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Soren Aabye Kierkegaard nacque in Danimarca, a Copenhagen, il 5 maggio 1813. Educa-to dal padre nel clima di una severa religiosità, si iscrisse alla facoltà di teologia di Copenhagen, presso la quale dominava l'ispirazione hegeliana. Nel 1840, circa dieci anni dopo il suo ingresso in università, si laureò con una dissertazione Sul concetto dell'ironia con particolare riguardo a Socrate, che pubblicò l'anno seguente. Ma non intraprese la carriera di pastore alla quale la sua laurea lo abilitava.
Nel 1841-1842 fu a Berlino e ascoltò le lezioni di Schelling, che v'insegnava la propria filosofia, fondata sulla distinzione radicale tra realtà e ragione. Dapprima entusiasta del pensiero di Schelling, Kierkegaard ne fu presto deluso. Dopo di allora, visse a Copenha-gen grazie a un capitale lasciatogli dal padre, assorto nella composizione dei suoi libri. Morì 1'11 novembre 1855.
L'opera di Kierkegaard non può certo essere ridotta a un momento della polemica con-tro l'idealismo romantico. Sta di fatto, però, che molti dei suoi temi si pongono in effet-ti in precisa antitesi rispetto ai temi di tale idealismo: dalla difesa della singolarità del-l'uomo contro l'universalità dello Spirito alla rivalutazione dell'esistenza concreta contro la ragione astratta, delle alternative inconciliabili contro la sintesi conciliatrice della dialettica, della libertà come possibilità contro la libertà come necessità e, infine, della stessa categoria di possibilità.
Si tratta di punti fondamentali della filosofia kierkegaardiana, che, nel loro insieme, costituiscono una via radicalmente diversa rispetto a quella sulla quale l'idealismo romantico aveva indirizzato la filosofia europea. Tale alternativa rimane tuttavia presso-ché inoperante nel pensiero dell'Ottocento, e solo alla fine del Novecento comincia ad acquistare risonanza, dapprima nel pensiero teologico, poi in quello filosofico.
Come abbiamo anticipato, l'opera e la personalità di Kierkegaard sono segnate in primo luogo dal tentativo di ricondurre la comprensione dell'intera esistenza umana alla cate-goria della possibilità.
Già Kant aveva riconosciuto, a fondamento di ogni scelta umana, una possibilità, reale o trascendentale; ma di tale possibilità egli aveva messo in luce l'aspetto positivo, di effet-tiva capacità dell'uomo, che seppure limitata, proprio nel limite trova la propria validità e la spinta per la propria realizzazione. Kierkegaard, invece, scopre e mette in luce, con un'energia mai raggiunta prima, il carattere negativo di ogni possibile che entri a costi-tuire l'esistenza umana. Qualunque possibilità, infatti, oltre che "possibilità-che-sì" è sempre anche "possibilità-che-non", ossia che ciò che è possibile non sia: implica, in altre parole, la minaccia del nulla.
Kierkegaard vive, e scrive, sotto il segno di questa minaccia. Si è visto come tutti i trat-ti salienti della sua vita si siano rivestiti, ai suoi stessi occhi, di un'oscurità problemati-ca: i rapporti con la famiglia, l'impegno di fidanzamento, la sua attività di scrittore gli appaiono carichi di alternative terribili, che finiscono per paralizzarlo. Egli stesso incarna dunque la figura così potentemente descritta nelle pagine finali del Concetto dell'angoscia: quella del «discepolo dell'angoscia», che sente gravare su di sé le possi-bilità annientatrici e terribili che ogni alternativa esistenziale prospetta. Egli stesso dice di essere una «cavia d'esperimento per l'esistenza» e di riunire in sé i punti estremi di ogni opposizione.
Ciò che io sono è un nulla; questo procura a me e al mio genio la soddisfazione di conser-vare la mia esistenza al punto zero, tra il freddo e il caldo, tra la saggezza e la stupidaggine, tra il qualche cosa e il nulla come un semplice forse.
Il «punto zero» è l'indecisione permanente, l'equilibrio instabile tra le opposte alternati-ve che si aprono di fronte a qualsiasi possibilità. E forse è proprio questa la «scheggia nelle carni» di cui parla Kierkegaard: l'impossibilità di ridurre la propria vita a un com-pito preciso, di scegliere in maniera definitiva tra le diverse alternative, di riconoscersi e attuarsi in una possibilità unica. Questa impossibilità si traduce per lui nel riconoscere che l'unità della propria personalità consiste appunto in questa condizione di indecisio-ne e di instabilità, e che il centro del suo io è nel non avere un centro.
Una seconda caratteristica del pensiero di Kierkegaard è lo sforzo costante di chiarire le possibilità fondamentali che si offrono all'uomo, quegli stadi o momenti della vita che costituiscono le alternative fondamentali dell'esistenza, tra le quali l'individuo è general-mente indotto a scegliere, mentre egli, Kierkegaard, non poteva scegliere. La sua attività è dunque quella di un contemplativo: non è un caso che egli si sia creduto e detto «poeta", e che abbia moltiplicato la propria personalità con l'uso di vari pseudonimi, in modo da accentuare il distacco tra se stesso e le forme di vita che andava descrivendo, e da far intendere chiaramente che non s'impegnava a scegliere tra esse.
Il terzo elemento portante del pensiero di Kierkegaard è il tema della fede e, in particola-re, del cristianesimo, unica religione in cui il filosofo intravede un'ancora di salvezza. Soltanto il cristianesimo gli pare insegnare quella "dottrina dell'esistenza" da lui conside-rata come l'unica vera, e nello stesso tempo offrire, con l'aiuto soprannaturale della fede, una via per sottrarre l'uomo all'angoscia e alla disperazione che ne costituiscono strut-turalmente l'esistenza.
Per i motivi elencati nel paragrafo precedente, la filosofia hegeliana appare dunque a Kierkegaard antitetica e illusoria rispetto al proprio punto di vista sull'esistenza. Le pos-sibilità esistenziali, infatti, non si lasciano riunire e conciliare nella continuità di un unico processo dialettico in cui l'opposizione delle alternative sia solo apparente (per-ché la vera e unica realtà è costituita dall'unità della Ragione con se stessa). Di fronte alla Ragione hegeliana, che assorbe completamente e dissolve in sé gli individui concreti, il filosofo danese presenta l'istanza del «singolo», cioè dell'esistente come tale.
È in tale prospettiva che Kierkegaard contesta a Hegel il fatto di avere trasformato il genere dell'uomo in un genere animale, giacché negli animali il genere è superiore al sin-golo, mentre il genere umano presenta in realtà la caratteristica opposta, per cui il singo-lo è superiore al genere. Oltre a essere l'insegnamento fondamentale del cristianesimo, questo è, secondo Kierkegaard, il punto su cui bisogna combattere la battaglia contro la filosofia hegeliana e, in generale, contro ogni filosofia che si illuda di avvalersi di una riflessione "oggettiva". «La verità — egli dice — è una verità solo quando è una verità per me»: essa non è dunque l'oggetto del pensiero, ma il processo con cui l'uomo se ne appro-pria, la fa sua e la vive: l'appropriazione della verità è la verità. Alla riflessione oggettiva propria di Hegel, Kierkegaard contrappone una riflessione soggettiva, connessa con l'esistenza: una riflessione in cui il singolo uomo è direttamente coinvolto e che proprio per questo non è oggettiva e disinteressata, ma appassionata e paradossale.
Proprio in ciò consiste uno degli aspetti essenziali del compito dei filosofi: l'inserimento della persona singola, considerata nella sua concretezza e con tutte le sue esigenze, nella ricerca filosofica. E perciò Kierkegaard avrebbe scelto di far scrivere sulla propria tomba non il proprio nome, ma solo «quel singolo», e per questo stesso motivo ha combattuto tutta la vita contro il panteismo idealistico, cioè contro la pretesa di identificare l'uomo e Dio, e ha invece affermato l'«infinita differenza qualitativa» tra il finito e l'infinito.
La vita estetica e la vita etica
Il libro di Kierkegaard intitolato Aut-Aut è una raccolta di scritti — pubblicati sotto pseudo-nimo — che presentano l'alternativa tra quelli che il filosofo considera come i due stadi fon-damentali della vita: la vita estetica e la vita morale). Il titolo indica come questi stadi non siano due gradi di un unico sviluppo che passa dall'uno all'altro concilian-doli, ma come tra essi vi sia una sorta di "abisso", un "salto". Ogni stadio forma una vita a sé, con le sue opposizioni interne, e si presenta all'uomo come un'alternativa che esclude l'altra.
Lo stadio estetico è la forma di vita di chi esiste nell'attimo, fuggevolissimo e irripeti-bile. L'esteta è colui che vive poeticamente, cioè nutrendosi di immaginazione e rifles-sione insieme. Dotato di un senso finissimo per scoprire quanto l'esistenza offre di più interessante, egli si rapporta alle diverse situazioni della vita concreta come se fossero il frutto dell'immaginazione poetica, costruendo per se stesso un mondo luminoso, da cui bandisce tutto ciò che è banale, insignificante e meschino, e nel quale vive in uno stato di permanente ebbrezza intellettuale. La vita estetica non tollera la ripetizione che con-traddistingue la quotidianità di una vita regolare: quest'ultima implica sempre una certa monotonia e rende meno interessanti anche le vicende più promettenti.
Per rappresentare nella sua pienezza lo stadio estetico dell'esistenza, Kierkegaard tratteg-gia la figura di don Giovanni, il protagonista del Diario di un seduttore, il quale sa trarre godimento non dalla ricerca sfrenata e indiscriminata del piacere, ma dalla scelta dei pia-ceri più intensi e appaganti.
Pur condotta in questa forma "perfetta", la vita estetica rivela tuttavia la propria inadeguatez-za, conducendo necessariamente alla noia e, in ultimo, alla disperazione. Chiunque viva este-ticamente è infatti disperato, lo sappia o non lo sappia, e tale disperazione è il sintomo del-l'ansia dell'esteta per una vita diversa, per la possibilità di un'alternativa esistenziale differente. Proprio lasciandosi andare completamente alla disperazione, si può tuttavia rompere l'in-volucro della pura esteticità, e riagganciarsi con un "salto" all'altra alternativa possibile, quella costituita dalla vita etica. «Scegli dunque la disperazione» dice Kierkegaard, poiché:
la disperazione stessa è una scelta, giacché si può dubitare senza scegliere di dubitare, ma non si può disperarsi senza sceglierlo. Disperandosi, si sceglie di nuovo e si sceglie se stessi, non nella propria immediatezza, come individui accidentali, ma si sceglie se stessi nella propria validità eterna.
Con la scelta della disperazione nasce dunque la vita etica, la quale implica una stabili-tà e una continuità che la vita estetica, in quanto incessante ricerca della varietà, esclude. La vita etica è il dominio della riaffermazione di sé, del dovere e della fedeltà a se stes-si, ovvero il dominio della libertà, poiché in essa l'uomo si forma o si afferma da sé:
l'elemento estetico è quello per il quale l'uomo è immediatamente ciò che è; l'elemento etico è quello per cui l'uomo diviene ciò che diviene.
Nella vita etica l'uomo singolo si sottopone a una forma, si adegua all'universale e rinun-cia a essere l'eccezione. Così come la vita estetica è incarnata dal seduttore, la vita etica è rappresentata dalla figura del marito. Il matrimonio, infatti, per Kierkegaard è l'espres-sione tipica dell'eticità, in quanto compito che può essere proprio di tutti: mentre nella concezione estetica dell'amore due persone possono essere felici in forza dell'ecceziona-lità del loro legame e della loro personalità, nella concezione etica del matrimonio può raggiungere la felicità ogni coppia di sposi.
La persona etica, inoltre, vive del proprio lavoro. Esso costituisce la sua vocazione, e l'in-dividuo che sceglie la vita etica lavora con piacere, poiché il lavoro lo mette in relazione con altre persone e perché adempiendo al proprio compito egli adempie a tutto ciò che può desiderare al mondo.
In questo senso, la caratteristica della vita etica è costituita dalla scelta che l'uomo fa di se stesso: si tratta di una scelta assoluta, perché non è la scelta di una determinazione finita, bensì la scelta della libertà, cioè, in fondo, della scelta stessa.
Una volta effettuata questa scelta, l'individuo scopre in sé una ricchezza infinita, ovvero scopre di possedere una storia in cui riconoscere la propria identità con se stesso. E, poi-ché questa storia include i rapporti del singolo con gli altri, nel momento in cui egli sem-bra maggiormente isolarsi, in realtà penetra più profondamente nella radice che lo uni-sce all'umanità intera.
In virtù della scelta, l'individuo non può rinunciare ad alcunché della propria storia, neanche agli aspetti di essa più dolorosi e crudeli; e nel riconoscersi in questi aspetti, egli si pente. Il pentimento costituisce l'ultima parola della vita etica, la parola per cui lo sta-dio etico rivela la propria insufficienza e la necessità di passare al dominio della religione:
Il pentimento dell'individuo coinvolge se stesso, la famiglia, il genere umano, finché egli si ritrova in Dio. Solo a questa condizione egli può scegliere se stesso e questa è la sola condi-zione che egli vuole, perché solo così può scegliere se stesso in senso assoluto.
La scelta assoluta è dunque pentimento, riconoscimento della propria colpevolezza, della colpevolezza perfino di ciò che si è ereditato. «Il suo [dell'individuo] se stesso si trova in qualche modo fuori di lui e dev'essere conquistato; e il pentimento è il suo amore, perché egli lo sceglie assolutamente, per la mano di Dio». Questo è lo scacco finale della vita etica, lo scacco per cui essa, in virtù della stessa struttura che la costitui-sce, tende a trapassare nella vita religiosa.
La vita religiosa
Così come non c'è continuità tra la vita estetica e la vita etica, allo stesso modo non c'è continuità tra quella etica e quella religiosa. Tra loro c'è anzi un abisso ancora più pro-fondo, un'opposizione ancora più radicale. Kierkegaard chiarisce tale opposizione in Timore e tremore, dove raffigura la vita religiosa rifacendosi al personaggio biblico di Abramo e alla sua vicenda. Vissuto fino a settant'anni nel rispetto della legge morale, Abramo riceve da Dio l'ordine di uccidere il figlio Isacco, infrangendo così la legge per la quale è vissuto. Il significato di tutto ciò sta nel fatto che il sacrificio di Isacco non è suggerito ad Abramo da una qualche esigenza morale (quale fu, ad esempio, quella che spinse il console Bruto all'assassinio di Cesare, padre adottivo), ma da un comando divi-no che, anzi, contrasta con la legge morale e con gli affetti naturali. In altri termini, l'af-fermazione del principio religioso sospende interamente l'azione del principio morale. Tra i due principi non c'è possibilità di conciliazione, o di sintesi.
Ma se l'opposizione tra la vita etica e quella religiosa è così radicale, allora la scelta tra i due principi a esse sottesi non può essere facilitata da alcuna considerazione generale, né decisa in base ad alcuna regola. Optando per il principio religioso, l'uomo di fede sceglie di seguire i comandi divini anche a costo di infrangere le norme morali e giungere così a una rottura totale con tutti gli altri uomini. Del resto, la fede non è un principio genera-le, ma un rapporto privato tra l'uomo e Dio, un rapporto assoluto con l'Assoluto. Essa è il dominio della solitudine, un "luogo" in cui non si entra "in compagnia", in cui non si odono voci umane e non si scorgono regole.
Da tutto ciò deriva il carattere incerto e rischioso della vita religiosa. Come può l'uo-mo esser certo di costituire, rispetto alle regole morali, un'eccezione giustificata? Come può sapere con sicurezza di essere l'eletto, colui al quale Dio ha affidato un compito talmente eccezionale da esigere e giustificare la sospensione dell'etica?
C'è un solo segno indiretto: la forza angosciosa con cui chi è veramente eletto da Dio si pone proprio questa domanda. L'angoscia dell'incertezza è la sola assicurazione possibi-le. La fede è appunto certezza angosciosa, angoscia che si rende certa di sé e di un nasco-sto rapporto con Dio. Infatti, l'uomo può pregare Dio perché gli conceda la fede; ma la possibilità di pregare non è essa stessa un dono divino?
C'è dunque nella fede una contraddizione ineliminabile. La fede è paradosso e scanda-lo, il cui segno è lo stesso Cristo: colui che soffre e muore come uomo, mentre parla e agisce come Dio; colui che è e si deve riconoscere come Dio, mentre soffre e muore come un misero uomo.
L'uomo è posto di fronte a un bivio: credere o non credere. Se, da un lato, è il singolo uomo a dover scegliere, dall'altro ogni iniziativa umana è esclusa, perché Dio è tutto e da Lui deriva anche la fede. La vita religiosa è imprigionata nelle maglie di questa contraddi-zione inesplicabile, che, del resto, costituisce l'essenza stessa dell'esistenza umana: il para-dosso, lo scandalo, la necessità e insieme l'impossibilità di decidere, il dubbio, l'angoscia. Kierkegaard è dunque convinto che la religione cristiana riveli la sostanza della vita del-l'uomo. È bene ricordare, tuttavia, che negli ultimi anni della sua vita egli si accorse del fatto che la propria concezione del cristianesimo era assai lontana da quella delle religio-ni ufficiali. «Sono in possesso di un libro — egli scrisse una volta — che in questo Paese può dirsi sconosciuto e di cui voglio quindi dare il titolo: "Il Nuovo Testamento di nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo"». La polemica contro il pacifico e accomodante cristia-nesimo della Chiesa danese — polemica che lo stesso Kierkegaard dichiarò di intrapren-dere non tanto per difendere il messaggio cristiano originale, quanto per sincerità e one-stà verso se stesso — dimostra come nel cristianesimo egli difendesse in realtà il significato dell'esistenza che aveva riconosciuto e fatto proprio. Significato che, sebbene secondo il filosofo trovi la propria "incarnazione" storica nella religione cristiana, non è limitato al dominio religioso, ma è connesso a ogni forma, o stadio, dell'esistenza. La religione ne è consapevole, ma non lo monopolizza: anche la vita estetica e la vita etica lo includo-no, come si è visto. E le opere più significative di Kierkegaard sono proprio quelle che, affrontandolo direttamente, lo stabiliscono nel suo significato umano.
Dopo aver delineato gli stadi fondamentali della vita, presentandoli come alternative reciprocamente escludentisi e come situazioni dominate da irrimediabili contrasti inter-ni, Kierkegaard approfondisce la propria ricerca e giunge così al punto centrale da cui quelle stesse alternative e quegli stessi contrasti si originano: l'esistenza come possibilità. Nelle sue due opere fondamentali, Il concetto dell'angoscia e La malattia mortale, il filosofo analizza la situazione di radicale incertezza, instabilità e dubbio in cui l'uomo si trova "costituzionalmente", ovvero a causa della natura problematica del modo d'esse-re che gli è proprio: nel Concetto dell'angoscia tale analisi assume il punto di vista dei rap-porti dell'uomo con il mondo, mentre nella Malattia mortale quello della relazione del-l'uomo con se stesso.
L'angoscia è la condizione generata nell'uomo dal possibile che lo costituisce. Essa è strettamente connessa con il peccato, ed è anzi a fondamento dello stesso peccato origi-nale. Adamo è "innocente" finché resta "ignorante", cioè finché non conosce le proprie infinite possibilità; ma tale ignoranza contiene già in sé l'elemento che determinerà la caduta, e tale elemento non è né calma né riposo, né turbamento né lotta, perché non c'è alcunché da cui riposarsi o contro cui lottare. Non è che un niente; ma è proprio questo niente a generare l'angoscia. A differenza del timore e di altri stati analoghi, che si riferi-scono sempre a qualcosa di determinato, l'angoscia non si riferisce a nulla di preciso. Essa è il puro sentimento della possibilità.
Il divieto divino rende inquieto Adamo perché sveglia in lui la possibilità della libertà. Ciò che si offriva all'innocenza come il niente dell'angoscia è ora entrato in lui, e qui ancora resta un niente: l'angosciante possibilità di potere. Quanto a ciò che può, egli non ne ha nes-suna idea, altrimenti sarebbe presupposto ciò che ne segue, cioè la differenza tra il bene e il male. Non vi è in Adamo che la possibilità di potere, come una forma superiore d'ignoran-za, come un'espressione superiore di angoscia, giacché in questo grado più alto essa è e non è, egli l'ama e la fugge.
Nell'ignoranza di ciò che può, Adamo possiede il proprio potere nella forma della pura possibilità, e l'esperienza vissuta di questa possibilità è l'angoscia. L'angoscia non è né necessità, né libertà astratta, cioè libero arbitrio: essa è piuttosto libertà finita, cioè limi-tata e impastoiata, che si identifica con il sentimento della possibilità.
La connessione dell'angoscia con il possibile si rivela nella connessione del possibile con l'avvenire. Il possibile, infatti, corrisponde completamente all'avvenire.
Per la libertà il possibile è l'avvenire, per il tempo l'avvenire è il possibile. Così, all'uno come all'altro, nella vita individuale corrisponde l'angoscia.
Il passato genera angoscia solo nel caso in cui si presenti come possibile futuro, cioè come possibilità di ripetizione: una colpa passata genera angoscia solo se non è vera-mente passata, ovvero solo se è possibile ricadervi, giacché diversamente genererebbe pentimento, e non angoscia, la quale (lo ripetiamo) è legata a ciò che non è ma può esse-re, alla possibilità del nulla, o alla possibilità nullificante.
L'angoscia è strettamente legata alla condizione umana: se l'uomo fosse angelo, o bestia, non la conoscerebbe. Essa infatti manca, o è presente in grado minore, in quei momenti o in quelle forme di vita in cui l'uomo si rende simile agli animali: nelle condizioni di eccessiva felicità, ad esempio, o in certi soggetti privi di spirito. Ma anche in questi casi l'angoscia è sempre in agguato: seppure mascherata e nascosta, essa è sempre lì, pronta a catturare di nuovo la sua preda. Inoltre, se è vero che la povertà spirituale sottrae l'uo-mo all'angoscia, non bisogna dimenticare che l'uomo sottratto all'angoscia è schiavo delle circostanze, che lo sospingono di qua e di là senza meta. L'angoscia è dunque la più gravosa e al tempo stesso la più necessaria tra le categorie umane.
E non è un caso che le parole più terribili pronunciate da Cristo non siano quelle che impressionavano Lutero: «mio Dio, perché mi hai abbandonato?», ma quelle che Cristo rivolge a Giuda: «ciò che tu fai, affrettalo!». Le prime esprimono infatti la sofferenza per ciò che accade, mentre le seconde l'autentica angoscia per ciò che può accadere: e solo in que-sto secondo caso si rivela l'umanità del Figlio di Dio, perché umanità significa angoscia. Kierkegaard collega l'angoscia al principio dell'infinità, o onnipotenza, del possibile, che esprime spesso così: «nel possibile, tutto è possibile», anche e soprattutto il negativo. Per questo ogni possibilità favorevole è spesso annientata dall'infinito numero delle pos-sibilità sfavorevoli.
Di solito si dice che la possibilità è leggera perché s'intende come possibilità di felicità, di fortuna ecc. Ma questa non è affatto la possibilità; questa è un'invenzione fallace che gli uomini nella loro corruzione imbellettano per avere un pretesto di lamentarsi della vita e della provvidenza e per avere un'occasione di farsi importanti ai propri occhi. No, nella possibilità tutto è ugualmente possibile e chi fu realmente educato mediante la possibilità ha compreso tanto il lato terribile quanto quello piacevole di essa. Quando si esce dalla sua scuola si sa meglio di come un bambino sa le sue lettere che dalla vita non si può pretende-re nulla e che il lato terribile, la perdizione, l'annientamento abitano a porta a porta con ciascuno di noi; e quando si è appreso a fondo che ciascuna delle angosce che noi temiamo può piombare su di noi da un istante all'altro, siamo costretti a dare alla realtà un'altra spiegazione: siamo costretti a lodare la realtà anche quando essa gravi su di noi con mano pesante e a ricordarci che essa è di gran lunga più facile che non la possibilità.
È quindi l'infinità, o indeterminatezza, delle possibilità a rendere l'angoscia insuperabile, e a farne la condizione fondamentale dell'uomo nel mondo.
Quando l'accortezza ha fatto tutti i suoi calcoli innumerevoli, quando il gioco è fatto, ecco l'angoscia, ancor prima che il gioco sia vinto o perduto nella realtà; e l'angoscia mette una croce davanti al diavolo, sicché non può più andare avanti e la più astuta combinazione dell'accortezza scompare come uno scherzo di fronte a quel caso che l'angoscia forma mediante l'onnipotenza della possibilità.
L'onnipotenza della possibilità supera dunque di gran lunga l'umano muoversi accorta-mente tra le cose finite, e induce l'individuo a «riposare nella provvidenza».
Se l'angoscia è la condizione in cui il possibile pone l'uomo rispetto al mondo, la disperazione è la condizione in cui il possibile pone l'uomo rispetto alla sua interio-rità, al suo io. Se l'angoscia sorge dalla possibilità di fatti, circostanze, legami che rap-portano l'uomo al mondo, la disperazione è inerente alla personalità stessa dell'uomo, al rapporto in cui l'io si pone con se stesso e alla possibilità di questo rapporto. Dispe-razione e angoscia sono quindi strettamente legate, ma non identiche: entrambe tutta-via sono fondate sulla struttura problematica dell'esistenza umana.
«L'io — dice Kierkegaard — è un rapporto che si rapporta a se stesso; è, nel rapporto, l'orientamento interno di questo stesso rapporto. L'io non è rapporto, ma è il ritorno su se stesso del rapporto». Posto ciò, la disperazione è strettamente legata alla natura del-l'io. Infatti, così come può volere,r io può anche non volere esser se stesso. Se vuole esser se stesso, non giungerà mai all'equilibrio e al riposo, poiché è finito e, quindi, insuffi-ciente a se stesso. Ma anche se non vuole esser se stesso e cerca di rompere il proprio rap-porto con sé, urta contro un'impossibilità fondamentale, dal momento che tale rappor-to gli è costitutivo. La disperazione è la caratteristica di entrambe queste alternative. Essa è perciò quella che Kierkegaard chiama «malattia mortale», non perché conduca alla morte dell'io, ma perché consiste nel vivere la morte dell'io: essa è il tentativo impossi-bile di negare la possibilità dell'io, o considerandolo autosufficiente, o cercando di distruggerne la natura concreta. Le due forme della disperazione si richiamano e si iden-tificano tra loro: disperare di sé, nel senso di volersi disfare di sé, significa voler essere un io che non si è veramente; ma anche voler essere se stessi a ogni costo significa voler esse-re un io che non si è veramente, ovvero un io autosufficiente e compiuto. Nell'uno e nell'altro caso la disperazione è l'impossibilità del tentativo.
Inoltre, poiché l'io è «sintesi di necessità e di libertà», in esso la disperazione nasce o da una mancanza di necessità, o da una mancanza di libertà.
Nel primo caso, l'io fugge verso possibilità che si moltiplicano indefinitamente e, dunque, non si solidificano mai, facendo dell'individuo «un miraggio». «Alla fine — dice Kierke-gaard — è come se tutto fosse possibile, ed è proprio questo il momento in cui l'abisso ha ingoiato l'io». Non a caso, la disperazione è quella che oggi chiamiamo "evasione", cioè il rifugio in possibilità fantastiche, illimitate, che non si concretizzano mai: «nella possibi-lità tutto è possibile. Perciò nella possibilità ci si può smarrire in tutti i modi possibili, ma essenzialmente in due. L'una di queste forme è quella del desiderio, dell'aspirazione; l'altra è quella malinconico-fantastica (la speranza, il timore o l'angoscia)».
Nel caso invece in cui la disperazione nasca da una mancanza di libertà,
la possibilità è l'unica cosa che salva. Quando uno sviene si manda per acqua, acqua di colonia, gocce di Hoffmann; ma quando qualcuno vuol disperarsi bisogna dire: "Trovate una possibilità, trovategli una possibilità". La possibilità è l'unico rimedio; dategli una pos-sibilità e il disperato riprende lena, si rianima, perché se l'uomo rimane senza possibilità è come se gli mancasse l'aria. Talvolta l'inventiva della fantasia umana può bastare per trova-re una possibilità; ma alla fine, cioè quando si tratta di credere, giova soltanto questo, che a Dio tutto è possibile.
Solo il credente, a parere di Kierkegaard, possiede l'antidoto sicuro contro la dispera-zione: «il fatto che la volontà di Dio è possibile fa sì che io possa pregare; se essa fosse soltanto necessaria, l'uomo sarebbe essenzialmente muto, come l'animale». In quanto opposto della fede, la disperazione è il peccato: perciò l'opposto del peccato è per l'ap-punto la fede, non la virtù.
La fede è l'eliminazione della disperazione; essa è la condizione in cui l'uomo, pur orientandosi verso se stesso e volendo esser se stesso, non si illude di essere autosuffi-ciente, ma riconosce la propria dipendenza da Dio. Solo in questo caso la volontà di essere se stessi non urta contro l'impossibilità dell'autosufficienza, determinando la disperazione, poiché solo in questo caso si tratta di una volontà che si affida alla potenza da cui l'uomo stesso è posto, cioè a Dio. Alla disperazione, la fede sostituisce la speranza e la fiducia in Dio. Proprio questo è lo "scandalo" del cristianesimo, che nessuna specu-lazione può eliminare o diminuire: il fatto che la realtà dell'uomo sia quella di un indivi-duo isolato di fronte a Dio, e che ogni individuo come tale, sia esso un potente della terra o uno schiavo, esista dinanzi a Dio.
La fede è dunque assurdità, paradosso e scandalo, che porta l'uomo al di là della ragione, al di là di ogni possibilità di comprensione. Tutte le categorie del pensiero religioso sono impen-sabili: impensabile è la trascendenza di Dio, che implica una distanza infinita tra l'uomo e la divinità, e che in tal modo esclude tra loro qualunque familiarità, anche nell'atto del loro più intimo rapporto; impensabile è il peccato nella sua natura concreta, come esistenza dell'in-dividuo che pecca; impensabile è l'idea di un Dio che si fa carne e muore per l'uomo.
Ma la fede crede nonostante tutto, e assume tutti i rischi. Essa è, per Kierkegaard, il capo-volgimento paradossale dell'esistenza. Di fronte all'instabilità radicale dell'esistenza costituita dal possibile, la fede si appella alla stabilità del principio di ogni possibilità, ovvero a Dio, cui tutto è possibile.
La storia, secondo Kierkegaard, non è affatto una "teofania", cioè, come pensava Hegel, una rivelazione, o autorealizzazione, dell'Assoluto. Il rapporto tra l'uomo e Dio, infatti, non si verifica nella storia, ovvero nella continuità del divenire umano, ma piuttosto nell'attimo», inteso come subitanea inserzione della verità divina nella vita dell'uomo. Anche in questo senso il cristianesimo è paradosso e scandalo, poiché se il rapporto tra l'uomo e Dio si verifica nell'attimo, ciò vuol dire che l'uomo per suo conto vive nella non-verità; e il peccato costituisce la conoscenza di questa condizione.
Kierkegaard contrappone il cristianesimo così inteso al socratismo, secondo cui l'uomo vive nella verità e si tratta soltanto di renderla esplicita, di trarla fuori da se stessi maieu-ticamente. Nella concezione socratica, il maestro è una semplice "occasione" per il pro-cesso maieutico, giacché la verità abita fin dal principio nel discepolo: ecco perché Socrate non si considerava un "maestro" e dichiarava di non insegnare alcunché. Secondo il punto di vista cristiano, poiché l'uomo è la non-verità, si tratta invece di "ricreare" l'uomo,
di farlo rinascere per renderlo adatto a una verità che gli proviene da fuori. Il maestro è perciò un salvatore, un redentore, che determina la nascita di un uomo nuovo, capace di accogliere nell'attimo la verità di Dio.
Dio rimane quindi al di là di ogni possibile punto d'arrivo della ricerca umana. Per questo l'unica definizione che se ne può dare è, secondo Kierkegaard, quella che lo contrassegna come differenza assoluta. Si tratta però di una definizione apparente, perché una differenza assoluta non può essere "pensata", e ciò significa soltanto che l'uomo non è Dio, che l'uomo è la non-verità, che l'uomo è il peccato: la ricerca di Dio non ha fatto alcun passo avanti.
L'attimo è dunque l'inserzione incomprensibile dell'eternità nel tempo: in esso si rea-lizza il paradosso del cristianesimo, cioè la venuta di Dio nel mondo. In questo senso sol-tanto il cristianesimo è un fatto storico, e se ogni fatto storico fa appello alla fede, questo implica una fede elevata a potenza, perché esige una decisione che superi la contraddizio-ne implicita nell'idea di un'eternità che si fa tempo, di una divinità che si fa uomo.
Il cristianesimo è inoltre un fatto storico molto particolare, che non ha testimoni privi-legiati, giacché la sua storicità si ripresenta ogni volta che, nell'attimo, un singolo uomo riceve il dono della fede. Kierkegaard afferma a questo proposito che non c'è alcuna dif-ferenza tra il discepolo «di prima mano» e il discepolo «di seconda mano»: egli è infatti convinto che chi vive molti secoli dopo la venuta di Cristo crede alla testimonianza di chi ha assistito a tale evento soltanto in virtù dell'intervento diretto di Dio: come per i disce-poli «di prima mano», anche per quelli «di seconda mano» la venuta di Dio nel mondo si verifica "direttamente", e ciò accade in virtù della fede.
La filosofia di Kierkegaard costituisce, nel suo complesso, un'apologetica religiosa; più precisamente, essa rappresenta il tentativo di fondare la validità della religione sulla struttura dell'esistenza umana. Si tratta tuttavia di un'apologetica assai lontana dalla razionalizzazione della vita religiosa effettuata da Hegel e in seguito divenuta il compito della destra hegeliana. La religione, infatti, per Kierkegaard non è una visione razionale del mondo, né la trascrizione fantastica o emotiva di tale visione, bensì la via della sal-vezza, cioè l'unico modo, per mezzo dell'instaurazione di un rapporto immediato con Dio, di sottrarsi all'angoscia, alla disperazione e allo scacco rappresentato dalla possi-bilità, ovvero dall'elemento costitutivo dell'esistenza umana. Proprio questo aspetto della filosofia di Kierkegaard costituisce il "perno" del ritorno al suo pensiero nella rifles-sione contemporanea, ritorno avviato dalla cosiddetta "rinascita" kierkegaardiana.
Il pensatore danese ha inoltre offerto all'indagine filosofica una serie di efficaci strumen-ti teorici: attraverso i concetti di possibilità, di scelta, di alternativa e di esistenza come modo d'essere proprio dell'uomo, egli ha insistito sul fatto che la filosofia non costitui-sce tanto un sapere oggettivo, quanto un atteggiarsi, o un progettarsi dell'intera esistenza umana e, quindi, un impegno in tale progettazione. Questa è la dimensione fatta propria da tutte le correnti dell'esistenzialismo contemporaneo.
Fonte: http://www.vitellaro.it/silvio/storia%20e%20filosofia/Appunti/Kierkegaard%20(Abbagnano).doc
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