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“con la frantumazione della filosofia morale in quattro branche distinte e autonome (la teologia naturale, l’etica, la giurisprudenza e l’economia politica), preconizzata da francis hutchenson e resa canonica dal suo ben più celebre allievo, adam smith, prende avvio la strana storia di un’affascinante scommessa intellettuale: la ricerca del senso e del fine del lavoro umano alla luce di una rinnovata ragion pura (la “razionalità economica”), indipendente dalle suggestioni evocate dall’antica condanna biblica, e di una pressante ragion pratica (“l’analisi sociale”) imposta dall’insorgere del capitalismo come modo di produzione storicamente determinato”.
f. campanella, “lavoro”, in g. lunghini (a cura di), dizionario di economia politica, bollati boringhieri, torino, 1982, vol. i, pag. 93. francesco campanella, prematuramente scomparso per una grave malattia, è stato docente di economia del lavoro presso questa facoltà.
“per ‘teoria del valore’ si possono intendere due cose distinte: la determinazione quantitativa dei rapporti secondo cui le merci vengono scambiate sul mercato, cioè dei loro prezzi relativi; oppure la ricerca dell’origine del valore delle merci, dunque l’indagine circa il fondamento stesso, l’oggetto e il metodo del discorso economico”
cfr. g.lunghini, f.ranchetti, “valore, teorie del valore”, in http://cfs.unipv.it/scritti .htm#lunghini, centro di filosofia sociale, università di pavia, 1998, pag. 1.
con riferimento all’origine del valore alle merci, esistono dunque due possibili spiegazioni fra loro antitetiche: esse possono essere definite l’una ‘oggettiva’, l’altra ‘soggettiva’
teoria “oggettiva” del valore
essa riconduce il valore delle merci al lavoro che direttamente o indirettamente è stato impiegato per produrle (teoria del valore-lavoro): essa sarebbe oggettiva in quanto il lavoro impiegato per produrre una merce dipende dalle tecniche di produzione adottate, supposte in ogni momento date e note. l’“oggettività” di tale approccio non è comunque assoluta, in quanto richiede che siano verificate due condizioni: una definizione condivisa del processo lavorativo e del rapporto che intercorre tra prestazione lavorativa e le tecniche di produzione e, in secondo luogo, l’esistenza di una unità di misura della prestazione lavorativa (critica di marx).
teoria “soggettiva” del valore
tale spiegazione del valore parte invece dall’apprezzamento, da parte dei singoli soggetti, dell’attitudine dei beni economici a soddisfare i bisogni (teoria del valore-utilità). il valore di una merce dipende così dal grado di utilità che viene soggettivamente associata dai singoli individui. a livello sistemico, ciò si traduce nel definire una curva di domanda aggregata (come semplice sommatoria delle domande individuali) a cui si contrappone in modo logicamente seguente un’offerta. il valore della merce è quindi quello che garantisce l’equilibrio tra domanda e offerta e si traduce nel prezzo di equilibrio, la cui esistenza viene garantita dalla cd. “legge della domanda e dell’offerta”. se nel mercato la quantità domandata eccedesse la quantità offerta, il prezzo del bene aumenterebbe finché viene ristabilito l’equilibrio (se fosse invece la quantità offerta a eccedere la quantità valore a livello individuale (utilità) si trasforma quindi a livello aggregato (sistema economico) nella determinazione del prezzo come indice di scarsità. ne consegue che la supposta “soggettività” della spiegazione del valore di una merce (giustificata dall’utilità individuale) in realtà diventa “oggettiva neutralità”: quella imposta dalle condizioni di equilibrio del mercato sulla base delle condizioni della domanda e dell’offerta aggregata.
osservazioni
la teoria del valore-utilità intende spiegare i prezzi delle merci a partire da quanto appare sul mercato; la teoria del valore lavoro, di converso, a partire da quanto avviene nella sfera della produzione. si tratta quindi di due visioni alternative e non conciliabili del processo economico.
i sostenitori dell’approccio in termini di eeg sostengono che la vera e unica teoria del valore sia quella che spiega il valore di una merce in funzione della sua scarsità o abbondanza.
gli economisti eterodossi, che fanno riferimento all’approccio storico in termini di economia monetaria di produzione, ritengono invece che la teoria del valore-lavoro sia più adeguata per comprendere il processo capitalistico di produzione, mentre la teoria del valore-utilità sia consona ad una visione pre-capitalistica del processo di produzione. in termini marxiani, - come sottolineano lunghini e ranchetti – si potrebbe affermare che:
“la teoria del valore utilità assume che scopo della produzione sia la produzione di valori d’uso, il soddisfacimento dei bisogni dei consumatori. la teoria del valore lavoro assume invece che scopo della produzione sia la produzione di valori di scambio, in vista della realizzazione di un profitto” .
francois quesnay e il tableau economique (1758)
secondo i fisiocratici esisteva un ordine economico naturale, basato su leggi fisiche necessarie e inderogabili e su leggi morali che l’uomo doveva adottare nel suo interesse. compito dell’economia era scoprire le leggi naturali che stavano alla base della produzione e distribuzione dei beni. l’esistenza di un ordine naturale rendeva dannoso qualsiasi intervento regolatore dello stato. secondo questa scuola solo la natura era produttiva di ricchezza in quanto moltiplica i beni: l’agricoltura è l’unica attività economica produttiva, mentre le altre risultano sterili in quanto si limitavano a trasformare i beni prodotti. quindi al termine del processo produttivo il sovrappiù creato dalla classe produttiva dei contadini era reinvestito in un nuovo ciclo produttivo dalla classe dei proprietari terrieri.
il grafico rappresenta le tre classi sociali e i flussi di moneta mediante cui esse si scambiano la merci. all'inizio dell'anno la classe produttiva paga 2 miliardi di rendite alla classe distributiva, 1 miliardo alla classe sterile per acquistare manufatti e spende 2 miliardi all'interno del settore agricolo per scambiare materie prima, beni salari e mezzi di produzione. la classe distributiva spenderà il suo reddito per 1 miliardo presso la classe sterile, per un altro presso la classe produttiva, per acquistare manufatti e prodotti agricoli . la classe sterile che ha ricevuto2 miliardi, 1 dall' aristocrazia e 1 dagli agricoltori, li spenderà tutti presso la classe produttiva per acquistare i suoi input e i suoi consumi necessari. alla fine i 3 miliardi che la classe produttiva ha speso al di fuori del settore agricolo le saranno tornati indietro; così il ciclo potrà rincominciare
il pensiero classico
per gli economisti classici, smith, ricardo e marx, il sovrappiù è ciò che resta della ricchezza sociale prodotta in un determinato periodo di tempo, al netto di quanto è stato utilizzato per reintegrare i mezzi di consumo necessari per la riproduzione dei lavoratori e i mezzi di produzione consumati o logorati nel processo produttivo.
in generale la ricchezza sociale prodotta sarà composta da beni eterogenei, mentre
“la determinazione quantitativa del sovrappiù richiede che i termini della somma algebrica da cui (la ricchezza, ndr.) risulta siano espressi nella stessa unità di misura”.
ne consegue che è necessario la formulazione di una teoria dei prezzi, che consenta una contabilità adeguata delle diverse grandezz
la teoria del valore – lavoro non si limita a porre solo la questione di come il valore si trasforma nei prezzi.
la teoria del valore-lavoro presuppone una definizione del lavoro che genera valore, a prescindere di come il valore si misuri poi con un sistema di prezzi.
per smith:
“il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita” (pag. 3) .
smith pone una serie di definizioni e distinzioni:
smith fa qui riferimento al lavoro manifatturiero (a differenza di quesnay)
“come da un matrimonio dal quale nascoino tre figli e’ certamente più produttivo di quello dal quale ne nascono solo due, cosi’ il lavoro degli agricoltori e’ più produttivo di quello dei mercanti, degli artigiani e dei manifatturieri. tuttavia la superiorita’ del prodotto di una classe non rende l’altra sterile e produttiva”
e’ invece lavoro improduttivo quello - ad esempio il lavoro dei domestici - che consiste:
“in servizi che generalmente si esauriscono mel medesimo istante in cui vengono compiuti e non si fissano e non si realizzano in nessuna merce adatta alla vendita, che possa ricostituire il valore dei loro salari e del loro mantenimento. invece il lavoro degli artigiani, dei manifatturieri e dei mercanti si fissa naturalmente in qualche merce vendibile2
quindi: e’ produttivo solo il lavoro che si fissa in una merce vendibile sul mercato.
si tratta del punto di vista “borghese”.
2. lavoro contenuto, lavoro comandato
il valore di una merce dipende dal lavoro che vi è contenuto. in realtà il valore del lavoro che “conta”, cioè quello che produce valore, non è il lavoro contenuto, bensì è il lavoro comandato. in una realtà capitalistica, riconosce smith, il prodotto del lavoro non appartiene tutto al lavoratore:
“nella maggior parte dei casi egli dovrà spartirlo col proprietario dei capitali che lo occupano. e la quantità di lavoro comunemente impiegata nel procurarsi o nel produrre una merce non è più l’unica circostanza che può regolare la quantità di lavoro che essa dovrebbe comunemente comprare, o comandare o ricevere in cambio. è evidente che una quantità addizionale deve spettare ai profitti dei capitali che hanno anticipato i salari e fornito i materiali di quel lavoro. non appena la terra di un paese diventa tutta proprietà privata, i proprietari della terra, come tutti gli altri uomini, amano mietere dove non hanno seminato ed esigono una rendita anche per il suo prodotto naturale” (pag. 51).
qui nasce la contraddizione nel pensiero di smith: se si assume che il valore di una merce corrisponde al lavoro che si può comperare (“comandare”) con il ricavato della sua vendita, sembrerebbe che il lavoro comandato da una merce sia maggiore di quello che vi è contenuto. in verità smith commette un errore, confondendo il lavoro contenuto con il salario pagato.
accumulazione
a. smith, ricerca sopra la natura e le cause delle ricchezze delle nazioni
“il piú grande miglioramento nelle forze produttive del lavoro, e la piú grande parte dell'abilità, della destrezza e del giudizio con cui ovunque è diretto o praticato, sembrano essere stati gli effetti della divisione del lavoro medesimo [...].
prendiamo dunque un esempio della divisione del lavoro in una manifattura di poco momento e che spesso è citata, quella, cioè, dello spillettaio. un operaio non educato in questa manifattura, che a causa della divisione del lavoro ha fatto uno speciale mestiere, non abituato all'uso delle macchine che vi s'impiegano, ed all'invenzione delle quali la stessa divisione del lavoro ha probabilmente dato occasione, con gli ultimi sforzi di sua industria forse appena farà uno spillo in un giorno, e certamente non ne farà mica venti. ma nel modo, con cui ora si esegue tale manifattura non solo è essa uno speciale mestiere, ma si divide in molti rami, di cui la piú gran parte è similmente un mestiere speciale: un uomo tira il filo del metallo, un altro dirizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appunta, un quinto l'arrota all'estremità ove deve farsi la testa; farne la testa richiede due o tre distinte operazioni, collocarla è una speciale occupazione, pulire gli spilli ne è un'altra, ed un'altra ne è il disporli entro la carta; e in questo l'importante mestiere di fare uno spillo si divide in circa diciotto distinte operazioni, che in alcune fabbriche sono tutte eseguite da distinte mani, benché in altre dallo stesso uomo se ne eseguono due o tre. ho veduto una piccola fabbrica di questa manifattura, ove dieci uomini solamente erano impiegati, ed ove però ciascuno di loro eseguiva due o tre operazioni. essi quantunque fossero assai poveri, e perciò non usassero molto le macchine necessarie, pure quando a vicenda vi s'impegnavano facevano dodici libbre di spilli in un giorno. una libbra contiene piú di mille spilli di grandezza media. quei dieci individui dunque potrebbero insieme fare piú di quarantottomila spilli in un giorno. ciascuno di loro dunque, facendo una decima parte di quarantottomila spilli, può essere considerato farne quattromilaottocento in un giorno. or se essi avessero lavorato separatamente e indipendentemente l'uno dall'altro, e senza che alcuno di loro fosse stato educato ad una speciale operazione, ciascuno di loro non avrebbe potuto compiere venti spilli, e forse neanche uno in un giorno, cioè certamente non la duecentoquarantesima parte, e forse neanche la quattromilaottocentesima parte di quel che sono intanto capaci di compiere in conseguenza di una bene accomodata divisione e combinazione delle loro differenti operazioni”
Fonte: http://economia.unipv.it/pagp/pagine_personali/afuma/didattica/Materiale%20sul%20sito%20del%20corso/Parte%201b%20-%20Teorie%20del%20Valore%20-%20Intro-Quesnay-Smith.doc
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