Tentativo di restaurazione imperiale di Carlo V

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Tentativo di restaurazione imperiale di Carlo V

La crisi italiana e il tentativo di restaurazione imperiale di Carlo V

Nel 1494, appena due anni dopo la morte di Lorenzo il Magni­fico, il signore di Milano Ludovico il Moro sollecita l'appoggio francese contro gli ara­gonesi di Napoli e contro papa Alessandro VI, che persegue una politica espansionisti­ca. Nel farlo, egli non ha nessuna intenzione di aprire le porte della penisola allo stra­niero; anche perché straniero il re di Francia non può essere considerato in Italia più degli aragonesi, in quanto erede dei diritti dinastici angiomi. Ed è proprio per mire di carattere dinastico, oltre che per ambizioni cavalleresche, che il giovane sovrano d'oltralpe Carlo VIII raccoglie l'invito di Ludovico il Moro, inizial­mente condiviso anche da altri stati della penisola, e discende in Italia. Sua ambizione è fare del Napoletano, sottratto agli aragonesi, la base per una crociata contro i turchi. Alle sue spalle ci sono molti cadetti della piccola nobiltà in cerca di gloria e di ric­chezze da guadagnarsi sul campo di battaglia e anche vari commercianti desiderosi di buoni affari nella ricca penisola. Rimarranno delusi gli uni e gli altri. Quella di Carlo VIII - dalle Alpi alla Toscana, da Roma al regno di Napoli, conquistato senza colpo fe­rire - è una passeggiata militare, tanto incruenta nel suo svolgimento quanto priva di durevoli risultati: nel 1495 una lega di stati italiani sostenuta dal re di Spagna e dal­l'imperatore costringe i francesi a battere in ritirata, affrontandoli a Fornovo di Taro. Ciò nonostante l'impresa del sovrano d'oltralpe è sufficiente a far emergere conflitti sociali e tendenze centrifughe a lungo compresse dalle classi dirigenti dei nascenti sta­ti regionali.
La calata di Carlo VIII, infatti, dà fiato ad alcune spinte autonomistiche, a diversi par­ticolarismi locali. È quanto avviene a Pisa, dove il re francese viene accolto come un li­beratore dagli abitanti dell'ex repubblica marinara, felici di scrollarsi di dosso il domi­nio di Firenze. Ma ancora più indicativi sono i consensi raccolti dal sovrano d'oltralpe presso i più diversi ceti sociali, che mal si riconoscono nelle classi dirigenti dei vari principati. A Napoli una vasta ala dell'aristocrazia, insofferente della politica accentra­trice degli aragonesi, si schiera con la Francia, mentre in molte città il popolo guarda con ammirazione alla sfilata degli eserciti invasori di Carlo VIII, restauratore della pace e della giustizia. Più realisticamente, la borghesia commerciale guarda con simpatia nella maggior par­te dei casi al sovrano d'oltralpe, perché sa che la sua dinastia ha sempre praticato una politica di protezione delle industrie e dei traffici. Ma il fenomeno più indicativo della fragilità dei regimi politici italiani - oltre che del­la scarsa presa della cultura ufficiale sulle masse - si verifica a Firenze. In questa città dove sino a due anni prima ha dominato la personalità di Lorenzo il Magnifico, il pas­saggio dei francesi crea l'occasione per un'insurrezione repubblicana, con la cacciata del successore di Lorenzo, Piero, e un breve tentativo di resistenza a Carlo VIII. A ca­pitanare la rivolta è il priore del convento domenicano di San Marco, fra' Girolamo Sa­vonarola, che nelle sue infuocate prediche tuona contro la corruzione della chiesa, la licenza dei costumi, l'arte profana del Rinascitnento, la «tirannide» dei Medici.
Il successo di Savonarola non è casuale. E soprattutto non è casuale che si verifichi proprio a Firenze. Nel capoluogo toscano il rapporto fra i tre grandi centri della vita municipale - la cattedrale, polo della vita religiosa, il palazzo comunale, sede del po­tere politico, e la loggia dei mercanti, centro delle attività economiche - si è da tempo alterato a tutto vantaggio di quest'ultima. Una borghesia commerciale dominata dalla preoccupazione dell'utile economico più che da scrupoli religiosi ha realizzato la pro­pria egemonia sullo stato, prima in forma oligarchica, poi attraverso il predominio di una famiglia di banchieri. Savonarola si fa portavoce dell'insofferenza popolare con­tro il signore banchiere, cui contrappone il modello della città medievale, «stretta mo­ralmente intorno alla cattedrale, dove il popolo ascoltava la parola di Dio» (Mastello-ne). E con foga mistica egli reagisce al pericolo che l'equilibrio fra le tre diverse fun­zioni della città - civile, religiosa ed economica - si spezzi a tutto vantaggio delle attività mercantili e a tutto svantaggio della religione. In un periodo nel quale predomi­nano la corruzione del clero e le mire temporalistiche del papato, il frate domenicano raccoglie consensi facendosi promotore di una riforma dei costumi che riconduca al­l'antica purezza, insieme alla città di Firenze, l'intera chiesa. Obiettivo è l'instaurazione di una sorta di teocrazia populista, attraver­so alcune riforme istituzionali di portata, per la verità, abbastanza ridotta sotto il pro­filo sociale. Ma è un sogno di breve durata. Sono contrari al domenicano sia la curia romana, attaccata dalle sue prediche, sia l'oligarchia commerciale fiorentina, preoccu­pata delle ripercussioni sui suoi traffici dell'ostilità papale e timorosa che il riformismo del frate si cali anche sul terreno politico ed economico. La scomunica, comminata al predicatore da papa Alessandro VI per questioni di diritto canonico, e non di natura dottrinaria, apre la via alla riscossa oligarchica contro il partito dei «piagnoni», favore­voli al Savonarola. Tanto più che il prestigio del sacerdote è incrinato dagli eccessi dei suoi seguaci. Il frate domenicano viene processato, condannato e impiccato, prima di essere brucia­to sul rogo, nel 1498.
L'impresa di Carlo VIII si conclude a Foruovo di Taro con un nulla di fatto; ma è un nulla di fatto più che sufficiente a dimostrare ai francesi e ai loro rivali spagnoli la fa­cilità di un'avventura militare in Italia. Cosi, infatti, avviene. A partire dal 1499, la mo­narchia d'oltralpe e la corona spagnola si contendono la penisola. E lo fanno attraver­so una serie di conflitti che vedono i maggiori stati italiani, compreso quello pontificio, schierati ora dall'una ora dall'altra parte, con rapidi rovesciamenti di fronte. In questo periodo trova conferma quella che sembra ormai la sorte della penisola: es­sere oggetto di contese e di spartizioni a opera di potenze straniere, senza che i suoi abitanti riescano a esprimere né un concreto spirito d'indipendenza né una resistenza solidale, anche perché il sentimento unitario è scarsamente sviluppato e su esso pre­valgono lealismi dinastici, rivalità di campanile o anche - piuttosto di frequente - am­bizioni familiari o personali. Non a caso sono spesso gli stessi stati della penisola, a par­tire dallo stato pontificio, a invocare la discesa sul territorio italiano di sovrani stranie­ri, nella speranza di guadagnarne un incremento dei propri domini o quanto meno di danneggiare i propri nemici.
È quanto avviene già nel 1499, quando Luigi XII, il successore di Carlo VIII, morto l'anno prima senza lasciare eredi diretti, valica di nuovo le Alpi rivendicando i suoi di­ritti sulla Lombardia in qualità di lontano discendente dei Visconti. Il sovrano france­se, che può contare sull'alleanza di Venezia e del papa, occupa il ducato di Milano cac­ciandone Ludovico il Moro e scende nel Mezzogiorno nel tentativo di conquistare il regno di Napoli. Ma la sua spedizione non ha il successo sperato e Luigi XII deve ac­contentarsi di vedere riconosciuti dal trattato di Lione del 1504 i suoi diritti sulla Lom­bardia, mentre il Mezzogiorno rimane sotto gli spagnoli.
Nel frattempo matura il tentativo di un figlio di papa Alessandro VI - Cesare Borgia, detto il Valentino - di costituire un solido stato accentratore fra Umbria, Romagna e Toscana, sulle rovine di molte signorie locali e domini feudali. In un primo tempo il Borgia ha successo grazie all'appoggio del padre e dei francesi, oltre che ai metodi spregiudicati con cui prevale, senza indietreggiare di fronte al tradimento, su molti av­versari, fra cui il duca di Urbino. Ma non è neppure da escludere che la sua politica ac­centratrice goda in certi casi dell'appoggio delle popolazioni, in quanto ridimensiona lo strapotere dei signorotti locali.
Le fortune del Valentino sono comunque di breve durata: a far crollare il suo edificio politico è infatti sufficiente la morte del padre, cui succede nel 1503 Giuliano della Ro­vere, deciso avversario della famiglia Borgia. Il nuovo papa, che assume il nome di Giu­lio Il, persegue infatti una politica di deciso intervento nelle vicende politiche italiane, come del resto la stragrande maggioranza dei pontefici rinascimentali. Non solo infat­ti egli riconquista i domini del Valentino, ma - trovatosi in urto con Venezia, che nel frattempo ha occupato parte della Romagna - promuove un'alleanza internazionale contro la Serenissima, la cui espansione sulla terraferma ha suscitato notevole allarme nelle potenze confinanti. Viene stipulata così la lega di Cambrai, cui partecipano tutti gli stati preoccupati dalle recenti conquiste della Serenissima: l'impero, cui Venezia ha sottratto Fiume e Trieste; la Francia, minacciata dall'annessione veneziana di Cremo­na, in Lombardia; i duchi di Ferrara e di Mantova e lo stesso re di Spagna. Gravemente sconfitta ad Agnadello nel 1509, la repubblica di San Marco vive una del­le ore più drammatiche della sua storia; a salvarla dalla disfatta sono la lealtà delle po­polazioni contadine dell'entroterra, assoggettate di recente ma fedeli alla Serenissima da cui sperano un alleviamento delle loro condizioni feudali, e anche la tradizionale abilità della sua diplomazia. Questa infatti riesce a sfruttare le divisioni fra i suoi ne­mici, stipulando paci separate sino alla dissoluzione della lega. A dare il colpo definitivo all'alleanza è del resto lo stesso Giulio Il. Egli nel 1510, preoc­cupato per le ingerenze d'oltralpe in Italia, si fa promotore di una «lega santa» in fun­zione antifrancese, cui aderiscono la Spagna, l'Inghilterra e gli stati della penisola. Do­po alterne vicende, i francesi si ritirano dalla Lombardia, consentendovi il ritorno del figlio di Ludovico il Moro. Nel frattempo, nel 1512, si verifica un'altra restaurazione con il crollo della repubblica fiorentina, che, dopo la caduta di Savonarola, ha assunto carattere oligarchico e ha cercato di sopravvivere, fra difficoltà finanziarie e contrasti politici, sotto la debole guida di Pier Soderini. Dopo il saccheggio di Prato da parte del­le truppe spagnole, i Medici fanno ritorno a Firenze con il cardinale Giovanni, figlio di Lorenzo il Magnifico, che l'anno dopo diviene papa con il nome di Leone X e governa di fatto la città tramite i propri parenti. Il nuovo assetto della penisola non è tuttavia definitivo: nel 1515 il nuovo re di Fran­cia Francesco I riprende la sua politica di espansione in Italia e, grazie anche all'al­leanza di Venezia, riesce a sconfiggere le truppe avversarie, e in particolare la potente fanteria svizzera, a Melegnano. Risultato di quest'ultima campagna, e di un ventennio di guerre per il predominio in Italia, è il trattato di Noyon, concluso nel 1516 tra Fran­cesco I e Carlo d'Asburgo, divenuto re di Spagna con il nome di Carlo I dopo la morte di Ferdinando.
Con il trattato di Noyon trova sanzione il principio del condominio franco-spagnolo nella penisola: il Milanese va alla Francia, il Napoletano alla Spagna. Un principio che continuerà a valere sino a quando il rapporto di forze fra i due contendenti non cono­scerà vistose alterazioni.

Carlo V
Una forza sociale, agli inizi del XVI sec., era direttamente interessata ad una restaurazione dell'istituto imperiale. Questa forza è costituita da una parte del mondo commerciale. Non dai piccoli mercanti che operano su scala nazionale e locale, temono la concor­renza straniera e tendono a sollecitare dal sovrano una politica di tipo protezionistico: ma dai grandi mercanti, e soprattutto dai maggiori banchieri. Questi, infatti, sono na­turalmente interessati a un'Europa la cui unità politica favorisca gli scambi economi­ci, agevolando il transito delle merci da un paese all'altro e assicurando la libertà dei mercati. Non a caso è proprio una famiglia di banchieri internazionali, i Fugger, già al servizio di una potenza universale come il papato, a finanziare nel 1519 l'elezione al sacro ro­mano impero di Carlo d'Asburgo: colui che, divenuto Carlo V, tenterà di restituire l'o­riginario valore al titolo imperiale. Figlio di Filippo d'Asburgo e di Giovanna di Castiglia, il giovane Carlo ha ereditato da parte paterna i domini del ducato di Borgogna - comprendenti i Paesi Bassi - e l'Au­stria e dalla madre la Spagna con i domini americani in via di costituzione, la Sicilia e la Sardegna.
Eletto imperatore, si trova a regnare su territori tanto vasti da assicurare al suo titolo un significato soltanto simbolico. Ma anche il clima culturale in cui matura è favore­vole alla formazione di quella visione universalistica che egli cercherà di tradurre in pratica nella sua opera di sovrano. Nel 1516 il grande umanista olandese Erasmo da Rotterdam ha composto per lui un trattato dal titolo Institutio principis christiani («Istruzione del principe cristiano»), in cui auspica che un concerto di sovrani regga unitariamente la cristianità, garantendo la pace e la giustizia. Il maggiore esponente dell'umanesimo nordico fornisce cosi il suo supporto culturale al futuro sovrano pacificatore della cristianità, che pare raccogliere in sé le tradizioni del glorioso ordine cavalleresco del Toson d'Oro (fondato nel 1429 dal duca di Borgo­gna Filippo il Buono con lo scopo di diffondere il cattolicesimo e passato poi agli Asburgo d'Austria e di Spagna) e l'eredità morale dei re cattolici spagnoli, basata sulla frontiera quasi millenaria della Reconquista.  Attento studioso del pensiero politi­co di Dante, il consigliere politico di Carlo, Mercurino Arborio, marchese di Gattinara, presenta come obiettivo della politica del suo sovrano la realizzazione di quel gover­no universale della cristianità che l'Alighieri aveva teorizzato in particolare nel De Mo­narchia. Il vescovo e predicatore di corte Antonio Guevara, a sua volta, compone un elogio di Carlo V modellato sullo stile che l'imperatore romano e filosofo stoico Mar­co Aurelio aveva usato nei suoi Ricordi. E lo stesso ritratto di Carlo V a cavallo, opera del pittore rinascimentale Tiziano, sembra ispirato al monumento equestre innalzato a Marco Aurelio in Campidoglio, mentre nella terza edizione dell' Orlando Furioso il poeta Ludovico Ariosto inserisce un'esaltazione di Carlo V come il più saggio e giusto imperatore «che sia stato e sarà mai dopo Augusto». Anche l'ingresso sotto il suo regno dei territori d'oltre oceano, sino allora sconosciuti, viene interpretato dal poeta italia­no come un segno della provvidenza, che preannunzia l'avvento di una monarchia mondiale.
Questo dell'Ariosto è qualcosa di più di un elogio cortigiano. Lattribuzione alla vo­lontà divina della recente scoperta delle Americhe implica se non altro l'intenzione di ricondurre a un ordine razionale un fenomeno che ha profondamente sconvolto gli schemi mentali dei contemporanei. Il favore che gli tributerà il mondo culturale italiano attirerà Carlo V in Italia, così co­me vi aveva in precedenza attratto i suoi predecessori medievali. Ideologo di questa sua politica d'intervento è proprio un italiano, l'umanista Mercurino Arborio di Gatti­nara, che ritiene il controllo della penisola indispensabile per chi intenda realizzare il sogno della monarchia universale. Né il fatto deve stupire, se si considera che l'inter­vento di Carlo in Italia da questi sollecitato non si dovrebbe tradurre in una conquista militare, ma nell'affermazione di un'egemonia politica e nella realizzazione di una riforma morale della stessa chiesa sul tipo di quella che Dante aveva creduto di poter sperare da Arrigo VII di Lussemburgo.
Il raggiungimento di questi obiettivi passa attraverso la lotta con il re di Francia per il controllo della penisola. In un primo tempo il conflitto, ripreso nel 1521, è decisamen­te favorevole all'imperatore, che può contare sull'appoggio di Enrico VIII, re d'Inghil­terra, di papa Leone X e di un grande feudatario francese, il Conestabile di Borbone. Il sovrano spagnolo riesce a sottrarre a Francesco I, oltre a Genova, il Milanese, inse­diandovi uno Sforza, non senza soddisfazione delle popolazioni locali, insofferenti del governo francese. I ripetuti tentativi del monarca d'oltralpe di riconquistare il ducato vanno incontro al fallimento, finché nel 1525 nella battaglia di Pavia lo stesso France­sco I subisce una rovinosa sconfitta e viene preso prigioniero. Il successivo trattato di Madrid è la logica conseguenza della disfatta. Con esso lo sfortunato sovrano, in cam­bio della propria libertà, s'impegna a rinunziare alle sue pretese sul Milanese e sul Na­poletano, a cedere a Carlo V i suoi domini in Borgogna e a consegnargli in qualità di ostaggi i suoi figli. Appena libero, Francesco I si affretta a ripudiare i patti sottoscritti in prigionia e a riprendere le ostilità, in una lotta a tutto campo sui cui esiti finiranno per pesare alcu­ni fattori che all'inizio né l'uno né l'altro dei sovrani ha potuto prevedere.
Il maggiore di questi fattori consiste nella minor compattezza dei domini di Carlo V in confronto a quelli del re di Francia. Rispetto a quelli di Francesco I, i possedimenti del­l'imperatore sono assai più numerosi ed estesi. Francesco, nel 1519, è solo re di Fran­cia e signore di Genova e del Milanese, titolo, quest'ultimo, che come abbiamo visto perde molto presto. CarloV, invece, una volta eletto imperatore regna sull'Austria e su parte della Germa­nia meridionale, sui Paesi Bassi e su parte della Franca Contea, sulla Spagna, la Sarde­gna, la Sicilia e su vasti e ricchi territori del nuovo mondo. Inoltre, grazie al fratello Fer­dinando, dal 1526 re di Boemia e d'Ungheria, esercita un indiretto controllo anche su questi paesi. A pieno diritto, dunque, viene considerato dai contemporanei il sovrano di un impero su cui non tramonta mai il sole. Ma proprio per questa vastità i suoi pos­sedimenti risultano refrattari a una salda autorità centrale.
Carlo infatti non è il sovrano solo di uno stato nazionale in via di formazione, ma an­che di una serie di paesi distanti fra loro e diversi per lingua, cultura, tradizioni, legati spesso, più che da un solido apparato amministrativo o da una comune civiltà, da vin­coli di fedeltà dinastica. Nei territori germanici dell'impero, le riforme amministrative del suo predecessore Massimiliano I non sono bastate a ovviare alla congenita fragilità del potere centrale, a trasformare la Germania in qualcosa di paragonabile a una mo­narchia nazionale sul modello francese, inglese, spagnolo. Anche se Carlo V si sforza di operare in tale direzione, i risultati da lui raggiunti sono limitati, al di fuori dell'ambito giuridico, in cui l'imperatore promuove efficacemente la diffusione del diritto romano. I successivi sviluppi politici e religiosi dell'intera area contribuiranno inoltre a rendervi ancora più precaria la sua posizione.
Un organismo politico ben più accentrato è invece la Spagna, dove tuttavia Carlo, su­bito dopo l'elezione al sacro romano impero, deve fronteggiare l'insorgere di tendenze autonomistiche. Fra il 1520 e il 1521 scoppia infatti nelle città della Castiglia la rivol­ta dei comuneros, cosi chiamati per il proposito di instaurare liberi comuni sul model­lo italiano. La rivolta riceve sulle prime l'appoggio della piccola e media nobiltà, desi­derosa di affermare la propria indipendenza dal sovrano; ma gioca a suo favore anche la benevola neutralità dei grandi del regno, dovuta soprattutto all'antagonismo con i funzionari borgognoni che Carlo si è portato al seguito dalla sua terra d'origine e cui tende ad affidare i compiti amministrativi più prestigiosi e importanti. Ben presto, però, i comuneros perdono questi appoggi per il prevalere nel loro seno di elementi più radicali, le cui richieste di trasformazione sociale spaventano la nobiltà. Non è difficile allora all'imperatore sconfiggere il movimento e al tempo stesso realiz­zare una solida e duratura alleanza con l'aristocrazia iberica. Da allora in poi la Spagna vedrà accrescere sempre di più il suo peso specifico all'interno della struttura impe­riale. I suoi aristocratici - insieme ai signori d'Italia e di Borgogna, alla nobiltà minore, ai giuristi e agli umanisti - forniranno a Carlo V i quadri della sua burocrazia, che tut­tavia non potrà mai esercitare su tutte le parti dell'impero lo stesso controllo esercita­to sui propri territori dalla monarchia francese.
Il regno di Francia, avviatosi sulla strada dell'accentramento sin dal tempo di Filippo il Bello, beneficia della più stretta subordinazione di tutti gli «ordini» della società e in particolare dell'aristocrazia. Un concordato stretto nel 1516 con il papato garantisce al monarca un saldo controllo sul clero nazionale; ma la sua forza è costituita soprattut­to da un apparato di funzionari di nomina regia e di estrazione in prevalenza borghe­se, che, sostituendo in molti casi i nobili nell'amministrazione dei territori e nell'eser­cizio della giustizia, garantiscono a Francesco I in diverse materie un'applicazione co­stante delle sue volontà. Ciò consente, tra l'altro, ai sovrani francesi di riscuotere re­golarmente la «taglia»: un'imposta istituita nel corso della guerra dei cent'anni e im­ponibile anche senza l'autorizzazione degli Stati Generali, che assicura alla monarchia un solido sostegno finanziario da parte di una nazione densamente popolata rispetto agli altri paesi europei e caratterizzata da un'economia florida specialmente nel setto­re agricolo. Ma anche la tendenza delle magistrature locali, sotto la spinta del potere centrale, a codificare il diritto consuetudinario in apposite raccolte, dette coutumes, contribuisce al consolidamento dei poteri dello stato e del prestigio degli uomini di legge, che in seguito costituiranno la nobiltà di toga.
Tale politica di contenimento dei particolarismi locali è agevolata dalla crisi economi­ca della nobiltà terriera, che vede in questo periodo diminuire le proprie rendite a fa­vore di una borghesia rurale molto abile nello sfruttare a proprio vantaggio le ten­denze inflazionistiche manifestatesi già intorno alla fine del Quattrocento. Mentre in­fatti l'aristocrazia di più alto rango vede declinare il suo potere dinanzi alla crescente forza della monarchia, la nobiltà minore, provata economicamente, trova sempre di più nel servizio del re la migliore via per accrescere le proprie fortune o almeno per po­ter continuare a vivere decorosamente. Accanto alla figura del ricco mercante che per nobilitarsi acquista una carica pubblica messa in vendita dalla corona - secondo un discutibile uso del tempo -' si registra cosi il fenomeno parallelo di una piccola nobiltà che tende sempre di più a legare le proprie fortune alle ripetute campagne militari dei sovrani, contribuendo alla formazione di uno degli elementi essenziali di uno stato moderno: un esercito su base permanente.
Anche in materia militare la monarchia d'oltralpe si può ritenere all'avanguardia. Sin dal 1445 la Francia di Carlo VII, impegnata nella guerra contro l'Inghilterra, aveva organizzato un esercito su base stabile, sostituendo alle precedenti indisci­plinate soldatesche «compagnie d'ordinanza» capitanate da un nobile e destinate a essere aggregate, sotto Francesco I, in una formazione tattica più complessa, chia­mata reggimento.
Nella penisola iberica il processo di formazione di forze armate permanenti è altret­tanto serrato, sotto la guida di Gonzalo Fernandez di Cordova, detto il «Gran Capita­no», che modernizza la fanteria spagnola, inquadrata in compatti reparti denominati tercios. Le truppe imperiali, però, vengono reclutate fra le più svariate nazionalità e rara­mente vengono impiegate nei loro luoghi d'origine; inoltre la vasta disponibilità di mezzi garantita dall'oro e dall'argento americani favorisce il ricorso a mercenari stra­nieri, che non vengono suddivisi fra le varie unità, ma continuano a operare in forma­zioni separate. Un esercito, dunque, scarsamente coeso: anche sotto questo punto di vista l'universalismo costituisce, insieme alla forza, un elemento di debolezza per l'impero.
Celebrato da letterati e da giuristi come l'unico organismo politico di respiro mondia­le, l'impero di Carlo V è del resto solo una delle tre monarchie che all'inizio del Cin­quecento manifestano in Europa ambizioni universalistiche. Accanto a esso il panora­ma politico del continente registra infatti l'impero moscovita e soprattutto l'impero ottomano.
Il primo, unificato da Ivan III il Grande, vincitore sulle orde tartare, e consolidato da Ivan IV il Terribile - che umilia l'aristocrazia feudale, i cosiddetti boian; a vantaggio di una «nobiltà di servizio» alle sue dirette dipendenze - non pone a Carlo V problemi immediati. A isolare la Russia dall'Occidente c'è il regno polacco, stato cuscinetto co­stituito da slavi più civilizzati. Molto più pericolosa è la pressione esercitata nei confronti del territorio imperiale da­gli ottomani. Questi, specie sotto la guida del sultano Solimano il Magnifico (1520-1566), sviluppano nella prima metà del Cinquecento un'offensiva contro la cristianità, dopo aver affermato la propria autorità dal Don e dal Danubio al Golfo di Aden, dal Ti­gri e dal Golfo Persico al Sahara e all'Atlante. La molla del loro istinto offensivo è co­stituita dalla tradizione islamica della «guerra santa». La loro organizzazione politica si presenta per tutto il primo cm­quantennio del secolo estremamente rigida, fondata com'è sul potere assoluto del sul­tano. Questi infatti dispone di un esercito e di un apparato amministrativo composti da propri schiavi personali, reclutati fra prigionieri o tra fanciulli cristiani, sottratti in tenera età alle famiglie. Carlo V deve subire la pressione ottomana su due fronti: nel Mediterraneo, infestato dai pirati turchi, e a oriente, dove le orde di Solimano occupano la maggior parte dell'Ungheria e nel 1529 assediano la stessa Vienna. Ma, data la somma delle sue forze, nulla gli impedirebbe di sostenere sino in fondo, insieme a questo duplice impegno per mare e per terra, anche lo scontro con Francesco I. Senonché, a provocare il falli­mento del suo tentativo sopraggiunge l'apertura di un nuovo fronte, questa volta nel cuore dell'Europa, con la nascita e il tempestoso sviluppo di un grande movimento di contestazione alla chiesa romana che, passato alla storia con il nome di Riforma pro­testante, mina alla base l'unità religiosa della cristianità. Sarà proprio questo il fattore decisivo per la sconfitta di Carlo V e del suo sogno di una monarchia universale.

 

Fonte: http://www.adripetra.com/DidatticaDispense/PrimoTr/Storia/Carlo%20V.doc

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