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SENECA ed il concetto di tempo
Lucio Anneo Seneca nacque a Corduba, capitale della provincia romana dell'Hispania Baetica, negli ultimi anni del I sec. a.C. (tradizionalmente il 4 a.C.); la gens Annaea era di rango equestre e il padre, Seneca il Retore, viene ricordato nella storia letteraria come autore di controversiae e suasoriae. Compí studi di retorica e filosofia a Roma: i suoi maestri lo orientarono ad un ideale ascetico, di progressiva conquista di una piena libertà spirituale; tra di essi gli fu particolarmente caro lo stoico Attalo, frequentemente ricordato nell'epistolario. Fin da giovane non dovette godere di buona salute, tanto che, terminati gli studi, si recò in Egitto per curare in un clima piú adatto un grave male da cui era affetto; sulla natura di questa malattia c'è ancora incertezza tra gli studiosi. Nel 31 d.C., all'indomani della caduta di Seiano, crudele prefetto del pretorio di Tiberio, tornò a Roma, deciso a dedicarsi alla carriera forense e ad intraprendere la strada della politica: nel 38, quando era imperatore Caligola, ottenne la questura, primo gradino del cursus honorum; in seguito ebbe accesso alla corte imperiale ed ottenne grandi successi grazie alle sue brillanti capacità oratorie, ma nel 39 - forse a causa di un discorso inopportuno pronunciato alla presenza del princeps - corse il rischio di essere condannato alla pena capitale. Nel 41, dopo la presa di potere di Claudio, fu coinvolto nei complessi intrighi di corte intessuti dall'imperatrice Messalina e relegato in Corsica, in seguito ad un'accusa di adulterio. Il forzato soggiorno in quella terra semideserta, senza la speranza di un immediato ritorno, lo avviò definitivamente alla riflessione filosofica: negli otto anni di permanenza in quell'isola selvaggia si avvicinò allo stoicismo, ma effettuò anche diversi tentativi per poter rientrare a Roma, tra i quali l'invio di un'adulatoria consolatio al potentissimo Polibio, liberto di Claudio, a cui era morto il fratello.
Soltanto dopo la condanna a morte di Messalina, implicata in una congiura contro il consorte, S. venne richiamato dall'esilio: la nuova imperatrice, Agrippina minore, vide in lui l'ideale precettore del figlio di primo letto Domizio, il futuro imperatore Nerone, che, adottato da Claudio, era destinato alla successione per ragioni di maggiore età rispetto a Britannico, figlio dello stesso Claudio e di Messalina. Impegnatosi a fondo nell’insegnamento, S. si illuse di poter educare il suo allievo ai valori dell'humanitas e della tolleranza, indicandogli la figura di Augusto come modello di equilibrio e rispetto delle tradizioni, e, nello stesso tempo, indirizzandolo alle arti, care al mondo ellenico, del canto, della musica, della ginnastica. Quando Nerone prese il potere, nel 54, a soli diciassette anni di età, S., pur mantenendosi in una posizione defilata, continuò ad influenzare positivamente il giovane princeps, ispirando alcuni atti significativi della sua politica, come i provvedimenti per migliorare la condizione degli schiavi e il progetto di riforma fiscale, e riuscendo nello stesso tempo ad equilibrare i rapporti tra l'imperatore e il Senato. Al termine di questo lungo periodo di serenità - il cosiddetto "quinquennio felice", dal 54 al 59 - la prepotente affermazione della personalità dello imperatore, deciso tra l'altro a ripudiare la moglie Ottavia per legarsi a Poppea Sabina, accentuò gravi contrasti con la madre, che, in concorrenza con lo stesso S. e con il prefetto del pretorio Afranio Burro, tentava di esercitare una decisa influenza sul giovane. Alle forti pressioni di Agrippina, che minacciava di promuovere la salita al trono del fratellastro Britannico, Nerone non esitò a rispondere con una reazione violentissima: dapprima fece uccidere il rivale, poi, a breve distanza di tempo, ordinò la morte della stessa madre; è difficile valutare quale sia stato l'atteggiamento di S. in questa vicenda: sembra comunque che non rimase estraneo all'organizzazione del matricidio o quantomeno - secondo lo storico Tacito - non fece nulla per impedirlo. Nel 62, dopo la morte di Burro, forse avvelenato, e di Ottavia, esiliata e poi uccisa per ordine dell'imperatore, S. decise di ritirarsi dalla vita politica; Nerone, sempre piú isolato, lo avrebbe voluto ancora al suo fianco, ma il suo antico precettore fu irremovibile, manifestando un forte desiderio di tornare alla meditazione filosofica e adducendo anche motivi di salute. In questo periodo egli si dedicò ad opere di grande impegno, spingendosi con ottimi risultati anche nel campo della poesia tragica.
Nel 65 venne scoperta la congiura antineroniana "dei Pisoni" (dal nome del suo principale promotore, il nobile Gaio Calpurnio Pisone); ad essa aderí Lucano, nipote del filosofo. Anche S. fu accusato di averla sostenuta; corse persino voce che alcuni dei congiurati avessero deciso di elevare al trono imperiale non Pisone, ma lo stesso S.. Inviatogli da Nerone l'ordine di uccidersi, lo accolse serenamente e morí alla maniera di Socrate, mentre conversava di filosofia con gli amici (aprile 65).
Il tempo nell'opera di Seneca
Seneca, che deriva la sua concezione sul tempo dagli stoici (rivalutazione del tempo nel suo dinamismo e nel suo perenne fluire), si sofferma a riflettere in numerosi passi delle sue opere sul concetto di tempo, senza però mai farne oggetto di una trattazione specifica. Il tempo assume in S. una connotazione prevalentemente etica : è il tempo vissuto nell'inquietudine di una ricerca esistenziale e nel timore che esso sfugga all'uomo troppo preso da occupazioni terrene e quindi incapace di farne buon uso.
La riflessione sul tempo, tema centrale nell'opera senecana, ruota essenzialmente attorno a due poli:
Non il tempo, ma il suo uso dipende da noi: a dispetto della sua precarietà, il tempo della nostra vita è l'unica dimensione attraverso la quale ci è dato assurgere alle verità filosofiche, raggiungere la perfezione della saggezza. Il sapiens, che avrà fatto buon uso del suo tempo, riuscirà ad elevarsi al di sopra della condizione mortale e a vivere, simile ad un dio, in un presente atemporale, privo di desideri, timori e speranze.
Fugacità del tempo
Il senso della fuga del tempo e della precarietà delle cose umane percorre tutta l'opera di S. ; a dargli espressione S. utilizza tre metafore; il tempo come un fiume che scorre inarrestabile (De brev. vit. 8,5" andrà il tempo della vita per la via intrapresa e non tornerà indietro né arresterà il suo corso; non farà rumore, non darà segno della sua velocità; scorrerà in silenzio; non si allungherà per editto di re o favore di popolo; correrà come è partito dal primo giorno, non farà mai fermate, mai soste") , il punto nel quale si risolve e si vanifica l'esistenza umana (Ep. ad Luc. 49,3 "è un punto quello che viviamo, e ancor meno di un punto"), l'abisso nel quale si perde ogni cosa (Ep. ad Luc. 49,3 "tutte le cose cadono nel medesimo abisso")
In S. il motivo della fuga "rapinosa" del tempo si tinge spesso dei toni di un'angosciosa consapevolezza, che guarda all'instabilità e alla precarietà delle sorti umane; la riflessione sul tempo che scorre si trasforma così, spesso, in una penosa riflessione sulla morte (Ep. ad Luc.99,9 " in tanta fluttuazione delle cose umane niente per alcuno è certo se non la morte"; De brev. vit.7,3" ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che ti stupirà di più, ci vuole una vita per imparare a morire").
Il Tempo nel De brevitate vitae e nelle Epistole ad Lucilium
Al tempo, al suo significato e al suo uso, S. dedica un intero dialogo, il De brevitate vitae, composto tra il 49 ed il 54d.C.; il dialogo sviluppa come tema centrale l'opposizione tra l'atteggiamento degli "occupati" che "scialacquano" il proprio tempo disperdendosi in occupazioni futili, ed il "sapiens", che, vivendo in aristocratica solitudine, dedica il proprio tempo alla sola conquista della saggezza.
La riflessione senecana sul tempo, che trova una sua prima, articolata espressione, nel De brev. vit. , si completa nell'epistolario. Se l'antidoto al fluire incessante del tempo è costituito dalla conquista di un'immortalità che "supera" il tempo, nel dialogo questa conquista si circonscrive ad una dimensione puramente intellettuale di "evasione" dal presente; il saggio è in grado di dominare col pensiero anche le età che lo hanno preceduto, in un'ideale comunione con i grandi spiriti del passato (De brev vit. 14,1" Soli fra tutti sono sfaccendati quelli che dedicano il loro tempo alla saggezza, solo essi vivono; né solo della loro vita sono attenti custodi: vi aggiungono ogni età; tutti gli anni alle loro spalle sono un loro acquisto. Se non siamo mostri di ingratitudine, quei fari di luce, fondatori di sacre dottrine, sono nati per noi, hanno predisposto la vita per noi..., non siamo esclusi da nessun secolo, a tutti abbiamo libero accesso, e, se vogliamo evadere dalle angustie della debolezza dello spirito, è molto il tempo per cui spaziare") .
Nelle Epistole l'ideale dell'atemporalità del saggio si concreta e si estende: il sapiens usa del tempo per uscire dal tempo, nella conquista di valori che del tempo non hanno più bisogno (101,8-9 " Chi ogni giorno dà alla sua vita l'ultima mano, non sente il bisogno del tempo; da questo bisogno nascono il timore, la brama del futuro che ci rode l'animo...Come riusciremo a sfuggire a tale agitazione? In un solo modo: se la nostra vita non si espanderà al di fuori, ma si concentra in se stessa; giacché è in balia del futuro colui per il quale il presente è vano. Ma quando non ho più alcun debito verso di me, e quando l'animo, ben saldo, sa che non c'è differenza fra un giorno e un secolo, esso guarda dall'alto tutti i giorni e gli eventi futuri e considera ridendo allegramente il succedersi del tempo"; 92,25 " Qual è la caratteristica della virtù? Essa non ha bisogno dell'avvenire e non fa il computo dei suoi giorni: in uno spazio di tempo quanto vuoi breve giunge al pieno possesso dei beni eterni") .
Seneca ed il "carpe diem" epicureo
La valorizzazione attenta di ogni attimo dell'esistenza è il mezzo attraverso il quale è possibile raggiungere la saggezza e superare la debole condizione umana (Ep. 101,10 "perciò affrettati, o mio Lucilio, a vivere, e considera ogni giorno una vita"). Il concetto del vivere pienamente in ogni istante della propria vita è, anche, ideale epicureo, e ricorre come si sa in Orazio, Odi I,11 vv7-8 "dum loquimur, fugerit invida/ aetas; carpe diem, quam minimum credula postero"; Odi III,29 vv41ss." Ho vissuto. Offenda pure domani Giove di nere nubi il cielo o brilli il sole, non potrà rendere vano il passato, né disperdere o mutare quello che mi ha dato l'ora fuggitiva".
Le analogie tra il concetto espresso da Orazio e quello espresso da Seneca tradiscono però una grande differenza di impianto: alla base del carpe diem epicureo c'è il concetto del vivere intensamente ogni attimo dell'esistenza, capitalizzandone gioie e piaceri, in un'ottica "distensiva" dello spirito. Nel concetto stoico del "vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo" si concretizza invece l'ideale di una pratica filosofica sempre tesa alla conquista della saggezza, in lotta con il tempo che scorre implacabile; un'ottica, quindi, che non mira alla distensione, quanto piuttosto alla tensione dello spirito. Padroneggiare il presente ed affrancarsi dal domani diventa in Seneca un invito al possesso integrale di se stessi, non solo e non tanto, quindi, un richiamo al carattere effimero dell'esistenza.
N.B.
Le sentenze ed i motti proverbiali che chiudono le lettere dei primi 3 libri costituiscono la componenente parenetica dell'epistolario senecano. (da parenesi, termine di derivazione greca dal verbo paraineo "esorto", che ha il significato di "esortazione", riconducibile a motivi o caratteri oratori)
Epistulae morales ad Lucilium I, 1-5
Il primo passo per riprendere il controllo di sé è il controllo del proprio tempo: la soluzione di questo problema è per Seneca il banco di prova e la condizione preliminare per un giusto avvio alla sapienza, cioè alla filosofia e alla vita impostata secondo principi filosofici. La lettera contiene la puntualizzazione di alcune nozioni importanti, come la iactura temporis, la perdita del tempo che avviene senza che ci accorgiamo di perderlo (parr. 1 e 2), o come l'osservazione che. nessuno pone un prezzo al tempo, considerandolo res vilissima, cosa di poco conto, mentre è il bene più prezioso che possediamo (par.3). Nei due paragrafi conclusivi (4 e 5) si hanno esortazioni al corretto uso e alla valutazione costante del proprio tempo
Nelle prime lettere a Lucilio, Seneca vuole evitare il tono trattatistico e richiamare piuttosto il carattere leggero e confidenziale della lettera, intesa come comunicazione personale. La novità, rispetto alla lettera tradizionale, non sta nel tono, che anzi rimane semplice e vicino alla sensibilità del destinatario, ma nei contenuti, che non sono le solite notizie personali e i fatti quotidiani delle lettere, ma argomenti filosofici, principi di vita, che devono avviare il destinatario all'interesse per la filosofia e alla riforma della propria esistenza.
Acceso è l'invito a distaccarsi dalle attività che sottraggono tempo, in corrispondenza con l'atteggiamento finale di Seneca nei confronti della vita pubblica, che ormai, in questa fase, egli vede compromessa e a lui preclusa dall'atteggiamento tirannico e dai crimini di Nerone.
Da un punto di vista stilistico è da rilevare anzitutto il tono, rassicurante e quasi affettuoso, di amico coinvolto nella vicenda spirituale di un amico: Ita fac, mi Lucili.. (par. 1) e ancora Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis... (par. 2). Altro aspetto significativo è l'uso di modelli analogici, che rendono visibile l'astrazione del pensiero, come il ricorso all'immagine del tempo-denaro (par. 1 e più esplicitamente par. 4). Proprio questa necessità di fornire una sapienza subito accostabile e fruibile da parte del destinatario spinge Seneca a fare ricorso anche più del consueto alle sententiae che concentrano in poche, dense parole importanti principi filosofici, come dum differtur, vita transcurrit e omnia aliena sunt, tempus tantum nostrum est.
Sequenze
1 Occorre salvare il tempo che ci viene sottratto in vari modi
“Fa’ così, o mio Lucilio, rivendica il possesso di te stesso, e il tempo che finora o ti veniva portato via, o ti veniva sottratto, o ti sfuggiva, raccoglilo e custodiscilo. Convinciti che è così come scrivo: certi spazi di tempo ci sono portati via, altri ci sono sottratti di nascosto, certi scorrono via. Tuttavia la più vergognosa di tutte è la perdita di tempo che avviene per negligenza . E se vuoi badare, gran parte della vita sfugge nel fare il male, una grandissima parte nel non far nulla, tutta la vita a fare altro.
2 Occorre valutare il presente per non essere dipendenti dal futuro
Chi mi indicherai che determini un prezzo per il tempo, che dia un valore al giorno, che si renda conto di morire ogni giorno? In questo ci sbagliamo, che guardiamo la morte avanti a noi: invece gran parte di lei è già alle nostre spalle. Tutto il tempo dietro a noi, lo tiene in pugno la morte. Fa’ dunque, o mio Lucilio, quello che mi scrivi di fare già, abbraccia tutte le tue ore, avverrà così che tu dipenda meno dal domani , se allungherai la mano sull’oggi.
3 Il tempo è l’unico nostro bene e va difeso e custodito
Mentre si rincorre, la vita se ne va. Tutto appartiene ad altri, solo il tempo è una cosa nostra; la natura ci ha immesso nel possesso di un solo bene, fugace e sfuggente, dal quale ci caccia chiunque lo voglia.. E tanta è la stoltezza dei mortali che si riconoscono debitori (imputari sibi patiantur), una volta ottenutale (cum inpetravere), di cose che sono di scarsissima importanza e di scarsissimo valore e sicuramente recuperabili; nessuno invece, che abbia ricevuto del tempo, , ritiene di essere debitore di alcunché, mentre è questa l’unica cosa che neppure una persona grata può restituire.
4 Il tempo, come fosse denaro, va sempre tenuto controllato
Chiederai forse che cosa faccio io, che ti do questi consigli. Te lo dirò schiettamente: : quello che capita a chi spende molto (luxuriosum) ma che è sempre attento (diligentem), ho sempre il controllo della spesa. Non posso dire di non sprecare nulla, ma posso dire che cosa spendo, quanto e come, posso dire le cause della mia indigenza. Ma a me capita quello che capita a coloro che si sono ridotti in miseria non per colpa loro: tutti dimostrano comprensione, ma nessuno dà loro una mano.
5 Conclusione della lettera e riepilogo del contenuto dottrinale in forma di sentenza
Quale è dunque la conclusione? Non ritengo povero colui il quale, per quanto poco gli resti, ne ha abbastanza; quanto a te, tuttavia, preferisco che tu tenga da conto le tue cose, e comincerai al momento giusto. Infatti, come è sembrato ai nostri antichi, “è troppo tardi risparmiare quando si è al fondo” . Al fondo non resta solo la parte più piccola, ma anche la peggiore. Addio”
Seneca Lucilio suo salutem
2 Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas conplectere*; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. Dum differtur vita transcurrit.
3 Omnia Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, inputari sibi cum inpetravere* patiantur, nemo se iudicet quicquarn debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere.
4 Interrogabis fortasse quid ego faciam qui tibi ista praecipio. Fatebor ingenue quod apud luxuriosum sed diligentem evenit, ratio mihi constat inpensae. Non possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed evenit mihi quod plerisque non suo vitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, nemo succurrit. 5 Quid ergo est? Non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serves tua, et bono tempore incipies. Nam ut visum est maioribus nostris , "sera parsimonia in fundo est" , non enim tantum minimum sed pessimum remanet. Vale. * complectere imperativo presente, 2' sing di complector (qui nella forma conplector) *inpetravere: perfetto indicativo, 3' pl di impetro (qui inpetro) |
Seneca saluta il suo Lucilio |
Epistulae morales ad Lucilium 7, 6-9 (traduzione libera)
7…..Subducendus populo est tener animus et parum tenax recti: facile transitur ad plures. Socrati et Catoni et Laelio excutere morem suum dissimilis multitudo potuisset: adeo nemo nostrum, qui cum maxime concinnamus ingenium, ferre impetum vitiorum tam magno comitatu venientium potest. Unum exemplum luxuriae aut avaritiae multum mali facit: convictor delicatus paulatim enervat et mollit, vicinus dives cupiditatem irritat, malignus comes quamvis candido et simplici rubiginem suam affricuit: quid tu accidere his moribus credis in quos publice factus est impetus? Necesse est aut imiteris aut oderis. Utrumque autem devitandum est: neve similis malis fias, quia multi sunt, neve inimicus multis, quia dissimiles sunt. Recede in te ipse quantum potes; cum his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum docent discunt. Non est quod te gloria publicandi ingenii producat in medium, ut recitare istis velis aut disputare; quod facere te vellem, si haberes isti populo idoneam mercem: nemo est qui intellegere te possit. Aliquis fortasse, unus aut alter incidet, et hic ipse formandus tibi erit instituendusque ad intellectum tui. 'Cui ergo ista didici?' Non est quod timeas ne operam perdideris, si tibi didicisti.
Sed ne soli mihi hodie didicerim, communicabo tecum quae occurrunt mihi egregie dicta circa eundem fere sensum tria, ex quibus unum haec epistula in debitum solvet, duo in antecessum accipe. Democritus ait, 'unus mihi pro populo est, et populus pro uno'. Bene et ille, quisquis fuit - ambigitur enim de auctore -, cum quaereretur ab illo quo tanta diligentia artis spectaret ad paucissimos perventurae, 'satis sunt' inquit 'mihi pauci, satis est unus, satis est nullus'. Egregie hoc tertium Epicurus, cum uni ex consortibus studiorum suorum scriberet: 'haec' inquit 'ego non multis, sed tibi; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus'. Ista, mi Lucili, condenda in animum sunt, ut contemnas voluptatem ex plurium assensione venientem. Multi te laudant: ecquid habes cur placeas tibi, si is es quem intellegant multi ? introrsus bona tua spectent. Vale.
Seneca saluta il suo Lucilio. (questa parte manca nel testo latino, fino al par. 7)
Tu vuoi sapere che cosa ritengo si debba principalmente evitare? La folla. Non la puoi ancora frequentare senza pericolo. Io almeno confesserò la mia debolezza: riporto a casa quei costumi che ho portato fuori. Quel poco che avevo messo in ordine viene turbate, ritorna qualcuno dei vizi che avevo cacciato. Ciò che succede agli ammalati che una lunga infermità ha afflitto a tal punto che non possono uscire senza danno, questo stesso succede pure a noi: anche i nostri animi stanno rimettendosi da una lunga malattia. La dimestichezza con la folla è nociva: ognuno o ci raccomanda un vizio o ce lo trasmette o ci unge senza che noi ce ne accorgiamo. Ed il pericolo è tanto più grande quanto più grande è la folla nella quale ci confondiamo. In verità che cosa può esserci di più dannoso ala virtù che poltrire assistendo ad uno spettacolo? Infatti allora i vizi, favoriti dal piacere più facilmente si insidiano nell'animo. Che cosa pensi che io dica? Ritorno a casa non solo più avido di beni materiali, ma anche più crudele più inumano perché sono stato tra gli uomini. Per caso capitai in uno spettacolo meridiano aspettandomi giochi e facezie e qualcosa di riposante con cui gli occhi degli uomini si possono riposare dalla vista del sangue umano. È tutto il contrario: i combattimenti precedenti erano opera di misericordia; ora lasciate da parte le bazzecole, avvengono veri e propri omicidi. I gladiatori non hanno nulla con cui proteggersi. Esposti ai colpi in tutto il corpo, mai spingono avanti invano la mano armata. Questo genere di lotta i più lo preferiscono alle coppie di gladiatori ordinarie e straordinarie. E perché non dovrebbero preferirli? La spada non può essere respinta con l'elmo, con lo scudo. A che cosa servono le difese? A cosa servono le schermaglie? Tutte queste cose sono indugi alla morte. Al mattino gli uomini sono gettati ai leoni e agli orsi, a mezzogiorno ai loro spettatori. Gli spettatori ordinano che gli uccisori siano gettati in pasto a quelli che gli uccideranno e riservano il vincitore per un'altra strage: il risultato dai combattimenti è la morte: si combatte col ferro e col fuoco. Queste cose accadono mentre l'arena è vuota! "Ma qualcuno ha commesso un furto ed ucciso un uomo". E allora? Quello perché ha ucciso ha meritato di subire ciò e tu sciagurato che pena hai meritato per guardare questo? "Uccidilo, colpiscilo, brucialo! Ma perché va in contro alla spada con tanto timore? Perché uccide con poca audacia, perché muore poco volentieri. Lo si spinga con le botte in contro alle ferite: ricevano colpi reciproci con i petti nudi e posti l'uno di fronte all'altro". Lo spettacolo è sospeso: "Nel frattempo si sgozzino altri uomini affinché non si stia a far niente". Suvvia non comprendete che i cattivi esempi ricadano sopra quelli che li fanno. Ringraziate gli dei immortali perché insegnate ad essere crudele a colui che non può imparare (si riferisce a Nerone).
7 Va tenuto lontano dalla folla l'animo debole e poco saldo nel bene: è facile passare dalla parte dei più (maggioranza). Una massa dissimile avrebbe potuto strappare i costumi (principi) persino a Socrate, Catone, Lelio; nessuno di noi, nel momento in cui cerchiamo di accordare il nostro spirito (soprattutto quando il nostro carattere è in formazione), può resistere alla pressione dei vizi che arrivano con grande seguito. Un solo esempio di mollezza o di avarizia fa molto male (produce gravi danni): un commensale dedito ai piaceri a poco a poco ci rende fiacchi e molli, un vicino ricco incita il desiderio (scatena la tua avidità), un compagno malvagio, per quanto candido e semplice attacca la sua ruggine (contamina anche un uomo semplice e puro): che cosa pensi che succeda a quei caratteri contro i quali fa impeto tutta una folla? E' necessario che o li imiti o li odi. Ma sono da evitare l'uno e l'altro (estremo): non devi assimilarti ai malvagi, perché sono molti, né essere nemico di molti, perché sono dissimili. Ritirati in te stesso per quanto puoi; frequenta le persone che possono renderti migliore e accogli quelli che puoi rendere migliori. Il vantaggio è reciproco perché mentre gli uomini insegnano, imparano. Non c'è ragione per cui il desiderio di gloria debba spingerti a esibire a tutti il tuo ingegno in mezzo alla folla, con la voglia di tenere pubbliche letture o di dissertare; ti consiglierei di agire così, se tu avessi merce adatta alla massa, ma non c'è nessuno in grado di capirti. Forse qualcuno, uno o due capiranno, e tu dovrai formarlo ed educarlo perché ti possa capire. "Ma allora, per chi ho imparato tutto questo?" Non è il caso che tu tema di aver perso il tuo tempo, se hai imparato per te.
Ma per evitare di aver imparato solo per me oggi, ti scriverò tre belle massime che mi è capitato di leggere all'incirca sullo stesso argomento: di queste una salda il mio debito per questa lettera, le altre due prendile come anticipo. Scrive Democrito: "Secondo me, una sola persona vale quanto tutto il popolo e il popolo quanto una sola persona." Dice bene anche quell'altro, chiunque sia stato (è incerto, infatti, di chi si tratti); gli chiedevano perché si applicasse con tanto impegno a una materia che pochissimi avrebbero compreso, rispose: "A me bastano poche persone, anzi anche una sola o addirittura nessuna." Eccellente anche questa terza affermazione, di Epicuro; in una sua lettera a un compagno di studi: "Io parlo non per molti, ma per te;" scrive, "noi siamo l'uno per l'altro un teatro sufficientemente grande." Devi, caro Lucilio, serbare in te queste massime, per disprezzare il piacere che deriva dal consenso generale. Molti ti lodano; ma perché dovresti rallegrarti se sono in tanti a capirti? I tuoi meriti ricerchino l'approvazione della tua coscienza. Stammi bene.
Contestualizzazione
La civiltà sta cambiando, ma per il momento solo Seneca va contro questa pratica degli spettacoli; però è più una forma di disgusto che di protesta. Infatti lui è il saggio aristocratico che odia il volgo, è presente una aristocratica superiorità. Si ritira a meditare su se stesso, le illusioni sono venute meno (frase su Nerone) si ritira dalla vita attiva, richiesta di interiorità che emerge. Seneca sviluppa il tema della necessità di sottrarsi all'influsso della massa in un discorso che culmina nel celebre "recede in te ipse". Era un tema della predicazione morale quello di mettere in guardia dall'amalgamarsi con gente di basso e scarso valore. Seneca specifica chi deve essere tenuto lontano dalla folla"un animo tenero e nn ancora ben radicato nel bene". Questo ci dice che l'opera di perfezionamento individuale riguarda la fase di spinta verticale. L'atteggiamento di Seneca non fa distinzione sociale tra umili e potenti, il popolo da cui star lontano è quello delle persone inguaribili dai loro mali.
I temi: il corpo dell'argomentazione è legato all'inutilità di avere rapporti che sono peraltro pericolosi con gente con la quale ne si ha ne si puo avere in comune.
Lo stile: l'aspetto più interessante è la scelta linguistica. Seneca non scegli il vocabolo che suona meglio ma quello che colpisce per la sua carica metaforica ed evocativa.
Epistulae morales ad Lucilium, 101 (4-7) (traduzione libera)
Come è insensato disporre della propria vita, se non siamo padroni neppure del domani! Come sono pazzi quelli che danno il via a progetti lontani nell'avvenire: comprerò, costruirò, darò denaro in prestito, ne riscuoterò, ricoprirò cariche, e alla fine passerò in ozio, stanco e soddisfatto, la vecchiaia. 5 Credimi: tutto è incerto, anche per gli uomini fortunati; nessuno deve ripromettersi niente per il futuro; anche quello che abbiamo fra le mani ci sfugge e il caso tronca l'ora stessa che stringiamo. Il tempo passa secondo una legge determinata, ma a noi sconosciuta: e che mi importa se per la natura è certo quello che per me è incerto? 6 Ci proponiamo lunghi viaggi per mare e un ritorno in patria lontano nel tempo, dopo aver vagato per lidi stranieri; imprese militari e tardive ricompense di fatiche guerresche, amministrazioni di province e avanzamenti di carriera, di carica in carica, mentre la morte ci sta accanto; e poiché non ci pensiamo mai, se non quando tocca agli altri, di tanto in tanto ci vengono messi davanti esempi della nostra mortalità, che, però, durano in noi solo quanto il nostro stupore. 7 Ma niente è più sciocco che stupirsi che accada un giorno quanto può accadere ogni giorno. Il termine della nostra vita sta dove l'ha fissato l'inesorabile ineluttabilità del destino; ma nessuno di noi sa quanto si trovi vicino alla fine; disponiamo, perciò la nostra anima come se fossimo arrivati al momento estremo. Non rinviamo niente; chiudiamo ogni giorno il bilancio con la vita.
Epistulae morales ad Lucilium, 101 (7-10) (traduzione libera)
Nihil differamus; cotidie cum vita paria faciamus. [8] Maximumvitae vitium est quod inperfecta semper est, quod [in] aliquid ex illadiffertur. Qui cotidie vitae suae summam manum inposuit non indiget tempore;ex hac autem indigentia timor nascitur et cupiditas futuri exedens animum. Nihil est miserius dubitatione venientium quorsus evadant; quantum sitillud quod restat aut quale sollicita mens inexplicabili formidine agitatur. [9] Quo modo effugiemus hanc volutationem? Uno: si vita nostra non prominebit, si in se colligitur; ille enim ex futuro suspenditur cui inritum est praesens. Ubi vero quidquid mihi debui redditum est, ubi stabilita mens scit nihilinteresse inter diem et saeculum, quidquid deinceps dierum rerumque venturumest ex alto prospicit et cum multo risu seriem temporum cogitat. Quid enimvarietas mobilitasque casuum perturbabit, si certus sis adversus incerta? [10] Ideo propera, Lucili mi, vivere, et singulos dies singulas vitas puta. Qui hoc modo se aptavit, cui vita sua cotidie fuit tota, securus est……
Non rinviamo niente; chiudiamo ogni giorno il bilancio con la vita. 8 Il difetto maggiore dell'esistenza è di essere sempre incompiuta e che sempre se ne rimanda una parte. Chi dà ogni giorno l'ultima mano alla sua vita, non ha bisogno di tempo; da questo bisogno nascono la paura e la brama del futuro che rode l'anima. Non c'è niente di più triste che chiedersi quale esito avranno gli eventi futuri; se uno si preoccupa di quanto gli resta da vivere o di come, è agitato da una paura inguaribile. 9 Come sfuggire a questa inquietudine? In un solo modo: la nostra vita non deve protendersi all'avvenire, deve raccogliersi in se stessa; chi non è in grado di vivere il presente, è in balia del futuro. Ma quando ho pagato il debito che avevo con me stesso, quando ho ben chiaro in testa che non c'è differenza tra un giorno e un secolo, posso guardare con distacco il susseguirsi dei giorni e degli eventi futuri e pensare sorridendo al succedersi degli anni. Se uno è saldo di fronte all'incerto, non può turbarlo la varietà e l'incostanza dei casi della vita. 10 Affrettati, perciò a vivere, Lucilio mio, e i singoli giorni siano per te una vita. Chi si forma così e ogni giorno vive compiutamente la sua vita, è tranquillo…
Fonte: http://digilander.libero.it/leo.eli/classe%20V_MATERIALI/MATERIALI_LATINO/AUTORI/01_SENECA_tempo_Testi_con_libera_traduzione.doc
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