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Introduzione
L'occhio è un organo dalla forma sferoidale, alloggiato nella cavità orbitaria, protetto dalle palpebre e da altri annessi oculari. La sua funzione è quella di captare le radiazioni luminose provenienti dal mondo esterno e di trasformarle in impulsi nervosi che saranno utilizzati a scopi percettivi (visione) e riflessi.
Vi si considerano due poli, uno anteriore, al centro della cornea (che ne è il punto di maggior sporgenza, detto anche vertice), ed uno posteriore; un asse anatomico o asse ottico, che li congiunge, un equatore (circonferenza sul piano frontale, equidistante tra i due poli), che lo divide in due emisferi (o segmenti anteriore e posteriore) di dimensioni pressoché uguali. Si considerano anche i meridiani: grandi cerchi passanti per i due poli; di questi i più importanti sono il meridiano orizzontale ed il meridiano verticale, che dividono l'occhio in quattro quadranti. Come detto, l'asse anatomico, o asse geometrico, è la linea sagittale che congiunge i due poli; nella sua totalità prende il nome di asse esterno, mentre per asse interno se ne intende il segmento che decorre all'interno dell'occhio, fra la cornea e la retina. Quest'ultimo prende anche il nome di asse ottico che, passando per il centro della pupilla (se questa è centrata), incontra il punto nodale, che è il centro ottico dell'occhio, situato internamente al cristallino. L'asse anatomico non coincide con l'asse visivo (o linea della visione), che congiunge un oggetto esterno, fissato con lo sguardo, con la fovea, passando per il punto nodale. La fovea, infatti, si trova spostata 4 mm lateralmente e 1 mm inferiormente rispetto al polo posteriore.
Anteriormente, l'occhio è in rapporto con le palpebre ed è coperto, fino al margine corneale, dalla congiuntiva che da queste si riflette sopra di esso. E' accolto in una specie di capsula formata dalla fascia del bulbo o di Tenone, che arriva fino alla cornea e che si fissa, mediante una sua espansione, al margine orbitario. L'occhio è separato dalla capsula mediante una fessura che ne rende possibile la mobilità. Dietro la fascia si trova una massa di tessuto adiposo, il corpo adiposo dell'orbita, che contribuisce, insieme alla fascia ed alle sue dipendenze, a mantenere il bulbo in posizione e nel giusto grado di sporgenza.
Il bulbo oculare è costituito da tre membrane sovrapposte: membrane oculari, e da un contenuto: nucleo del bulbo oculare. La membrana più superficiale è la tonaca fibrosa, che in un piccolo segmento anteriore, a contorno circolare, è trasparente e prende il nome di cornea; nella rimanente parte è opaca e si chiama sclera o sclerotica; le due zone sono separate da un solco anulare superficiale: il solco della sclera, sito a livello del sesto anteriore dell'occhio. All'interno della tonaca fibrosa è applicata la tonaca vascolare, ricca di vasi sanguigni e di pigmento scuro, e contenente elementi muscolari lisci. Questa, nella parte posteriore, la più estesa, ha una disposizione semplice e regolare e prende il nome di coroide; anteriormente ha una struttura più complicata e forma, unendosi alla retina, il corpo ciliare e, più avanti, l'iride. L'iride è un diaframma con un forame centrale circolare, la pupilla, posta posteriormente ed a una certa distanza dalla cornea; la sua funzione è quella di regolare la quantità di luce che entra nell'occhio. La più profonda delle tre membrane, la retina, è di natura nervosa e da essa origina il nervo ottico. La sua faccia posteriore, la più estesa, è disposta regolarmente sulla faccia profonda della coroide e prende il nome di parte ottica della retina, essendo responsabile della funzione visiva. La parte anteriore, invece, non contiene elementi di natura nervosa, non partecipa alla formazione del nervo ottico e prende il nome di parte cieca della retina. Aderisce alla faccia profonda del corpo ciliare e dell'iride e concorre alla formazione di questi organi, distinguendosi in parte ciliare e parte iridea. Le due parti sono separate da un avvallamento, noto come ora serrata.
All'interno del globo oculare, fra la cornea e l'iride, si trova uno spazio, camera anteriore, riempito di un liquido incolore, trasparente e fluido come l'acqua, che prende il nome di umor acqueo. Posteriormente alla camera anteriore, dietro l'iride e la pupilla, si trova il cristallino ( o lente cristallina o semplicemente lente): un corpo trasparente e biconvesso connesso, per mezzo di un particolare apparato di sospensione, la zonula ciliare, con la regione ciliare. Tra l'iride, il corpo ciliare ed il cristallino è compreso unospazio anulare, la camera posteriore, comunicante con la camera anteriore lungo il margine della pupilla, ripiena anch'essa dello stesso umor acqueo. Il rimanente, ampio spazio del bulbo oculare, limitato dal cristallino col suo apparato sospensore e dalla retina, è occupato dal corpo vitreo, formato da sostanza di consistenza gelatinosa, incolore e trasparente.
Cornea, umor acqueo, cristallino e corpo vitreo costituiscono i mezzi diottrici (o sistema o apparato diottrico) dell'occhio, che può essere considerato come una lente convergente dotata di un notevole potere refrattivo: circa 60 diottrie. Il centro ottico viene a trovarsi a circa 7 mm dalla cornea, mentre il punto dove convergono i raggi luminosi paralleli (fovea), si trova a 24 mm dalla cornea.
In un occhio perfettamente conformato ed a riposo (con l'apparato di accomodazione inattivo), la lunghezza dell'asse ottico ed il potere di refrazione dell'apparato diottrico sono tali che gli oggetti posti a distanza infinita proiettano nettamente la loro immagine nella parte ottica della retina: in queste condizioni, l'occhio si dice emmetrope. Quando non esiste un giusto rapporto fra potere refrattivo e lunghezza dell'asse ottico si parla di ametropie: ipermetropia quando l'immagine si forma dietro la retina e miopia quando l'immagine si forma davanti alla retina
Orbite
Le orbite sono due cavità a forma di piramide quadrangolare che contengono i bulbi oculari; l’apice delle piramidi è rivolto in dietro (ed a questo livello si trova il forame ottico) mentre la base si apre in avanti.
Le ossa che compongono la piramide orbitarla sono le seguenti:
Apice dell’orbita: corrisponde al forame ottico dove passano fra l’altro il nervo ottico e l’arteria oftalmica.
In prossimità dell’apice orbitarlo troviamo poi la fessura orbitaria inferiore e la fessura orbitaria superiore: attraverso quest’ultima (formata da grande e piccola ala dello sfenoide) passano fra l’altro i nervi deputati ad innervare i muscoli extraoculari.
Nell’ambito dell’apparato lacrimale è importante distinguere fra:
Ghiandole lacrimali (sierose, tubulo-acinose)
Vasi: arteria lacrimale(ramo dell’arteria oftalmica)
Nervi: nervo trigemino (V°, sensitivo), nervo faciale (VII°, motorio), nervi del sistema simpatico.
I puntini lacrimali superiore ed inferiore “pescano” le lacrime che attraverso i canalicoli lacrimali, che confluiscono in un unico dotto lacrimale, veicolano le lacrime nel sacco lacrimale e da qui nel meato nasale inferiore
Ha funzioni ottiche (distribuendosi sulla superficie corneale la rende liscia ed omogenea), metaboliche (nutrimento della cornea), lubrificanti, di difesa e di pulizia. E’ composto da tre strati: mucoso (interno), sieroso(intermedio), lipidico (esterno, evita una eccessiva evaporazione). Questo film si distribuisce su superficie corneale/congiuntivale grazie ai movimenti di ammiccamento; il muscolo orbicolare, contraendosi, convoglia il liquido verso il meato nasale inferiore.
Sono due veli muscolo-membranosi che chiudono in avanti l’orbita ed hanno funzione protettiva.
Nello spessore delle palpebre ci sono le ghiandole di Meibomio che umidificano e lubrificano la superficie anteriore del globo oculare producendo in particolare materiale lipidico. Gli orifizi delle ghiandole di Meibomio sboccano sul bordo palpebrale.
Si distinguono:
Strati delle palpebre:
Vasi: arterie palpebrali (rami dell’arteria oftalmica)
Linfatici: scaricano nei linfonodi preauricolari e sottomascellari Nervi: - faciale (VII°): innerva l’orbicolare
E’ una membrana mucosa che riveste la superficie posteriore delle palpebre riflettendosi all’indietro e rivestendo poi la superficie anteriore del globo oculare, delimitando uno spazio virtuale detto sacco congiuntivele.
E’ formata da due strati:
Annesse alla congiuntiva abbiamo molte ghiandole, sierose e mucose. La congiuntiva si divide in:
I movimenti del bulbo oculare si effettuano mediante l'azione combinata di 6 muscoli.
Quattro muscoli retti: retto superiore, retto inferiore, retto esterno (o laterale) e retto interno (o mediale). Due muscoli obliqui: obliquo superiore (o grande obliquo) ed obliquo inferiore (o piccolo obliquo).
I muscoli extraoculari, tranne l'obliquo inferiore, costituiscono un insieme anatomico, a forma di cono, il cui apice si inserisce sul fondo dell'orbita e la cui base è rappresentata dall'inserzione sclerale dei muscoli sul bulbo. Quando si
esegue un movimento oculare, non è un solo muscolo che compie l'azione di muovere il bulbo in una particolare direzione, bensì sono tutti i muscoli ad essere direttamente coinvolti, in quanto mentre alcuni si contraggono altri si rilasciano.
Lo scopo finale di una corretta esecuzione dei movimenti oculari è quello di seguire le immagini e mantenerle sulla retina per consentirne la fusione a livello corticale ed ottenere un'immagine tridimensionale del mondo esterno.
Muscoli retti: sono quattro muscoli sottili e nastriformi. Sono denominati inferiore, superiore, laterale e mediale e trasmettono al bulbo i movimenti orizzontali, verticali e laterali.
Muscolo elevatore palpebrale: pur non essendo un muscolo oculomotore è annoverato tra i muscoli estrinseci. Ha la forma di un lungo triangolo con l'apice nel fondo dell'orbita e la base nella palpebra superiore. E' innervato dal nervo oculomotore e contraendosi solleva la palpebra superiore.
Muscolo orbicolare: muscolo che circonda le palpebre. La sua funzione, assieme al muscolo elevatore palpebrale, è quella di aprirle e chiuderle.
Muscoli obliqui: il muscolo obliquo superiore (Grande Obliquo) è il più lungo e sottile dei muscoli oculari. Ha la funzione di ruotare ed abbassare il bulbo. Il muscolo obliquo inferiore è il più corto fra i muscoli dell'occhio. Contraendosi eleva e ruota verso l'esterno il bulbo.
Muscolo |
Innervazione |
Funzione principale |
Elevatore palpebra superiore |
Oculomotore comune (III°) |
Elevazione palpebra superiore |
Retto mediale |
Oculomotore comune (III°) |
Adduzione (interno) |
Retto laterale |
Abducente (VI°) |
Abduzione (esterno) |
Retto superiore |
Oculomotore comune (III°) |
Elevazione, adduzione, rotazione interna |
Retto inferiore |
Oculomotore comune (III°) |
Depressione, adduzione, rotazione esterna |
Obliquo superiore |
Trocleare (IV°) |
Depressione, adduzione, rotazione |
Obliquo inferiore |
Oculomotore comune (III°) |
Elevazione, adduzione, rotazione |
Si distinguono una tonaca fibrosa (esterna), una tonaca vascolare (intermedia) ed una tonaca nervosa (interna)
Cornea
E' il segmento anteriore della tonaca fibrosa dell'occhio, di cui costituisce circa un sesto. E' separata dalla sclera da una limitata area di transizione, il limbus sclerocorneale o orlo corneale. Ha l'aspetto di una calotta sferica, trasparente, e fa parte dell'apparato diottrico dell'occhio.
La superficie anteriore, di forma ellissoidale, ha un'estensione alquanto minore di quella posteriore ed è meno incurvata, avendo un raggio di curvatura maggiore. La congiuntiva bulbare, che è applicata sulla parte anteriore della sclera, si continua senza limiti netti sulla superficie anteriore della cornea col suo epitelio, che diventa parte integrante della cornea stessa.
La superficie posteriore è regolarmente circolare, più estesa, più fortemente e più regolarmente incurvata della superficie anteriore.
La cornea ha proprietà speculare, per cui riflette gli oggetti del mondo esterno e, soprattutto, funzione diottrica, con un potere convergente di 41-45 diottrie; tale potere, però, non è uguale su tutti i meridiani, in quanto il loro raggio di curvatura è variabile anche in condizioni fisiologiche (da cui la genesi dell'astigmatismo corneale fisiologico e patologico); solo nei 4 mm più centrali la curvatura sarebbe perfettamente sferica.
La cornea è costituita da diversi strati sovrapposti che, dalla superficie anteriore a quella posteriore, sono: epitelio corneale, lamina elastica anteriore (di Bowmann), sostanza propria, lamina elastica posteriore (di Descemet), endotelio. Lo strato della sostanza propria è il più spesso, costituisce effettivamente la parte anteriore della tonaca fibrosa dell'occhio e rappresenta la parte sclerale della cornea.
L'epitelio, che si continua nell'epitelio della congiuntiva, rappresenta, insieme alla membrana elastica anteriore, la parte congiuntivale, mentre la lamina elastica posteriore e l'endotelio, che si sviluppano insieme alla tonaca vascolare dell'occhio, rappresentano la parte coroidea della cornea.
L'epitelio corneale è un tipico epitelio pavimentoso composto, costituito da 6-8 strati di cellule. Le cellule dell'epitelio corneale sono elastiche, dotate di notevole plasticità e facilmente scivolano le une sulle altre.
La membrana basale dell'epitelio è più spessa delle membrane basali degli altri epiteli, raggiungendo circa 12 µm di spessore. Sull'orlo della cornea si assottiglia e si continua nella sottilissima membrana basale della congiuntiva sclerale.
La sostanza propria della cornea è di connettivo membranoso denso ed è costituita da una cinquantina di lamelle, dello spessore di 8-10 µm, che decorrono parallelamente alla superficie della cornea. Le lamelle, composte da un gran numero di fasci di fibre connettivali, non sono indipendenti fra loro, in quanto si scambiano molte delle loro fibre. La sostanza interfibrillare è costituita da acido ialuronsolforico (al contrario della cartilagine, dove si trova il condroitinsolforico). Ha la proprietà di fissare una gran quantità di acqua e di rendere così possibile la diffusione delle sostanze nutritive; una sottrazione d'acqua o una eccessiva imbibizione determinano l'opacamento della cornea. Nella sostanza propria della cornea si trovano cellule connettivali fisse, le cellule corneali, insieme a leucociti migranti.
La lamina elastica posteriore di Descemet è una membrana a fresco perfettamente omogenea, trasparente, molto elastica e termina all'orlo corneale in maniera netta, a becco di flauto. Aderisce lassamente alla sostanza propria della cornea.
L'endotelio corneale tappezza tutte le pareti della camera anteriore. E' formato da una fila di cellule regolarmente appoggiate alla faccia profonda della lamina elastica posteriore, larghe ed appiattite.
La cornea non possiede vasi ematici, se non per un'estensione di 1-2 mm a livello dell'orlo sclero-corneale. La nutrizione è assicurata solo dalla sua permeabilità. E' dotata di una ricca innervazione, che le conferisce intensa sensibilità dolorifica.
Si trova al limite fra cornea e sclerotica, dove la tonaca fibrosa acquista, internamente, caratteri peculiari, costituendo il sistema trabecolare sclero-corneale. Questo si presenta, in sezioni meridiane, di forma triangolare: la base, che rimane indietro, è in continuazione col tessuto della sclerotica e col tendine del muscolo ciliare; il lato interno, il più lungo, corrisponde alla camera anteriore; il lato esterno è a contatto con la sclerotica, dalla quale è in parte separato per l'interposizione del seno venoso della sclerotica (si veda più avanti). L'apice del triangolo, volto in avanti, è in continuazione con i fasci più profondi della sostanza propria della cornea. E' costituito da trabecole disposte a ventaglio, che si anastomizzano le une con le altre e delimitano spazi allungati che comunicano fra loro e con la camera anteriore dell'occhio.
Il seno venoso della sclerotica o canale di Sclemm decorre lungo l'orlo sclero-corneale, sulla faccia profonda della sclerotica, dove questa si continua nella cornea. E' un vaso venoso anulare, beante, a sezione ovale, appiattito parallelamente alla superficie dell'occhio.
La sclera forma, con la cornea, la tonaca fibrosa dell'occhio e ne costituisce i cinque sesti posteriori. E' opaca, bianca e splendente. In vicinanza del nervo ottico ha lo spessore maggiore: 1-2 mm, si assottiglia anteriormente ed all'equatore misura 0,4-0,5 mm. E' costituita principalmente da fasci di fibre connettivali, strettamente unite, che si
sovrappongono in molti strati e si intrecciano in ogni senso, anche se decorrono prevalentemente in direzione meridiana ed equatoriale. Contribuiscono alla sua formazione le fibre tendinee dei muscoli oculari. Vi si trovano anche molte fibre elastiche sottili che decorrono lungo i fasci connettivali e sono più abbondanti negli strati più superficiali.
La superficie esterna, convessa, è in rapporto con la capsula fibrosa formata dalla fascia o capsula di Tenone e ne è separata (tranne che in una stretta zona pericorneale) da una fessura attraversata da numerose trabecole connettivali che passano da una membrana all'altra senza per questo impedire i movimenti di rotazione del bulbo rispetto alla fascia.
Anteriormente sulla sclera si applica, con l'intermezzo della fascia del bulbo, la congiuntiva del bulbo; in questa regione la sclerotica è visibile fra le palpebre, formando il bianco dell'occhio.
La superficie interna è per la maggior parte addossata alla coroide ed in avanti al corpo ciliare ed al contorno dell'iride. L'unione fra sclera e tonaca vascolare si attua per mezzo di tessuto connettivo lasso, pigmentato e costituito da trabecole che limitano lacune comunicanti che costituiscono, nel loro insieme, una fessura contenente liquido trasparente: lo spazio pericoroideo, attraversato dai vasi e dai nervi che vanno da una membrana all'altra. Data questa struttura, la sclera si può facilmente distaccare dalla coroide; quando ciò si verifica, rimane addossato alla sclera uno straterello di tessuto fioccoso e pigmentato che le conferisce un colore brunastro: la lamina fusca.
A livello dell'orifizio del nervo ottico, fasci di fibre che provengono dalle lamelle interne della sclera attraversano il foro in varie direzioni, incrociandosi fra loro e formando una lamina con molti piccoli orifizi, la lamina cribrosa della sclera, attraverso la quale passano i fascetti di fibre del nervo ottico. Intorno all'emergenza del nervo ottico, la sclera forma un canale che questo attraversa.
A molti livelli la sclera è attraversata da piccoli orifizi per il passaggio di vasi e nervi.
La tonaca vascolare dell'occhio (uvea o tratto uveale) è interposta fra la tonaca fibrosa, all'esterno, e la retina, all'interno. E' caratterizzata dalla ricchezza di vasi sanguigni, dalla forte pigmentazione e dalla presenza di tessuto muscolare. Può essere nettamente suddivisa in tre zone che, in direzione antero-posteriore, sono l'iride, il corpo ciliare e la coroide.
E' formato dal segmento anteriore della tonaca vascolare e dalla parte iridea della retina, che gli si unisce posteriormente. Ha la forma di un disco circolare, posto sul piano frontale, davanti al cristallino ed a contatto di questo con la sua parte centrale. Inizia a circa un millimetro dal margine corneale e si dirige trasversalmente sul piano frontale, rimanendo separato dalla cornea tramite la camera anteriore, contenente umor acqueo. Presenta, nella parte centrale, un foro circolare, che è la pupilla. Il diametro totale è di circa 12 mm e lo spessore medio è di 0,3 mm, raggiungendo un massimo in vicinanza della pupilla.
La faccia anteriore dell'iride è visibile attraverso la cornea e presenta una colorazione che varia molto a seconda dei soggetti. La colorazione è determinata da due fattori: la pigmentazione del suo strato profondo, costituita dalla parte iridea della retina, ed il pigmento che può esistere negli strati più superficiali. Il pigmento dello strato profondo conferisce un colore nerissimo, ma i raggi luminosi che investono l'iride e che ne vengono in parte riflessi subiscono, nell'attraversare gli strati superficiali, che sono traslucidi, fenomeni di diffrazione; ne risulta un colore che oscilla fra il celeste e l'ardesiaco, che prende il nome di colore fondamentale dell'iride. In molti casi, negli strati superficiali dell'iride si trova altro pigmento, di colorito giallo aranciato, potendo variare dal giallo pallido al marrone cupo. Per la sua presenza, il colore fondamentale dell'iride può essere occultato (occhi neri) o modificato (occhi chiari).
La faccia posteriore dell'iride è leggermente appoggiata al cristallino e concorre a limitare anteriormente la camera posteriore. E' uniformemente nera, a causa della parte iridea della retina, che vi aderisce. Presenta, visibili con una lente, due sistemi di pieghe: le prime sono grossolane e radiali, le seconde circolari e finissime.
La pupilla non ha sempre una posizione perfettamente centrale, ma può essere leggermente spostata, il più spesso in basso e in dentro. Normalmente è circolare, ma può anche essere ellittica, variamente orientata. Nel vivente, il diametro, mediamente di 3-4 mm, varia molto in condizioni di diversa illuminazione, stress, azioni farmacologiche, ecc.
L'iride è formato da vari strati sovrapposti che, in senso antero-posteriore, sono l'endotelio, lo stroma e l'epitelio. L'endotelio copre la faccia anteriore dell'iride ed è in continuazione con quello della faccia posteriore della cornea (endotelio della camera anteriore). Lo stroma, che forma lo strato fondamentale dell'iride, è costituito da tessuto connettivo fibrillare, è percorso dai vasi e dai nervi propri e contiene un muscolo, il muscolo sfintere della pupilla. Quest'ultimo è un anello appiattito costituito da fascetti di muscolatura liscia che decorrono parallelamente al margine pupillare, della larghezza di 1 mm e dello spessore di 40-80 µm. La sua contrazione determina il restringimento della pupilla (miosi). L'epitelio è costituito dalla parte iridea della retina, in diretta continuazione con la sua parte ciliare. Vi si distinguono uno strato interno ed uno esterno. Lo strato interno è costituito da un piano di grosse cellule poliedriche, che contengono piccoli granuli rotondi ricchi di pigmento fortemente scuro, tanto che tutto lo strato appare quasi uniformemente nero. Lo strato esterno è in continuazione dello strato esterno della parte ciliare della retina, ma le sue cellule sono molto diverse, essendosi trasformate in epitelio-muscolari. Queste, di aspetto fusiforme, si continuano centralmente in un lungo prolungamento di aspetto fibrillare, costituendo una
membranella dello spesso di 2-3 µm e formando così il muscolo dilatatore della pupilla, che si estende dal margine ciliare dell'iride fino al margine pupillare, senza raggiungerlo. La sua contrazione provoca dilatazione della pupilla (midriasi).
Il corpo, o processo ciliare, è la zona media della tonaca vascolare dell'occhio che, facendo seguito all'iride, si estende fino alla coroide, da cui è separata da un solco anulare che prende il nome di ora serrata. Nella superficie interna è rivestito dalla parte ciliare della retina, il cui strato esterno è fortemente pigmentato. Ha forma anulare ed il suo spessore aumenta da dietro in avanti, risultando di forma triangolare nelle sezioni meridiane. E' composto da un segmento posteriore (orbicolo ciliare), da un segmento anteriore (corona ciliare) e dal muscolo ciliare, che è applicato alla faccia esterna della corona e si prolunga sulla parte prossimale della faccia esterna dell'orbicolo. I processi ciliari sono rilievi della superficie interna che percorrono la corona in direzione meridiana. Sono circa 70, disposti radialmente e spiccano per il loro colorito bianco lucente sullo sfondo bruno della regione. Hanno, in media, una lunghezza di 2-3 mm, sono rigonfiati alla loro estremità anteriore, più prominente, e sono separati da solchi, o vallecule, dalle quali sono tese fibre che vanno dal corpo ciliare alla zona equatoriale del cristallino (zonula ciliare di Zinn). Il muscolo ciliare occupa la parte antero-esterna del corpo ciliare. E' un anello prismatico triangolare, di colore bianco grigiastro. La faccia esterna e quella interna (entrambe di 6-7 mm), sono in rapporto, rispettivamente, con la sclerotica e con la corona e l'orbicolo ciliare. La terza faccia è piccola (0,6-0,8 mm) e prospetta verso l'angolo irido-corneale ed il margine ciliare dell'iride. Il muscolo è costituito da fascetti di cellule muscolari lisce, anastomizzate fra loro, e non raccolti in una formazione compatta, essendo intramezzati da tessuto connettivo e vasi. Per la direzione che i fascetti di fibre assumono si distinguono nel muscolo due porzioni: una a fibre meridionali (del Brucke) ed una a fibre circolari (del Muller). Le fibre meridionali decorrono secondo i meridiani e si trovano nelle parti più superficiali del muscolo, sotto la sclerotica. Connesse in avanti, per mezzo delle fibre tendinee, col sistema trabecolare sclero-corneale, si prolungano indietro, fino a raggiungere lo stroma dell'orbicolo ciliare e della coroide. Le fibre circolari costituiscono un anello che occupa l'angolo antero-interno del muscolo e che decorre parallelamente ed in prossimità del margine ciliare dell'iride. Nella parte a fibre meridionali sono presenti anche molte fibre elastiche, assenti in quella a fibre circolari.
Il muscolo ciliare serve all'accomodazione, o adattamento refrattivo. Quando i vari ordini di fibre che lo compongono si contraggono, la regione ciliare si sposta in avanti verso la cornea (prevalentemente per azione delle fibre meridionali) ed in dentro, verso l'asse dell'occhio (prevalentemente per azione delle fibre circolari). Ciò provoca il rilassamento dell'apparato sospensore del cristallino, cioè della zonula ciliare; il cristallino non è più sottoposto alla trazione della zonula (che lo distende in senso radiale e ne mantiene le superfici alquanto schiacciate) e, obbedendo alla sua elasticità, accorcia il suo diametro equatoriale e si ingrossa in direzione sagittale, aumentando la curvatura delle sue facce, particolarmente di quella anteriore. Questa condizione, che rende maggiore il potere refrangente del cristallino, è necessaria per la visione distinta degli oggetti vicini.
E' una membrana a forma di sfera cava, che si estende nei due terzi posteriori del bulbo, dall'entrata del nervo ottico all'ora serrata della retina, ove si continua gradualmente col corpo ciliare. E' riccamente vascolarizzata, e serve alla nutrizione dell'epitelio pigmentato e degli strati esterni della retina. Insieme all'epitelio pigmentato della retina, concorre col proprio pigmento ad assorbire i raggi luminosi che hanno attraversato la retina, impedendone la riflessione sulla sclerotica.
Ha colore rugginoso bruno scuro; per la ricchezza di vasi, nel vivente il suo spessore sarebbe di 200-300 µm. E' delicata e facilmente lacerabile. E' applicata alla faccia profonda della sclerotica aderendovi molto debolmente per mezzo di tessuto connettivo lasso che forma la lamina sovracoroidea, fatta da lamelle connettivali che limitano spazi comunicanti i quali formano lo spazio pericoroideo, attraversato da vasi e da nervi. Quando le due parti si separano, il che avviene facilmente, una parte della lamina sovracoroidea rimane aderente alla faccia profonda della sclerotica costituendo, come già detto, la lamina fusca. A livello della macula lutea, l'aderenza fra coroide e sclerotica è alquanto maggiore. Posteriormente, la coroide presenta un orifizio di 1,5 mm di diametro per il passaggio del nervo ottico, pur concorrendo alla formazione della lamina cribrosa.
La coroide è costituita da quattro strati sovrapposti e fra loro in continuità: la lamina sovracoroidea, all'unione con la sclerotica; la lamina vascolare, che costituisce lo strato fondamentale della coroide e risulta dalle ramificazioni delle arterie e delle vene proprie della coroide stessa, con l'interposizione di un relativamente scarso stroma collagene; la lamina coriocapillare, formata da una fila semplice di vasi capillari grossi, fitti e riuniti a rete, che nutrono gli strati superficiali della retina, sprovvisti di vasi; la lamina basale, membranella molto sottile (2 µm), intimamente unita alla lamina coriocapillare. Alcuni Autori descrivono, insieme alla membrana basale, lo strato sovracapillare di Smirnow, un sottile straterello ricco di fibre elastiche, che secondo altri è di pertinenza della lamina coriocapillare. Alcuni considerano lo strato sovracapillare di Smirnow e la membrana basale come un tutt'uno, dandovi il nome di lamina vitrea di Bruch; in realtà, mentre il primo è certamente un componente della coroide, la seconda appartiene più propriamente, per la sua origine, all'epitelio pigmentato della retina.
Retina
La retina è la più interna delle tre membrane che formano le pareti del globo oculare e si estende dal punto di entrata del nervo ottico fino al margine pupillare dell'iride. Per la sua origine, per la struttura della sua parte principale e per le sue connessioni con il nervo ottico, deve essere considerata come di natura nervosa. Risulta, in tutta la sua estensione, di due foglietti sovrapposti, che al margine pupillare dell'iride si riflettono e si continuano l'uno nell'altro: un foglietto esterno ed un foglietto interno. Considerata nel suo insieme, può essere suddivisa in due parti.
La zona posteriore, parte ottica, è la più estesa: dall'entrata del nervo ottico arriva fino all'ora serrata, cioè alla linea circolare festonata che si trova un po' davanti all'equatore ottico; il suo foglietto interno ha conseguito, nello sviluppo, una struttura complicatissima e serve alle funzioni visive. Il foglietto esterno, o strato pigmentato, è rappresentato da un unico strato di speciali cellule con caratteristiche epiteliali, applicate sulla membrana basale della coroide e ricche di pigmento scuro (fuscina). Su tagli perpendicolari alla superficie della retina, queste cellule si mostrano a sezione esagonale e sono provviste, dalla parte rivolta verso la retina, di numerosi e sottili prolungamenti, o frange, che si insinuano fra i coni ed i bastoncelli.
La zona anteriore, parte cieca, risulta, da dietro in avanti, della parte ciliare, che aderisce al corpo ciliare, e della parte iridea, che aderisce all'iride; entrambe partecipano alla formazione di detti organi, coi quali sono in intimo
rapporto. In entrambe le parti, la retina è sottile e di struttura molto semplice; risulta formata in ambedue i foglietti da cellule con carattere epiteliale ed è insensibile alla luce.
Retina propriamente detta
La retina propriamente detta, o foglietto interno della parte ottica della retina, è una membrana regolarmente applicata, mediante la sua superficie convessa, alla faccia profonda dello strato pigmentato, con l'intermezzo del quale è in rapporto con la coroide; è a contatto, mediante la sua superficie profonda, col corpo vitreo. E' una membrana delicata, che facilmente si lacera e che, dopo la morte, si altera con grande rapidità.
In vita è trasparente. All'esame oftalmoscopico del fondo dell'occhio lascia vedere attraverso di essa una superficie rosso-brunastra dovuta allo strato pigmentato ed alla coroide; si vedono anche i vasi retinici, che decorrono negli strati interni della membrana.
Lo spessore della retina va lentamente diminuendo da dietro in avanti: sul contorno della papilla del nervo ottico misura 0,4 mm, diventando, all'ora serrata, di 0,1 mm. Vi si descrivono tre regioni particolari: la papilla del nervo ottico, la macula lutea e l'ora serrata.
La papilla del nervo ottico corrisponde al punto dove si raccolgono, convergendo da ogni parte, le fibre nervose che hanno preso origine nella retina e che vanno a costituire il nervo ottico. La papilla appare come un piccolo disco di color biancastro, circolare o leggermente ellittico con l'asse maggiore trasversale, del diametro di 1,5-1,7 mm. E' situata a 3-4 mm dal polo posteriore del bulbo, 1 mm più in basso. Non è prominente ma, situata sullo stesso piano della retina, presenta al centro una depressione, più o meno estesa e profonda, nota come escavazione fisiologica, dalla quale emergono i vasi retinici. E' insensibile alla luce e costituisce la localizzazione anatomica dello scotoma fisiologico (si veda la sezione riguardante la Fisiologia).
La macula lutea è una piccola regione della retina che si trova presso il polo posteriore dell'occhio, lateralmente ad esso. Il suo centro si trova a 3,91 mm lateralmente al centro della papilla e 0,78 mm più in basso; al suo centro corrisponde l'estremità posteriore della linea della visione. Ha forma leggermente ellittica, a grand'asse orizzontale; i limiti sono indistinti ed il diametro medio è di circa 2 mm. La sua parte periferica è rilevata a cercine, mentre centralmente presenta una fossetta, la fovea centrale, lunga 0,2-0,4 mm, dove la retina è molto sottile (0,1-0,08 mm). Nella fovea, lo strato delle cellule visive, che è il più profondo, a causa della riduzione degli strati antistanti è quasi allo scoperto, ed è perciò più accessibile all'azione diretta dei raggi luminosi; la fovea è la regione della visione distinta.
L'ora serrata segna il margine anteriore della parte ottica della retina che, assottigliandosi bruscamente e modificandosi nella struttura, si continua nella parte ciliare. E' situata anteriormente all'equatore, circa 7 mm dietro la cornea. Appare come una linea circolare, formata da una serie di festoni le cui sporgenze corrispondono agli intervalli fra i processi ciliari.
Struttura della retina
La retina è composta da molti strati sovrapposti che, andando dalla superficie esterna (applicata allo strato pigmentato) fino alla superficie interna (applicata al corpo vitreo) sono:
1° strato: dei coni e dei bastoncelli 2° " : membrana limitante esterna 3° " : dei granuli esterni
4° " : plessi forme esterno 5° " : dei granuli interni
6° " : plessiforme interno
7° " : delle cellule multipolari 8° " : delle fibre nervose
9° " : membrana limitante interna.
1.- Strato dei coni e dei bastoncelli. I coni ed i bastoncelli, cellule altamente specializzate che prendono il nome dalla forma del loro segmento esterno, sono gli elementi recettoriali del sistema visivo deputati alla trasduzione dell'energia luminosa in potenziali elettrici. Della loro funzione, come della funzione visiva dell'intera retina, si dirà nella parte dedicata alla Fisiologia del Sistema Visivo.
I bastoncelli sono disposti in una file semplice, a palizzata, perpendicolarmente alla membrana limitante esterna, sulla quale sembrano come impiantati ed in corrispondenza della quale ha luogo la loro continuazione con la rispettiva fibra; la loro estremità libera è volta verso l'epitelio pigmentato, arrivando a contatto delle cellule che lo compongono; i coni terminano un po' prima. Nella maggior parte della retina si vedono gruppi di bastoncelli, rigorosamente paralleli ed accostati gli uni agli altri, e ad ogni intervallo fra questi gruppi si trova un cono. Complessivamente, i bastoncelli sono in numero di 75 milioni, i coni di 3 milioni. Nella fovea centrale, fino a 0,25 mm dal suo centro, non esistono che coni; al di là cominciano ad intercalarsi i bastoncelli che aumentano progressivamente, fino a che, a 3-4 mm dal centro della fovea, sono divenuti venti volte più numerosi dei coni. Questa proporzione rimane sensibilmente costante fino alle immediate vicinanze dell'ora serrata, dove i bastoncelli diminuiscono di numero, senza che aumenti quello dei coni; qui gli uni e gli altri non sono più a stretto contatti fra loro, ma spazieggiati.
2.- Membrana limitante esterna. E' una linea sottile, netta e molto regolare che separa i segmenti esterni dei recettori da quelli interni. Terminano nella sua faccia profonda, e concorrono a formarla, le cellule di Muller.
3.- Strato dei granuli esterni. E' grosso (30-40 µm) e costituito dai corpi cellulari dei recettori con i loro nuclei (granuli, da cui deriva il nome dello strato) e le loro espansioni. I prolungamenti lamellari delle cellule di Muller separano fra loro i corpi cellulari delle cellule visive.
4.- Strato plessiforme esterno. E' sottile e formato da un intreccio di sottili fibre decorrenti in vario senso. Vi si incontrano i rigonfiamenti terminali delle cellule recettoriali e quelli delle cellule bipolari. E' attraversato dalle cellule di Muller e vi si può trovare il corpo di qualche cellula orizzontale.
5.- Strato dei granuli interni. E' spesso e caratterizzato dalla presenza di un gran numero di nuclei (granuli interni), che appartengono alle cellule orizzontali (disposte in doppia fila), alle cellule bipolari, più numerose, alle cellule di Muller ed alle cellule amacrine.
6.- Strato plessiforme interno. Grosso, è costituito da fibre intrecciate in tutti i sensi. Contiene le terminazioni delle cellule bipolari, delle cellule gangliari, delle cellule amacrine, delle cellule orizzontali.
7.- Strato delle cellule gangliari. Contiene, disposte in fila semplice e vicine l'una all'altra, le cellule gangliari (o multipolari) con la grossa origine dei loro prolungamenti. Vi si trovano anche il corpo e le espansioni di parte degli astrociti ed i soliti prolungamenti delle cellule di Muller.
8.- Strato delle fibre nervose. Inizia sottilissimo al limite anteriore della parte ottica della retina e, per aggiunta delle fibre nervose nate dalle cellule gangliari, ingrossa gradualmente nella direzione della papilla, dove arriva al suo massimo di 20 µm. La direzione delle fibre, in genere meridiana, si complica dal lato temporale, per la presenza della macula, che le costringe a compiere archi concentrici intorno ad essa. I fasci che provengono dalle parti più periferiche della retina si portano alla parte centrale della papilla, quelli dalle porzioni più vicine entrano nella sua parte periferica.
9.- Membrana limitante interna. E' formata dalla superficie di base delle cellule di Muller, tra loro riunite in uno strato continuo, con l'interposizione di sostanza cementante.
Le cellule radiali di Muller si estendono in altezza come sottili pilastri che si dispongono radialmente e riempiono praticamente tutto il volume non occupato dalle cellule nervose. Esse inoltre formano, con estensioni specializzate dei loro prolungamenti, le membrane limitanti della retina. Questi elementi, detti di sostegno, sono stati per lungo tempo considerati elementi passivi. Ma sono, in realtà, sede di fenomeni elettrici concomitanti con l'attività dei neuroni retinici (cfr. elettroretinogramma).
Vascolarizzazione della retina.
La retina è nutrita da due letti vascolari indipendenti, che sono stratificati l'uno sulla faccia interna (sistema dell'arteria centrale della retina) e l'altro sulla sua faccia esterna (sistema della coriocapillare). Il primo sistema provvede alla irrorazione delle cellule gangliari e delle bipolari, nonché dello strato delle fibre nervose, attraverso l'intermediazione delle cellule gliali (cellule di Muller ed astrociti) che avvolgono a manicotto i capillari, dato che nella retina non esistono spazi perivasali. Il secondo sistema provvede alla nutrizione dell'epitelio pigmentato e, attraverso questo, dei fotorecettori.
L'arteria centrale della retina penetra nell'occhio a livello della papilla e si divide in 4 rami che si dirigono verso la periferia, suddividendosi all'incirca dicotomicamente e senza contrarre anastomosi fra loro. I capillari, assai lunghi al polo posteriore e brevi alla periferia, in modo da mantenere condizioni di isopressione vascolare su tutta la superficie retinica, sono formati da una membrana di cellule endoteliali con giunzioni molto fitte, che poggiano su una sottile membrana basale contenente un certo numero di cellule intramurali (periciti). Gli scambi fra il sangue ed i tessuti sono pertanto modulati dall'attività delle cellule endoteliali (barriera ematoretinica), mentre la filtrazione è assente o assai scarsa. Il sangue refluo si reca, attraverso 4 rami venosi, in direzione della papilla e fuoriesce dal globo mediante la vena centrale della retina.
La coriocapillare costituisce un letto vascolare monostratificato, suddiviso in unità funzionali affiancate e disposte a mosaico; è formata da capillari a lume assai largo e pareti lasse, per cui i processi di filtrazione sono abbondanti e scarsamente selettivi. Il sangue raggiunge la coriocapillare attraverso le arterie ciliari posteriori, che formano una specie di anello arterioso attorno alla testa del nervo ottico. Questi vasi, relativamente ampi, hanno un breve decorso in senso radiale e si sfioccano rapidamente nei capillari. Il sangue refluo si dirige verso quattro o più lacune vascolari (vene vorticose) che fuoriescono dall'occhio dopo un breve percorso.
La camera anteriore è lo spazio limitato in avanti dalla faccia posteriore della cornea e dall'orlo sclero-corneale; in dietro dalla faccia anteriore dell'iride e dalla parte della faccia anteriore del cristallino che si affaccia alla pupilla. Convessa in avanti, leggermente concava in dietro, la sua profondità va diminuendo dalla parte centrale verso la periferia; termina lungo di questa con un angolo diedro, l'angolo dell'iride o irido-corneale, cui corrispondono il sistema trabecolare sclero-corneale ed il margine ciliare dell'iride, connesso col corpo ciliare. Il contorno è circolare, quindi i suoi diametri verticale ed orizzontale si equivalgono.
Poiché l'iride è applicato solo leggermente alla faccia anteriore del cristallino, rimane fra le due strutture una fessura capillare talché la camera anteriore comunica, attraverso la pupilla, con la camera posteriore, disposizione importante per la circolazione dell'umor acqueo.
L'umor acqueo, che riempie le due camere dell'occhio, è un liquido scorrevole come acqua, trasparente, incolore, senza elementi morfologici o, al più, con qualche raro linfocita.
L'umor acqueo si forma ultrafiltrazione e per secrezione dall'epitelio dei processi ciliari, forse anche con la partecipazione dell'epitelio dell'iride. Quindi si versa nella camera posteriore e da questa passa, scorrendo fra iride e cristallino, attraverso la pupilla, nella camera anteriore, dove è riassorbito. Il riassorbimento ha luogo principalmente all'angolo dell'iride; qui, sollecitato da una pressione endoculare che normalmente si aggira sui 14- 20 mmHg, attraversa un filtro (trabecolato sclerocorneale) e si immette nel canale di Sclemm, dal quale fuoriesce tramite le vene acquose o episclerali, tributarie delle vene ciliari anteriori. Al riassorbimento parteciperebbe anche l'iride, in quanto l'umor acqueo può penetrare, attraverso le cripte che si trovano sulla sua faccia anteriore ed incompletamente rivestite da endotelio, negli interstizi dello stroma irideo e del corpo ciliare e da qui nelle guaine linfatiche perivascolari di venuzze tributarie delle vene vorticose.
L'umor acqueo è uno dei mezzi refrattivi dell'occhio e contribuisce alla nutrizione degli elementi che bagna, particolarmente del cristallino e della cornea.
Il cristallino (o lente), che fa parte dell'apparato diottrico dell'occhio, è un organo a forma di lente biconvessa ed a contorno circolare, situato dietro l'iride e davanti al corpo vitreo. Si affaccia anteriormente nella camera anteriore mentre con la sua parte marginale si discosta gradatamente dall'iride e contribuisce a limitare la camera posteriore. Il polo anteriore è a distanza variabile dal vertice della cornea: in media, la distanza è di 3,5 mm. La faccia posteriore è accolta esattamente nella fossa ialoidea della superficie anteriore del corpo vitreo. Il polo posteriore
dista circa 16 mm dalla fovea centrale della retina. L'equatore, situato nel piano del corpo ciliare, è a questo collegato mediante uno speciale apparato sospensore, la zonula ciliare (di Zinn), distando dai processi ciliari 1 mm o più.
In relazione alla sua forma, si considerano due facce: una anteriore ed una posteriore, ambedue convesse, separate da un margine arrotondato detto equatore, situato su un piano parallelo ed anteriore a quello dell'equatore dell'occhio. L'equatore del cristallino presenta lievi intaccature, dipendenti dall'azione delle fibre della zonula. Il punto centrale della faccia anteriore dicesi polo anteriore, quello della faccia posteriore, polo posteriore. L'asse è la linea ideale che congiunge i due poli.
Le due facce del cristallino non sono ugualmente incurvate: l'anteriore è paragonabile ad un ellissoide, la posteriore ad un paraboloide. La faccia anteriore è meno incurvata della posteriore; entrambe sono più incurvate nel bambino e meno nell'anziano. La curvatura delle facce cambia (maggiormente quella anteriore) secondo le condizioni della visione: nell'occhio a riposo o nella visione da lontano sono meno incurvate che durante l'accomodamento per la visione degli oggetti vicini.
In vita, il cristallino è trasparente, incolore ed elastico. Nel feto è molto molle, ma già nel neonato gli strati profondi contengono meno acqua e sono più consistenti dei superficiali; soltanto al 30° anno, però, si può parlare di un corpo interno più consistente (nucleo). Nucleo e strato corticale trapassano insensibilmente l'uno nell'altro e sono in proporzione variabile secondo i soggetti. Nel vecchio, il processo di indurimento finisce con l'interessare tutto l'organo e la lente perde definitivamente la sua plasticità. Alla perdita di acqua è associata una lieve opalescenza, che inizia nel nucleo e diffonde verso l'equatore. La plasticità del cristallino è condizione indispensabile per i cambiamenti di curvatura che si hanno nell'accomodazione; il nucleo è troppo rigido per parteciparvi e, quando si estende agli strati superficiali, l'organo diventa del tutto rigido. Da ciò dipende la presbiopia.
Il cristallino è formato da una capsula, da un epitelio semplice posto sotto la capsula, nella faccia anteriore, e da una massa principale, la sostanza del cristallino.
La capsula del cristallino, o cristalloide, è una membrana perfettamente continua che circonda da ogni lato il cristallino. E' trasparente, molto elastica e friabile. A scopo topografico, può essere suddivisa in una cristalloide anteriore ed in una posteriore, dove la sua grossezza gradatamente si assottiglia dalla periferia al centro. Globalmente, lo spessore va da 20-25 µm anteriormente ad un minimo di 5 µm posteriormente. Dà inserzione alle fibre della zonula ciliare di Zinn; facendo trazione su queste, si ha il distacco di una lamella superficiale della capsula, che dicesi lamella zonulare o pericapsulare.
L'epitelio del cristallino, posto dietro la faccia profonda della cristalloide anteriore, risulta di uno strato semplice di cellule chiare, di contorno poligonale, unite da ponti citoplasmatici e da cemento intercellulare. Nella regione equatoriale, le cellule crescono molto in altezza e si dispongono in file radiali; da questi elementi così modificati, attraverso forme di transizione si passa alle vere e proprie fibre cristalline.
La sostanza del cristallino, che rappresenta la quasi totalità dell'organo, è formata dalle fibre cristalline, cellule epiteliali che hanno subito una particolare evoluzione; sono caratterizzate dalla notevole lunghezza (fino a 8 mm, quelle più superficiali), dalla struttura e dal modo di aggrupparsi. Sono dirette in senso meridiano, dalla parte anteriore a quella posteriore dell'organo. Sono chiare, trasparenti, molli e molto flessibili; il citoplasma è ricchissimo di acqua. Sono unite fra loro da sostanza cementante. A seconda della posizione che occupano, vengono classificate in fondamentali, che formano il grosso strato corticale, intermedie, di transizione, e centrali, che formano il nucleo ed hanno forma prismatica, più corte e sottili delle precedenti.
Con l'ebollizione, l'alcool o altri reattivi è possibile ottenere dal cristallino, particolarmente dai suoi strati corticali, la formazione di lamelle concentriche e sovrapposte, che si separano con facilità l'una dall'altra e che sono state paragonate ai veli di una cipolla; esiste, quindi, un'aderenza più intima fra le fibre poste in un medesimo piano, che hanno la stessa età, essendosi formate nello stesso periodo: sono tanto più giovani quanto più superficiali.
Il cristallino manca di nervi, vasi sanguigni e linfatici. Alla sua nutrizione provvede l'umor acqueo.
Col nome di zonula ciliare (di Zinn) o di apparato sospensore del cristallino, si intende un complicato sistema di fibre, le fibre zonulari, tese fra il corpo ciliare ed il cristallino. Nel suo insieme, è un anello a forma di prisma triangolare: la base è alla zona equatoriale del cristallino ed i lati, che gradatamente si incurvano come il bulbo oculare, si uniscono in un angolo acutissimo, che raggiunge l'ora serrata. Occupa la parte posteriore della camera posteriore e negli interstizi fra le fibre, spazi zonulari, è contenuto umor acqueo.
La maggior parte delle fibre prende origine nella zona media del corpo ciliare, che comprende la parte anteriore dell'orbicolo e la parte posteriore della corona ciliare. In quest'ultima, gli attacchi delle fibre si hanno principalmente sulle facce laterali dei processi ciliari e nel fondo delle vallecule. Sul cristallino, le fibre zonulari si inseriscono all'equatore e sulle parti prossime delle due facce.
La zonula serve a fissare il cristallino e, durante il riposo del muscolo ciliare, trovandosi in stato di tensione, mantiene il cristallino disteso in senso radiale ed alquanto schiacciato. Quando il muscolo ciliare si contrae, le fibre si rilasciano e la convessità del cristallino aumenta.
La camera posteriore è limitata in avanti dalla faccia posteriore dell'iride, in dietro dalla faccia anteriore del cristallino e dalla parte periferica della superficie anteriore del corpo vitreo, in fuori dal corpo ciliare ed in particolare dai processi ciliari. E' una cavità a forma anulare, piccola ed a superficie in parte assai irregolare. In dietro, la camera posteriore è attraversata in tutti sensi dalle fibre della zonula ciliare, quindi gli spazi zonulari ne fanno parte, ed anch'essi contengono umor acqueo.
La camera si insinua tra vitreo e corpo ciliare, fino a raggiungere, in forma di fessura, la parte anteriore dell'orbicolo, e si prolunga tra le vallecule dei processi ciliari, che costituiscono, alla periferia, una specie di corona.
Il corpo vitreo è l'organo che occupa l'ampio scompartimento posteriore della cavità del globo oculare, quella che rimane dietro il cristallino e che è limitata dal cristallino stesso col suo apparato sospensore e dalla retina. Ha nell'insieme forma sferoidale, con un infossamento nella parte anteriore, la fossa ialoidea, che si modella esattamente sulla convessità della faccia posteriore del cristallino.E' costituito da sostanza incolore, trasparente, gelatinosa e vischiosa. Il peso specifico è di 1,005, l'indice di refrazione 1,338 e contiene il 98,4% di acqua.
E' percorso assialmente dal canale ialoideo, cilindrico e dal diametro di 2 mm, che dalla papilla del nervo ottico arriva approssimativamente al centro della fossa ialoidea. E' ripieno di liquido ed è il retaggio di quella che nel feto è l'arteria ialoidea, che irrora il cristallino. Nel corpo vitreo si trovano scarse cellule disseminate, relativamente più abbondanti alla superficie dell'organo ed al contorno del canale ialoideo.
Il nervo ottico è un cordone di fibre nervose (circa un milione, per lo più di 2 mm di diametro), spettante al diencefalo e sviluppatosi nel peduncolo della vescicola oculare, che ha acquistato le apparenze di un nervo periferico. Va dalla retina al chiasma ottico. Emerge 3-4 mm medialmente rispetto al polo posteriore, circa 1 mm più in basso e percorre in direzione pressoché sagittale la cavità orbitaria; attraversa il forame ottico ed entra nella cavità cranica dove, volgendo in dentro ed in dietro, raggiunge l'angolo antero-laterale del chiasma, dove si continua. Ha una lunghezza di circa 5 cm ed un diametro di 3-4 mm.
Nell'orbita, il nervo, che qui è lungo circa 3 cm, non è rettilineo, ma incurvato ad S, descrivendo due curve: una anteriore a convessità mediale, l'altra posteriore a convessità laterale, permettendo al globo oculare di eseguire liberamente, senza che il nervo venga stirato, i suoi movimenti di rotazione. Avvolto da una sottile membranella, fornita dalla capsula del bulbo ed immerso nel corpo adiposo, il nervo percorre l'asse della piramide formata dai muscoli retti e, all'apice dell'orbita, si trova contornato dalla loro origine e dal loro anello tendineo, che aderisce alla sua guaina durale; ad essa aderisce anche il tendine di origine del muscolo obliquo superiore.
Le guaine del nervo ottico sono una continuazione delle meningi e si distinguono col nome di guaina durale, grossa e resistente, guaina aracnoidale e guaina piale, separate da due fessure: intradurale ed intraracnoidale.
L'occhio umano è un sistema ottico composto da diversi mezzi diottrici rifrangenti posizionati uno di seguito all'altro, il più potente dei quali è la cornea (circa 43 diottrie), seguita dal cristallino che grazie alle sue capacità accomodative può variare dalle 19 alle 30 diottrie.
Frequentemente, per comprenderne i principi di funzionamento, l'occhio umano viene assimilato ad una macchina fotografica, dove la pupilla rappresenta il diaframma, regolando la quantità di luce che entra all'interno dell'occhio stesso, il cristallino equivale allo zoom, permettendo di vedere sempre a fuoco gli oggetti dalla distanza infinita fino a pochi centimetri ed infine la retina, che assolve le funzioni della pellicola sulla quale vengono impressionate le immagini.
Quando il potere complessivo dei mezzi diottrici oculari risulta essere eccessivo o ridotto rispetto alla lunghezza anatomica del bulbo oculare si realizzano le condizioni refrattive della miopia e dell'ipermetropia, altresì, quando viene modificato il rapporto fisiologico tra i meridiani principali corneali si ha l'astigmatismo.
E' il vizio di refrazione nel quale i raggi luminosi provenienti paralleli dall'infinito vengono fatti convergere eccessivamente, portando il fuoco anteriormente al piano retinico e realizzando così sulla retina un'immagine sfuocata.
Nella maggior parte dei casi, ciò accade per una lunghezza anatomica del bulbo oculare eccessiva rispetto al potere refrattivo dei mezzi diottrici.
La miopia può dipendere anche da altre cause, come una curvatura corneale eccessiva rispetto alla norma, una curvatura eccessiva delle superfici del cristallino, un indice di refrazione del nucleo del cristallino superiore alla norma (condizione che si verifica nella cataratta nucleare) o, infine, dalla presenza di un cristallino troppo vicino alla cornea.
La parola miopia deriva dal greco che vuol dire "occhio socchiuso": il miope, infatti è conosciuto per l'estrema facilità con cui strizza gli occhi quando vuol guardare in lontananza. In compenso non ci sono problemi a vedere bene gli oggetti da vicino.
A volte le persone molto miopi sono costrette ad avvicinare molto da vicino le scritte da leggere.
Essendo la miopia dovuta ad un maggior allungamento dell'occhio è probabile che la miopia tenda ad aumentare con la crescita dell'organismo.
Molto frequentemente, infatti, la miopia insorge dopo i 10 anni d'età, durante la pubertà, e tende ad evolvere negli anni successivi.
La miopia può essere di grado lieve (fino a 3 diottrie), medio (da 3 a 6 diottrie) o elevato (oltre le 6 diottrie). La caratteristica di un occhio miope è di vedere male da lontano e bene da vicino.
La correzione di questo difetto si ottiene anteponendo all'occhio lenti divergenti negative.
Maculopatia miopica
La miopia si divide in una forma lieve o fisiologica, intermedia o moderata, patologica o degenerativa.
La miopia degenerativa è caratterizzata da alterazioni anatomo-cliniche dovute all'eccessivo allungamento del bulbo oculare con conseguenti alterazioni del polo posteriore della periferia retinica.
Viene considerata elevata quando è superiore a - 6 diottrie con una lunghezza assiale superiore a 26mm. Rappresenta il 3% della popolazione miope.
In questa forma si vengono a determinare una serie di eventi patologici che possono compromettere l'acutezza visiva sino alla cecità legale. La miopia patologica è riconosciuta come una delle più importanti cause di sviluppo di neovascolarizzazione coroideale e consequenziale deficit della funzione visiva centrale.
La neovascolarizzazione sottoretinica maculare si manifesta nel 5-10% degli affetti da miopia patologica e il rischio massimo è fra i 40 e 50 anni e ha maggiore incidenza nelle donne.
I sintomi possono essere rappresentati da una distorsione delle immagini, dalla comparsa di una macchia centrale, dalla riduzione dell'acuità visiva soprattutto per vicino, alterata visione dei colori, immagini rimpicciolite. La diagnosi viene fatta mediante esame fluorangiografico.
Allo stato attuale le forme di neovascolarizzazione coroideale localizzate fuori dalla fovea (la regione più importante della retina deputata alla visione distinta) possono essere trattate con la terapia laser tradizionale, le forme di neovascolarizzazione coroideale a sede subfoveale (maggioranza dei casi) riconoscono come unica possibilità di trattamento la terapia fotodinamica (PDT). La terapia fotodinamica si basa su un principio totalmente nuovo: la distruzione selettiva fotochimica delle pareti del neovaso. Tale terapia comporta l'iniezione endovenosa di un farmaco fotosensibile (verteporfina). Raggiunta l'opportuna concentrazione a livello oculare, il medicinale viene attivato da uno specifico laser a bassa potenza in modo da chiudere in modo selettivo la lesione neovascolare. Rimane comunque fondamentale la diagnosi precoce (mediante fluorangiografia) dello sviluppo di una maculopatia essudativa, al fine di trattare i pazienti quando l'acuità visiva è ancora buona.
Nell’ultimo periodo sono state introdotte sul mercato sostanze dotate di attività antiangiogenica (blocco della proliferazione vasale) che, dopo aver trovato applicazione nel trattamento dei tumori, sembrano poter rivestire un ruolo anche nella terapia della degenerazione maculare miopica con neovasi.
E' il vizio di refrazione nel quale i raggi luminosi provenienti paralleli dall'infinito, vengono fatti convergere in maniera insufficiente, portando il fuoco posteriormente al piano retinico, formando così sulla retina un'immagine sfuocata.
Teoricamente gli ipermetropi dovrebbero vedere male sia lontano che vicino perché l'immagine si focalizza dietro la retina.
Per fortuna c'e il cristallino che in questo caso riesce a compensare con uno sforzo, più o meno grande, il difetto specialmente da lontano. In pratica spesso l'ipermetrope è una persona che, da giovane, ci vede bene ma che può stancarsi specialmente quando guarda da vicino.
Nella maggior parte dei casi, ciò accade quando il potere diottrico oculare e scarso rispetto alla lunghezza anatomica del bulbo.
Altre cause responsabili dell'ipermetropia possono essere individuate nella presenza di un diametro antero- posteriore inferiore alla norma, in un cristallino troppo distante dalla cornea o in un'assenza del cristallino (afachia). La caratteristica di un occhio ipermetrope è di vedere male da lontano e peggio da vicino. Si corregge con lenti convergenti positive.
E' quel difetto refrattivo nel quale i vari meridiani che compongono il diottro oculare presentano curvature diverse, per cui un oggetto puntiforme produce sulla retina un'immagine che è una linea anziché un punto.
L'astigmatismo può dipendere sia dalla cornea, sia dal cristallino che da entrambi. I due meridiani su cui il potere è massimo e minimo vengono definiti meridiani principali.
Quando questi meridiani sono perpendicolari fra loro l'astigmatismo è detto regolare, nel caso opposto irregolare. Solo l'astigmatismo regolare è correggibile mediante lenti cilindriche o con la combinazione di lenti cilindriche e sferiche negative o positive secondo il vizio refrattivo di base.
Sia la cornea che il cristallino possono dare origine ad un astigmatismo e quello che alla fine viene corretto con le lenti è l'astigmatismo totale.
E' essenzialmente provocata da una diminuzione, quasi sempre proporzionale all'età del soggetto, dell'ampiezza accomodativa (capacità di esercitare l'effetto "zoom") riconducibile ad una riduzione della fisiologica plasticità del cristallino che non riesce più ad aumentare la propria convessità così da consentire la visione ravvicinata degli oggetti (lettura).
Il sintomo più diretto consiste nella tendenza ad allontanare gli oggetti alle distanze ravvicinate al fine di ottenerne una migliore messa a fuoco, inoltre, si osserva la tendenza ad ovviare al problema ricorrendo ad intense fonti d'illuminazione..
Nel soggetto emmetrope (privo di difetti refrattivi) i primi disturbi legati alla presbiopia insorgono in media intorno ai 45 anni d'età..
Da non confondere comunque la presbiopia con l'ipermetropia, con la quale ha in comune la difficoltà nel distinguere nettamente, ad occhio nudo, gli oggetti ravvicinati.
Come l'ipermetropia, la presbiopia si corregge con lenti convesse positive, però, mentre l'ipermetrope con lenti sufficientemente convergenti può vedere bene ad ogni distanza, il presbite con le lenti convesse non vede più bene da lontano ma soltanto per la specifica distanza ravvicinata per la quale viene corretto (distanza di lettura di 30-40 centimetri o media distanza per lavoro al computer di 70-100 centimetri), quindi deve adoperare gli occhiali solo da vicino.
L’occhio rosso rappresenta sempre un campanello d’allarme per la presenza di uno stato infiammatorio più o meno grave di origine infettiva o traumatica, e che viene identificato con il termine congiuntivite.
Nella valutazione della congiuntivite devono essere considerati una serie di fattori:
Le condizioni in grado di determinare un occhio rosso sono molteplici. È importante riconoscere quali situazioni richiedono urgentemente un consulto oculistico, e quali invece può gestire in prima persona.
È fondamentale effettuare un’anamnesi accurata, poiché il riconoscimento di casi analoghi in famiglia o nella comunità può indurre il medico a sospettare un’infezione batterica o virale, mentre la presenza di diatesi allergica, eczema o asma bronchiale o di episodi infiammatori ripetuti può indirizzare verso una forma allergica. Alcune malattie sistemiche, quali l’artrite reumatoide giovanile, possono comportare un coinvolgimento infiammatorio delle strutture oculari anteriori, mentre dopo chirurgia oculare la comparsa di un arrossamento imponente e di forte dolore deve far sospettare un processo flogistico endobulbare. Quando all’iperemia congiuntivale si associa una blefarite importante, potremmo trovarci di fronte a un’ipersensibilità stafilococcica.
È bene inoltre escludere sempre la possibilità che un corpo estraneo, giunto a contatto con le strutture oculari, venga in esse ritenuto.
Le congiuntiviti sono le più comuni infezioni oculari. Sono caratterizzate da edema palpebrale, iperemia congiuntivale, secrezione catarrale o mucopurulenta, lacrimazione, senso di corpo estraneo ed eventuale presenza di emorragie sottocongiuntivali. Possono presentare più comunemente un’eziologia virale, batterica o allergica.
Nelle forme virali la flogosi è solitamente bilaterale con secrezione copiosa, adenopatia preauricolare, spesso associata a febbre e faringite (adenovirus 3-4-5-7) o a calo visivo per la presenza di infiltrati corneali (adenovirus 8- 12).
La terapia delle congiuntiviti virali si avvale di instillazioni frequenti di colliri antibiotici, onde prevenire una sovrainfezione batterica; i cortisonici vanno utilizzati con cautela, anche se indicati per diminuire l’iperemia e l’edema e controllare le forme in cui il coinvolgimento corneale è di tipo immunitario. Ricordiamo alcuni particolari forme di congiuntiviti virali: la congiuntivite da inclusi o da piscina il cui agente è la Chlamydia oculo-genitalis, che si avvale di una terapia sistemica a base di eritromicina e sulfamidici, e la congiuntivite erpetica che, per la peculiarità terapeutica e le possibili complicanze, merita un’attenzione particolare. Altre volte è possibile, semplicemente ispezionando con una comune pila i fornici congiuntivali, riconoscere la presenza di membrane di colorito grigiastro che configurano una particolare forma nota come congiuntivite pseudomembranosa.
Le congiuntiviti acute batteriche si caratterizzano per la presenza di un’imponente secrezione catarrale. L’eziologia è data prevalentemente dal bacillo di Koch- Weeks, esclusivo della congiuntiva umana, inoltre da pneumococco, Haemophilus influenzae e da ceppi particolarmente virulenti di stafilococco e di streptococco.
La terapia si avvale di instillazioni frequenti di colliri antibiotici che, nelle forme gravi, possono essere usati anche per via generale.
Forme spesso stagionali, croniche, caratterizzate da esacerbazione e remissioni possono comparire in soggetti atopici, associate a forme più o meno gravi di eczema o asma allergici.
Una particolare forma di congiuntivite monolaterale, associata a linfoadenopatia preauricolare, è la sindrome oculoghiandolare di Parinaud da Bartonella henselae
L’infezione erpetica produce una congiuntivite monolaterale, con marcata iperemia a volte associata a secrezione mucopurulenta e ad eruzione palpebrale vescicolare. Successivamente all’infezione primaria, il virus erpetico persiste latente nel ganglio trigeminale e raggiunge l’occhio attraverso il V nervo cranico, causando frequenti recidive della malattia.
L’aspetto caratteristico dell’infezione erpetica recidivata è l’ulcera dentritica corneale caratterizzata da ipoestesia corneale. L’ulcera corneale, per le sue piccole dimensioni, può essere evidenziata solo previa colorazione della cornea, con fluoresceina e osservando al biomicroscopio con un filtro blu-cobalto che ne ecciti la fluorescenza. Se si sovrappone un’infezione batterica o microbica o se viene utilizzato impropriamente il cortisone (assolutamente controindicato in questi casi) si può avere un’estensione ampia dell’ulcera che può esitare in un’opacità ampia e permanente. La diffusione dell’infezione allo stroma può produrre una cheratite disciforme, caratterizzata da opacità che disturbano la visione, o può complicarsi con una cheratite interstiziale diffusa associata a iridociclite con prognosi visiva non favorevole.
In presenza di lesioni cutanee si usano localmente pomate antivirali più volte al giorno; in presenza di ulcera corneale si utilizza un’antibioticoterapia locale di copertura, antivirali topici e bendaggio oculare; in presenza di segni uveitici si associa un collirio midriatico. La terapia steroidea è utilizzata esclusivamente nelle cheratiti stromali e nelle forme con coinvolgimento uveale.
Nei bambini, spesso con carattere epidemico, la congiuntivite è pseudomembranosa ovvero può presentarsi con un’abbondante essudazione fibrinosa sulla superficie epiteliale con necrosi, formazione di tessuto di granulazione e comparsa di membrane di colorito biancastro che, se asportate, danno luogo a sanguinamento. Nei casi gravi il processo può estendersi alla congiuntiva bulbare coinvolgendo anche la cornea. È tipica della congiuntivite di origine difterica, ormai di rara osservazione, ma anche lo streptococco (forme gravi di scarlattina), lo pneumococco, l’Haemophilus influenzae e alcuni virus la possono generare. La gravità della forma può essere tale da giustificare un antibiotico-terapia per via generale; le membrane debbono sempre essere asportate manualmente, permettendo così all’antibiotico usato localmente di agire sui tessuti interessati.
La congiuntivite primaverile è una manifestazione oculare atopica mediata dalle IgE. I sintomi sono rappresentati da prurito e fotofobia, che spesso si associano a lacrimazione intensa e secrezione viscosa e si accentuano in condizioni ambientali caldo-umide.
Le alterazioni congiuntivali interessano prevalentemente la congiuntiva tarsale e sono costituite da papille, secondarie all’ipertrofia dei follicoli linfatici ivi presenti, che danno alla mucosa un aspetto caratteristico ad “acciottolato romano”. Le papille possono essere di dimensioni così importanti da determinare una sofferenza corneale per il continuo sfregamento durante i movimenti di ammiccamento. L’ipertrofia dei follicoli linfatici limbari può produrre lesioni epiteliali biancastre denominate “noduli di Trantas”. Quando la sintomatologia è intensa, è consigliato l’uso dei cortisonici locali 3 volte al giorno sotto stretto controllo specialistico e successivamente farmaci stabilizzanti la membrana cellulare, come il disodiodicromoglicato 3 volte al giorno per tutto il periodo di reattività. Nelle forme meno gravi ci si può avvalere di preparati antistaminici a uso topico, tipo levocabastina, da utilizzarsi 2 volte al giorno sino alla scomparsa dei sintomi, eventualmente associati a farmaci stabilizzanti la membrana
cellulare. Si consiglia sempre l’uso di occhiali da sole sia per evitare la fotofobia sia per proteggere l’occhio dai raggi ultravioletti in grado di esacerbare la sintomatologia.
In presenza di un’importante ipertrofia papillare, soprattutto in presenza di ulcere corneali ricorrenti, al fine di evitare lo sviluppo di un leucoma corneale si può ricorrere all’escissione chirurgica delle vegetazioni congiuntivali. La prognosi può anche essere molto severa dal punto di vista visivo se le lesioni corneali esitano in densi leucomi. In genere con la pubertà anche le forme più gravi si attenuano notevolmente.
È una flogosi mono- o bilaterale con abbondante secrezione purulenta, imponente iperemia, chemosi congiuntivale ed edema palpebrale che compare nelle prime settimane di vita (vedi Capitolo 5, pag. 63). L’infezione può essere contratta al momento del parto o trasmettersi per via aerea. È comunque molto difficile distinguere clinicamente le diverse forme: l’anamnesi positiva per malattie veneree nella madre può essere di una certa utilità, ma la diagnosi è fatta sulla base degli esami colturali (colorazione Gram e Giemsa). Si tratta di forme che mai devono essere sottovalutate, poiché il frequente interessamento della cornea e il successivo formarsi di un leucoma cicatriziale possono causare grave ipovisione. Dal punto di vista eziologico può essere distinta una forma chimica, secondaria all’instillazione di nitrato di argento abitualmente usato nella profilassi antigonococcica. La congiuntivite si sviluppa entro le prime 48 ore di vita e non si protrae oltre le 24-36 ore, non si accompagna a secrezione né è caratterizzata da iperemia intensa. Non è necessaria terapia poiché essa regredisce spontaneamente.
La cheratite è un processo flogistico della cornea, frequentemente espressione dell’estensione per continuità di una congiuntivite o secondario a lagoftalmo, concrezioni e papille ipertrofiche congiuntivali, corpi estranei corneali o congiuntivali, ciglia in trichiasi. La sintomatologia è caratterizzata da forte dolore, lacrimazione, fotofobia e riduzione del visus. Può complicarsi con un’ulcera corneale e, se il processo ulcerativo interessa gli strati più profondi del parenchima corneale, si può arrivare all’ulcera perforante. In caso di perforazione il paziente avverte la fuoriuscita di liquido tiepido (umor acqueo) e una diminuzione del dolore. La prognosi visiva è sempre riservata per la possibilità che alla riparazione dell’ulcera faccia seguito la formazione di una cicatrice opalescente (leucoma corneale) che, alterando la trasparenza e la regolarità della superficie corneale, può produrre una diminuzione permanente del visus.
È necessario combattere il fattore eziologico primario, sia trattando il processo infiammatorio della congiuntiva, sia allontanando la causa della lesione corneale. I cortisonici possono essere usati, sotto stretto controllo oculistico, per modulare la risposta cicatriziale della cornea ed evitare il formarsi di leucomi troppo opalescenti.
In presenza di un leucoma tale da indurre un importante deficit visivo e in assenza di neovascolarizzazione corneale, si potrà ricorrere al trapianto corneale o alla cheratectomia fototerapeutica che prevede l’uso del laser a eccimeri per asportare il tessuto corneale alterato in trasparenza e qualità.
La blefarite è un processo flogistico che interessa il bordo palpebrale spesso in modo simmetrico.
I principali segni clinici sono le croste e le squame furfuracee sui margini palpebrali che possono essere eritematosi e lievemente tumefatti. Può accompagnarsi a iniezione localizzata dei vasi congiuntivali, specie dell’area bulbare inferiore, a contatto con il bordo palpebrale e a infiltrati corneali secondari a una reazione localizzata da ipersensibilità nei confronti dei prodotti di degradazione del sebo, operata dai germi responsabili della blefarite (stafilococco).
La terapia si avvale di lavaggi palpebrali quotidiani con sostanze saponose “ad hoc”, antibiotici locali o associazioni antibiotico-steroidee nei casi più gravi.
L’emorragia sottocongiuntivale si presenta come una chiazza di colorito rosso vivo che interessa la congiuntiva bulbare e si estende sino al limbus, non associata ad altri segni di flogosi. L’anamnesi è spesso positiva per un’infiammazione delle vie respiratorie superiori, poiché i colpi di tosse o gli starnuti possono, aumentando temporaneamente la pressione venosa, determinare la 1052 27 - L’OCCHIO rottura della parete di un capillare. Più raramente è secondaria a ipertensione arteriosa, discrasie ematiche o a traumi e, occasionalmente, può accompagnarsi a congiuntiviti virali. Non è richiesto alcun tipo di trattamento poiché la lesione si risolve spontaneamente.
L’endoftalmite è un gravissimo processo flogistico endobulbare. L’anamnesi è spesso positiva per trauma oculare, per chirurgia oculare (intervento di cataratta), per endocardite batterica attiva o immunodepressione significativa. La sintomatologia è caratterizzata da intenso dolore, fotofobia e importante calo visivo. È opportuno inviare il paziente immediatamente dallo specialista per istituire una terapia antibiotica sistemica o intravitreale.
La sintomatologia è sovente monolaterale ed è caratterizzata da dolore, difficoltà a mantenere l’occhio aperto, iperemia congiuntivale, lacrimazione, fotofobia, mancata risposta ai comuni antibiotici o antinfiammatori topici. Non
sempre è facile riconoscere la presenza di un corpo estraneo ritenuto a livello corneale o congiuntivale, poiché è spesso di piccole dimensioni e pertanto visibile solo al biomicroscopio.
I corpi estranei congiuntivali rappresentano un’evenienza non grave, devono però essere asportati al più presto poiché, specie se ritenuti a livello tarsale, possono provocare lesioni corneali per il continuo sfregamento della palpebra sulla cornea durante l’ammiccamento. Tutti i corpi estranei corneali devono essere tolti quanto prima perché comportano un’importante irritazione con richiamo di vasi, seguita, a volte, da infezione con ascessi corneali.
Bisogna precisare che i corpi estranei di origine animale o vegetale sono in genere molto irritanti ed è necessario asportarli completamente perché tendono a penetrare sempre più profondamente nel tessuto corneale sino a interessare la camera anteriore. Nei bambini più grandi e collaboranti i corpi estranei possono venire asportati utilizzando un’anestesia topica, mentre nei più piccoli si deve spesso ricorrere alla narcosi. Successivamente si useranno pomate antibiotiche, midratici e, secondo alcuni, bendaggio oculare in presenza di lesioni corneali.
L'occhio secco è un disturbo dovuto a scarsa produzione di lacrime (ipolacrimia): le ghiandole, per un'atrofia parziale o totale o per alterazioni spesso su base ormonale, non producono più a sufficienza liquido lacrimale e l'occhio diventa, quindi, più o meno secco. Talvolta è il sistema di scarico ad essere troppo attivo. Tutto ciò causa un maggior traumatismo dovuto al continuo movimento delle palpebre sulla superficie oculare ad ogni ammiccamento ed una insufficiente detersione della stessa da corpi estranei o germi. Inoltre, vengono a mancare anticorpi e lisozima, componenti delle lacrime ad alto potere battericida: il rischio di contrarre infezioni, anche da germi comunemente innocui, è quindi assai elevato. I sintomi più comuni dovuti alla sindrome da occhio secco sono bruciore, sensazione di corpo estraneo nell'occhio, fotofobia, difficoltà nell'apertura della palpebra al risveglio e, nei casi più gravi, dolore e annebbiamento visivo. Tutti questi disturbi aumentano in ambienti secchi, ventosi o dove sono in funzione impianti di riscaldamento o di condizionamento. Talvolta, i pazienti affetti da ipolacrimia lacrimano copiosamente (soprattutto in presenza di cheratite, danno alla superficie corneale): il liquido lacrimale è però molto acquoso, contiene poche componenti mucose ed evapora velocemente lasciando la cornea esposta all'azione di agenti esterni. Molte persone affette da sindrome degli occhi secchi soffre anche di disturbi alla gola e al seno paranasale: congestione nasale o sinusite, tosse cronica, raffreddori frequenti, allergie stagionali, congestione al centro dell'orecchio, mal di testa.
Generalmente vengono distinte due forme di Sindrome da occhio secco:
Primarie (Sindrome di Sjögren), cioè manifestazioni oculari di una malattia generale autoimmune, come ad esempio lupus eritematoso sistemico, artrite reumatoide, sclerodermia ecc.
Secondarie, dovute ad un'eccessiva vaporizzazione del film lacrimale (blefariti, congiuntiviti, uso protratto di lenti a contatto, ridotta secrezione senile, ridotta secrezione dovuta a farmaci, a ipovitaminosi A, a uso protratto di colliri).
Vediamo alcune delle cause più comuni della sindrome da occhio secco:
Età avanzata. La produzione di lacrime diminuisce con l'avanzamento dell'età per la progressiva atrofizzazione delle ghiandole lacrimali. La riduzione nella produzione basale, continua e costante, di lacrime e la conseguente irritazione degli occhi provoca spesso una eccessiva produzione di lacrime di riflesso.
Sesso femminile. Nelle donne tra i 40 e i 60 anni di età, probabilmente a causa dei nuovi equilibri ormonali indotti dalla menopausa, le ghiandole lacrimali vanno incontro ad una progressiva atrofia della loro porzione secernente. Ambiente. Altitudini elevate, condizioni atmosferiche soleggiate, secche o ventose, ambienti in cui sono in funzione impianti di riscaldamento o di condizionamento dell'aria provocano un aumento dell'evaporazione delle lacrime, riducendo così la lubrificazione degli occhi.
Lenti a contatto. Il loro uso può aumentare notevolmente l'evaporazione delle lacrime, causando irritazioni ed infezioni. Sovente le soluzioni disinfettanti o lubrificanti per le lenti corneali possono indurre un’alterazione della componente ghiandolare lacrimale con alterazioni della produzione di lacrime. Se l'occhio è poco lubrificato, inoltre, la lente tende ad aderire alla cornea provocando danni in alcuni casi anche gravi ( abrasioni, cheratiti).
Farmaci. Alcuni farmaci (ormoni, immunosoppressori, decongestionanti, antistaminici, diuretici, antidepressivi, betabloccanti, farmaci per le malattie cardiache e per il trattamento delle ulcere) possono inibire la produzione di lacrime lubrificanti.
Durante la visita oculistica il medico sottopone il paziente ad alcuni test per individuare le alterazioni qualitative e quantitative della lacrimazione. Nel primo caso molto utile è il test di rottura del film lacrimale (BUT) eseguito con l’esame al biomicroscopio (lampada a fessura) previa apposizione di fluoresceina nel sacco congiuntivale, osservando e misurando quanti secondi impiega il velo di lacrime sulla superficie della cornea ad interrompersi togliendo protezione e lubrificazione alla stessa; nel secondo, il test di Schirmer misurazione della produzione lacrimale viene eseguito introducendo due striscioline di carta assorbente all'interno del fornice palpebrale inferiore di ciascun occhio e misurando la porzione di carta inumidita dopo 2-3 minuti.
Lo pterigio è una piccola formazione fibrovascolare a forma di triangolo che parte dalla congiuntiva interpalpebrale nasale e va verso la cornea sino a ricoprirla.
La pinguecola è un'ipertrofia congiuntivale leggermente sollevata, solitamente situata inferiormente o superiormente alla cornea, senza coinvolgerla.
Entrambe le piccole formazioni possono essere marcatamente vascolarizzate ed iniettate con aree irritative adiacenti che provocano un senso di corpo estraneo e di bruciore.
Sono di frequente riscontro nelle persone che a contatto con radiazioni solari (pescatori, agricoltori) o che sono esposte a sostanze gassose irritative (solventi , gas, vapori tossici, miscele vaporizzate) e a soggetti portatori di lenti corneali morbide.
Le precauzioni da prendere sono di proteggere gli occhi dal sole intenso, dal vento e dalla polvere, ridurre le irritazioni oculari con blandi colliri decongestionanti o con lacrime artificiali.
E' necessario considerare l'asportazione chirurgica quando tali lesioni interferiscono con l'applicazione di lenti a contatto, se l'irritazione e l'arrossamento provocato dai vasi ipertrofici raggiungono un livello di disturbo mal tollerato e soprattutto, se lo pterigio incomincia ad estendersi sopra la cornea con iniziale erosione della stessa.
L'intervento, effettuato ambulatorialmente previa una piccolissima dose di anestetico locale sotto-congiuntivale, è di rapida esecuzione e consiste nell'asportazione della porzione ipertrofica e vascolarizzata, con piccola plastica e sutura congiuntivale. La guarigione avviene in pochi giorni con l'applicazione di un collirio con associazione antibiotico-steroide.
Il glaucoma è una malattia che colpisce il nervo ottico, ovvero quel fascio di fibre nervose che trasmette gli impulsi elettrici, derivati dagli stimoli visivi, al cervello ed è causata da un continuo aumento della pressione intraoculare. Nell'occhio affetto da glaucoma il deflusso dell'umore acqueo viene ostacolato: il liquido si accumula e la pressione intraoculare comincia a salire. Dopo qualche tempo si produce una compressione o uno schiacciamento del nervo ottico con conseguente danno e morte delle fibre nervose. La lesione del nervo ottico si traduce in una progressiva alterazione del campo visivo il quale tende progressivamente a restringersi fino alla sua completa scomparsa. Se le fibre del nervo ottico vengono danneggiate, all'interno del campo visivo si generano delle zone in cui non è più possibile vedere (scotomi). Inizialmente molto piccoli, gli scotomi interessano dapprima la parte periferica del campo visivo (il paziente continuerà a vedere nitidamente al centro) e vengono spesso notati quando il danno al nervo ottico è già considerevole. Quando le cellule nervose sono completamente distrutte la perdita della vista diventa definitiva ed irreversibile. Il glaucoma può colpire chiunque e una volta insorto, anche se curato, rimarrà per sempre. Il solo modo per prevenire la perdita della vista è la diagnosi precoce. E' quindi molto importante sottoporsi a visite periodiche di controllo a scopo preventivo (soprattutto dopo aver superato i 40 anni) anche se non ci sono sintomi.
Esistono alcuni fattori di rischio che possono aumentare la probabilità di sviluppare la malattia:
Il glaucoma viene distinto in primario e secondario. Per primario si intende il glaucoma provocato da alterazioni del sistema trabecolare, per secondario quello che insorge in seguito ad altre patologie oculari o generali (indipendenti cioè dal funzionamento del sistema di deflusso dell'umore acqueo).
Viene definito glaucoma congenito un aumento della pressione oculare già presente alla nascità o immediatamente dopo; si parla di glaucoma infantile quando una pressione intraoculare elevata si manifesta durante l’infanzia e di glaucoma giovanile o congenito tardivo quando questa condizione si presenta durante l’adolescenza .
Il glaucoma cronico ad angolo aperto è il tipo più comune ed è dovuto ad una sorta di invecchiamento del sistema trabecolare di deflusso: l'umore acqueo raggiunge il trabecolato, ma non viene sufficientemente filtrato in quanto quest'ultimo è strutturalmente alterato (ostruzione dei canali di scarico). La pressione oculare aumenta causando un danno progressivo al nervo ottico. Si tratta di una forma di glaucoma cronica che progredisce molto lentamente, provocando una graduale riduzione della visione periferica. La maggior parte delle persone affette non avverte inizialmente alcun sintomo: questo può fa sì che i danni procurati al nervo ottico siano già rilevanti quando il paziente decide di sottoporsi ad una visita oculistica.
Il glaucoma a pressione normale progredisce nonostante la pressione intraoculare sia entro limiti apparentemente normali. Si ritiene che tale forma di glaucoma sia da mettere in relazione ad uno scarso apporto di flusso sanguigno al nervo ottico, che provoca l'atrofizzazione delle fibre nervose.
Nel Glaucoma ad angolo chiuso l'umore acqueo non riesce a raggiungere il sistema trabecolare di deflusso perché l'angolo formato da iride e cornea è troppo stretto: l'iride si addossa lentamente alla cornea ostruendo completamente il passaggio. Anche questo tipo di glaucoma progredisce lentamente, ma in pazienti predisposti può insorgere un attacco acuto di glaucoma, provocato da un'improvvisa ostruzione dell'angolo, nella maggior
parte dei casi dovuta a una dilatazione della pupilla. La permanenza al buio, le emozioni improvvise, l'uso di alcuni farmaci (quelli usati per curare patologie della prostata o quelli usati per attenuare la nausea da mal d'auto o mal di mare, gli anti-depressivi), l'uso di sostanze quali la caffeina (caffè, the, Coca-Cola), possono dilatare la pupilla. L'attacco acuto di glaucoma è caratterizzato da un violento dolore in regione orbitaria, spesso associato a cefalea, nausea e vomito, visione annebbiata. In mancanza di un adeguato e tempestivo trattamento si può avere una notevole ed irreversibile compromissione della funzione visiva.
Il fattore di rischio più importante per il glaucoma è l'età oltre ad eventuali fattori ereditari. Circa i l 3% della popolazione sopra i 40 anni è affetta da glaucoma. Superati i 40 anni è quindi consigliabile effettuare, anche in assenza di sintomi, una visita oculistica completa. Non tutti gli esami sono necessari ad ogni visita e per ciascun paziente, anche se alcuni devono essere ripetuti ad intervalli regolari per poter riconoscere precocemente un segno di glaucoma o per seguirne l'evoluzione.
La tonometria è la misurazione della pressione oculare (tono oculare). Si tratta di un esame rapido ed indolore. Al paziente viene somministrato un collirio anestetico ed applicato un colorante giallo; un piccolo cono di materiale plastico, annesso al biomicroscopio, viene poi appoggiato sulla cornea. La misurazione della pressione viene ottimizzata mediante un'illuminazione con luce blu. La curva tonometrica giornaliera prevede la misurazione della pressione oculare ripetuta varie volte nell'arco di una giornata: ciò permette di rivelarne le variazioni.
L'oftalmoscopia permette l'osservazione diretta della retina e del punto in cui il nervo ottico si collega al bulbo oculare (papilla). In caso di glaucoma, il nervo ottico appare alterato nel colore e nella forma; il bordo della papilla è più sottile del normale per l'atrofizzazione delle fibre.
La perimetria, l'esame computerizzato del campo visivo, consente di valutare lo stato della funzione visiva globale del paziente. L'esame risulta in una mappa perimetrica, in cui i difetti glaucomatosi, gli scotomi, sono rappresentati dalle aree più scure.
La gonioscopia consente l'esplorazione dell'angolo di scarico dell'umore acqueo. Dopo aver anestetizzato l'occhio con un collirio anestetico, al paziente viene applicata una speciale lente a contatto contenente uno specchio che permette all'oculista di osservare se l'angolo di drenaggio sia aperto o chiuso.
Sebbene non possa essere curato, il glaucoma può essere ben controllato con una terapia adeguata. E' importante ricordare che il controllo e il trattamento della malattia continueranno per tutta la vita. Inizialmente il glaucoma viene trattato con farmaci sotto forma di colliri che abbassano la pressione intraoculare. Quando la terapia medica
non è più sufficiente, si ricorre al trattamento laser e/o all'intervento chirurgico. Tale graduale sequenza viene seguita quando la diagnosi è fatta precocemente ed il glaucoma progredisce lentamente.
Nei casi giudicati gravi si ricorre immediatamente al trattamento laser o a quello chirurgico.
La cataratta giovanile o dell'adulto può essere causata dall'invecchiamento, dall'esposizione ai raggi x, dal calore da esposizione ai raggi infrarossi, da traumi, malattie sistemiche (p. es., il diabete mellito), uveite (cataratta complicata) o farmaci sistemici (p. es., i corticosteroidi) o probabile esposizione a raggi ultravioletti.
La cataratta giovanile o dell'adulto è caratterizzata da perdita della vista progressiva e indolore. L'entità del deficit visivo dipende dalla localizzazione e dall'estensione della opacità. Quando l'opacità è localizzata nel nucleo centrale del cristallino (cataratta nucleare) nei primi stadi si sviluppa una miopia; infatti un paziente presbite può scoprire di poter leggere senza i suoi occhiali (seconda vista). Raramente la cataratta si gonfia e provoca un glaucoma secondario e dolore.
Un'opacità situata a livello della capsula posteriore del cristallino (cataratta sottocapsulare posteriore) influenza la vista in modo sproporzionato, poiché questa è localizzata al punto di incrocio dei raggi luminosi provenienti dall'oggetto osservato. Tali cataratte sono particolarmente fastidiose se il paziente si trova esposto alla luce molto forte.
La perdita graduale della vista che inizia nell'età media o più tardi, è caratteristica sia del glaucoma che della cataratta. Prima della dilatazione delle pupille per un esame oftalmoscopico, è necessario escludere un aumento della pressione intraoculare e una riduzione di profondità della camera anteriore.
Le cataratte evolute compaiono come opacità grigie o giallo-marroni nel cristallino. L'esame a pupilla dilatata con l'oftalmoscopio a circa 30 cm, rivela opacità anche lievi. Piccole cataratte risultano come difetti scuri nel riflesso rosso. Una cataratta di grandi dimensioni può oscurare il riflesso rosso. L'esame con la lampada a fessura fornisce maggiori dettagli circa il carattere, la localizzazione e l'estensione dell'opacità.
Frequenti esami della rifrazione e la prescrizione di occhiali adeguati aiuteranno a conservare una vista sufficiente durante l'evoluzione della cataratta. Molti oftalmologi raccomandano di indossare occhiali anti-UV od occhiali da sole durante l'esposizione ai raggi solari.
Chirurgia: le indicazioni usuali per l'intervento di cataratta includono un visus massimo corretto di £ 4/10 e una menomazione soggettiva visiva che impedisce attività necessarie o desiderate (p. es., la guida, la lettura e altre occupazioni). Anche l'abbagliamento disabilitante può costituire un'indicazione all'intervento ed è più comune nelle cataratte sottocapsulari posteriori. Le indicazioni meno frequenti comprendono malattie indotte dalla lente (p. es., glaucoma facolitico, uveite facoanafilattica) o la necessità di visualizzare il fondo nella gestione di malattie quali la retinopatia diabetica o il glaucoma.
L'estrazione di cataratta viene eseguita generalmente utilizzando un'anestesia locale o topica (collirio anestetico). Esistono tre tecniche di estrazione: estrazione intracapsulare, che consiste nel rimuovere la cataratta in un unico blocco (adesso viene eseguita raramente), estrazione extracapsulare, che consiste nel rimuovere il nucleo centrale indurito in un blocco, seguito dalla rimozione della corteccia soffice in più parti e la facoemulsificazione, che consiste nel dissolvere il nucleo centrale duro dentro l'occhio tramite degli ultrasuoni, e poi rimuovere la corteccia soffice in più pezzetti. L'incisione più piccola viene usata nella facoemulsificazione, che perciò rende possibile la guarigione più rapida.
Una lente di plastica o di silicone viene quasi sempre impiantata nell'occhio per sostituire il potere focalizzante ottico perso con la rimozione del cristallino. L'impianto della lente può essere effettuato davanti all'iride (lente intraoculare da camera anteriore), attaccato all'iride e all'interno del forame pupillare (lente intraoculare a fissazione iridea) o posizionato dietro l'iride (lente intraoculare da camera posteriore). Le lenti intraoculari a fissazione iridea sono attualmente poco usate negli USA perché molti modelli sono stati associati ad alta frequenza di complicanze postoperatorie. La lente da camera posteriore è di gran lunga la più utilizzata.
Nella maggior parte dei casi, i pazienti seguono un protocollo terapeutico di antibiotici topici e cortisonici topici a scalare fino a 4 sett. dopo l'intervento. Spesso ai pazienti viene chiesto di indossare una protezione quando dormono e di evitare la manovra di Valsalva, di sollevare carichi pesanti, di curvarsi troppo in avanti e di strofinarsi l'occhio. Le complicanze dell'intervento di cataratta comprendono il distacco di retina, la degenerazione maculare cistoide, la cheratopatia bollosa, l'emorragia coroideale (sanguinamento intraoperatorio sotto la retina che provoca l'espulsione del contenuto bulbare attraverso l'incisione), l'endoftalmite (infezione nell'occhio), l'opacizzazione della capsula posteriore (trattabile con il laser) e il glaucoma.
Quando viene esclusa la presenza di patologie già esistenti, come l'ambliopia, degenerazione maculare o glaucoma, il 95% degli occhi ottiene un visus di 5/10 o più. Se non viene impiantata una lente intraoculare, sono necessari lenti a contatto od occhiali spessi per correggere l'errore rifrattivo (ipermetropia e presbiopia).
Il distacco di retina
La retina è una parte del nostro cervello che attraverso i nervi ottici porta gli stimoli luminosi alla corteccia cerebrale. Si può considerare come la pellicola di una macchina fotografica che impressionandosi alla luce, ne trasmette l’impulso al cervello. E’ composta da una parte centrale detta macula, che mette a fuoco nitidamente le immagini, e dalla restante porzione periferica che funge da contorno. Quando la retina si distacca dalla parete interna dell’occhio vi è una perdita delle capacità visive, rendendo l’occhio cieco in quel determinato settore. Se la retina resta distaccata per molto tempo il recupero visivo dopo l’intervento chirurgico sarà scarso.
Esistono 3 tipi di distacco di retina (DR)
Per spiegare il perché della formazione delle rotture retiniche è necessario tenere presente che il vitreo, per sua natura gelatinoso, può per diverse cause denaturarsi liquefacendosi, verificandosi il cosiddetto distacco posteriore di vitreo. Tale processo non avviene di solito in maniera simultanea per tutto il vitreo, ma parzialmente a compartimenti. Ne risulta che la porzione liquefatta non ha aderenza con la parete interna retinica, creando uno spostamento della massa vitreale a carico della porzione ancora gelificata. Questa rimanendo saldamente aderente e non avendo più un supporto può lacerare la retina a causa della trazione esercitata. Fortunatamente la grande maggioranza dei distacchi posteriori di vitreo non causano una rottura della retina e quindi non esitano in un DR. Pertanto un distacco di retina può verificarsi in conseguenza di una rottura retinica. In tal caso il vitreo passa attraverso la rottura e scolla la retina che si stacca prima parzialmente e poi totalmente.
I sintomi premonitori, non sempre però avvertibili, sono: visione di flash luminosi, di corpi mobili (le cosiddette mosche volanti); a questi si aggiunge una visione di "tenda scura calata" quando c’è il distacco di retina conclamato.
E’ superfluo dire che la prevenzione del distacco di retina è essenziale. Essa si basa su visite periodiche, soprattutto in presenza di sintomi e nei soggetti miopi che presentano un ulteriore fattore di rischio; l’esame del fondo dell’occhio può rilevare la presenza di rotture o aree di debolezza del tessuto retinico, che talora impongono un trattamento laser. Questo è mirato a circondare la zona a rischio con tante piccole bruciature atte a creare uno sbarramento della lesione, cioè a rinforzare la retina attorno alla rottura, prima che il liquido passi dietro la retina scollandola. Una volta che il DR si è verificato, la terapia è solamente chirurgica.
Attualmente esistono tre differenti procedimenti chirurgici:
ll cerchiaggio e/o piombaggio sclerale è ancora oggi la terapia chirurgica più utilizzata in caso di DR regmatogeni. Il trattamento di effettua localizzando e poi trattando con il freddo (crioterapia) la/le rotture della retina, associandovi un cerchiaggio circonferenziale o a settore (piombaggio) mediante una bandelletta o una spugna di silicone. Questo crea una introflessione della retina nella zona della rottura chiudendo il foro. Allo scopo di evacuare il liquido sottoretinico che ha creato il DR si attua una puntura nella zona in cui il distacco è più bolloso. Questa chirurgia può essere eseguita in anestesia locale anche se la maggioranza dei chirurghi preferisce l’anestesia generale.
La vitrectomia nel distacco regmatogeno viene effettuata soprattutto se presenti trazioni vitreali od emorragie vitreali. L’intervento si effettua ab interno, entrando cioè nell’occhio, mediante degli appositi strumenti si scollano e si tagliano tutte le aderenze e al termine dell’intervento si introducono dei gas o dell’olio di silicone con lo scopo di tenere ben distesa ed attaccata la retina.
La retinopessia con gas non è più molto utilizzata negli ultimi anni e si effettua talvolta per rotture singole localizzate nei settori retinici superiori. L’intervento è ambulatoriale e si inietta nel vitreo una bolla di gas; dopo pochi giorni si può intervenire o con il laser o con una criopessia per bloccare la rottura retinica. Il vantaggio della
facilità della procedura viene spesso vanificato dagli scarsi risultati, dal fastidio di dover assumere una particolare posizione della testa per 7-10 giorni e dalle infiammazioni vitreali frequenti.
Nel distacco trazionale sono presenti membrane fibrose o fibrovascolari nel vitreo che esercitano una trazione sulla retina distaccandola. La causa più comune è la retinopatia diabetica proliferante; in questi casi crescono vasi anomali (neovasi) sulla superficie della retina che si aggettano nel corpo vitreo, causando spesso emorragie che intorbidano la vista.
Un’altra causa del DR trazionale è la proliferazione vitreo-retinica che può complicare un precedente intervento di DR regmatogeno.
La terapia del DR trazionale è sempre chirurgica; si esegue una vitrectomia e "peeling", cioè una asportazione delle membrane neoformate e tamponamento interno con gas e olio di silicone. In caso di retinopatia diabetica proliferante si dovrà poi eseguire un trattamento laser diffuso delle aree ischemiche per prevenire recidive della malattia.
Nel DR essudativo, non esistendo una rottura, il fluido crea una sorta di raccolta di liquido che si sposta a seconda delle posizioni corporee assunte, la retina distaccata può sollevarsi così tanto da raggiungere il cristallino. Le cause possono essere individuate in tumori (es. melanoma della coroide), malattie infiammatorie (uveite), anomalie congenite (es. nanoftalmo, malattia di Coats) o malattie degenerative maculari. In tali casi, per una accurata diagnosi, si impone, oltre ad un attento esame oculistico, anche una ecografia ed una fluorangiografia, meglio se accompagnata da una angiografia con verde di indocianina. Il trattamento e la prognosi sono quelli della malattia di base.
Il recupero visivo dopo tali interventi è di difficile quantificazione e dipende soprattutto dallo stato retinico precedente l’intervento; è necessario comunque sottolineare che esistono casi talmente complicati che neanche le migliori e moderne tecniche chirurgiche riescono a risolvere.
In conclusione possiamo affermare che il distacco della retina è sempre un evento clinico estremamente temibile, anche al giorno d’oggi, benché la tecnica chirurgica sia estremamente progredita. Appare sempre più importante valutare i soggetti a rischio ed effettuare una prevenzione laser o chirurgica per evitare conseguenze estreme.
La degenerazione maculare senile è una malattia, legata all'invecchiamento, che colpisce la macula, la porzione centrale della retina predisposta alla visione nitida di ciò che si guarda. È la principale causa di perdita grave della visione centrale (cecità legale) dopo i 55 anni.
Con l'invecchiamento si manifestano progressive modificazioni in un insieme di strutture tra loro adiacenti (epitelio pigmentato retinico, membrana di Bruch, coriocapillare) situate al di sotto della retina maculare. Al processo degenerativo maculare concorrono sclerosi dei vasi della coroide, accumulo di lipidi nella membrana di Bruch e alterazioni del metabolismo dell'epitelio pigmentato retinico. In queste condizioni il fisiologico passaggio di ossigeno e nutrienti dalla coroide alla retina diventa difficoltoso. Nello stesso tempo i detriti derivanti dai fotorecettori che normalmente vengono metabolizzati e eliminati dall'epitelio pigmentato retinico si accumulano a formare depositi sotto l'epitelio pigmentato stesso.
Compaiono lesioni caratteristiche denominate drusen, che all'esame del fondo oculare appaiono come chiazzette giallastre nell'area centrale della retina. Sono accumuli di detriti cellulari situati al di sotto della retina, tra epitelio pigmentato retinico e membrana di Bruch. Clinicamente le drusen vengono classificate come dure (più piccole e con bordi netti) e molli (di diametro maggiore di 63 micron, con bordi indistinti e tendenza a confluire).Il materiale delle drusen può riassorbirsi o calcificare e possono comparire iperpigmentazioni focali. La presenza di queste lesioni rimane spesso a lungo asintomatica. Alle drusen seguono alterazioni atrofiche dell'epitelio pigmantato retinico e della coriocapillare ad esse adiacenti, fino al costituirsi di un quadro clinico denominato atrofia geografica. L'epitelio pigmentato retinico è una struttura fondamentale per la buona funzione e la sopravvivenza dei fotorecettori retinici. Pertanto all'atrofia geografica dell’epitelio pigmentato si associa una corrispondente atrofia dei fotorecettori e quindi una perdita visiva tanto più grave quanto più estese e centrali sono le lesioni. L'atrofia geografica è responsabile del 20% dei casi di cecità legale da degenerazione maculare.
Le alterazioni sopra descritte rappresentano una situazione di rischio perché si sviluppino sotto la retina dei neovasi che sono alla base dell'evoluzione essudativa della degenerazione maculare. Una membrana neovascolare costituita da vasi neoformati e tessuto fibroso origina dalla coriocapillare, si infiltra attraverso la membrana di Bruch e si estende al di sotto dell'epitelio pigmentato o, attraversandolo, nello spazio sottoretinico. Questi vasi patologici sono causa di essudazione sierosa e di emorragie che si raccolgono sotto l’epitelio pigmentato e sotto la retina. Il processo neovascolare-essudativo interessa elettivamente l'area centromaculare, è in genere rapidamente ingravescente fino alla formazione di una cicatrice disciforme in cui i fotorecettori maculari risultano distrutti. La funzione visiva centrale ne risulta gravemente compromessa. La forma umida è responsabile dell'80% dei casi di cecità legale da degenerazione maculare.
È da tener presente che la maggior parte delle persone con degenerazione maculare hanno solo drusen e alterazioni degenerative modeste dell'epitelio pigmentato a cui corrisponde un danno visivo limitato. Una grave perdita visiva centrale si ha nei casi con neovascolarizzazione o atrofia geografica.
Fattori di rischio
Con l'avanzare dell'età dopo i 55 anni, il rischio di degenerazione maculare e il rischio di aggravamento della malattia progressivamente aumentano. Il sesso femminile sembra maggiormente intertessato, come pure la popolazione bianca rispetto alle razze pigmentate. È riconosciuta una certa familiarità della degenerazione maculare senile. Studi sono rivolti alla individuazione di geni responsabili di una predisposizione alla malattia o ad una sua particolare manifestazione.
Il fumo aumenta il rischio di degenerazione maculare. I fumatori sviluppano la malattia 5 – 10 anni prima dei non fumatori ed hanno un rischio doppio di andare incontro alla forma neovascolare. Anche l'ipertensione favorisce la forma umida di degenerazione maculare. L'eccessiva esposizione alla luce durante la vita sembra essere un fattore di rischio mentre l'uso di occhiali da sole sembra essere protettivo verso l’insorgenza della malattia. Una dieta ricca di grassi e colesterolo è associata ad un maggior rischio di degenerazione maculare. Il consumo di pesce e di acidi grassi w-3 è invece associato ad un minor rischio di malattia. L'obesità è anche considerato un fattore di rischio.
Pazienti con drusen molli e confluenti associate a iperpigmentazioni e atrofie focali dell’epitelio pigmentato hanno un elevato rischio di evoluzione neovascolare della malattia. Per chi ha una degenerazione maculare neovascolare in un occhio il rischio di neovascolarizzazione nel secondo occhio in 5 anni è di circa il 30%.
Nella degenerazione maculare, come in molte patologie correlate all'età, ha un ruolo chiave il danno progressivo prodotto dai processi ossidativi a livello cellulare. I risultati dello studio AREDS suggeriscono che l'integrazione con alte dosi di antiossidanti quali zinco, vitamina C, vitamina E e betacarotene hanno azione protettiva verso la progressione della malattia nella forma neovascolare. Non si dovrebbero però dimenticare i possibili rischi legati ad un eccessivo apporto vitaminico per alcuni individui.
Sintomatologia e diagnosi
Nelle fasi iniziali, soprattutto se solo un occhio è interessato, la malattia può non dare sintomi apprezzabili. Si può notare una riduzione della visione centrale, uno sfocamento delle parole nella lettura, un'area scura o vuota al centro del campo visivo, distorsione delle linee dritte. La distorsione delle immagini è un sintomo frequente
all'insorgere della forma umida neovascolare e deve indurre ad una visita oculistica urgente. Difetti del campo visivo centrale e distorsione possono essere apprezzati con un test semplice, la griglia di Amsler. Gli esami diagnostici fondamentali comprendono la misurazione dell’acutezza visiva, un attento esame del fondo oculare in biomicroscopia e la fluorangiografia.
La fluorangiografia utilizza una sostanza fluorescente alla luce blu (fluoresceina) che impregna la membrana neovascolare e la rende evidente. Sul reperto fluorangiografico la neovascolarizzazione può apparire ben delineata e chiaramente localizzabile (neovascolarizzazione classica), oppure può apparire mal definita e solo sospettabile (neovascolarizzazione occulta). Molto spesso l'intera formazione neovascolare ha sia una componente classica che una componente occulta, e a seconda del prevalere dell'una o dell'altra potrà essere definita prevalentemente classica o minimamente classica. In caso di neovascolarizzazione occulta può essere utile eseguire un secondo esame angiografico che utilizza un colorante fluorescente all’infrarosso (verde di indocianina) in grado di dare un’immagine più definita di questo tipo di neovasi. L'angiografia con verde di indocianina può anche facilitare il riconoscimento di manifestazioni particolari del processo neovascolare nell'ambito della degenerazione maculare: la vasculopatia coroideale polipoide e la proliferazione angiomatosa retinica o RAP. Lo stesso esame angiografico eseguito con tecnica dinamica può far individuare il vaso afferente (feeder vessel) da cui origina la rete vascolare della membrana neoformata.
La fotocoagulazione con laser termico ha attualmente indicazioni molto limitate. Viene ancora impiegata quando i vasi neoformati sotto la retina sono abbastanza lontani dal centro della macula (circa 10% dei casi). Con la fotocoagulazione i vasi anomali vengono distrutti e con essi la retina adiacente. Le recidive sono frequenti.
La terapia fotodinamica è il trattamento attualmente di elezione, utilizzato quando i vasi neoformati occupano il centro della macula e hanno determinate caratteristiche (30-40% dei casi). Nella terapia fotodinamica una sostanza fotosensibile (verteporfina) iniettata in vena va ad aderire all’endotelio del vasi neoformati. La verteporfina depositata viene quindi attivata con un laser non termico, e la rezione che ne consegue porta alla chiusura per trombosi dei vasi anomali. La retina adiacente non viene danneggiata. Di regola sono necessari più trattamenti nell'arco di 1-2 anni.
L'attenzione attuale è rivolta a terapie farmacologiche mirate all'inibizione del processo di angiogenesi che sta alla base della forma umida di degenerazione maculare. Si stanno valutando diversi farmaci inibitori del VEGF che è il mediatore chiave nel processo di neoformazione dei vasi. Un'attività antiangiogenica è stata riconosciuta ad alcuni steroidi. Vi sono esperienze positive, ma ancora limitate, con l'associazione dell'iniezione intravitreale di triamcinolone con la terapia fotodinamica in forme particolari di degenerazione maculare neovascolare.
È probabile che nel prossimo futuro per il trattamento della degenerazione maculare neovascolare si utilizzeranno sempre più terapie combinate, associando farmaci antiangiogenesi alla terapia fotodinamica e adattando il trattamento al caso particolare.
L'escissione chirurgica della membrana neovascolare non sembra dare risultati soddisfacenti nella degenerazione maculare. La traslocazione della retina maculare su un’area sana adiacente è un intervento con risultati incerti e non esente da possibili gravissime complicanze. L'approccio chirurgico potrà avere uno spazio nel trattamento della degenerazione maculare neovascolare con l'affinamento delle tecniche e con una migliore definizione delle indicazioni.
Il diabete mellito è un disordine nel metabolismo dei carboidrati delle proteine e dei lipidi causato da un insufficienza assoluta o relativa di insulina. Il diabete mellito può essere diviso in due tipi principali:
I fattori di rischio più frequentemente associati ai gradi di maggiore evoluzione della RD sono risultati:
La Retinopatia Diabetica (RD) è la principale causa di cecità nell’età compresa tra i 20 e i 64 anni, ed è la più frequente e la più importante complicanza del diabete mellito. La retinopatia diabetica è frequente in entrambi i tipi di diabete ma i pazienti con I.D.D.M. vanno incontro ad un più alto rischio di complicanze.
La R.D. si divide in due grandi categorie:
La R.D. non proliferante (o background) si presenta con microaneurismi, piccole emorragie, essudati duri ed anomalie microvascolari intraretiniche. Col progredire della malattia può comparire l’edema maculare, cioè la presenza di liquido all’interno delle cellule retiniche, che rappresenta la maggiore causa di diminuzione del visus nella R. D. non proliferante. L’evoluzione dell’edema può variare, è a volte stabile, mentre in altri casi si aggrava lentamente dando origine alla formazione di vere eproprie cisti nella retina (edema cistoide). L’edema maculare è collegato alla presenza di alterazioni parietali (con maggior diffusione dei liquidi) ed ematiche (maggior aggregabilità delle piastrine, aumento della viscosità ematica). Con l’aumento dell’ischemia retinica, il paziente può sviluppare una R.D. proliferante.
La R.D. proliferante comprende tutte quelle forme di R.D. in cui sia presente una proliferazione vascolare. La R.D. proliferante è più frequente nei pazienti giovani affetti da I.D.D.M. in cui il controllo glicemico è più difficile. Può essere uno stadio evolutivo della R.D. non proliferante oppure comparire precocemente con la formazione di vasi neoformati. Queste neovascolarizzazioni sono formate da capillari che hanno una parete molto fragile e possono rompersi facilmente causando una emorragia vitreale (emovitreo). Le emorragie possono riassorbirsi, ma, se non si interviene con una adeguata terapia laser, tendono a ripetersi ed in tali casi il loro assorbimento è sempre più difficile. In seguito può apparire una reazione fibrovascolare con formazione di membrane che possono penetrare nel vitreo, provocare una trazione retinica e un distacco della retina. Nei casi piu gravi vi può essere l’insorgenza di un glaucoma neovascolare.
Un accurato esame del fondo dell’occhio può essere sufficiente per riconoscere i primi danni alla retina. Si potranno in seguito effettuare delle fotografie ed all'esordio della malattia è importante effettuare una fluorangiografia (FAG). La FAG della retina è un esame che consiste nel fotografare con un particolare sistema il fondo dell’occhio, dopo aver iniettato un colorante in una vena del braccio. La FAG è un esame ambulatoriale e col passare degli anni si è perfezionata al punto tale che oggi, almeno nei centri più importanti, è un esame esclusivamente assistito dal computer e pertanto sempre più rapido e preciso. In presenza di R.D. questo esame permette di evidenziare con estrema precisione le alterazioni iniziali della retina, e ci consente, in caso di lesioni più avanzate, di intervenire con il laser. Altro esame fondamentale è l'OCT. Questo esame, di recente introduzione nella pratica clinica, è una specie di scanner della retina e serve a fotografare ed a quantificare il danno all'interno della retina stessa. L’ideale sarebbe poter eseguire il laser prima dell’insorgenza di lesioni gravi e che abbiano provocato danni visivi, dal momento che molti pazienti si rendono conto di avere problemi della retina solo quando la diminuzione della vista è notevole.
Il trattamento della R.D. consiste in:
E’ molto importane la prevenzione, costituita da un attento controllo metabolico e, soprattutto, da uno screening regolare. Il controllo metabolico è responsabilità del medico di base e del diabetologo che, mediante una terapia medica appropriata ( antidiabetici orali o con insulina) debbono lavorare in stretto rapporto con l’oftalmologo.
L’esperienza clinica ha dimostrato che la fotocoagulazione laser migliora la prognosi visiva. Il laser è un dispositivo capace di emettere un sottile raggio di luce (verde, rosso,infrarosso) che, focalizzato sulle lesioni della retina, le coagula e quindi le chiude con effetto termico. Il trattamento laser viene eseguito ambulatorialmente, dopo aver instillato alcune gocce di collirio anestetico locale, e generalmente non necessita alcun ricovero. Il progresso delle tecnologie, con l’introduzione di nuovi laser che permettono trattamenti anche in caso di opacità dei mezzi diottrici (cataratta, ed emorragie intraoculari), ha indubbiamente condotto ad un miglioramento della cura della R.D. permettendoci di guardare al suo futuro con più ottimismo. Infatti mentre 30 anni fa l’insorgenza della R.D. di tipo proliferante portava alla cecità oltre il 50% dei pazienti, attualmente la cecità è stata ridotta a meno del 5%.
Terapia medica
Terapia con argon laser
La terapia laser viene condotta in modo mirato sulle alterazioni microvascolari responsabili dell’edema, al fine di ottenere l’obliterazione delle stesse. Spot di 100-200 micron di diametro vengono indirizzati in corrispondenza delle zone di alterazione microvascolare che fluorangiograficamente appaiono responsabili dei fenomeni di diffusione di colorante (fotocoagulazione focale). Quando l’area di edema risulta particolarmente estesa il trattamento viene condotto mediante spot non confluenti disposti a griglia (fotocoagulazione a griglia).
Il trattamento fotocoagulativo laser è efficace nel prevenire i più gravi danni visivi prodotti dalla R.D. , ma è imperativo ricordare che il trattamento laser non viene eseguito per migliorare la vista. La fotocoagulazione laser delle aree retiniche che fluorangiograficamente risultano non irrorate, consente di combattere i fattori responsabili dei neovasi. Si deve procedere per gradi con una fotocoagulazione graduale di tutta l’ischemia retinica. Successivamente il trattamento potrà essere esteso fino ad interessare una gran parte della retina (fotocoagulazione panretinica). Le fotocoagulazioni potranno essere eseguite in un settore alla volta (in genere si preferisce iniziare con i settori inferiori che potrebbero poi quasi divenire inaccessibili in conseguenza di una eventuale emorragia endovitreale). Si può anche procedere dalla periferia in modo concentrico verso le zone centrali. Le sedute fotocoagulative vanno preferibilmente distanziate di almeno 24 ore. Nel corso di ogni seduta si possono effettuare 500-600 fotocoagulazioni e anche più, contigue, di energia tale da produrre un franco sbiancamento della retina. Tre quattro sedute eseguite con questa modalità, consentono di solito di completare la fotocoagulazione.
Terapia chirurgica (vitrectomia)
Quando le emorragie interessano il vitreo e quando i processi proliferativi fibrotici retino-vitreali determinano dannose trazioni sul piano retinico può essere presa in considerazione la vitrectomia. Questa tecnica prevede l’inserimento all’interno della camera vitreale di una cannula che seziona ed aspira il vitreo così che sangue, membrane, fibrina, possano essere delicatamente rimossi. I risultati dell’intervento di vitrectomia sono migliori quando la cecità è dovuta esclusivamente all’opacizzazione del vitreo da parte del sangue mentre i risultati sono meno favorevoli dal punto di vista funzionale quando la retina è già stata gravemente danneggiata.
L'occlusione venosa retinica è una condizione patologica oculare riscontrata più frequentemente nei pazienti di età superiore ai 60 anni, ipertesi, con disturbi cardiocircolatori e diabete mellito. Tra i fattori predisponenti vanno ricordati altresì il fumo, alcune anomalie della coagulazione, la deficienza di proteine C e S e la presenza di anticorpi anti-fosfolipidi. Tra i fattori predisponenti oculari sono invece importanti l'aumento di pressione intraoculare (glaucoma), l'ipermetropia, alcune malattie infiammatorie che sono causa di vasculiti retiniche (sarcoidosi, sindrome di Behçet), e rare anomalie congenite a carico della vena centrale della retina.
Tale patologia può colpire la vena centrale retinica globalmente o solo un ramo di essa (la cosiddetta occlusione di branca). Vi sono notevoli affinità tra l'una e l'altra condizione dal punto di vista clinico, ma il decorso e la prognosi hanno caratteristiche differenti.
L’occlusione venosa di branca (OBVR) colpisce in eguale misura i due sessi ed ha maggiore incidenza tra i 60 e i 70 anni di età.
L'esordio è quasi sempre improvviso e il paziente lamenta un annebbiamento della vista più o meno marcato che spesso si accompagna a perdita di parte del campo visivo. L'esame del fondo oculare evidenzia la presenza di emorragie intraretiniche, più o meno diffuse in relazione alla maggiore o minore gravità dell'occlusione. Alle emorragie si accompagna la dilatazione dei vasi sanguigni e l'edema nella parte di retina interessata dall’occlusione. In alcuni casi l'occlusione è solo parziale ed al momento della comparsa dei sintomi sono presenti solo poche emorragie retiniche che aumentano in relazione alla progressiva occlusione del vaso. In caso di blocco totale i capillari cessano di funzionare e si occludono, determinando un'ischemia da deficit di irrorazione.
Tre sono le complicanze di un'occlusione di branca capaci di determinare un deficit visivo:
E’ comunque indispensabile effettuare una fluorangiografia retinica, che ci permette di identificare chiaramente le alterazioni retiniche presenti e ci guida in un eventuale trattamento con il laser. Ad esempio, in caso di edema il laser è da riservarsi ai pazienti in cui la visione sia inferiore a 3/10, ed è inutile in caso di ischemia maculare.
La proliferazione di vasi sanguigni anomali avviene in circa il 30-50% degli occhi con aree di assenza di perfusione capillare dopo una OBVR. Tale fenomeno si manifesta in genere dopo sei-dodici mesi dall'occlusione, ma talora anche dopo qualche anno; è una complicanza assai temibile, perché conduce di frequente ad emorragie intraoculari, con grave danno visivo. In caso di vasoproliferazione è necessario ricorrere al trattamento laser, il cui scopo è quello di distruggere i capillari anomali neoformati.
In ogni caso, anche se l'acuità visiva centrale è ridotta dall'edema maculare e dalle emorragie, dopo circa sei mesi dall'esordio di una OBVR in circa il 50% degli occhi colpiti si sviluppano dei circoli collaterali che talora consentono un visus discreto.
A tutt'oggi non esiste un trattamento medico per la OBVR. I farmaci antiaggreganti e anticoagulanti (eparina, dicumarolo) non hanno mostrato sicura efficacia né nella prevenzione della OBVR, né utilità nella gestione delle sue complicanze e vanno pertanto prescritti solo nei casi in cui siano presenti patologie di base che traggano utilità da tale terapia.
Con tale termine si definisce l'occlusione della vena retinica nella sua porzione terminale, a livello del nervo ottico, ove raccoglie tutto il sangue proveniente dai capillari retinici.
La maggioranza dei casi di OVCR possono essere classificati, in base all'aspetto clinico e alla prognosi, nelle forme seguenti:
La forma non ischemica è di gran lunga la più comune e coinvolge circa il 75% dei casi. Il paziente lamenta tipicamente una perdita più o meno grave dell'acuità visiva e l'esame del fondo oculare mostra la presenza di dilatazione e tortuosità di tutte le branche venose retiniche, di emorragie, di edema della testa del nervo ottico, associata o meno ad edema maculare. L'esame fluorangiografico conferma tali alterazioni, evidenziando la presenza di una buona perfusione capillare. La prognosi è legata all’entità del danno iniziale, e si può avere un visus discreto. La causa del danno visivo è principalmente l'edema maculare, per il quale l'utilità del trattamento medico o laser è tuttora discussa.
La forma ischemica è meno comune ed è caratterizzata da una perdita alquanto grave dell'acuità visiva, ridotta nella maggior parte dei casi alla conta delle dita o poco più. L'esame del fondo oculare mostra, oltre alla tortuosità delle vene e alle emorragie diffuse, la presenza di marcata ischemia del nervo ottico e di emorragie localizzate specificamente a livello maculare. La fluoroangiografia è indispensabile per evidenziare le aree ischemiche, in cui è cioè assente la perfusione capillare. La prognosi è sfavorevole se non viene effettuato un trattamento laser, la cui finalità è quella di distruggere le aree ischemiche. Se il trattamento non viene effettuato, circa il 50% dei pazienti svilupperà entro alcuni mesi dall'episodio originale un marcato aumento della pressione intraoculare, difficilmente controllabile con farmaci, con conseguente dolore oculare e addirittura rischio di perdita del bulbo oculare (glaucoma neovascolare).
L'occlusione venosa del giovane adulto è una forma rara, caratterizzata da una modesta diminuzione della capacità visiva, tipicamente più evidente nelle prime ore del mattino. Colpisce prevalentemente individui al di sotto dei 40 anni e costituisce probabilmente una forma diversa da quella che colpisce i soggetti più anziani. La causa è probabilmente da ricercarsi in un'anomalia congenita della vena centrale retinica, che favorisce alterazioni del flusso vascolare, o come conseguenza di un fatto infiammatorio. La prognosi è in genere favorevole.
L’occlusione arteriosa retinica è un evento drammatico che nella maggioranza dei casi porta alla perdita pressochè totale della capacità visiva di un occhio. Essa determina un blocco nell’apporto di sangue alla retina dell’occhio interessato con conseguenti fenomeni ischemici e di danno della funzione visiva. Rappresenta un evento clinicamente rilevante sia per le gravi alterazioni visive che comporta, sia perché essa è spesso la manifestazione oculare di una patologia sistemica, quindi è consigliabile effettuare indagini strumentali (Ecodoppler carotideo, ecocardiogramma ecc.) ed un controllo dei parametri ematochimici per evidenziare l’eventuale patologia sistemica responsabile dell’occlusione.
La terapia delle occlusioni arteriose deve essere instaurata molto precocemente, entro poche ore, ed è comunque raramente efficace. Il trattamento locale è finalizzato ad ottenere una variazione della pressione a livello della arteria centrale della retina per mobilizzare l’eventuale embolo presente. Essa si articola in un massaggio del bulbo oculare per 1-2 minuti, paracentesi della camera anteriore, iniezione retrobulbare di farmaci vasodilatatori ed
antispastici e posizionare il paziente in maniera da ottenere una diminuzione della pressione arteriosa. E’ inoltre utile instaurare un trattamento sistemico con acetazolamide, farmaci anticoagulanti e fibrinolitici.
L’occlusione arteriosa può interessare il tronco arterioso principale (occlusione dell’arteria centrale della retina) sia un ramo di essa (occlusione arteriosa di branca).
E’ la forma di occlusione arteriosa retinica più frequente. Gli uomini ne sono più colpiti con un’età media d'insorgenza intorno ai 60 anni. Le cause più comuni sono rappresentate da emboli che si localizzano nell’arteria centrale della retina conseguenti a placche occlusive, spasmi vascolari, aneurismi dissecanti e necrosi arteriolare ipertensiva. L’occlusione dell’arteria centrale della retina (OACR) è più frequente in associazione ad altre patologie vascolari sistemiche quali l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito, la stenosi carotidea e le valvulopatie cardiache
.
Il paziente lamenta un’improvvisa grave riduzione monolaterale dell’acuità visiva senza alcun dolore, la pupilla appare dilatata (midriasi), non riflettente alla illuminazione diretta, ma reagente quando si illumina l’altro occhio (riflesso consensuale). L’esame del campo visivo non è solitamente eseguibile. All’esame del fondo oculare si evidenzia una retina edematosa e di colorito biancastro sulla quale spicca una macchia rosso-ciliegia in corrispondenza della parte centrale della retina: la fovea. L’entità dell’edema retinico è maggiore nei casi di occlusione totale dell’arteria centrale della retina.
L’esame fluorangiografico si dimostra utile nella conferma della diagnosi di OACR, per stabilire il grado di occlusione presente e si caratterizza in un ritardo più o meno marcato di riempimento dei vasi arteriosi.
La prognosi per la funzione visiva è generalmente scadente e la vista è spesso ridotta alla conta delle dita od al movimento della mano. L’aspetto del fondo oculare varia nei giorni successivi all’occlusione, in rapporto alla riperfusione del circolo arterioso. Si assiste normalmente ad una progressiva diminuzione dell’edema retinico e nelle settimane successive compare spesso un atrofia ottica a settore della testa del nervo ottico ed un restringimento dei vasi arteriosi.
Le complicanze a lungo termine quali le proliferazioni di capillari anomali retinici o papillari e l’insorgenza di glaucoma neovascolare sono possibili ma meno frequenti che in caso di occlusioni venose.
In circa il 10% dei pazienti, la presenza di un arteria suppletiva che è l’arteria cilioretinica assicura anche in presenza di OACR un apporto di sangue sufficiente alla fovea che è la parte di retina più importante per la capacità visiva. In questo caso l’acuità visiva si mantiene relativamente buona e nei soggetti più fortunati, oltre alla visione centrale che consente di leggere e scrivere, può essere sorprendentemente conservata anche un’area periferica del campo visivo.
E’ un quadro ad insorgenza acuta con caratteristiche variabili in rapporto all’estensione ed alla localizzazione dell’area retinica nutrita dal vaso occluso.
Le cause di un'occlusione arteriosa di branca sono le stesse dell’OACR. Il paziente avverte una limitazione parziale del campo visivo che solitamente è a limiti netti e più frequentemente sul meridiano orizzontale. L’acuità visiva è variabile: risulta fortemente compromessa quando la branca arteriosa occlusa nutre la regione maculare, ben conservata se la conseguente ischemia retinica non interessa tale area. L’esame del fondo oculare evidenzia un edema retinico a settore, localizzato nel territorio della branca occlusa. Se vi è interessamento dell’area maculare è possibile riscontrare il tipico aspetto "rosso ciliegia" della fovea. La fluorangiografia permette di delimitare con maggiore precisione l’area retinica ischemica ed il grado di occlusione presente.
La prognosi di un'occlusione arteriosa di branca è solitamente migliore di quella dell’OACR: l’amputazione del campo visivo normalmente si stabilizza dopo una sua parziale regressione ed il recupero dell’acuità visiva dipende essenzialmente dall’interessamento o meno dell’area foveale. Va ricordato che in corso di occlusione arteriosa di branca il rischio d' insorgenza successiva di glaucoma neovascolare è praticamente nullo.
Fonte: http://www.ocupisa.it/box/dia/PDFTriennali/Dispensa.pdf
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