere per dirgli il loro terrore alla prospettiva dell'Inghilterra che si lascia trascinare nel conflitto». Non rimane perciò che guardare verso «le forze collettive, i sentimenti collettivi e i moti di opinione pubblica, che, all'inizio dei secolo, tendevano verso il conflitto»: dietro a tutto questo il cancro del nazionalismo.

In una direzione simile guardò anche Croce, tre anni più tardi. Anche per lui, ciò che impedì di dare una composizione pacifica ai contrasti internazionali fu la psicologia di guerra che ormai dominava l'Europa. Le forze stesse dei mondo moderno, le nuove dottrine, i nuovi costumi, tutto insomma, congiurava a creare una nuova mentalità per la quale «la guerra, il sangue, le stragi, le durezze, le crudeltà non erano più oggetto di deprecazione e di ripugnanza e di obbrobrio, ma, come cose necessarie ai fini da conseguire, si facevano accettevoli e desiderabili, e si rivestivano di una certa attrazione poetica, e perfino davano qualche brivido di religioso mistero, per modo che si parlava della bellezza che è nella guerra e nel sangue, e dell'eroica ebbrezza che solo per quella via all'uomo è dato celebrare e godere». Le matrici lontane di questi orientamenti, riassunti da Croce sotto l'etichetta di «attivismo», erano per lui da ricercare nelle componenti morbose del primo romanticismo, che non erano mai state riassorbite completamente. Egli insisteva in particolare, avendo i titoli per farlo, dal momento che era stato uno dei pochi a non lasciarsi coinvolgere dalla frenesia per la guerra, sulle responsabilità degli intellettuali che non avevano saputo e voluto trovare nei valori della comune civiltà europea l'antidoto al montare delle passioni nazionalistiche.
La protesta contro l'asservimento della cultura alle esigenze ed ai miti delle passioni di piazza fu chiaramente espressa, in quegli stessi anni, da Julien Benda nel suo scritto sul Tradimento dei chierici. Il tema delle responsabilità degli intellettuali è stato ripreso e sviluppato in moltissimi altri lavori successivi e costituisce, oggi, un capitolo essenziale nella storia delle origini della guerra, particolarmente forse per gli storici italiani, resi avvertiti dalla lettura di Gramsci circa l'importanza dei problema dell'organizzazione degli intellettuali e contemporaneamente messi in guardia dalla tentazione di ipostatizzare una cultura con la C maiuscola olimpicamente assisa al di sopra dei clamore degli interessi terreni. Per saggiare, comunque, cosa significò la guerra per gli intellettuali europei, che cosa vi videro e come reagirono ad essa, si potranno leggere utilmente tre documenti diversi, ma tutti esemplari e molto belli, di Romain Rolland, di Thomas Mann e di Renato Serra, intelligentemente riportati dal Saitta nella sua antologia sul Novecento. Forse però le pagine più illuminanti sull'atmosfera di quell'estate dei '14, sulle attese e sulle speranze illusoriamente riposte nella guerra come via d'uscita dalla pochezza della vita borghese e come salutare esperienza di rinascita ai valori della comunità e della solidarietà negati nella società atomizzata della tecnica e dell'interesse privato, sono quelle che possono leggersi nel recente lavoro di Leed. È ovvio però che il tema «guerra e cultura», se non vuole scadere a mera erudizione o isterilirsi in un inutile esercizio retorico, deve essere disarticolato secondo una pluralità di linee. Il compito degli storici è perciò quello di comprendere come alcuni temi presenti nella cultura dell'inizio dei secolo fossero diversamente radicati nella storia non solo culturale ma anche sociale e politica delle diverse nazioni e risultassero quindi diversamente disponibili a venire impiegati come miti di massa, di individuare le forze interessate a maneggiarli in questo modo, di riconoscere gli strumenti che poterono essere utilizzati, ecc.

Ma con questo ci accostiamo ad un'altra lettura circa le origini della guerra, che, ci sembra, ha acquistato una posizione centrale nella storiografia. Ci riferiamo alla tesi secondo cui la strada della guerra venne imboccata dalle classi dirigenti dei vari paesi in funzione di un progetto di restaurazione autoritaria e antipopolare all'interno. Vedremo meglio tra poco, trattando dell'Italia, in che cosa consiste detta tesi.

L'Italia non occupa uno spazio rilevante nelle trattazioni generali, a livello internazionale, dedicate alla guerra. Al contrario la storiografia italiana ha riconosciuto in essa, con crescente consapevolezza, un momento assolutamente centrale della storia contemporanea dei nostro paese. Non è qui il caso di ripercorrere analiticamente le tappe della ricerca storica sulla partecipazione italiana alla guerra, dal momento che il lettore interessato troverà altre ampie rassegne sull'argomento. Ci preme invece riprendere alcune osservazioni dell'Isnenghi a proposito della frattura verificatasi nella storiografia italiana sulla grande guerra a partire dagli anni '60. Proprio per il suo carattere di primo evento davvero «nazionale», che mobilitò l'intera società italiana e la sottopose a processi che investirono in pieno l'intera popolazione (soldati e civili, uomini e donne, operai e contadini e borghesi, nord e sud) la memoria storica della guerra del 15-18 ebbe a lungo un incredibile capacità di convogliare miti e ideologie diverse. Il ricordo di essa poté fornire un mito nazionale-popolare delle origini al fascismo e contemporaneamente tener vivi gli ideali liberali e risorgimentali. Nel secondo dopoguerra proprio questa seconda versione, quella risorgimentale della quarta guerra di indipendenza, «apparirà a lungo l'unica praticabile per forme di educazione collettiva e di socializzazione dei popolo italiano - tramite la scuola, i riti commemorativi, gli anniversari - all'ipotesi esemplare di una guerra nazionale giusta, legittima e partecipata, a differenza di quelle successive imposte da un regime dittatoriale, sulle quali si stende un velo di silenzio imbarazzato». Negli anni Sessanta si è registrata però un'inversione di rotta. «Non più l'enfasi sull'asserito consenso intorno alle istituzioni, ma la messa in rilievo degli episodi di insubordinazione e di dissenso... da una parte, di coercizione e di disciplinamento coatto dall'altra; non più l'epica dell’unione, ma l'indagine sui processi di rottura e la presa di coscienza dei subalterni; non più la leggenda eroica della patria che si riscopre, ma lo studio di una classe dirigente che restaura i significati e i modi dei proprio dominio». Semplificando al massimo ci sembra che ricerche e discussioni si siano annodate in questi ultimi anni intorno a tre questioni: le ragioni dell'intervento in guerra, la condotta delle operazioni militari, le conseguenze, sul piano economico e sociale, dello stato di guerra.
A proposito della prima questione si è riproposta, anche per l'Italia, la gamma delle interpretazioni che abbiamo già visto. È noto che lo schieramento interventista, come dei resto quello neutralista, ebbe in Italia componenti molto diverse: vi fu anche, sebbene minoritario ed alla lunga marginalizzato, un interventismo di tipo democratico le cui motivazioni non si lasciano certo ricondurre a nessuno dei tre paradigmi cui prima accennavamo. Ma non sembra che ad esso si debba dare gran peso nel valutare le forze che effettivamente condussero l'Italia in guerra.
Spentasi la retorica sulla quarta guerra di indipendenza, l'attenzione è stata riportata ai mesi della vigilia. Fra i primi che si mossero in questa direzione ricorderemo Luigi Salvatorelli, che accostò la soluzione extraparlamentare dell'intervento, imposta dalla piazza, alla successiva marcia su Roma, e Alberto Caracciolo, il quale mise in rilievo come le forze preminenti dello schieramento a sostegno dell'intervento erano state quelle della Destra conservatrice e del nazionalismo, rappresentative della grande industria moderna e che poco avevano da spartire con il passato risorgimentale. Gli studi successivi dei Vigezzi hanno mostrato che taluni settori della piccola borghesia diedero alla guerra una adesione « risorgimentale», ma ciò non toglie che le motivazioni alla fine decisive furono per l'appunto altre. Gli studi successivi, dei Valiani, dei Procacci, dei Tranfaglia, del Monticone, del De Caprariis, del Carocci, hanno dimostrato che la decisione dell'intervento ebbe, almeno prevalentemente, se non esclusivamente, il carattere di un'operazione di politica interna. Già Dorso, del resto, aveva riconosciuto nell'antigiolittismo l'elemento unificatore di tutti i diversi interventismi. Il senso di questa operazione è stato progressivamente indicato come quello di una risposta autoritaria, o apertamente reazionaria, ai problemi posti dalla modificazione della struttura economica, dal l'affermazione del capitalismo monopolistico, dall'inasprimento della lotta di classe, dalla rinascita di correnti nazionalistico-reazionarie, dalla riviviscenza di posizioni rivoluzionarie all'interno dei movimento socialista. I risultati di queste ricerche hanno perciò riproposto come centrale il tema della continuità tra le «radiose giornate» di maggio ed il fascismo.
La scelta della guerra come occasione per l'attuazione di un disegno di restaurazione autoritaria (limitazione dei poteri del parlamento, rafforzamento dei ruolo dei governo, della Corona e delle élites ministeriali, controllo sulla stampa, restrizione delle libertà civili, potenziamento dell'autorità militare, ecc.) rappresenta oggi un punto abbastanza consolidato della storiografia. Esso è stato se mai ulteriormente precisato, distinguendo ad esempio, come fa Isnenghi, tra una prima versione di questa restaurazione autoritaria, nella quale più tradizionalmente si mira ad imporre alle masse una disciplina dall'alto, ed una seconda, più sensibile all'esigenza di coinvolgere le masse stesse in una adesione globale ai valori nazionali: esemplare in tal senso la diversità di condotta tra Cadorna e Diaz. Ma il discorso si è anche allargato, individuando accanto a questo disegno politico la pressione di spinte economiche. Webster ha parlato «degli autentici presupposti economici» che stavano dietro alle ambizioni balcaniche dell'Italia e che dunque sostanziano e sorreggono l'intervento italiano nella guerra. Mentre, «l'avventura africana non ebbe... alcuna conseguenza positiva per l'industrializzazione nazionale, il nuovo orientamento verso i Balcani e il levante aprì la strada, inevitabilmente, ad un coordinamento più diretto fra gli interessi industriali e le direttive dei governo in politica estera». Sono noti, del resto, i legami dei nazionalismo con i circoli più influenti del potere economico, che vedevano nella guerra la possibilità di liberarsi dalla dipendenza dal capitale straniero, in particolare tedesco, di aumentare la produzione, di disciplinare la forza lavoro. Sono queste le conclusioni accettate ormai dal Castronovo, dal Ragionieri, dal Caracciolo, dal Candeloro.
Non sono mancati lavori dedicati a ricostruire le posizioni degli ambienti intellettuali e dell'opinione pubblica di fronte alla guerra: l'interventismo della cultura è stato analizzato e scomposto nelle sue diverse componenti ideologiche, sociali, ecc. Ma la conclusione che da tutti questi studi si impone è che gli orientamenti antigiolittiani ed interventisti del mondo colto italiano in tanto ebbero diffusione e incidenza in quanto espressero ed «abbellirono» spinte analoghe della destra politica ed economica. Questo non vuol dire che ogni presa di posizione a favore della guerra possa essere spiegata in termini di manipolazione dell'opinione pubblica da parte di una stampa finanziata dai grandi gruppi economici (cosa peraltro che ci fu, abbondantemente); solo che le analisi più attente dimostrano la assai precaria autonomia di questi movimenti e di queste passioni, nonché la loro labilità e la loro ambiguità, quando non siano sorretti e canalizzati dal potere politico ed economico: è, per esempio, il caso dell'irredentismo , la cui parabola ed i cui esiti sembrano dipendere da processi che esorbitano completamente dalla storia delle idee.

Anche sul fronte italiano lo svolgimento delle operazioni militari rivelò l’inadeguatezza dei piani predisposti dallo Stato Maggiore e condusse ad una estenuante guerra di trincea, su posizioni che si rivelarono quasi sempre imprendibili ai reparti reiteratamente ed inutilmente mandati all'assalto dai loro comandi. Da questo punto di vista la situazione non fu molto diversa da quella che si verificò sugli altri teatri di guerra. Tuttavia gli studi di Bencivenga, Pieri, Rochat, Ceva ed altri hanno mostrato alcune caratteristiche peculiari dell'esercito italiano e della strategia con cui venne impiegato. Rochat in particolare ha insistito sul legame tra le scelte strategiche dei comandi italiani, soprattutto nella fase cadorniana, insistentemente fondate sull'assalto frontale, ed il carattere marcatamente imperialista ed offensivista dell'intervento italiano. In modo più pacato Ceva ha invece cercato di spiegare talune deficienze dall'apparato militare con ragioni di organizzazione interna, riconducibili a loro volta a scelte politiche precedenti: ad esempio il non essersi impegnati a sufficienza nella creazione di efficienti quadri intermedi di sottufficiali. Ma il punto di più marcato dissenso rispetto alla vecchia storiografia patriottica è stato toccato con le ricerche recenti sull'uso sistematico della repressione come mezzo per ottenere l'obbedienza dei soldati. Malgrado tutta la retorica che si spese, e ancora si spende, sulla grande guerra, essa non fu affatto «popolare»: spesso anche chi era stato interventista convinto e si era arruolato come volontario maturava nella dura quotidianità della trincea atteggiamenti ben diversi, che potevano sfociare in atti di aperta ribellione o ripiegarsi in una rassegnata accettazione della guerra come di un dovere cui si doveva sottostare, per amore o per forza. I fanti italiani, ha ricordato un loro ufficiale, «non si ribellavano: quando erano spinti fuori dalle trincee andavano; ma piangendo». È difficile valutare l'entità di questo rifiuto della guerra: i casi di aperta ribellione furono, tutto sommato, pochi, meno ad esempio o meno clamorosi di quelli che avvennero in altri eserciti. Tuttavia questa opposizione individuale, disordinata e disperata, alla guerra vi fu, se è vero che i tribunali militari dovettero esaminare centinaia di migliaia di casi di militari accusati di diserzione, codardia, disubbidienza, indisciplina, ecc.
Che la guerra si rivelasse un ottimo affare per l'industria italiana è cosa risaputa da tempo. Le accuse contro i «pescecani» delle retrovie che speculavano sulle forniture militari fu, già allora, un tema ricorrente. Tuttavia fino a qualche anno fa erano mancati studi specifici sullo sviluppo economico italiano durante la prima guerra mondiale. Le opere di Grifone, Morandi, Romeo avevano sì evidenziato il grandioso sviluppo della produzione industriale in quegli anni, ma il discorso da una parte rimaneva nel vago, in assenza di analisi più specifiche su singole imprese, dall'altra non arrivava a cogliere i tratti qualitativamente nuovi dell'intreccio tra mondo industriale e mondo politico. Oggi la situazione si presenta assai più nitida. Gli industriali italiani ebbero dalla guerra innanzitutto uno stimolo alla ripresa produttiva, tanto più desiderabile dal momento che la congiuntura sfavorevole apertasi nel 1907 ed aggravatasi nel 1913 aveva posto l'economia italiana in «uno stato di fiacchezza e di ristagno». La guerra fornì poi l'occasione per riconquistare posizioni precedentemente occupate dal capitale straniero, per aumentare i profitti (a causa dei disciplinamento coatto della forza lavoro e della larghezza con cui lo stato acquistava le merci necessarie alla guerra) e per contenere, con l'arruolamento sotto le armi, la disoccupazione cresciuta a livelli pericolosi a causa del forzato rientro in Italia di lavoratori emigrati all'estero. Soprattutto la guerra fornì ai capitalisti italiani, in una situazione in cui non c'era da fare i conti con la concorrenza straniera e non c'era certo da temere che la produzione rimanesse invenduta, l'occasione di impiegare i larghi profitti per estendere il controllo su altri rami produttivi o per impegnarsi in attività finanziarie, a scapito di investimenti mirati all'aumento della produttività degli impianti. Si ebbe pertanto uno sviluppo forzato dell'apparato industriale a prescindere da ogni calcolo di produttività e di costi, il che doveva risultare decisivo nell'orientare in senso protezionistico il capitalismo italiano del dopoguerra. Inoltre le esigenze della mobilitazione industriale crearono un fitto intreccio tra capitale e burocrazia statale, con «l'avvio di una serie di interventi sistematici e crescenti dello Stato a favore dei monopoli privati»: l'intimità nata tra i due mondi nei comitati di mobilitazione industriale durante la guerra sarebbe sopravvissuta dopo la sua conclusione, non senza conseguenze gravi sul piano economico e politico.

Rimane più indefinito il quadro delle conseguenze sociali della guerra. Scrive Rochat che «la contrapposizione tra il buon fante-contadino, che si sacrifica in silenzio, e il malvagio operaio-imboscato, che si arricchisce senza rischio con gli alti salari dell'industria bellica, fu uno dei temi preferiti della propaganda di guerra (anche di quella democratica) nello scoperto intento di approfondire le divisioni interne alle masse popolari e di deviare verso gli operai l'odio che i combattenti nutrivano verso i responsabili della loro sorte». Oggi infatti sappiamo che, anche in termini di tributo di sangue versato, la classe operaia italiana non fu affatto risparmiata dalla guerra, ma ancora meglio conosciamo come in nome dello sforzo bellico fu attuato un massiccio controllo dall'alto delle dinamiche di classe, attraverso l'adozione di drastiche misure disciplinari nelle fabbriche, la militarizzazione dei lavoro, l'introduzione dell'arbitrato obbligatorio nei conflitti di lavoro, la sostanziale abolizione dei diritto di sciopero. Se è anche vero che i larghi margini di profitto degli imprenditori consentirono alla classe operaia di difendere vantaggiosamente il potere d'acquisto dei propri salari e che la composizione stessa dei comitati di mobilitazione diede ai rappresentanti dei sindacati che ne facevano parte una qualche corresponsabilità decisionale, resta pur vero che tutto questo fu pagato in termini di pesante contenimento dell'autonomia di classe e di restringimento delle libertà sindacali.

Un tema importante, sul quale però non esistono esaurienti lavori di sintesi, è quello della trasformazione nella composizione della classe operaia, nella quale si accresce la componente femminile, con conseguenze sul piano dei costume e della mentalità, che allo stato attuale degli studi si possono solo ipotizzare. Allo stesso modo è solo per grandi linee che possiamo farci un'idea delle altre grandi trasformazioni che si verificarono in quegli anni nella società italiana: l'aggravamento delle condizioni economiche dei mondo rurale, la riorganizzazione dei settore commerciale, l'acuirsi dei divario tra nord e sud, l'ampliamento dell'occupazione industriale rispetto ai settori più tradizionali, la formazione di un capitalismo più aggressivo, e così via.
Anche se non siamo certo in grado di ricostruirli analiticamente, i percorsi che la storiografia sulla prima guerra mondiale sta compiendo negli altri paesi sembrano abbastanza simili. In particolare, negli ultimi anni, sono caratteristiche abbastanza comuni l'utilizzazione di nuove fonti (testimonianze orali, letteratura, fotografia), l'attenzione alle tematiche socio-antropologiche affrontabili con strumenti teorici mutuati dalle scienze umane, la sensibilità ai fenomeni di lunga durata dei mutamento culturale e dei comportamenti collettivi. «Attraverso questo nuovo indirizzo di ricerca, ha scritto Rochat, l'attenzione si è spostata dalle battaglie grandi e piccole... ai combattenti, ... dai generali ai soldati e agli ufficiali inferiori; e ... contemporaneamente è stato abbattuto il fossato tra fronte e paese». Né è da vedersi in questi orientamenti una mera concessione ad una moda attuale, perché, scrive Melograni , è anche in tutti questi campi che la prima guerra mondiale rappresentò davvero l'inizio dei secolo nuovo.


BIBLIOGRAFIA

l. Sulla prima guerra mondiale sono da vedere in particolare: M. FERRO, La grande guerra 1914-1918, Mursia, Milano, 1972; A. J. P. TAYLOR, Storia della prima guerra mondiale, Vallecchi, Firenze, 1967; B. H. LIDDEL HART, La prima guerra mondiale 1914-1918, Rizzoli, Milano, 1968. Come strumenti didattici ricordiamo M. SILVESTRI, La prima guerra mondiale, Le Monnier, Firenze, 1980 e M. ISNENGHI, La prima guerra mondiale, Zanichelli, Bologna, 1972. Da tenere presente il recente studio di C. E. RUSCONI, Rischio 1914. Come si decide una guerra, Il Mulino, Bologna, 1987, in parte dedicato alla ricostruzione delle vicende diplomatiche e in parte condotto come studio politologico sui meccanismi decisionali che portarono allo scoppio dei conflitto.

2. Cfr. J. JOLL, Le origini della prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari, 1985. Sulle vicende diplomatiche che precedettero la guerra sono da ricordare: A. J. P. TAYLOR, L'Europa delle grandi potenze da Metternich a Lenin, Laterza, Bari, 1971.

5. T. PALAMENGHI CRISPI, Chi è responsabile della guerra?, Roma, 1922; A. LUMBROSO, Le origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale, Milano, 1926-1928.

9. L'opera di F. FISCHER è stata tradotta nelle edizioni Einaudi, Torino, 1965.

10. C. RITTER, I militari e la politica nella Germania moderna, 3 voll., Einaudi, Torino, 1967-75. Tra i contributi italiani ricordiamo M. L. SALVADORI, in Gramsci e il problema storico della democrazia moderna, Einaudi, Torino, 1970, il quale condivide le posizioni di Fischer, e R. ROMEO riprodotto parzialmente nell'antologia di A. SAITTA, Storia e miti del '900, Laterza, Bari, 1960, che, pur criticamente, si allinea alle posizioni di Ritter.

17. F. CATALANO, Stato e società nei secoli, D'Anna, MessinaFirenze, 1966.

20. B. CROCE, Storia d'Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari, 1932 (1965).

21. J. BENDA, Il tradimento dei chierici. Il ruolo dell'intellettuale nella società contemporanea, Einaudi, Torino, 1976.

22. M. ISNENGHI, Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte, Laterza, Bari, 1970.

26. Improntata a forti accenti marxisti l'opera di G. ROCHAT, L'Italia nella prima guerra mondiale. Problemi d'interpretazione e prospettive di ricerca, Feltrinelli, Milano, 1976. Più cauto L. CEVA, Le forze armate, nella collana «Storia della società italiana dall'unità a oggi», Utet, Torino, 1981.

27. P. PIERI, L'Italia nella prima guerra mondiale, Einaudi, Torino, 1965; Tra le opere che hanno segnato o seguito la svolta degli anni '60 citiamo: P. MELOGRANI, Storia politica della grande guerra (1915-1918), Laterza, Bari, M. ISNENGHI, Il mito della grande guerra.... cit.; B. Vigezzi, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale, Ricciardi, Milano-Napoli, 1966 (di Vigezzi si veda anche L'Italia liberale e la guerra). Ricordiamo, infine, l'appassionata testimonianza di E. Lussu, Un anno sull'Altipiano, Einaudi, Torino, 1945.

28. M. ISNENGHI, Prima guerra mondiale, in Storia d'Italia, 2, la Nuova Italia, Firenze, 1978

29. L. SALVATORELLI, «Tre colpi di stato», in Il Ponte, 1950, n. 4.

31. N. TRANFAGLIA, Dallo stato liberale al regime fascista, Feltrinelli, Milano, 1973;

33. R. A. WEBSTER, L'imperialismo industriale italiano. Studio sul prefascismo 1906-1915, Einaudi, Torino, 1974.

36. V. CASTRONOVO, La storia economica, in Storia d'Italia, Einaudi, Torino, 1975; A. CARACCIOLO, La grande industria nella prima guerra mondiale, Laterza, Bari, 1969; G. CANDELORO, Storia dell'Italia moderna, vol. VIII, Feltrinelli, Milano, 1979.

37. R. LUPERINI, La crisi degli intellettuali nell'età giolittiana, D'Anna, Messina-Firenze, 1978.

40. Sugli aspetti militari dei conflitto ricordiamo P. PIERI, La prima guerra mondiale 1914-18. Problemi di storia militare, Cheroni, Torino, 1947.

44. R. ROMEO, Breve storia della grande industria in Italia 1861-1961, Cappelli, Bologna, 1972.

48. AA.VV., Stato e classe operaia in Italia durante la prima guerra mondiale, a cura di G. Procacci.

 

Fonte: http://www.vitellaro.it/silvio/storia%20e%20filosofia/monografie/1guerramond.doc

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