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LA SARDEGNA MEGALITICA.
13-17.04.2006 - 7:15 - Viaggio organizzato da PALLADIO (Arch. G. Ametrano).
La Sardegna è la seconda isola del Mediterraneo dopo la Sicilia con una superficie di 24000 kmq ed ha il fascino di una storia antica e misteriosa, della selvaggia bellezza della sua terra all’interno, con le sue pianure e le coste in genere alte e rocciose, ma con ampie insenature contornate da isolette e spiagge bellissime. L’isola è antichissima perché le sue rocce rimontano al Paleozoico antico, 300 milioni di anni fa, ed i suoi rilievi hanno già subito l’azione erosiva del tempo ma hanno mantenuto spesso forme aspre e tormentate fatte di graniti messi a nudo e basalti estrusi. La sua cima più alta, nel massiccio del Gennargentu al centro dell’isola, è di 1834 m. Alla sua storia geologica si deve il fatto di essere la regione italiana più ricca di giacimenti metalliferi; i più importanti sono quelli di piombo, zinco ed argento dell’Iglesiente, noti e sfruttati nell’antichità. Alla fine del 1800 furono aperte molte miniere e dal 1938 vennero sfruttati i ricchi giacimenti di carbone nel Sulcis con la costruzione della città di Carbonia. Ormai però le miniere sono tutte chiuse.
Fra i molteplici aspetti naturalistici, storici ed artistici che offre la Sardegna, uno in particolare è stato scelto come tema del presente viaggio: un itinerario nel passato più remoto dell’isola alla scoperta di resti megalitici e dell’architettura nuragica, espressione di una civiltà preistorica originale e caratteristica della Sardegna.
Le prime tracce della presenza umana in Sardegna risalgono al Paleolitico inferiore, 250000 anni fa, e forse l’uomo vi giunse a piedi dalla Toscana, l‘Elba e la Corsica, ma i gruppi che arrivarono a più riprese da 12000 anni a.C. (fine del Paleolitico superiore) venivano dal mare e quindi conoscevano già i rudimenti della navigazione. L’effettivo popolamento iniziò sempre dal mare con il Neolitico, 6000 anni a.C. proveniente dall’Italia e dal vicino oriente, ed introdusse l’agricoltura, l’allevamento e le prime ceramiche. Dalla Sardegna iniziò il commercio dell’ossidiana, il vetro vulcanico nero dell’oristanese, molto richiesto per raschiatoi, coltelli e punte di frecce. Le varie fasi del Neolitico fino al 2700 a.C. (fine del recente) sono caratterizzate dai diversi stili di ceramica che il commercio diffondeva nel bacino del Mediterraneo e che permettono quindi una datazione di confronto con altre civiltà. Dal 3500 al 2700 a.C. si diffonde in tutta l’isola la Cultura di Ozieri (Sassari) con insediamenti all’aperto nelle pianure e nelle zone costiere degli approdi caratterizzata da affreschi in ocra rossa e ceramiche ricche di decorazioni. Si tratta di una civiltà prenuragica che sviluppa un’architettura funeraria ipogea con le “domus de janas” o “case delle fate” scavate nella roccia e rappresentazioni di simboli religiosi come teste e corna di toro, divinità maschile, e statuette della Dea Madre, divinità femminile. Questo è anche il periodo del megalitismo con i dolmen, camere funerarie coperte da lastre di pietra, e menhir, steli di pietra con significato di dedica. L’Età del Rame, o Calcolitico dal 2900 al 2000 a.C., sconvolge gli equilibri economici per l’uso del nuovo materiale metallifero; le camere funerarie assumono la forma di corridoi ipogei-megalitici ricoperte da lastre di pietra secondo la tecnica dolmenica e c’è un esempio di altare sacro a terrazza con rampa di accesso come negli ziggurat mesopotamici, unico nel Mediterraneo ed in Europa. Nell’Età del Bronzo, dal 1800 al 900 a.C., le sepolture si evolvono in camere allungate (allée couverte o tombe a galleria) e nel 1600 a.C. inizia la civiltà nuragica; le tombe assumono la forma delle Tombe di Giganti, ulteriore evoluzione delle allée couverte precedute da esedre semicircolari formate da lastre megalitiche infisse a coltello. Inizia la costruzione dei primi nuraghi durante la cultura di Bonnanaro, inizialmente monotorri, in pietre a secco, di forma massiccia con grandi masse murarie e spazi angusti all’interno, corridoi e nicchie, poi sempre più regolari di forma leggermente tronco conica, camera interna e copertura a tholos, cioè con anelli di pietre in aggetto verso l’interno in modo da ridurre il diametro con l’altezza fino a chiudere con un tappo la falsa cupola che non ha quindi una chiave di volta da cui dipende la sua stabilità. Il terrazzo creato in alto era praticabile con una scala elicoidale ricavata nello spessore della muratura. Le torri raggiunsero l’altezza di tre piani con tre volte a tholos e si aggiunsero torri secondarie formando strutture complesse con bastioni e cortili interni. Si aggiunsero infine cinte murarie esterne, o antemurali, con altre torri come linea di difesa avanzata. Si trattava quindi di edifici di carattere civile e militare, mentre le torri singole avevano funzioni di guardia e di avvistamento o forse di santuario. Come fortezze isolate, a volte erano disposte a creare una rete di protezione di un territorio dove si trovavano i villaggi agricoli, oppure si trattava di complessi nuragici abitati da capi clan egemoni circondati da un abitato di capanne dove viveva la comunità rurale. I nuraghi censiti in Sardegna sono 7-8000, moltissimi ridotti a cumuli di pietre.
La società nuragica è una società preistorica che non ha lasciato testimonianze scritte e ciò che sappiamo di essa proviene dall’interpretazione di dati archeologici dei reperti dei villaggi e delle tombe. Si deduce che fosse strutturata in tribù in origine familiari, poi guidate da capi elettivi, diventati in seguito ereditari. Le credenze religiose dei nuragici erano legate al culto dei morti ed al mondo degli inferi sacro al dio Toro, ma luoghi sacri erano anche i pozzi e le fonti perenni per il valore che rappresentavano per la sopravvivenza della comunità e come dono della Dea Madre Terra di origine prenuragica. I numerosi bronzetti nuragici trovati nei santuari documentano gli ex-voto dei fedeli e si riferiscono a guarigione di malattie o a propiziare l’aiuto per attività di interesse vitale. Sono stati individuati poi edifici destinati a templi di forma rettangolari con ambienti interni e prolungamento dei muri laterali in avanti (in antis o a megaron), capanne dedicate a riunioni comunitarie con sedili di pietra addossati alle pareti e spesso un simbolo sacro al centro che rappresentava la casa del dio (betilo). I villaggi si presentano come un insieme di capanne raggruppate spesso intorno a cortili con urbanizzazione confusa e stradine tortuose. Le capanne per abitazione erano circolari, quelle per gli animali e gli attrezzi, rettangolari. Si sono trovate macine per il grano, focolari, forni, vasche per l’acqua, laboratori per la lavorazione di metalli con stampi per i bronzetti. Le capanne hanno le mura perimetrali alte fino a 2 m e sopra veniva alzata una palizzata con la copertura conica in frasche; le capanne ed i templi rettangolari avevano la copertura a spiovente.
PROVINCIA DI SASSARI: DA ALGHERO A CASTELSARDO
L’itinerario inizia il mattino del 13 aprile con l’arrivo all’aeroporto di Alghero, provincia di Sassari. Il primo sito visitato è il Villaggio nuragico di Palmavera, non lontano dall’aeroporto che trae il nome da quello di una vicina collina. Si tratta di un complesso nuragico recuperato dal 1904 e valorizzato negli anni ’60 ed ’80; è costituito da un mastio originario affiancato successivamente da un bastione con una torre secondaria e circondato da un antemurale pentagonale con agli spigoli delle torri-capanne. Intorno si trova un villaggio di una cinquantina di capanne che in passato era però più esteso, valutato a 200 capanne. Le unità abitative sono di forma circolare per 3-4 persone, quelle per gli animali e per gli attrezzi quadrate o rettangolari, tangenti fra di loro e raggruppati in modo irregolare e con una serie di stradine. Il materiale usato è calcare e arenaria. La capanna più grande, con diametro interno di circa 9 m, è inserita in uno del spigoli dell’antemurale e, per la disposizione interna, è stata denominata Capanna delle Riunioni. L’interno, ricostruito dagli archeologi, presenta infatti un sedile in pietra lungo la parete interrotto da una vasca per l’acqua e vicino un seggio tronetto di forma cilindrica, certo destinato al capo. Al centro è una base circolare formata da 8 conci trapezoidali ed una pietra troncoconica a forma di torre, simbolo sacro che simboleggiava la casa del dio (betilo) e che richiama la forma di un nuraghe. Si trattava quindi di un ambiente dove si tenevano le riunioni ed i riti della comunità.
L’ingresso del nuraghe con architrave è praticato a sud fra le due torri ed introduce in un corridoio fra due nicchie con funzioni difensive che porta ad un cortile a cielo aperto fra le due torri: il mastio a sinistra e la torre secondaria a destra. Il mastio ha oggi un’altezza di 8 m, una camera interna circolare con cupola a tholos alta 7 m; il materiale è pietra calcarea appena sbozzata ed è la parte più antica che risale al 1500 a.C.. C’è una scala realizzata nello spessore della muratura per raggiungere il piano superiore scomparso, ma l’accesso era a 3 m dal suolo e si doveva raggiungere con una scala di legno. Alla seconda torre si accede dal cortile attraverso un corridoio a sezione trapezoidale ed ha una camera circolare con 4 feritoie ed una volta a tholos crollata. Questa torre è stata costruita in blocchi di arenaria regolari in epoca successiva ed è stata restaurata nel secolo VIII con blocchi di calcare più resistente. Lo stesso si può dire per il bastione che collega le due torri ed include il cortile; nel suo spessore si apre un altro corridoio con nicchioni laterali che collega il cortile ad un ingresso secondario orientato a sud-est. Il complesso è stato usato fino alla fine dell’VIII secolo a.C. quando fu abbandonato dopo un violento incendio.
Dagli scavi si sono raccolti un gran numero di oggetti di ceramica, bronzo e di pietra lavorata e residui biologici di animali e vegetali che ci danno informazioni sulla vita quotidiana degli abitanti.
Il secondo sito visitato è il Santuario di Monte d’Accoddi, molto più antico perché di epoca prenuragica, e si trova più a nord, nelle vicinanze di Porto Torres e del golfo dell’Asinara. Fu scoperto nel 1952 dopo che l’area era stata manomessa perché usata per scopi miliari durante l’ultima guerra del 1940-45. Era in origine una struttura megalitica a forma di piramide tronco-conica di 36x29 m di base con un’altezza di circa 9 m ed una rampa di accesso inclinata. La sua struttura richiama gli altari a terrazza dell’oriente mesopotamico, detti ziggurat, ed è unico nel Mediterraneo ed in Europa. Gli scavi hanno ricostruito la storia del sito. Esisteva già un villaggio neolitico di capanne circolari nel 4200 a.C. ed un’area sacra con menhir nel 3500 a.C.; un primo altare a terrazza più piccolo fu eretto nel 3300 a.C. con un tempio sulla sommità che fu distrutto successivamente da un incendio. In questa prima fase del neolitico recente sorse anche un secondo villaggio i cui resti si trovano su un lato; vi sono stati trovati resti di ossa bovine e punte di frecce. Nel 2800 a.C. l’altare ed il santuario fu ricostruito più grande (seconda fase) e l’attuale ricostruzione riproduce questo monumento. Il luogo fu abbandonato intorno al 1800 a.C.. Nel restauro sono stati recuperati e risollevati i menhir trovati abbattuti ed altri reperti megalitici tra cui una tavola-altare di pietra calcarea con fori per legare gli animali sacrificali ed incavi dove scorreva il sangue e due massi sferoidali, uno grande ed uno piccolo, rispettivamente simbolo solare e lunare, trovati nelle vicinanze e trasferiti qui. Il menhir più grande, rialzato a sinistra della rampa, è in calcare, alto 4,7 m a sezione quadrata e nella cultura di Ozieri della civiltà dei menhir era il simbolo del dio Toro, divinità maschile. I menhir a sezione rotonda, molto più comuni, erano invece usati come steli funerarie di guerrieri.
Seguendo verso est il profilo del golfo dell’Asinara, nei pressi di Castelsardo e lungo la statale 134, vicino all’incrocio per Valledoria, si incontra la Tomba dell’Elefante, una strana roccia trachitica erosa dagli agenti atmosferici che ha assunto la forma di un elefante. Alla sua base sono state scavate due tombe ipogee, quella più in alto è molto rovinata, quella in basso ha tre ambienti e nel primo vi sono scolpite delle protomi bovine con corna a semiluna. Si tratta di caratteristiche tombe a grotticelle artificiali della cultura di Ozieri del neolitico recente (3500-2700 a.C.) dette “domus de janas” o “case delle fate”
LA GALLURA ED OLBIA: TOMBE DI GIGANTI ED ALTRE NECROPOLI
Il giorno 14, partendo da Olbia, centro principale della Gallura, divenuta recentemente capitale di provincia, ci si spinge a nord in Gallura, nel territorio di Arzachena, e si incontrano alcune delle più interessanti Tombe di Giganti, tombe collettive il cui nome deriva solo dalle loro grandiosità, destinate probabilmente a tutti i membri del villaggio con una tipologia affermatasi in epoca nuragica dal 1600 al 1200 a.C. durante la cultura di Bonnanaro come evoluzione delle più antiche allée couverte, tombe a corridoio lunghe fino a 10 m di tipo dolmenico, cioè con lastre verticali coperte da altre lastre orizzontali. Nella nuova tipologia nuragica la tomba veniva preceduta da un’esedra con una grande stele centrale che costituiva la porta per gli inferi e, simmetricamente, altre lastre di pietra infisse a coltello a formare un semicerchio che delimitava un’area sacra davanti alla tomba per i riti e le offerte. L’esedra rappresentava le corona di un toro, divinità dei morti ed il suo orientamento era verso est. La stele centrale aveva in basso un’apertura rettangolare, come una porticina che aveva solo significato simbolico perché i corpi dei defunti venivano introdotti nella tomba spostando le lastre superiori del dolmen. Il tutto doveva essere poi ricoperto da un tumulo.
La prima di queste tombe è la Tomba di Giganti di Coddu Vecchiu (Collina Vecchia) perfettamente restaurata con i pezzi originali. La stele centrale è alta 4,4 m, larga 1,9 fatta in due pezzi sovrapposti ambedue con bordo in rilievo. Dietro si trova la camera sepolcrale lunga 10,5 m che è la parte più antica, del 1800 a.C., mentre l’esedra fu aggiunta nel 1500.
La seconda tomba visitata si trova un po’ più a nord ed è la Tomba di Giganti di Li Lolghi di dimensioni maggiori con corridoio di sepoltura di 27 m ed una stele centrale monolitica di granito alta 3,75 m, larga 2,45 m e spessa 20 cm. La tomba è il risultato di più fasi costruttive, dal bronzo antico, inizio del secondo millennio a.C., all’età nuragica. Gli scavi sono stati effettuati negli anni ’60.
Si torna indietro nel tempo al Neolitico recente (3500-2700 a.C.) visitando la Necropoli a circoli di Li Muri, poco a nord di Li Lolghi, con una tipologia caratteristica della cultura gallurese di questo periodo. Le tombe si trovano all’interno di circoli di pietre che delimitano l’area sacra e che venivano ricoperte poi da un tumulo; la necropoli si presentava quindi come un insieme di collinette. Le tombe all’interno sono costituite da una cista, cioè da una cassetta formata da lastre infisse a coltello e ricoperte da un’altra lastra. Vicino ad ogni circolo si trova un menhir, cippo verticale che rappresentava la divinità. Il diametro dei circoli varia da 5 a 9 m e sono tangenti fra di loro. Fuori dai circoli si trovano delle cassette di pietre che servivano per le offerte alimentari. A Li Muri vi sono 4 di questi circoli e dovevano essere destinati a personaggi di spicco probabilmente guerrieri; fra i corredi funerari sono stati trovati manufatti di selce e steatite, grani di collane, lame di coltello ed accette. Una delle ciste è decentrata e quasi isolata. Non si sa se nel sepolcro venissero deposti i corpi interi o solo le ossa dopo scarnificazione. Per l’acidità del terreno non si sono conservati resti ossei.
Lasciata Arzachena, si raggiunge il golfo dello stesso nome all’uscita del quale si trova l’isola di Caprera. Lungo la costa si susseguono le località più rinomate della Costa Smeralda valorizzata dall’Aga Khan Karim negli anni ‘60. Si fa sosta a Baia Sardinia sul lato nord-est, si segue poi la costa fino a Porto Cervo, il maggiore centro della Costa Smeralda, e si fa un’altra sosta a Cala di Volpe, sulla costa est.
Tornati nei dintorni di Olbia seguendo la costa, vicino al mare si trova il Pozzo sacro nuragico di Sa Testa, uno dei 30 monumenti di questo tipo dedicati al culto dell’acqua perché costruiti vicino a fonti perenni. Queste aree sacre si sono diffuse in età nuragica avanzata fra il 1200 ed il 1000 a.C.. I reperti trovati provano che il pozzo è stato frequentato per un lungo periodo fino all’età romana. L’area sacra è costituita da una corte cerimoniale di forma quasi circolare, delimitata da un muro con sedili intorno, che è stata chiamata “Sala del Consiglio”, ingresso con gradini ed attraversata da una canaletta di scolo per l’acqua. In fondo si apre un corridoio con vestibolo di forma trapezoidale architravato e si scende alla camera del pozzo con una scala di 17 gradini. La camera sotterranea del pozzo è a tholos, alta 5,25 m ed un diametro alla base di 1,25 m. I primi scavi archeologici sono del 1938 e gli ultimi restauri del ’69.
A sud di Olbia, passando vicino a Castel Pedreso, una fortezza abbandonata del XIII secolo, si raggiunge il sito della Tomba di Giganti di Su Monte ‘e S’Ape, monumento sepolcrale la cui camera funeraria risale al 1800 a.C., al periodo del bronzo antico, poi integrata nella struttura nuragica nel 1600 aggiungendo una monumentale esedra, ma è andata perduta la stele centrale. Il monumento sepolcrale era coperto da una massa di terra e pietre a formare un tumulo circondato alla base da una fila di blocchi di pietra.
IL NUORESE: DORGALI E ORGOSOLO FINO AD ORISTANO - TOMBE E VILLAGGI NURAGICI
Il giorno 15 si attraversa il nuorese da Olbia ad Oristano lungo la statale trasversale, ma deviando a sud verso Dorgali, nella zona più ricca di monumenti archeologici del nuorese, si raggiunge la Tomba di Giganti di S’Ena e Thomes, monumento anche questo del secondo millennio a.C., scavato e restaurato nel 1977. L’esedra ha una monumentale stele centinata alta 3,65 m, larga 2,1 e spessa 40 cm con un peso di circa 7 tonnellate e la piccola apertura simbolica in basso. Una serie di lastroni infissi nel terreno descrivono quasi un semicerchio con una corda di circa 11 m. Il corridoio funerario è quasi intatto, lungo 10,9 m, largo 0,8 m e alto 1,5 m, tappezzato ai lati da lastre di pietra e coperto da massicce piattabande. Vicino c’era un villaggio di età romana durato fino al medioevo e la tomba è stata saccheggiata più volte.
Più a sud, sempre in direzione di Dorgali, c’è il Villaggio nuragico di Serra Orrios scoperto dopo il 1933 ed iniziato a scavare nel 1936 ad opera di Doro Levi, ben noto anche per le sue ricerche in Etruria. La campagna di scavi continuò nell’anno successivo e nella terza campagna del 1938. Il villaggio comprende 70 capanne, generalmente circolari e disposte a gruppi o isolate con cortili e pozzi comuni. Non ci sono torri nuragiche. Distanziato dal villaggio è un grande recinto sacro con muro perimetrale ed all’interno i resti di un tempio a megaron. Si entra al recinto attraverso una porta rettangolare con architrave preceduta dal lato del villaggio da un vestibolo con due ali ricurve in muratura. Il recinto sacro, date le sue dimensioni, doveva essere destinato ad accogliere numerosi pellegrini per assistere ai riti. Del tempio è rimasto il profilo delle fondazioni, di forma rettangolare, lungo poco più i 8 m e largo circa 4,5 m ed ha due ali diritte in antis che formano un vestibolo. All’interno della cella c’era un focolare centrale. Sopra le mura perimetrali ci doveva essere la copertura in legno e frasche a spioventi. Più vicino al villaggio ed all’interno di un piccolo recinto, si trova un secondo tempio rettangolare più grande (10x5 m circa) con vestibolo ad ali curve ed una porta con architrave di pietra ricurva sistemata nella fase di restauro. Il villaggio si estende ad oriente con i gruppi di capanne. Le mura in pietra basaltica a secco erano spesse, a volte costruite con due muretti con in mezzo riempimento a sacco di terra e ciottoli. In comune i gruppi di capanne hanno dei cortili, in uno c’era una cisterna per acqua piovana che sfruttava il terreno impermeabile, in un altro c’è l’apertura di un pozzo o cisterna. Le capanne a copertura conica non hanno finestre e l’ingresso ha dei gradini in discesa. Una capanna era adibita alla lavorazione del bronzo, ma è stato asportato il focolare, in un’altra si sono trovati gli stampi di bronzetti nuragici. A nord, decentrata dal villaggio e dal recinto sacro, si trova un’altra capanna, indicata come la N. 49 di forma ellittica e con un sedile lungo la parete interna, per questo denominata “capanna della riunioni”.
A sud di Nuoro siamo al centro della Barbagia con vicino il massiccio del Gennargentu, luogo di antichissimi insediamenti come quelli della grotta di Corbeddu, nei pressi di Oliena dove sono state trovate ossa datate 7444 a.C., nel Mesolitico. Le popolazioni di questa regione furono chiamate barbari dai Romani che stentarono a domarli ed hanno mantenuto nei secoli le loro identità culturali. Uno dei luoghi simbolo di questa regione è il comune di Orgosolo, paese di pastori, reso famoso dal film “Banditi ad Orgosolo” di Vittorio de Seta.
Si fa sosta ad Orgosolo per vedere i caratteristici Murales, pitture e scritte sulle pareti di edifici pubblici e privati che esprimono denunzie politiche e sociali o fatti di vita quotidiana e sono divenuti con il tempo un fenomeno culturale ed un prodotto spontaneo della società locale. Il primo murales fu realizzato nel 1969 da un gruppo anarchico milanese, il Dioniso, negli anni della contestazione giovanile. Poi le pitture proseguirono sui muri di Orgosolo e si diffusero in altri piccoli centri come San Sperate, Villamar e Serramanna. Oggi sono diffusi in numerosi comuni della Sardegna per valorizzare gli spazi urbani.
Ad ovest di Orgosolo si trova Mamoiada, un altro caratteristico paese della Barbagia noto per il suo carnevale che attira ogni anno migliaia di persone. Durante la festa compaiono i Mamuthones, uomini vestiti di pelli di pecora e con il volto coperto da una maschera di legno scura che avanzano a balzi facendo risuonate i campanacci appesi al collo. Simboleggiano esseri minacciosi metà uomini e metà bestie che vengono poi catturati prendendoli al laccio.
A sud di Orgosolo si incontrano le Tombe di Giganti di Madau, 4 tombe megalitiche, delle quali due sono state restaurate e della terza si trovano resti cospicui entrando nel sito, sulla destra. Delle due meglio conservate, quella a destra è la più grande ed ha un’esedra larga 24 m e la parte centrale è formata da pietre squadrate (filari litici). La camera sepolcrale è lunga 22 m. La seconda tomba più piccola si trova a sinistra ed è forse la più antica, ha un’esedra con un diametro di 12,5 m che formava in origine un cerchio completo. La camera sepolcrale è lunga 11 m, larga 5 e formata da blocchi perfettamente squadrati. Della terza tomba è rimasta la camera sepolcrale circondata da lastre verticali.
A circa 25 km da Oristano sulla statale 131, nelle vicinanze di Paulilatino, si incontra il Santuario nuragico di Santa Cristina, luogo sacro in età nuragica dedicato al culto dell’acqua. Con il cristianesimo, i benedettini ne fecero un santuario nel XIII secolo con una chiesa campestre dedicata a Santa Cristina, una santa martirizzata con l’acqua. Il santuario richiamò molti pellegrini nelle ricorrenze e nel medioevo fu luogo di pacificazione delle faide. Si formò un villaggio di casette, adibite a foresterie nei periodi di affluenza, che ora sono diventate di proprietà privata. La zona archeologica è divisa in due parti ad est e ad ovest del villaggio. Ad est si trova un pozzo sacro, un’area di forma ellittica di dimensioni circa 26x20 m circondata da un muretto con sedili nell’atrio. All’interno si trova un pozzo sotterraneo con una scala di forma trapezoidale perfettamente conservata, fatta di blocchi squadrati e giuntati a regola d’arte e coperta nell’ultimo tratto da un soffitto a gradoni. Vi sono 25 gradini per scendere alla camera del pozzo che ha un diametro di 2,5 m ed un’altezza complessiva di 7 m realizzata a tholos; il foro aperto alla sommità affiora all’esterno. I reperti trovati indicano che il culto del pozzo è durato fino al VI a.C. ed il pozzo fu utilizzato anche in epoca romana. La sorgente è ancora attiva.
Non lontana dall’area del pozzo sacro si trova una capanna detta “delle Riunioni” per avere un sedile lungo tutta la parete.
Sul lato ovest del villaggio si trova la seconda area archeologica con una torre nuragica dal diametro esterno di 13 m, della quale è rimasto solo il primo piano alto 6 m e, entrando, si apre a sinistra il vano di una scala che sale al piano superiore. Intorno si vedono i resti di un villaggio nuragico forse di epoca romana e, fra questi, una capanna allungata di 12 m, alta e larga 2 m e coperta a tholos, all’interno della quale sono stati trovati degli strani segni, come di scrittura, forse fenicia.
IL CAGLIARITANO: COMPLESSI NURAGICI E NECROPOLI
Il giorno 16, lasciando Oristano, si scende verso Cagliari sempre sulla statale 131 e la prima tappa è il Complesso nuragico di Genna Maria, a circa un chilometro di distanza dall’abitato di Villanovaforru. Costruito su una collina basaltica di 424 m che spazia sul Campidano fino alla costa cagliaritana. Il nome deriva dal latino janua maris, porta del mare (in sardo: genna ‘e mari), per la posizione geografica strategica della collina. Gli scavi sono iniziati alla fine degli anni ’70 e si riconobbe la grandiosità del complesso con caratteri difensivi per il controllo del territorio. La parte più antica della costruzione risale al Bronzo medio e recente, dal XVI all’XI secolo a.C., mentre una seconda fase si colloca fra il IX e l’VIII secolo, nell’età del Ferro e finisce con la distruzione violenta del villaggio, chiudendo l’epoca nuragica. L’utilizzo del luogo proseguì in parte in epoca punica (IV secolo a.C.) e riprese pienamente in epoca romana, dal III secolo a.C. al IV secolo d.C. con lo sviluppo agricolo delle fertili zone vicine e la diffusione del culto a Demetra, dea della fecondità, portato dai Romani. La parte centrale del complesso è formata da un mastio centrale con addossato un bastione trilobato che racchiude in mezzo un cortile. Qui c’era anche un pozzo scavato nella roccia che raccoglieva l’acqua piovana. Nel XIII secolo fu aggiunto un antemurale con altre torri. Nell’età del Ferro l’antemurale fu parzialmente demolito ed inglobato in un villaggio distrutto poi nell’VIII secolo. Si aggiunsero poi le costruzioni più tarde fino al periodo romano ed è stato trovato un sacello dedicato alla dea Demetra. Le costruzioni più antiche in marna ed arenaria più deboli hanno subito restauri con materiali basaltici più resistenti. Le parti più antiche sono state trovate in cattivo stato e pericolanti e si stanno studiando e catalogando le pietre per ricostruire l’altezza e la forma delle torri. Sono stati trovati numerosi mensoloni sagomati in basalto che servivano per costruire in aggetto l’ultimo terrazzo della torre. La tipologia delle case del villaggio è con corte centrale e varie stanze intorno.
Addentrandosi in direzione nord-est e più di un chilometro ad ovest del villaggio di Barumini, si può visitare Su Nuraxi quello che è il più noto dei complessi nuragici della Sardegna, unico monumento sardo ad essere stato incluso nel 1997 nella lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità dell’UNESCO. La sua storia cominciò agli inizi degli anni ’50 quando l’archeologo Lilliu iniziò lo scavo di quella che era una collina di sassi e detriti e mise in luce il complesso costituito da una torre centrale circondata da un bastione quadrilobato che delimita anche un cortile, il tutto circondato da un antemurale e da un villaggio di capanne. La torre centrale, di forma conica slanciata, aveva in origine tre piani sovrapposti con copertura a tholos ed era alta 18 m; oggi si limita a 14 m perché l’ultima camera è in gran parte crollata. L’ingresso principale al bastione fu in un secondo tempo sopraelevato a 7 m di altezza. Nel cortile interno del bastione si trova un pozzo. Secondo la ricostruzione cronologica, la prima costruzione è la torre centrale nel XVI-XV secolo a.C., fra il XIV ed il XII secolo furono costruite le 4 torri del bastione ed un primitivo antemurale che ebbe alla fine 7 torrette. Un villaggio di circa 200 capanne, le più antiche di forma circolare, le più recenti di forma rettangolare a più vani con corte centrale, si estende ad est ed a sud del bastione, dentro e fuori l’antemurale. Il villaggio fu costruito in epoche diverse e usato fino in età tardo romana. La fortezza cominciò a crollare nel X secolo e fu poi abbandonata. In una capanna, nel settore orientale, si è trovato un pozzetto votivo sotto il pavimento. Un’altra è stata chiamata Capanna delle Riunioni per avere un sedile intorno alla parete e vi è stata trovata la riproduzione di un nuraghe singolo come oggetto simbolico (betilo). In un’altra c’è una macina in pietra basaltica ed un vano alla parete che forse era un forno ed infine c’è un insieme di 7 camere con forno, vasca per l’acqua ed una rotondina con sedile circolare ed un bacile lustrale centrale in pietra.
Si può entrare all’interno del bastione fino al cortile con il pozzo profondo 20 m con acqua sorgiva e da qui entrare nel nuraghe principale per osservare la volta a tholos del primo livello ed entrare nelle tre torri secondarie del bastione, la torre nord, più isolata, si raggiunge con un lungo cunicolo. Le torri avevano feritoie che si raggiungevano mediante soppalchi.
Da Barumini si raggiunge Orrioli, che si trova ancora all’interno più ad est, e vicino si visita il Nuraghe Arrubiu, uno dei più grandi della Sardegna che si trova su un altipiano dominante il corso del Flumendosa. Il nome vuol dire rosso, per il colore delle pietre ricoperte da licheni rossi. Il complesso è costituito da una torre centrale, di cui sono rimasti 14 m, ed un bastione pentalobato, unico di questo tipo in Sardegna, il tutto è circondato da un antemurale con 7 torri. Al di fuori c’è un altro tratto di cinta muraria con 5 torri costruito successivamente. Il tutto occupa 3000 mq. La costruzione fu iniziata fra il XIV ed il XIII secolo a.C. ed il sito fu abbandonato fra il IX e l’VIII secolo, cioè fra la fine dell’età del Bronzo e l’inizio dell’età del Ferro, crollato forse a causa di un terremoto. In età Romana vi fu creato un villaggio di cui sono rimaste delle capanne e due laboratori per la lavorazione del vino con vasche ed attrezzature in pietra basaltica utilizzate dal II secolo a.C. al V secolo d.C.. Il primo scavo è del 1981 e l’ultimo del ’96. Al ritrovamento il sito era ricoperto da una collina di detriti.
Si entra nel cortile dell’antemurale e si osservano le torri del bastione che hanno delle feritoie in basso, realizzate disponendo i blocchi verticali distanziati. I blocchi sono spesso legati con piombo fuso. Le torri sono tutte diverse costruite in tempi e da personale diverso. Il cortile del bastione a cielo aperto, fra il bastione ed il mastio centrale, ha un focolaio ed un pozzo che raccoglieva l’acqua piovana con un sistema di drenaggio. Si entra poi all’interno della torre principale con una perfetta copertura a tholos alta 7 m, il secondo piano è anche quasi integro con la sua copertura. Con una ricostruzione virtuale si calcola per la torre un’altezza totale di 27 m con 3 piani ed un terrazzo superiore con mensoloni in aggetto. Nella torre è stato trovato un vaso miceneo del 1400-1300 a.C..
In direzione sud si raggiunge Goni nelle cui vicinanze si trova il Parco archeologico di Pranu Muttedu (piano del mirto), una vasta area di circa 200 mila mq con la maggiore concentrazione di menhir della Sardegna e numerose sepolture megalitiche a circolo, tutto di epoca prenuragica, del IV-III millennio a.C.. La zona si trova in una serie di alture nella piana alluvionale del Flumendosa dove si erano creati insediamenti dal 3500 a.C., nel neolitico recente appartenenti alla cultura di Ozieri con villaggi e necropoli; il luogo era sacro, dedicato al culto degli antenati ed è uno dei più suggestivi della preistoria sarda. I menhir, che rappresentavano personaggi, si trovano in allineamenti, coppie o gruppi fra querce secolari. L’allineamento più grande comprende 20 menhir disposti secondo un asse est-ovest, chiaro riferimento astronomico e temporale. Le tombe a circolo racchiudono all’interno di un perimetro di pietre una tomba che può essere una cista formata da lastre disposte di taglio o di tipo megalitico con pietre a secco o scavata in una roccia come le domus de janas. A sud-est dell’allineamento di menhir si trova uno di questi circoli, detto Tomba II, con un menhir al lato dell’ingresso, un’anticamera per le offerte e l’ingresso ad una camera sepolcrale scavata in un monolito di arenaria con porticina che anticipa quelle delle Tombe di Giganti.
CAGLIARI: IL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE E LA CITTÀ
L’ultima tappa del viaggio, nella mattinata del 17, è stata Cagliari ed è stata dedicata alla visita del Museo Archeologico Nazionale ed alla città.
Sulla Collina di Castello arrivati a Piazza Arsenale, dominata dalla Torre di S. Pancrazio del 1305, parte delle fortificazioni pisane, si apre la Cittadella dei Musei con il Palazzo dei Musei che comprende il Museo Archeologico Nazionale, la Pinacoteca ed il Museo Etnografico.
Il Museo Archeologico espone in modo cronologico materiali provenienti dagli scavi dell’isola. Si inizia con una cronologia della storia dell’isola. Del Paleolitico e Mesolitico ci sono solo indicazioni sugli insediamenti. Si comincia dal Neolitico, nel 6000 a.C., con strumenti di ossidiana e le statuette in pietra delle dee madri del 4000 a.C. provenienti da diverse parti della Sardegna. Nel Neolitico recente inizia la cultura che ha preso il nome dalla grotta di S. Michele di Ozieri con la sua ceramica riccamente decorata e gli strumenti lavorati di ossidania e selce scheggiata e levigata. Nell’Eneolitico (2700 a.C.) compare il rame, le dee madri assumono una forma stilizzata piatta come quelle cicladiche, indice di contatti con l’oriente, e dal 2500 al 2000 compare la cultura di Monte Claro che trae origine dalla località ai margini di Cagliari, dove si ebbero i primi ritrovamenti, caratterizzata da grandi ceramiche con leggere scanalature e di colore rossastro lucidate prima della cottura. Nell’ultima fase dell’Eneolitico, fino al 1800, si diffonde la ceramica campaniforme, a campana rovesciata, proveniente dalla penisola Iberica. Nel Bronzo antico (1800-1600) c’è la cultura i Bonnanaro con ceramica disadorna fatta di vasi con anse a gomiti e, dal 1600, si entra nella civiltà nuragica. I contatti con l’oriente diventano frequenti e compaiono ceramiche ed oggetti micenei e ciprioti, armi e strumenti in bronzo. La Sardegna è inserita nel commercio di metalli. Si trovano lingotti di rame a forma di pelle di bue e matrici di fusione ricavate da blocchi di pietra dura lavorata. Una vetrina è dedicata ai bronzetti. Vi sono le famose navicelle nuragiche alcune delle quali sono state trovate nelle tombe dell’Etruria e della Grecia ornate con protomi di cervi e tori ed alcune avevano funzioni di lucerne; i nuragici quindi dovevano essere anche marinai. Altri bronzetti rappresentano guerrieri, capi tribù con il bastone, divinità, e scene di vita quotidiana. Ci sono modelli di architetture di nuraghi e tombe, statue in pietra ed oggetti votivi. L’età del Ferro iniziò in Sardegna nel 900 a.C. ed in questo periodo arrivarono i Fenici che crearono scali commerciali come Tharros, Sulci, Nora e portarono la scrittura. Finisce quindi la civiltà nuragica. Seguirono i Cartaginesi dal 500 a.C. ma l’epoca storica inizia con la conquista romana del 238 a.C., dopo la Prima guerra Punica, anche se la romanizzazione si concluse solo nel I secolo a.C.. Del periodo punico nel museo c’è la ricostruzione di una sepoltura detta Tofet con urne e stele destinati ai bambini nati morti ed inceneriti.
Il quartiere Castello, dove si trova la Cittadella dei Musei e la Piazza Palazzo, è il cuore storico della città di Cagliari ed il centro del potere politico-religioso dal medioevo fino alla seconda metà del 1800. Nel XII secolo Pisani e Genovesi avevano affermato la loro supremazia nell’isola, i Pisani dominavano la Gallura a nord e Cagliari a sud ed i Genovesi erano installati a Torres mentre ad Oristano c’era una dinastia catalana che governava la regione di Alborea. A Cagliari le fortificazioni del “castrum” pisano hanno lasciato la Torre di S. Pancrazio, la più alta della città, con la porta principale e più a sud la Torre dell’Elefante con un’altra porta, ambedue degli inizi del 1300. Anche la Cattedrale di S. Maria è di epoca pisana. Alla fine del 1200 il papa Bonifacio VIII cedeva la Sardegna come feudo a Giacomo d’Aragona. Con la conquista aragonese, le antiche forme di statuto autonomo delle regioni, i giudicati di Cagliari, Torres, Arborea e Gallura, basati sul potere di giudici nominati dalle comunità e mantenuti sostanzialmente da Pisani e Genovesi interessati solo al potere commerciale, viene sostituito da un potere feudale più rapace. Gli Aragonesi entrarono a Cagliari nel 1326, nel 1410 cadde il giudicato di Arborea e fino al 1708 la Sardegna rimarrà spagnola. A Cagliari nel Quartiere Castello si costruiscono i bastioni spagnoli, sorgono edifici come quello dell’Università del 1620 e nuovi edifici religiosi. Alle pendici meridionali di Castello è collegato il rione del porto, il quartiere Marina dei pescatori e marinai, e si sviluppano i due borghi di Villanova e Stampace, il primo ad est di Castello abitato dai pastori e contadini ed il secondo ad ovest abitato dai borghesi e dai mercanti. Ancora oggi queste quattro parti costituiscono il centro cittadino. Nel 1600 cresce l’insofferenza della popolazione per il dominio spagnolo che sfocia nella rivolta del 1666 quando viene assassinato il viceré Camarassa. Durante la Guerra di Successione spagnola (1701-14), nel 1708 Cagliari viene occupata dagli anglo-olandesi e, dopo alcune vicissitudini, tutta l’isola passa sotto il dominio sabaudo. Nonostante alcune rivolte, l’isola rimase sotto i Savoia anche con la rivoluzione Francese e, quando il Piemonte fu occupato da Napoleone nel 1802, i Savoia si trasferirono a Cagliari con tutta la corte. A Cagliari i piemontesi costruirono il Palazzo Reale nella piazza di Palazzo come sede dei viceré e costruirono la Cittadella sul lato nord di Castello, ma dalla seconda metà del 1800, con l’abolizione del feudalesimo e la concessione dello Statuto Albertino (1848), la città iniziò la sua trasformazione in forme moderne.
Dalla collina di Castello i bastioni offrono terrazze panoramiche da cui osservare la città ed il Porto dei Traghetti.
FENICI E PUNICI IN SARDEGNA.
10-13.04.2009 - 7:45 - Viaggio organizzato da PALLADIO (Arch. G. Ametrano).
Questo breve viaggio in Sardegna alla ricerca degli insediamenti fenici e cartaginesi, poi ricoperti da quelli romani, ci porta nelle regioni costiere meridionali ed occidentali dell’isola che furono i primi luoghi dove sbarcarono i navigatori fenici instaurando, a partire dal IX secolo a.C. contatti commerciali con le popolazioni indigene della civiltà nuragica. I Fenici, di lingua e cultura semitica, furono i primi grandi navigatori che attraversarono tutto il Mediterraneo per scopi commerciali creando empori sulle coste per barattare i loro prodotti artigianali, le ceramiche e soprattutto le loro stoffe di lino e lana colorate con la porpora, di cui ebbero a lungo il monopolio perché ottenute con procedimenti segreti dalla murice, il mollusco di una conchiglia marina. Gli empori si trasformarono con il tempo in centri permanenti aperti alla convivenza con le popolazioni locali e, facendo accordi con le aristocrazie e stringendo legami matrimoniali, i Fenici crearono le basi per una società sardo-fenicia. Quando arrivarono i Fenici, la civiltà nuragica era già nell’età del bronzo; l’età del ferro in Sardegna cominciò nel X secolo e fu forse portata dagli stessi Fenici. Il più antico documento scritto fenicio è la Stele di Nora, su arenaria, risalente all’VIII secolo a.C. ritrovata vicino a una chiesa di Pula a sud-ovest di Cagliari, un centro le cui origini sono legate all’antica città di Nora, una delle prime colonie fenicie della Sardegna. La stele fa riferimento al popolo dei Shardana e per la prima volta compare il nome dell’isola: SHRDN, senza vocali come nelle lingue semitiche. I Fenici portarono in Sardegna anche il pantheon semitico delle loro divinità, fra cui Baal, Melqart, assimilato ad Eracle, Tanit ed Astarte, la Ishtar mesopotamica, poi identificate con Afrodite ed Era. Per la sepoltura dei morti i Fenici usavano la cremazione e poi seppellivano i resti delle ossa in una fossa. Aumentando la ricchezza e la potenza delle città fenicie, queste espansero la loro zona di influenza verso l’interno per sfruttare le fertili pianure ed a questo punto si destò la resistenza delle genti nuragiche. Con l’inizio della penetrazione militare dei Fenici verso l’interno, nel VI secolo le popolazioni nuragiche si coalizzarono e attaccarono la fortezza di Monte Sirai, punto avanzato fortificato dei Fenici, e minacciarono seriamente le città stato della costa. Il pericolo di un’alleanza dei Sardi con i Greci focesi di Marsiglia, indusse infine i Fenici a chiedere l’aiuto dei Cartaginesi. Nel 540 a.C., Cartagine inviò in Sardegna un corpo di spedizione comandato dal generale Malco che aveva combattuto vittoriosamente contro i Greci in Sicilia. La resistenza dei nuragici si trasformò in una sanguinosa guerriglia, i Cartaginesi subirono gravi perdite negli scontri e si reimbarcarono. Tornarono nel 435, reagendo al disastro, al comando dei fratelli Asdrubale ed Amilcare, proseguendo con decisione alla conquista dell’isola, ma nel 510 si combatteva ancora ed Asdrubale era morto in battaglia. Tuttavia nel 509, in un trattato con Roma, questa riconobbe a Cartagine il possesso della Sardegna e questo indicava un raggiunto controllo del territorio. I Punici, sostituendo i Fenici, iniziarono lo sfruttamento agricolo della terra, concentrandosi sui cereali, e quello delle miniere usando la manodopera indigena. Le aree montagnose del nuorese rimasero sempre indipendenti e nel 368 una nuova rivolta costrinse i Cartaginesi a nuove campagne militari per sedarla. La flotta cartaginese operò il blocco delle coste ed impedì ogni contatto commerciale dei nuragici con l’esterno. I Punici popolarono le città fenice, costruirono opere di difesa a Nora, Bithia, Monte Sirai e Tharros e vi trasferirono la loro organizzazione politica e sociale. Le città, pur mantenendo l’autonomia negli affari interni, erano dipendenti dalla madre patria per gli affari internazionali, il commercio e la specializzazione produttiva. Con il tempo anche i Sardi iniziarono ad integrarsi nella cultura e nell’economia punica, furono ingaggiati come mercenari nelle guerre cartaginesi e divennero infine loro alleati contro i Romani. Il formarsi di una nuova cultura sardo-punica è dimostrata dai prodotti artigianali con caratteri comuni e dall’integrazione religiosa fra culti punici e sardi come quelli indigeni del Sardus Pater e della Grande Madre e la messa in comune dei luoghi sacri.
Nel III secolo a.C., con la Prima Guerra Punica (264-241), i Romani entrarono in contrasto con i Cartaginesi per il dominio della Sicilia e del Mediterraneo, ma con la pace del 241 la Sardegna rimase ai Cartaginesi. Furono però le truppe mercenarie tenute in Sardegna a ribellarsi per non essere state pagate e a consegnare l’isola ai Romani che l’occuparono nel 238 facendo di Sardegna e Corsica una provincia romana. Per molto tempo il controllo del territorio da parte dei Romani rimase incerto per l’ostilità delle popolazioni puniche delle coste e dei nuragici dell’interno. Durante la Seconda Guerra Punica (218-201) la rivolta dei sardo-punici del 215 fu sconfitta dal console Tito Manilio in una battaglia campale. Da questo momento i Romani ebbero il controllo delle coste e delle pianure agricole dell’interno e tennero a bada le popolazioni delle montagne, da loro considerate barbare, chiamando Barbaria la regione montuosa del Nuorese, da cui il nome di Barbagia. La Sardegna fu pacificata definitivamente solo nel 111 a.C. dal proconsole Marco Cecilio Metello.
Anche dai Romani, come dai Cartaginesi, la Sardegna fu sfruttata con la coltivazione intensiva dei cereali e con le miniere dove furono inviati molti deportati Ebrei e cristiani. Al tempo delle persecuzioni del II secolo d.C.; questo favorì la diffusione del cristianesimo.
Dopo Costantino e la divisione dell’impero fra oriente ed occidente e la crisi di quest’ultimo, i mari cominciarono a diventare insicuri a causa dei pirati. Nel 429, i Vandali di Genserico passarono dalla Spagna in Africa e presero Cartagine e, grazie alla loro buona flotta, dominarono il Mediterraneo. Dopo il sacco di Roma del 455, nel 456 occuparono la Sardegna limitandosi alle coste. Vi furono contrasti fra i Vandali ariani ed i Sardi cristiani
Nel 533, i bizantini iniziarono la riconquista dei territori d’occidente voluta dall’imperatore Giustiniano ed i Vandali furono cacciati dal Nord Africa e dalla Sardegna
A partire dal VII secolo gli Arabi si impadronirono, oltre dell’Asia Minore, di tutta la fascia del Nord Africa, nel 711 di parte della penisola Iberica ed infine della Sicilia nell’836-41. Cominciarono le loro incursioni sulle coste d’Italia e della Sardegna dove le popolazioni si spostarono tutte all’interno, l’isola rimane isolata, costretta all’autosufficienza sotto un’amministrazione bizantina fiscale ed oppressiva. Si formarono quattro regioni rette da luogotenenti elettivi o Giudici che costituirono i Giudicati di Calari (Cagliari), Arborea (con capitale prima Tharros e poi Oristano), Torres (o Logudoro) e Gallura. Alla fine del IX secolo si può considerare finito il dominio bizantino è la Sardegna divenne indipendente. I commerci ripresero con l’arrivo dei mercanti genovesi e pisani, sempre in concorrenza, e l’agricoltura ebbe impulso con l’arrivo degli ordini benedettini che bonificarono le terre. Nel 1258, mentre i Genovesi erano impegnati in una guerra contro Venezia, i Pisani attaccarono il giudicato di Calari, filogenovese, in coalizione con Arborea, Torres e Gallura e finirono con l’installarsi nella Rocca di Calari. Nel 1288 i Pisani occuparono anche il Giudicato di Gallura e nel 1302 si impossessarono dei territori dell’Iglesiente. Nel 1297, il papa Bonifacio VIII, in forza della presunta Concessione di Costantino, investì il re di Aragona Giacomo II del feudo di Sardegna e Corsica e questo cambiò il corso della storia dell’isola. Nel 1323 la flotta catalano-aragonese sbarcò nel golfo di Palmas ed in breve Pisa, più volte sconfitta, fu costretta ad abbandonare l’isola nel 1326, dopo solo 68 anni. Il Giudicato di Arborea, dichiaratosi prima vassallo degli Aragonesi, fu a capo di una ribellione, sostenuta dai genovesi, e mantenne il dominio dell’isola fino al 1410, quando i catalano-aragonesi conquistarono Oristano.
Con gli Aragonesi l’isola tornò nel completo isolamento dal resto dell’Europa, fu governata da un viceré ed i feudatari costituirono una potente oligarchia. Nel 1479, il nuovo re Ferdinando II, avendo sposato Isabella di Castiglia, univa i due regni di Castiglia ed Aragona e, con il tempo, prevalse l’aristocrazia castigliana meno liberale di quella catalana. L’isola fu devastata dalla peste e dalle incursioni barbaresche che facevano schiave le popolazioni. Così passarono tre secoli fino alla guerra di successione spagnola che, con il trattato di Utrecht del 1713, consegnava la Spagna ai Borboni con Filippo V e compensava l’Austria con i possedimenti spagnoli in Europa: Milano, Napoli e la Sardegna, mentre la Sicilia andava ai duchi di Savoia. Nel 1720 però si preferì non staccare la Sicilia da Napoli e i Savoia la scambiarono con la Sardegna che era in condizioni disastrose, ma portava il titolo di regno, quello che poi diventerà il Regno d’Italia. L’inizio della dominazione sabauda non modificò le condizioni dell’isola, leggi e privilegi furono confermati, non si parlò di riforme sociali ed economiche ed il governo fu sempre affidato a un viceré. Le cose si mossero con la rivoluzione francese. Nel 1793, dopo alcuni tentativi di sbarco dei Francesi respinti dalle forze dell’isola, i governanti avanzarono delle richieste di autonomia al sovrano che le respinse suscitando un’aperta rivolta. La situazione precipitò, quando nel 1799 Napoleone invase il Piemonte ed il re fu costretto a rifuggiarsi in Sardegna. Cagliari divenne la nuova capitale del regno Sabaudo, le rivolte continuarono, ma furono domate. Caduto Napoleone nel 1814, il re Vittorio Emanuele I tornò a Torino lasciando come viceré il fratello Carlo Felice. I moti piemontesi del 1821 portarono all’abdicazione di Vittorio Emanuele I a favore di Carlo Felice ed all’intervento della Santa Alleanza che lo riportò a Torino domando la rivolta. Il nuovo corso iniziò infine nel 1831 con la morte di Carlo Felice e la salita al trono di Carlo Alberto, noto liberale. La prima azione di Carlo Alberto in favore dei Sardi fu, nel 1838, l’abolizione del feudalesimo che durava da 500 anni e, nel 1847, concesse la fusione con il Piemonte che diede ai Sardi le stesse leggi e gli stessi diritti dei Piemontesi.
LE CITTÀ FENICIO-PUNICHE DEL SUD
Partendo da Cagliari, il primo giorno si visita la regione più meridionale della Sardegna, iniziando dai resti fenici dell’area archeologica di Nora, città anche punica e romana, proseguendo poi con il museo del comune di Pula che raccoglie i reperti degli scavi. Si scende a sud-ovest, lungo la costa, e si raggiunge l’area dove sorgeva la città di Bithia, fra due insenature separate da un promontorio, proseguendo fino oltre Capo Spartivento.
La città di Nora, che la tradizione vuole sia la più antica colonia fenicia della Sardegna fondata da Norace, figlio di Ermes, si trova su una lingua di terra con diverse espansioni, fra cui il promontorio di Capo di Pula dove forse si formò il primo insediamento fenicio nell’VIII secolo (acropoli). Il profilo della costa formava tre porti protetti: due, a nord e a sud del promontorio, erano i porti Nord-orientale e Sud-orientale, mentre ad ovest si trovava il porto Nord-occidentale. Nel corso del tempo, molte strutture sono andate sommerse e l’attuale profilo è meno frastagliato. Sul promontorio dell’Acropoli, dove forse c’era un piccolo nuraghe, gli Spagnoli hanno eretto una torre tronco conica in arenaria, alta 11 m e dal diametro di 12 m, detta Torre di Cortellazzo, che era un posto di guardia e di avvistamento ed ha mantenuto questa funzione fino al 1800, quando vi è stato installato anche un faro. Questa torre è una delle 80 fatte costruire da Filippo II di Spagna fra il 1580 ed il 1610 lungo le coste sarde contro le incursioni barbaresche. I resti fenici, a partire dall’VIII secolo, sono pochi, limitati ad una necropoli fuori della città ed i reperti si ritrovano nei musei. Gli scavi nell’abitato, iniziati nel secolo scorso e proseguiti nei decenni 1950-60, hanno messo in luce i quartieri punici e romani. Le costruzioni puniche sono caratterizzate dall’opus africanus, una muratura detta a telaio, con blocchi verticali intervallati da muratura a pietrame, usata anche nel periodo romano e fino al medioevo. La città romana si sviluppò nel II-I secolo a.C., il Foro fu costruito nel 50 a.C. e poco più tardi il Teatro. Il periodo di massimo splendore della città fu dalla fine del II secolo d.C. con le Terme e le grandi domus dove si trovano molti mosaici pavimentali. Una di queste è detta casa dell’Arco Tetrastilo, sulla punta più occidentale, con l’arco ricostruito da quattro colonne prelevate dalla vicina via porticata e raffinati mosaici. L’edificio romano meglio conservato è il Teatro che dal lato sud mostra la cavea, l’orchestra e la scena e dal lato nord mostra le scale di accesso alla cavea (vomitoria). L’area del Foro si trova di fronte al porto Nord-orientale. Verso la metà del V secolo, con l’arrivo dei Vandali si costruiscono nuovi edifici utilizzando materiali recuperati da altri, poi venne il periodo bizantino ed il declino della città dalla metà del VI secolo. Nel VII secolo è ridotta a Presidium e si ha il completo abbandono agli inizi dell’VIII secolo, quando le scorrerie dei pirati saraceni costrinsero gli abitanti ad abbandonare le coste.
Il Museo del vicino comune di Pula, nel cui territorio si trovano gli scavi, offre una panoramica degli scavi, delle ceramiche e dei reperti archeologici. La famosa Stele di Nora, il più antico documento scritto fenicio, si trova invece nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.
Proseguendo lungo la costa verso sud-ovest. Si raggiunge, in un’insenatura, la bella spiaggia di Chia, dove sbocca un piccolo fiume dello stesso nome ed un promontorio la limita a sud sormontato da una torre spagnola del 1600. Intorno a questo promontorio si trovano le rovine, in gran parte ancora sepolte, della grande città fenicio-punica di Bithia distribuita su una vasta area. Nei dintorni vi sono molti resti nuragici. Dall’alto del promontorio si ha una vista panoramica dell’area. Le due insenature ad est (Chia) e a ovest del promontorio erano i due porti di Bithia ed un terzo porto protetto era quello racchiuso in una laguna più a ovest, detta Stagno di Chia. I primi scavi sono stati condotti nel 1835 intorno al promontorio. Resti di una necropoli sono stati scoperti sulla spiaggia ovest dopo una mareggiata nel 1933. Vi sono scavi, sulla costa ovest ai piedi del promontorio, nell’area di una vasta necropoli con tombe fenicie a cremazione, puniche ad inumazione ed altre di epoca romana. Qui è stato trovato anche un tempio dedicato al dio Bes del IV secolo a.C., restaurato nel II secolo d.C.. La spiaggia di Chia è chiusa a est da Punta Su Senzu e dall’isolotto Su Cardulinu, separato dalla terraferma da un sottile cordone di sabbia. Qui è stato trovato un tofet, area sacra di sacrifici dove erano sepolti i bambini.
Si continua fino oltre Capo Spartivento, al golfo di Malfatano, dove si trovavano altri approdi fenicio-punici, e Capo Piscinni, con un’altra torre spagnola.
IL SULCIS E L’IGLESIENTE
Il secondo giorno è dedicato alle zone del Sulcis e dell’Iglesiente, le due aree minerarie della Sardegna. Si visita prima l’isola di Sant’Antioco dove sorgeva la città fenicia-punica di Sulky. Qui si trova il Museo Comunale e la vicina area sacra del tofet con reperti che vanno dall’VIII al III secolo a.C., poi un piccolo museo etnografico ed il villaggio ipogeo di una vasta necropoli punica, infine il vicino Forte Sabaudo, testimonianza di una storia più recente. Nei dintorni di Carbonia, all’interno, si visita il complesso di Monte Sirai, antica acropoli con area fortificata e molti resti archeologici fra cui tombe fenicie, un tempio fenicio-punico ed un ipogeo punico. Più a nord, vicino alla città di Iglesias, si visita l’importante tempio di Antas, eretto in epoca romana su un’area sacra nuragica molto più antica, occupata poi da un tempio punico.
L’isola di Sant’Antioco, nel Sulcis, è stata uno dei più antichi insediamenti fenici. L’isola, con una superficie di 108,9 kmq, è la quarta dell’Italia per estensione, subito dopo l’Elba, ed è collegata alla terraferma da un istmo artificiale lungo 3 km costruito dai Cartaginesi e completato dai Romani con un ponte, del quale si incontrano i ruderi percorrendo la moderna strada. L’istmo separa la laguna di Sant’Antioco a nord, dal golfo di Palmas a sud, dove avvenne il primo sbarco degli Aragonesi nel 1323. Sulla laguna si affaccia il porto di pescatori e la cittadina di Sant’Antioco edificata nel 1700 sopra l’antico insediamento fenicio, punico e poi romano di Sulky.
Con i Fenici, Sulky divenne il porto di imbarco dei metalli, piombo ed argento. Dal VI secolo, con i Cartaginesi la città crebbe di importanza per il ferro e si estese su tutta l’area dell’attuale abitato. La parte più antica, datata al 770 a.C., è stata scoperta casualmente nel 1983, mentre si ristrutturava l’ospizio cittadino. La parte archeologica più estesa è una necropoli punica che occupa più di 6 ettari con più di 1500 tombe e camere ipogee riutilizzate da Romani ed Ebrei fino all’età imperiale, infine trasformate in grotte come abitazioni dei più poveri. Vicina, in un’altura rocciosa di trachiti, si trova l’area sacra del tofet. La città antica, distrutta dai Saraceni e abbandonata, fu ricostruita solo nel 1700 sopra le antiche rovine. La zona di interesse archeologico si trova tutta nella parte nord-orientale della città moderna.
La prima visita si fa al Museo Comunale Ferruccio Berrecca dove si trova raffigurata la sezione stratigrafica di una necropoli. Negli strati più profondi e quindi più antichi si trovano le urne cinerarie in vasi ceramici, in seguito si aggiungono steli dedicatorie. Con i Cartaginesi va in uso l’inumazione con tombe familiari ed aumentano le steli. I tofet erano aree sacre destinate alla cremazione dei bambini. La parola è tratta dalla Bibbia e si riferiva a riti di sette ebree politeiste di “passaggio per il fuoco” dei bambini, forse per iniziazione o sacrifici umani. Molti storici ritenevano che Fenici e Cartaginesi, in particolari situazioni di difficoltà, sacrificassero agli dei i primogeniti maschi. Il ritrovamento in molti luoghi di urne con ossa cremate di bambini aveva rafforzato questa convinzione, da cui la denominazione di tofet. In seguito però, l’analisi dei resti dimostrò che in massima parte si trattava di feti o bambini morti nei primi due anni di vita, inoltre la presenza sempre più frequente di steli con dediche e come ex-voto, hanno fatto pensare che si trattasse di santuari per le fertilità e per chiedere alle divinità la prosecuzione della specie dopo la perdita di un bambino. Diverse vetrine espongono i corredi delle tombe, brocche da vino per le libagioni funerarie, brocchette dal collo a fungo come portaunguenti, lucerne a due becchi che usavano olio di oliva. Vi sono due sculture di leoni in arenaria di datazione incerta fra il IV ed il VI secolo a.C. (fenicia o punica), copie degli originali trovati a Tharros e ora al Museo di Cagliari. Altre vetrine espongono gioielli, oggetti di ambra del Baltico ed oggetti di vetro, una tecnica perfezionata dai Fenici, che non ne sono gli inventori perché le paste vitree si trovavano anche in Mesopotamia. C’è anche una raccolta di bronzetti ed oggetti di piombo ed argento.
L’area del tofet, poco più a est del Museo, si presenta come una serie di recinti rettangolari delimitati da muretti di fondazione fra rocce vulcaniche con molti vasi di terracotta contenenti i resti delle cremazione. La località è stata individuata dall’archeologo Gennaro Pesce che poi lavorò alla necropoli punica.
Si visita poi il piccolo Museo Etnografico, sistemato all’interno di un antico mulino del 1700, che ha una collezione di attrezzi del lavoro contadino ed oggetti quotidiani di vita domestica. C’è anche un tavolo dedicato alla lavorazione del pane e fra gli oggetti di artigianato vi sono campioni di tessuto di bisso molto pregiato. Il filo di bisso è ricavato dal piede di molluschi lamellibranchi che lo usano per fissarsi ad un sostegno.
La sosta successiva è al villaggio ipogeo, vicino all’area cimiteriale punica. Il villaggio fa parte della necropoli punica ed è costituito da una serie di tombe sotterranee scavate nel tufo ed usate fra il VI ed il III secolo a.C.. Le tombe ipogee avevano un corridoio (dromos) ed una serie di stanze dove si deponevano i defunti, uno o due per stanza con gli oggetti necessari alla loro vita futura. I cadaveri erano prima puliti, profumati, avvolti in un sudario e deposti su un piano o dentro un sarcofago. Queste tombe, usate fino al 1900 come abitazioni dalle persone più povere, sono state attrezzate con cucine e forno ed i comignoli escono all’esterno.
Nel punto più alto dell’area archeologica si trova il Forte Su Pisu, una fortificazione del periodo sabaudo costruita nel 1812 per la difesa contro i corsari barbareschi del Bey di Tunisi che infatti lo assalirono nel 1815 massacrando la guarnigione. Il forte è stato costruito sul sito di un antico nuraghe di cui si vedono ancora i blocchi su un lato delle fondazioni.
Lasciata l’isola di Sant’Antioco, si torna sulla strada per Carbonia e si sale a monte Sirai. Questo era il sito di un’antica fortezza fenicio-punica di circa 2 ettari, importante area archeologica frequentata da tempi preistorici dai popoli nuragici ed occupata dai Fenici dalla seconda metà dell’VIII secolo (circa 725 a.C.), fino alla fine del VI secolo quando furono sostituiti dai Cartaginesi. All’insediamento fenicio corrisponde una necropoli a incinerazione con tombe a fossa e a cista. Sembra che l’insediamento fenicio sia stato pacifico e non abbia portato alla distruzione del nuraghe preesistente. L’insediamento punico comportò invece la distruzione dell’abitato fenicio nel 525 a.C. circa, e si sviluppò nel IV secolo, quando i Cartaginesi si espansero verso l’interno. Intorno a 380 a.C. si costruì la prima cerchia muraria ed il centro si estese e si sovrappose a quello fenicio, fu creata anche una necropoli punica con ipogei ed un tofet. Con la conquista romana del 238 i quartieri abitativi intorno all’acropoli crebbero sempre più e tutto è stato ricostruito con il riutilizzo di materiali. Nel 110 a.C. l’abitato venne abbandonato, sembra in modo improvviso; forse il periodo corrisponde a quello della lotta al brigantaggio condotta dai Romani. Da questo momento, fino al IV secolo d.C., vi sono solo insediamenti sporadici.
Nella necropoli fenicia, fuori del rilievo dell’Acropoli si trovano un centinaio di tombe. Le tombe a fossa sono profonde 30-40 cm, larghe 70-80 e lunghe 2 m. Il cadavere veniva bruciato con i suoi arredi personali all’interno della fossa e le ossa combuste erano lasciate nella posizione assunta dopo il rogo. Nelle fosse a cista composte da lastre di pietra, il cadavere era bruciato prima in un luogo diverso. Sopra la tomba era creato un tumulo di pietre e terra. Sono state trovate anche fosse più grandi adibite all’inumazione. Elementi costruttivi sono realizzati con mattoni di paglia e fango o in pietre o in blocchi di trachite rossa.
La necropoli punica, più a valle, è formata da 13 tombe a camera ipogee per sepolture collettive. Si scendeva con una piccola rampa ed un breve corridoio (dromos) portava alla camera di 8-10 mq sulle cui pareti erano scavati loculi o sarcofagi; i cadaveri erano inumati. Nel corredo era sempre presente la caratteristica brocca a fungo con orlo espanso che serviva per ungere e profumare il corpo. Si scende in una di queste tombe dove compare il simbolo di Tanit, la divinità femminile, formato da un anello ed un triangolo, ma disposto rovesciato, forse per indicare la morte, che è il contrario della vita. Nel vicino tofet, scoperto nel 1962, le spoglie dei bambini, dopo arsione, erano deposte entro grosse anfore ed interrate.
Il villaggio sull’Acropoli, la cui disposizione è quella del III secolo a.C. del periodo romano, è circondato da mura ed è costituito da quattro schiere di case separate da tre strade ed orientato secondo la dorsale del monte. Si suppone che vi abitassero almeno 500 persone. Nell’area degli scavi vi sono alcuni resti fenicio-punici fra cui un tempio dedicato ad Astarte, la cui statua si trova nel Museo di Cagliari, ed una casa senza finestre, perché illuminata da un lucernaio di talco sottile e traslucido. Naturalmente dallo scavo emergono solo le fondamenta. Qui è stato trovato un forno e prove di attività domestiche ed artigianali. Le campagne di scavi continuano ancora.
Lasciato Monte Sirai, si sale a nord verso Iglesias, l’antica capitale mineraria del ferro, e, ancora a nord vicino a Fluminimaggiore, si visita il tempio punico-romano di Antas. Il tempio si trova su una collina, luogo di culto sacro dei popoli nuragici che i Cartaginesi avevano rispettato erigendovi un tempio. Anche i Romani, secondo il loro costume, ne avevano assimilato la divinità con il nome di Sardus Pater Babay ed eretto il tempio attuale del III secolo a.C., restaurato poi nel III secolo d.C. al tempo di Caracalla. Del periodo nuragico sono state trovate tombe a pozzetto profonde 80 cm ed i corpi deposti in posizione fetale. Fra i corredi è stato trovato un bronzetto raffigurante un uomo nudo con un lancia, forse la divinità Sardus Babay nuragica. Il tempio romano è in arenaria, tetrastilo con capitelli ionici. Trovato saccheggiato e semidistrutto nel secolo scorso, è stato restaurato nel 1966-68 dall’archeologo Ferruccio Berrecca che, durante gli scavi, trovò i resti del tempio punico del VI secolo e, nella cella una roccia sacra.
LA PROVINCIA DI ORISTANO
Il terzo giorno, si raggiunge la provincia di Oristano, più a nord, e si visita l’ipogeo della chiesa di S. Salvatore in Cabras, antico pozzo sacro nuragico, rimasto luogo di culto nei secoli e frequentato da gente di paesi diversi accogliendo simboli di fedi diverse. Scendendo quindi all’estremità della penisola di Sinis si raggiunge l’area archeologica di Tharros dove sono i resti degli insediamenti di una città fenicia, punica e poi romana. Tornando indietro si incontra una chiesa bizantina, si visita il museo di Cabras con gli interessanti reperti degli scavi ed infine, a Santa Giusta, la chiesa romanica omonima, una delle più antiche della Sardegna che conserva molte colonne e materiali provenienti dai siti archeologici.
Nel villaggio di San Salvatore in Cabras, sulla riva meridionale dello Stagno di Cabras, sotto la chiesetta di S. Salvatore, si trova un famoso ipogeo, già santuario pagano del periodo nuragico dedicato al culto dell’acqua che ha mantenuto la sua tradizione di luogo sacro in epoca punica, romana e poi cristiana costantiniana, fino al 1500, sempre rispettato, anche durante le scorrerie barbaresche. L’ipogeo è costituito da un corridoio e diverse camere, quella terminale ha al centro un pozzo nuragico, con una pietra immersa nell’acqua, ed alla parete un altare cristiano. Sulle altre pareti si notano disegni, simboli e scritte di epoche diverse che attestano la frequentazione del luogo: una caravella spagnola, un battello di canne, come quelli usati dai nuragici nello stagno di Cabras, accostato al simbolo cristologico della X sovrapposta alla P ed anche scritte del Corano di un altro periodo. Nella cella a destra, prima della principale, si vedono distintamente le tre figure di Giunone, Venere e Marte a cui i Romani dedicarono il culto. In epoca cristiana, Marte e Venere sono diventati Adamo ed Eva. In un’altra cella, a destra vicina all’ingresso, si vede un leone ed altre figure, con riferimento a Daniele nella fossa dei leoni. Un altro altare si trova nella prima cella a sinistra.
L’area archeologica più importante della provincia di Oristano si trova all’estremità della penisola di Sinis dove sorgeva la città di Tharros costruita dai Fenici fra il IX e l’VIII secolo a.C., come emporio per il commercio con gli indigeni, a capo S. Marco, all’estremità della penisola. Di questa però non rimane praticamente nulla e le uniche testimonianze sono i resti di necropoli ed un tofet. Tharros si sviluppò in periodo punico, dal VI secolo a.C., e poi romano, quando raggiunse la sua massima prosperità nel III secolo d.C., il periodo a cui appartengono i maggiori edifici, fra cui le Terme. La città fu abbandonata intorno all’anno 1000, dopo un lungo declino in epoca vandalica e bizantina iniziato dal V secolo e dopo essere diventata capitale del Giudicato di Arborea. Capitale e Arcivescovado furono trasferite a Oristano.
Avvicinandosi all’area, si vede il colle di S. Giovanni, sul lato est della penisola, con alla sommità (50 m) la Torre spagnola ed altre fortificazioni. Si entra in città dal Cardo Massimo, da nord a sud, strada lastricata dai romani con lastre di basalto e completata con la fognatura ed i pozzetti; le parti in arenaria sono puniche o fenicie. Si arriva ad una piazzetta e, a destra, si vede un edificio quadrangolare che era il serbatoio del Castellum aquae dell’Acquedotto per la decantazione. Si prosegue e, a sinistra, si trova un’area di abitazioni private dove c’è una cisterna condominiale ellittica. Più avanti si incontrano le Terme di età severiana, la seconda delle tre costruite in città, destinata ad ambedue i sessi, a turno. Vi sono 6 ambienti: apodyterium o spogliatoio, frigidarium, tepidarium, laconicum e, separati, una cisterna ed il praefurnium. Una deviazione si avvicina alla spiaggia occidentale, dove si trovava il Capitolium contrassegnato da due colonne doriche di diversa origine. Qui c’erano 4 colonne che ora si trovano nella cripta della chiesa romanica di Santa Giusta. Proseguendo si arriva al luogo del Tempio punico delle semicolonne doriche dedicato a Melqart. Questo tempio, che è uno dei soli 8 templi punici completi della Sardegna, è stato portato alla luce dal prof. Gennaro Pesce, smontando il tempio romano sovrapposto, e qui sono stati trovati i due leoni di arenaria, ora nel Museo acheologico di Cagliari, mentre una copia si è vista nel Museo Comunale di Sant’Antioco.
Uscendo dall’area di Tharros, si passa per il villaggio di S. Giovanni di Sinis con la chiesa omonima, basilica paleocristiana a tre navate, con volta a botte in grossi blocchi di pietra sulla navata maggiore e grandi archi che separano le navate laterali. La struttura è rimasta originale.
La tappa successiva è il Museo Archeologico di Cabras dove si trova una ricostruzione degli insediamenti nella regione del Sinis ed in particolare dello stagno di Cabras abitato dal neolitico, IV millennio a.C., e dove è rimasto un isolotto con un pozzo sacro. Qui i pescatori usavano barche di canne palustri dette fossonis a poppa mozza, che galleggiavano naturalmente per l’aria contenuta nelle canne. Erano usate da una sola persona e mosse a remi o con una lunga pertica; dopo la pesca si ponevano verticali per asciugare. Ancora oggi nello stagno si pescano le anguille e la muggine da cui si fa la bottarga. Il lago è diventato sempre più salato e le canne si sono estinte. Il sito è quello di Cuccuru is Arrius, nel lato sud dello stagno, nell’età del bronzo finale (1100-900 a.C.). La ceramica neolitica del sito usava la tecnica delle superfici lucide lustrandole durante la fabbricazione prima della cottura. Dall’area di Tharros provengono circa 5000 urne cinerarie e le steli ex-voto del tofet che vanno dal VII al II secolo a.C.. Dai carichi di molte navi affondate provengono lingotti di piombo con il cartiglio che indicava la provenienza e anfore per la salsa di pesce (garum).
L’ultima sosta si fa al piccolo centro di Santa Giusta, luogo dell’antica città fenicio-punica di Othoca, sulle rive del lago (stagno) omonimo, poco a sud di Oristano. Nel 1135-45 vi fu eretta la cattedrale romanica dedicata a Santa Giusta in stile lombardo-pisano. L’interno è a tre navate divise da colonne di spoglio in marmo e granito con capitelli tutti diversi. La cripta, sotto il presbiterio, poggia su sei tozze colonne, quattro delle quali provengono dal Capitolium di Tharros.
SANTALI E CAGLIARI
Nel quarto giorno che chiude il viaggio, si visitano al mattino le grotte naturali di Is Zuddas e la necropoli di Montessu, con le Domus de Janas nuragiche, e, al pomeriggio, si conclude con la visita al Museo Nazionale Archeologico di Cagliari.
Le grotte Is Zuddas si trovano 6 km circa a sud della cittadina di Santadi, nel Sulcis, sulle falde del monte Meana. Si sono originate nel Cambriano superiore, 500 milioni di anni fa e sono state aperte nel 1985. Hanno una planimetria di 2 km ed il percorso è di 500 m. La siccità degli ultimi anni ha ridotto moltissimo la percolazione e l’effetto delle recenti piogge si risentirà solo tra 2 anni. Si scende fino a circa 25 m di profondità. Si vedono belle formazioni di candida aragonite, stalattiti aghiformi ed altre sviluppatesi in modo irregolare in ogni direzione, come non influenzate dalla gravità. Le grotte hanno subito nel tempo movimenti tettonici lenti che hanno dislocato le formazioni.
Sempre nell’area di Santadi, a nord-ovest, sulla sommità del Monte Essu (278 m), si trova una delle necropoli preistoriche più vaste della Sardegna di domus de janas (case delle fate) prenuragiche con circa 30 tombe di diverse tipologie. Le loro origini risalgono al neolitico tardo (4000-2000 anni a.C.) e sono state usate nell’eneolitico (dal 2700 a.C.) e fino al bronzo antico (1800-1600 a.C.); conservano ancora decorazioni e tracce di pittura. Le tipologie principali delle tombe sono tre: quelle a pozzetto, quelle a cupola e quelle a sviluppo orizzontale. Dall’area di parcheggio, si sale prima lungo un sentiero fino ad un piazzale e, da questo, una rampa porta ad una delle aree più interessanti. Una tomba a cupola è formata da una camera circolare coperta da una cupola con un’apertura angusta per introdurre il cadavere dopo scarnificazione. I pastori hanno rotto le cupole ed usato le camere come abbeveratoio per la pecore. Le tombe erano utilizzate fino a riempirle, poi erano riutilizzate trasferendo le vecchie ossa in una zona sacra. La cupola è decorata all’interno con spirali, un simbolo femminile, solare e di vita. All’esterno si nota una scala, scavata nella roccia che portava all’ingresso, anche questa è decorata nell’alzata del gradino con un motivo a dente di cane colorato in ocra rossa. La seconda tipologia di tomba, con corridoio e camere interne, si presenta come una piccola porta, alta 60 cm circa, sulla parete verticale della roccia. L’ingresso è un poco sopraelevato ed un’impronta fa da invito per il piede. Accanto all’ingresso vi sono delle coppelle per le offerte e sulla parete un’impronta in negativo della dea madre. L’interno è molto ampio e vi sono tre aperture nella parete; due ampie per fare entrare i cadaveri e la terza, centrale e piccola, rappresenta la porta per il regno dei morti. Davanti vi sono fori per pali totemici.
Tornati a Cagliari, a completamento del viaggio si fa una visita al Museo Archeologico Nazionale. Le raccolte del museo iniziano dal neolitico sardo, circa 6000 anni fa, con le armi di ossidiana e le statuette della dea madre che diventano sempre più prosperose con il tempo. Poi le ceramiche che si evolvono fino ai grandi vasi a tripode da poggiare sopra il focolare, armi e strumenti di pietra come asce e picconi. Questo è il periodo megalitico con i dolmen funerari e gli allineamenti di pietre (menhir). Si distinguono varie età denominate culture che prendono il nome dalle località, la più antica è quella di Ozieri (Sassari), dal 3500 al 2700. A partire dall’eneolitico (2700 a.C.) compare il rame, il commercio dei metalli e la metallurgia con le matrici di fusione in pietra. Dal 1800 si entra nell’età del bronzo e dal 1600 inizia la civiltà nuragica. Il periodo di massimo sviluppo di questa civiltà si ha nel periodo del bronzo tardo (1200-900), di questo periodo sono armi ed oggetti in bronzo ed una grande varietà di bronzetti, statuette raffiguranti personaggi mitici o comuni e le famose navicelle nuragiche. Dal 900 a.C. in Sardegna inizia l’età del ferro ed arrivano i Fenici e dopo i Cartaginesi ed i Romani.
Fonte: http://www.travelphotoblog.org/ArchivioPersonale/ITALTOUR.doc
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