Appunti tutela internazionale dei diritti umani

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Appunti tutela internazionale dei diritti umani

 

TUTELA INTERNAZIONALE DEI DIRITTI UMANI
I semestre

16/10/2012
La condizione dell'individuo nell'ordinamento internazionale
La Pace di Westfalia nel 1648 da origine alla moderna comunità internazionale. È una società orizzontale, gli Stati sono sovrani, indipendenti e non riconoscono nessuna autorità sopra la loro. Il diritto internazionale regolava i rapporti tra gli stati. In una società di questo tipo l'individuo non aveva nessun locus standi, non c'erano norme che si rivolgessero agli individui, che ponessero dunque diritti e doveri nei loro confronti. L'individuo era solo soggetto di diritto interno. Questa società non riconoscendo nessuna autorità sopra di sé  è una società che pone essa stessa le norme a cui lei è soggetta. Questo perché la gran parte degli stati che fanno parte della comunità internazionale pongono in essere comportamenti ripetuti nel tempo (prassi/diuturnitas) perché ritengono che quel comportamento risponda ad una doverosità sociale (opinio juris).
Esistono solo due norme che producono effetti di ricaduta sull'individuo:

  • Lo standard minimo di tutela che deve essere riconosciuto allo straniero. Da sempre si è ritenuto che lo straniero nel momento in cui si trova al di fuori dello stato di cittadinanza sia meritevole di una certa tutela. Questo perché egli è in qualche modo un'emanazione dello stato di cui ha la cittadinanza. Lo straniero deve essere rispettato per quanto riguarda il diritto alla vita, alla libertà personale e alla proprietà (c.d. standard minimo). Posto che lo straniero ha diritto al rispetto dei tre diritti suddetti, se lo stato straniero viola uno di questi diritti allora lo straniero può attivare l'istituto della protezione diplomatica. Tornando nel proprio stato può rivolgersi all'autorità centrale nazionale, esporre il proprio caso e chiedere allo stato di intervenire in protezione diplomatica. Per poter fare questo è necessario che questa persona esperisca le vie di ricorso interno (dello stato straniero). Il discorso della protezione diplomatica comporta per lo stato di cittadinanza l'assoluta discrezionalità nella decisione se intervenire o meno, ma anche nella scelta degli strumenti e dei mezzi attraverso i quali far valere la violazione e chiedere una riparazione. Lo stato non ha dunque l'obbligo di intervenire, ma deciderà sulla base dell'opportunità politica, delle relazioni che in quel momento ha con lo stato che ha commesso la violazione, ecc, se intervenire o meno. Per quanto riguarda i mezzi lo stato potrebbe per esempio anziché chiedere una riparazione, chiedere delle scuse formali. Titolare del diritto alla protezione diplomatica non è quindi l'individuo, ma lo stato, infatti il cittadino viene tutela non in quanto persona, ma in quanto espressione di uno stato sovrano. L'individuo è un occasionale beneficiario di questa tutela, che non è congegnato a suo favore, ma che su di esso ricade.
  • La repressione della pirateria. Questa consuetudine internazionale prevede la possibilità per gli stati di arrestare i pirati, di sottoporli a giudizio e di somministrargli la pena stabilita quale che sia la loro cittadinanza d'origine. Certamente questa norma costituisce una deroga ad un'altra norma di diritto internazionale che è quella della libertà delle acque internazionali e del rispetto dello stato di bandiera. Quindi questa norma consuetudinaria ha come titolare del diritto lo stato e quindi produce in via indiretta sull'individuo l'obbligo di non scatenare questo diritto.

Fino a poco tempo fa solo queste norme internazionali producevano effetti indiretti sull'individuo. È solo a partire dal II dopoguerra che esiste la titolarità del diritto e dell'obbligo della persona umana in quanto tale per quanto riguarda alcune norme internazionali. Per capire qual è la posizione dell'individuo nell'odierno diritto internazionale dobbiamo prendere in considerazione i trattati/gli accordi internazionali, il diritto pattizio (prima invece si prendeva in considerazione solo le norme consuetudinarie). Il diritto convenzionale è frutto dell'incontro delle volontà di due o più stati che si incontrano in una conferenza diplomatica, una volta raggiunto l'accordo si redige il testo del trattato che viene firmato dai plenipotenziari di ciascuno stato ed entra in vigore con la successiva ratifica da parte dello stato. Il trattato produce diritti ed obblighi solo in capo allo stato che ha ratificato. Gli stati hanno elaborato una serie di trattati nei quali hanno riconosciuto direttamente all'individui una serie di diritti e in altri casi degli obblighi. Occorre ricordare che, trattandosi di diritto pattizio, siamo vincolati al fatto che gli stati sono vincolati solo e soltanto se hanno ratificato il trattato, questo è il limite della materia. Naturalmente il fatto che lo stato ratifichi non significa che lo stato rispetterà sempre le norme, potrà infatti commettere degli illeciti internazionali. Nulla impedisce che lo stato ad un certo punto possa denunciare un trattato, questo rimane nella discrezionalità dello stato.
Due categorie diverse di trattati da prendere in considerazione:

  • Trattati internazionali che producono obblighi in capo agli individui. Si tratta in gran parte dei trattati che disciplinano i conflitti internazionali, prevedono che gli individui che commettono crimini internazionali (crimini di guerra, atti di genocidio, atti di tortura, atti di terrorismo, ecc.) siano penalmente responsabili a livello internazionale. Naturalmente non importa la posizione nella quale si trova l'individuo nel momento in cui commette un crimine internazionale, la responsabilità sussiste sia quando opera come soggetto, sia quando opera come organo dello stato. Questo comporta che l'individuo venga giudicato da un tribunale penale internazionale. La Corte Penale Internazionale ha competenza ha valutare dei crimini di guerra. La CPI ha competenza ha giudicare i crimini commessi dopo la sua entrata in vigore (nullum crimen, nulla poena sine lege), a differenza del tribunali internazionali per l'ex Jugoslavia e per il Ruanda che hanno competenza a giudicare su uno specifico ambito territoriale e con una competenza su crimini commessi prima della loro istituzione. La Corte Penale Internazionale è complementare alle giurisdizioni nazionali, agisce cioè solo nel caso in cui uno stato non voglia o non sia in grado di agire penalmente contro i criminali internazionali.
  • Trattati internazionali che prevedono diritti in capo agli individui. Trattati elaborati a partire dalla fondazione dell'ONU. L'art. 1 della Carta che enuncia i fini dell'organizzazione contiene uno specifico riferimento al rispetto dei diritti dell'uomo. In realtà l'art. 1 non indica il rispetto dei diritti dell'uomo come una finalità autonoma, ma come utile al conseguimento della cooperazione internazionale (par. 3).

Oggi l'individuo può essere considerato un soggetto del diritto internazionale, è una soggettività diversa da quella degli stati e delle organizzazioni internazionali. La maggior parte della dottrina comunque oggi ritiene, che seppur con una soggettività limitata al tema dei diritti fondamentali, gli individui si siano ritagliati un locus standi nell'ambito del diritto internazionale. Questo è un risultato molto importante perché non soltanto questi trattati hanno riconosciuto i diritti fondamentali, ma attraverso questi trattati è stata prevista anche una tutela che consiste nella possibilità per l'individuo di chiamare in causa lo stato sul piano internazionale e chiedergli di rendere conto del proprio comportamento. Questo è un enorme passo avanti perché l'individuo non solo può chiamare in causa uno stato diverso dal proprio, ma l'individuo può chiamare in causa sul piano internazionale anche il proprio stato, il quale ha nei confronti del proprio cittadini degli obblighi. Naturalmente questo ha portato ad una compressione ai minimi termini del cosiddetto dominio riservato. Oggi si dice che il dominio riservato sia quasi completamente annullato. Certamente il complesso di rapporti tra lo stato e i suoi cittadini non fa più parte del dominio riservato dello stato.
18/10/2012
Crimini internazionali
Sono una categoria ampia ed eterogenea di crimini. Violazioni di norme di diritto internazionale, da cui discende la responsabilità penale dei loro autori individuali (diversa dalla responsabilità dello Stato in nome e per conto del quale gli attori agiscono). Norme che proteggono quei valori che sono considerati fondamentali per la comunità internazionale, vincolano sia gli stati che gli individui. Vi è un interesse della comunità internazionale a punire queste violazioni indipendentemente dalla cittadinanza della persona che ha commesso il crimine, dalla cittadinanza della vittima e dallo stato in cui viene commesso il crimine. Si afferma il principio secondo il quale l’individuo non può nascondersi dietro al fatto di aver agito per conto dello stato o per adempiere a degli ordini.
Costituiscono crimini internazionali:

  • Crimini di guerra;
  • Crimini contro l’umanità;
  • Genocidio;
  • Atti di aggressione;
  • Tortura;
  • Terrorismo.

Le prime quattro categorie sono quelle sulle quali c’è il consenso unanime della comunità internazionale. Per quanto riguarda la tortura ed il terrorismo, invece, il dibattito è ancora aperto. I crimini di guerra sono atti posti in essere durante lo svolgimento di un conflitto. Vi è una distinzione tra conflitti internazionali e conflitti interni. Un crimine di guerra è una grave violazione del diritto internazionale umanitario (insieme eterogeneo di norme che riguarda le modalità per condurre la guerra e la tutela dei non belligeranti) nel corso di un conflitto armato internazionale o interno.
Il Patto di Londra del 1945 contiene lo Statuto del Tribunale di Norimberga. L’art. 6 par. b contiene un elenco di fattispecie criminose, un elenco non esaustivo, ma puramente esemplificativo. Lo scopo di questo tribunale era quello di processare i criminali nazisti. La sentenza del tribunale di Norimberga è anche molto importante perché ha messo in evidenza il fatto che erano state violate norme fondamentali per la comunità internazionale e che in quanto tale erano considerate norme inviolabili. Queste norme sono state ricondotte alla Convenzione dell’Aia del 1907, alla Convenzione di Ginevra del 1929 sul trattamento dei prigionieri di guerra. Secondo il Tribunale di Norimberga questi trattati codificano delle norme consuetudinarie ben presenti nelle coscienze degli stati e non derogabili. Quindi tutte le nazioni civili erano consapevoli dell’esistenza di queste norme e le ritenevano non violabili. La sentenza del 1946 del tribunale ha prodotto dei frutti nell’ambito dell’ONU. Infatti nel 1946 l’Assemblea Generale approva la risoluzione 95 la quale dice che il Tribunale di Norimberga nella sua sentenza ha fatto riferimento a principi consuetudinari.
23/10/2012
Già l’art. 1 della Carta ONU contiene espliciti riferimenti alla promozione, al rispetto e alla tutela dei diritti fondamentali. Queste disposizioni contengono l’invito ad operare per il riconoscimento dei diritti umani. Oltre all’art. 1 vi sono altre poche e scarne disposizioni della Carta che alludono al rispetto dei diritti fondamentali, soprattutto quelle che si occupano dell’Assemblea degli stati parte e del Consiglio economico e sociale. Di per sé queste disposizioni, essendo contenute in un trattato internazionale, costituiscono per gli stati l’obbligo di adempiervi. Quale che sia stata la posizione degli stati membri nei confronti di queste disposizioni, l’Assemblea generale ha cominciato fin da subito per dare una certa concretezza a queste disposizioni. Questo perché le indicazioni contenute nella Carta sono generali, la Carta non contiene un elenco dei diritti fondamentali. Il primo passo che è stato fatto è stato quello di dare l’avvio a studi con il fine di elaborare un catalogo dei diritti fondamentali. Nel momento in cui la Conferenza di San Francisco ha elaborato la Carta hanno partecipato una cinquantina di stati (più o meno il numero degli stati allora esistenti, erano escluse la maggior parte delle colonie e gli stati sconfitti della II guerra mondiale). Benché gli stati fossero pochi erano già divisi:

  • il gruppo degli stati occidentali (USA, UK, Francia), che costituivano un blocco in grado di esercitare una notevole influenza;
  • gli stati sudamericani, affini agli occidentali;
  • gli stati socialisti, con a capo l’Unione Sovietica, i quali avevano una posizione diametralmente opposta rispetto agli occidentali;
  • i paesi asiatici, che hanno avuto uno scarso peso nel contesto dei lavori, con l’eccezione degli stati islamici (Arabia Saudita e Pakistan innanzitutto) che non condividevano il pensiero occidentale in relazione ad alcune tematiche precise (ruolo della donna e della famiglia, dovute all’osservanza dell’Islam).

Sostanzialmente lo scontro avvenne tra il blocco occidentale e il blocco socialista. Cassese diceva che questo scontro fu sostanzialmente un pezzo della guerra fredda. Gli stati socialisti sosteneva che per loro fosse un problema superato e che semmai l’osservazione di questi principi andasse promossa soprattutto nei paesi occidentali e quindi cercarono di porre nei trattati diritti che ponevano problemi all’occidente (grazie a loro sono stati inseriti i diritti economici e sociali, mentre gli occidentali si concentravano sui diritti civili e politici). Gli stati occidentali avevano un’impostazione giusnaturalistica che volevano espandere a tutto il mondo. Nonostante questo duro confronto alla fine si è riusciti a far coagulare un consenso degli stati su un testo in relazione al quale non si sono espresse riserve, né alcuno stato ha votato contro. Nel dicembre del 1948 l’Organizzazione delle Nazioni Unite e stata adottata la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo con 48 voti favorevoli, 8 astenuti (tutti i paesi del blocco orientale, Arabia Saudita e Sudafrica) e nessun voto contrario. Ovviamente i paesi astenuti non dissentivano in generale con la Carta, ma solo con alcune singole disposizioni (es. Sudafrica la segregazione, Arabia Saudita diritti di uguaglianza tra uomo e donna). Questa Dichiarazione ha un’impostazione giusnaturalistica, i diritti sono inerenti alla persona umana. Sono riconosciuti tutti i diritti personali. L’art. 1 delle Dichiarazione afferma che ”Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. C’è il superamento della divisione in ceti. Il diritto alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione è inserito solo nel preambolo (III paragrafo) perché in seguito alla II Guerra Mondiale non si volevano favorire situazioni di conflitto. Non compare nella Dichiarazione nessun riferimento ad un diritto di petizione, né a nessun strumento con cui fare valere i diritti riconosciuti, questo problema può essere visto anche dal punto di vista della natura di quest’atto. La Dichiarazione non ha carattere vincolante in quanto nasce come una raccomandazione dell’Assemblea generale, per questo non sono presenti strumenti per fare valere questi diritti. Oltre alla concezione prettamente individualista del giusnaturalismo la Dichiarazione prende in considerazione anche l’importanza del ruolo ricoperto dalla società e dalla famiglia. Un altro punto che attenua la visione giusnaturalistica è il riferimento nell’art. 29 ai doveri che l’individuo ha nei confronti della comunità e della società.
Questo catalogo di diritti può essere diviso in 4 parti:

  • Diritti dell’individuo (del singolo). Diritto di eguaglianza (art. 1-2-7), diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza (art. 3) e diritto all’integrità fisica (art. 4-5). L’affermazione del principio di eguaglianza all’art. 2 è aperta all’evolversi delle situazioni e dei tempi (“o di altra condizione”), non si tratta di un elenco chiuso e rigido. All’art. 7 viene sancito il principio di eguaglianza davanti alla legge.
  • Diritti che riguardano la persona nei rapporti con gli altri. All’art. 6 viene riconosciuta la personalità giuridica. All’art. 16 vengono enunciati i diritti dell’individuo per ciò che concerne la famiglia. L’art. 12 regolamenta il diritto alla vita privata, individuale e famigliare che non può essere violata arbitrariamente. Arbitrariamente significa fare qualche cosa in contrasto con le disposizione. Possono dunque esistere delle normative di diritto interno che pongono dei limiti alla vita privata, ma questi limiti sono validi solo se posti in una legge. La nozione di vita privata è molto ampia. Rientrano anche le libertà di residenza e di movimento enunciate agli art. 13-14. L’art. 17 contiene il diritto alla proprietà privata.
  • Diritti che riguardano il rapporto dell’individuo con lo stato a cui appartiene, i diritti politici.
  • Diritti economici, sociali e culturali. Sono considerati dalla dottrina la seconda generazione di diritti dell’uomo, mentre la prima è costituita dai diritti civili e politici.

25/10/2012
Fino all’art. 27 abbiamo il catalogo dei diritti di diversa natura.
All’art. 28 si dice “ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale ed internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati”.
30/10/2012
Delle sentenze e dei pareri della Corte Internazionale di Giustizia confermano che il rispetto dei diritti fondamentali sia un valore della comunità internazionale, sancendo la vincolatività della Dichiarazione. Si fa riferimento alla giurisprudenza della CIG perché si tratta di un organo la cui giurisprudenza, al di là dei difetti tecnici dell’atto in cui è contenuta, ha un grande valore per gli stati. Vanno tenuti in considerazione anche gli atti dell’Assemblea generale dell’ONU, la quale considera la Dichiarazione come un parametro attraverso il quale valutare il comportamento degli stati. Inoltre anche i comportamenti degli stati in relazione a questa dichiarazione sono importanti, essi infatti hanno contribuito ad ampliare l’azione dell’ONU in relazione ai diritti fondamentali. Questi tre atti (CIG, AG e stati) hanno dato luogo ad un’azione sinergica. Le azioni di CIG e AG rappresentano la diuturnitas, mentre il comportamento degli stati, l’opinio juris, della norma consuetudinaria che si è venuta a formare in materia di diritti fondamentali dopo il 1948. La revisione periodica universale è una procedura di monitoraggio messa in atto dal Consiglio dei diritti dell’uomo (creato nel 2005), il quale ha la funzione di sottoporre tutti gli stati che fanno parte dell’ONU ad un esame sull’attività messa in atto dagli Stati in materia di diritti fondamentali (al momento siamo alla seconda revisione). Già il fatto che nessuno dei 193 si sia rifiutato di sottoporsi al controllo significa che gli stati sono consapevoli di essere vincolati da questa norma, altra cosa è che gli stati rispettino veramente questi diritti. Si è acquisita almeno la consapevolezza dell’obbligo per tutti gli stati di rispettare i diritti fondamentali. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è stato solo il primo passo, a carattere non vincolante, di un processo che non si è ancora concluso. Si dice che la Dichiarazione è stata la più grande prova di consenso rispetto a dei principi da parte di un gruppo di stati. Il passo fatto immediatamente dopo è stato quello di procedere all’elaborazione di norme vincolanti degli stati, vista la buona accoglienza avuta dalla Dichiarazione.
La doppia strategia
Nell’ambito dell’ONU è stata perseguita una doppia strategia di generalizzazione e di specificazione dei diritti fondamentali:

  • Anzitutto si è proceduto all’elaborazione e all’adozione di trattati di portata generale, vale a dire comprensivi dell’insieme dei diritti umani o di grandi categorie di diritti (civili, politici, economici, sociali, culturali, individuali, collettivi). Ciò sia a livello universale che regionale. I trattati a carattere regionale tengono conto delle specificità delle comunità alle quali sono rivolte.
  • Inoltre si è provveduto all’elaborazione e all’adozione di trattati concernenti il riconoscimento di specifici diritti oppure riguardanti la tutela di particolari categorie di soggetti.

Patto internazionale sui diritti civili e politici e Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (1976)
È certamente il primo trattato internazionale a portata universale elaborato nell’ambito dell’ONU dopo la Dichiarazione universale. Questo trattato è venuto alla luce soltanto nel 1966 nonostante i lavori fossero cominciati subito in seguito a quelli della Dichiarazione. In questo arco di tempo è stato gestito il fenomeno della decolonizzazione che ha aumentato il numero degli stati membri dell’ONU. Molti di questi stati hanno contestato il fatto di non aver partecipato ai lavori per la Dichiarazione e quindi hanno voluto dare un’impronta a questo trattato che si stava elaborando. Un’altra ragione era il fatto che non vi era un consenso riguardo i contenuti da dare al trattato. Nonostante il tempo lungo di gestazione nel 1966 è stato creato da un comitato di esperti, approvato dall’Assemblea generale e aperto alla firma degli stati. Sono occorsi altri 10 anni prima che questo patto e quello sui diritti economici, sociali e culturali potessero entrare in vigore nel 1976. L’elaborazione di questi due trattati è andata sostanzialmente di pari passo, anche se sono entrati in vigore con qualche mese di differenza.
Per quanto riguarda il Patto sui diritti civili e politici grande importanza riveste l’art. 2. Esso consente di comprendere chi sono i titolari dei diritti, chi i destinatari e come funzionano le cose. I titolari dei diritti riconosciuti dal Patto sono tutti gli individui (“senza distinzione alcuna fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale, sociale, la condizione economica, la nascita” è un elenco esemplificativo, non tassativo). Questi individui sono chiaramente persone fisiche, sia cittadini che stranieri in quanto persone umane. A precisare meglio il concetto l’art. 2 allude al fatto che questi individui si trovino sul territorio dello stato e siano sottoposti alla sua giurisdizione. Tendenzialmente la nozione di territorio e giurisdizione coincidono, ma visto che all’art. 2 viene fatta una distinzione questo significa che non c’è un’ esatta coincidenza. Nella nozione di territorio sono inclusi tutti i cittadini italiani presenti sul territorio e tutti gli stranieri presenti sul territorio italiano. Tuttavia è possibile che l’autorità dello stato si sviluppi anche al di là del suo territorio, come ad esempio i contingenti che partecipano alle missioni ONU, ma non per i cittadini che si trovano sul suolo di un altro stato che non abbia ratificato il patto internazionale. Gli obblighi che derivano dal patto non sono solo obblighi positivi relativi alla realizzazione dei diritti enunciati nel patto, come indicato all’art. 2. Vi sono però anche obblighi negativi degli stati, gli stati non devono porre in essere comportamenti che vanificherebbero il patto, quindi trattandosi di un patto sui diritti civili e politici lo stato avrà un obbligo di non facere. Lo stato non ha soltanto l’obbligo di operare positivamente o negativamente per la realizzazione del diritto, ma deve anche fare in modo che esistano degli strumenti che permettano il ricorso e la riparazione in caso di mancato rispetto di questi diritti. Questi sono gli strumenti che ciascuno stato a livello nazionale deve apprestare e questo perché in prima battuta devono essere gli stati a riparare, laddove non avvenga nell’ordinamento interno vi è uno strumento sussidiario a livello internazionale.

Il Patto stesso prevede un sistema di garanzia articolato su due livelli:

  • Rapporti periodici degli stati al Comitato per i diritti umani. Questo meccanismo è disciplinato nel patto stesso.
  • Comunicazioni. Sono delle petizioni che ciascuna persona titolare di questi diritti può presentare al Comitato dei diritti dell’uomo chiamando in causa lo stato che si suppone abbia violato i diritti, ponendo così in essere un confronto internazionale tra stato e individuo affinché questi diritti vengano tutelati. Le comunicazioni sono regolate nel I Protocollo, nel quale è inoltre previsto che la comunicazione possa essere usato tra stati per segnalare il mancato rispetto di diritti.

06/11/2012
Nell’art. 1 della Carta ONU, che contiene le finalità dell’organizzazione, vi è il primo riconoscimento del principio di autodeterminazione dei popoli. Nell’art. 73 la nozione di principio di autodeterminazione dei popoli viene ridimensionata affermata all’art. 1 e all’art. 55 della carta. Qui si fa riferimento in un modo molto paternalistico semplicemente ad un’autonomia di queste popolazioni. L’art. 73 non impegna direttamente gli stati coloniali alla promozione dell’indipendenza. Uno spunto interessante è contenuto alla lettera E di questa norma nella quale si dice che gli stati hanno l’obbligo di “trasmettere regolarmente al Segretario generale, a scopo di informazione e con le limitazioni che possono essere richieste dalla sicurezza e da considerazioni costituzionali, dati statistici e […] ”. Questa disposizione suscitò delle discussioni in seno all’Assemblea generale in quanto agli stati andava bene presentare i rapporti, ma non discuterli in seno all’Assemblea. La competenza dell’Assemblea è comunque riconosciuta dall’art. 10 della Carta che dici che essa ha competenza a discutere qualsiasi questione rientri nei fini dello Statuto ONU. Inoltre gli stati coloniali ritenevano che questo argomento appartenesse al dominio riservato degli stati. L’Assemblea ha contribuito notevolmente a raggiungere questo risultato attraverso l’adozione di due importanti atti:

  • Dichiarazione 1514/1960. Affermazioni forti che si distaccano moltissimo dall’art. 73, l’Assemblea si assume il compito di fissare le linee generali della colonizzazione e ha affermato come l’esistenza di regimi coloniali violi la Carta ONU. Viene stabilito inoltre che tutti i popoli hanno diritto all’autodeterminazione.
  • Dichiarazione 2625/1970.

Questo diritto all’autodeterminazione può scontrarsi con il diritto all’integrità territoriale, per cui viene affermato in maniera restrittiva. Il diritto all’autodeterminazione è l’unico diritto collettivo riconosciuto nell’ambito del Patto sui diritti civili e politici e nel Patto sui diritti economici, sociali e culturali.
Il principio di autodeterminazione ha una valenza interna ed una valenza esterna. La valenza esterna indica l’indipendenza, mentre la valenza interna la relazione tra i cittadini e lo stato. Il diritto all’autodeterminazione esterna ha un ambito di applicazione estremamente ristretta. Vale nel caso in cui si tratti di uno stato sottoposto a regime coloniale, a regime di apartheid (regime razziale) o occupato con la forza (successivamente alla Seconda Guerra Mondiale). Si pone il problema della legittimità dell’uso della forza da parte della popolazione che chiede l’autodeterminazione, da parte dello stato coloniale per mantenere lo status quo e da terzi a sostegno o contro gli insorti. I criteri di legittimità in relazione all’uso della forza da parte della popolazione sono 1) che l’uso della forza sia reso necessario da parte della potenza coloniale; 2) che l’uso della forza venga legittimato da un atto dell’Assemblea, una raccomandazione, che condanni la situazione. Per quanto riguarda l’uso della forza da parte di terzi, la maggior parte degli stati membri dell’ONU si è trovata d’accordo nel riconoscere che sia legittimo aiutare questi popoli, ma non circa i mezzi. A partire dagli anni ’70 si è raggiunto un consenso circa la liceità dell’aiuto non diretto, non l’uso della forza. Invece vi è stata unanimità circa il non dare aiuto allo stato oppressore. Quindi liceità per il popolo, possibilità per i terzi di aiutare direttamente o meglio indirettamente i popoli oppressi e divieto di aiuto allo stato oppressore.
La Convezione europea dei diritti dell’uomo (CEDU)
In questo contesto nasce l’idea di dar vita agli stati uniti d’Europa. Nello Statuto del Consiglio d’Europa è contenuto l’art. 3 il quale allude esplicitamente all’esistenza di diritti fondamentali in capo all’individuo e inoltre il principio della preminenza del diritto. Questo ultimo punto indica che possano divenire membri dell’organizzazione solo gli stati che riconoscono lo stato di diritto. Nel contesto dell’Assemblea degli stati parte, composta da membri dei parlamenti nazionali, nasce l’idea di creare una Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il testo di base è del 1950, ma questo testo è stato aggiornato ed integrato da moltissimi protocolli. Sono stati inseriti in questo testo i diritti giustiziabili. Questa Convenzione istituì due organi la Commissione europea dei diritti dell’uomo (esistita fino al 1998) e la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Specificità:

  • Instaura “un ordine pubblico comune nelle libere democrazie d’Europa al fine di salvaguardare il loro comune patrimonio di tradizioni politiche, di ideali, di libertà, di preminenza del diritto”(decisione della Commissione nel caso Austria contro Italia, ricorso 788/60).
  • “travalica l’ambito della semplice reciprocità tra gli Stati contraenti. Oltre ad una rete di impegni sinallagmatici bilaterali, crea obblighi obiettivi che, ai sensi del suo preambolo, beneficiano di una garanzia collettiva”.
  • Di conseguenza, gli stati possono “esigere il rispetto di tali obblighi senza doverlo giustificare con un interesse derivante, per esempio, dalla circostanza che una misura da essi denunciata abbia leso uno dei loro cittadini” (sentenza della Corte europea 18 gennaio 1978 nel caso Irlanda contro Regno Unito).

08/11/2012
Tre differenze prima della riforma del sistema di controllo del Consiglio d’Europa col Protocollo 9 (entrato in vigore nel 1994):

  • La competenza andava previamente accettata da parte degli Stati.
  • Il sistema di controllo era composto da due organi: la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Commissione europea dei diritti dell’uomo.
  • Gli individui non potevano adire la Corte.

Modifica del sistema di garanzia col Protocollo 11 approvato nel 1994 e in vigore dal 1998:

  • Commissione e Corte sono sostituite da un unico organo: la Corte europea dei diritti dell’uomo, che siede in maniera permanente a Strasburgo.
  • La competenza della Corte è diventata obbligatoria per tutti.

Le competenze della Corte
Art. 19 (“Istituzione della Corte”), prevede l’istituzione dell’organo di garanzia del sistema. La ratio con la quale viene istituita è quella di assicurare il rispetto degli impegni derivanti dalla Convenzione. Gli impegni derivanti dalla Convenzione sono indicati all’art. 1 della stessa. L’art. 44 stabilisce che le sentenze della Corte sono definitive. L’art. 46 par. 1 (“Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze”) stabilisce che le parti si impegnano a rispettare le sentenze, quest’ultime hanno dunque carattere vincolante. Queste due norme ci dicono che l’attività della Corte si conclude con delle sentenze e questo indica che la Corte abbia una funzione giurisdizionale. La natura dell’attività posta in essere dalla Corte è giurisdizionale, è un vero e proprio tribunale internazionale, davanti al quale anche gli individui possono far valere le proprie istanze. L’art. 32 (“Competenza della Corte”) della Carta dice che la competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli. Quindi le funzioni della Corte sono due: 1) funzione interpretativa; 2) funzione contenziosa. Ovviamente queste due funzioni sono esercitate dalla Corte dopo che il caso è stato giudicato ricevibile. Per esercitare la funzione interpretativa la Corte farà riferimento alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati internazionali (1969), che indicano i criteri ermeneutici di interpretazione dei trattati. La Convenzione di Vienna accoglie il metodo oggettivistico. Il metodo soggettivistico significa che si da rilievo alla volontà delle parti contraenti, i lavori preparatori hanno un ruolo fondamentale nell’interpretazione del testo del trattato. Il metodo oggettivistico è adottato nell’art. 31 della Convenzione di Vienna e prevede innanzitutto l’interpretazione letterale del testo, in secondo luogo occorre tenere presente qual è lo scopo e l’oggetto del trattato, in terzo luogo il contesto del trattato (contesto interno: ogni norma del trattato in relazione alle altre; contesto esterno: la convenzione in relazione a tutte le altre convenzioni in materia di diritti umani). Questa è la regola di base, l’art. 32 aggiunge che in caso di incertezze dopo l’utilizzo del metodo oggettivistico possano essere usati i lavori preparatori per chiarire gli eventuali dubbi. L’art. 33 dice che bisogna tenere conto del significato che meglio riesce a mettere d’accordo i diversi testi (i testi ufficiali della Corte sono in inglese e francese). La Corte da delle interpretazioni che sono al passo con i tempi. La Corte non può agire d’ufficio ma solo su impulso di parte. Laddove ci sia dei dubbi riguardo la competenza della Corte a decidere su un caso è la Corte stessa a decidere se ha questa competenza. All’art. 47 (“Pareri consultivi”) si dice che la Corte può essere richiesta di emettere dei pareri consultivi. Il parere può essere richiesto dal Comitato dei ministri e l’oggetto una questione squisitamente giuridica, relativa all’interpretazione della Convenzione. Il risultato sarà contenuto in un parere, cioè in un atto non vincolante.
La competenza contenziosa della Corte può essere analizzata sotto diversi profili:

  • Competenza ratione materiae. Oggetto dei ricorsi davanti alla Corte: 1) la pretesa violazione di uno dei diritti riconosciuti dalla CEDU (art. 34 – “Ricorsi individuali”); 2) ogni inosservanza della CEDU (art. 33 – “Ricorsi intere statali”).
  • Competenza ratione personae. Indica chi ha diritto di ricorrere alla Corte: 1) ogni stato contraente può deferire alla Corte ogni inosservanza imputabile ad un altro stato contraente (art. 33); 2) ogni persona fisica (o giuridica), ONG o gruppo di privati che pretenda di essere vittima di una violazione della CEDU.
  • Competenza ratione temporis. La Corte può giudicare solo in relazione a fatti posteriori alla sua entrata in vigore per ciascuna parte contraente.
  • Competenza ratione loci. La Corte deve assicurare che i diritti enunciati nella CEDU siano assicurati ad ogni persona sottoposta alla giurisdizione di uno stato contraente, senza alcuna distinzione (art. 1).

13/11/2012
L’art. 34 della CEDU regola i ricorsi individuali. Esso fa riferimento alla persona fisica, anche se la giurisprudenza Corte ha ampliato e superato questa definizione in quanto accoglie anche ricorsi fatti da persone giuridiche (queste ultime ovviamente potranno presentare ricorso solo in relazione ad alcuni diritti presenti nella Convenzioni). Possono fare ricorso alla Corte anche le ONG o un gruppo di privati, che agiscano a titolo individuale. La nozione di vittima merita qualche precisazione: da questa norma si può pensare che il riferimento sia alla vittima diretta della violazione, tuttavia questa nozione è stata ampliata dalla giurisprudenza della Corte anche alla vittima potenziale. Con vittima potenziale si indica una vittima che non ha ancora subito la violazione, ma che certamente la subirà se lo Stato non modificherà il suo comportamento.
Sentenza Soering c. Regno Unito (1989)
Soering era un ragazzo tedesco che viveva negli USA, in Virginia, con la sua ragazza e insieme alla quale ha ucciso i genitori di lei. Nonostante fossero stati individuati come colpevoli essi trovarono riparo nel Regno Unito dove vengono arrestati per altri reati di poco conto. Il Regno Unito e gli USA hanno un trattato di estradizione e infatti gli USA richiedono l’estradizione. Se Soering fosse stato estradato in Virginia, dove all’epoca vigeva la pena di morte, sarebbe probabilmente stato condannato alla pena capitale e prima avrebbe trascorso un po’ di tempo nel braccio della morte. A tal proposito il sig. Soering fece appello alla CEDU dicendo che se il Regno Unito avesse dato seguito all’estradizione avrebbe violato l’art. 3 (divieto alla tortura e ai trattamenti in umani). La Corte diede ragione a Soering rafforzando così la nozione di vittima potenziale.
Sentenza Marckx c. Belgio (1979)
La signora Marckx era una giornalista belga che ha dato alla luce una bambina pur non essendo sposata. All’epoca una bambina nata fuori dal matrimonio da una mamma nubile per essere considerata figlia della mamma avrebbe dovuto essere adottata, creando in questo modo dei problemi di tipo successorio (non poteva ereditare i beni dei nonni). La signora fece dunque ricorso alla CEDU in quanto la bambina avrebbe potuto subire la violazione del diritto alla proprietà.
Sentenza Open Door and Dublin Well Woman c. Irlanda (1992)
In Irlanda è vietato l’aborto. Questa associazione aiutava le donne ad uscire dall’Irlanda per abortire. Il diritto che entra in gioco è il diritto all’organizzazione a pubblicizzare il suo operato e le potenziali vittime erano tutte le donne in età fertile e che quindi non avrebbero potuto usufruire del servizio.
La Convenzione tiene in considerazione però anche il caso della vittima indiretta. Questo avviene soprattutto nel caso in cui la vittima diretta venga meno durante il procedimento, o anche famigliari di persone scomparse (caso che è successo in Turchia).
L’art. 35 si occupa delle condizioni di ricevibilità. Due condizioni: 1) esaurimento dei ricorsi interni; 2) un periodo non superiore a 6 mesi. Il ricorso non viene esaminato dalla Corte nel caso in cui sia anonimo o nel caso in cui sia sostanzialmente uguale ad un altro ricorso già presentato. La Corte dichiara inoltre irricevibile un ricorso incompatibile con le disposizioni della Convenzione, o dei suoi Protocolli; manifestamente infondato o abusivo; o il cui ricorrente non abbia subito alcun pregiudizio importante. L’ultimo requisito è stato inserito dal 14° Protocollo che è entrato in vigore nel 2010. La Corte quando ha applicato questa condizione ha precisato il suo significato nelle sentenze essendo molto vago.
Che caratteristiche devono avere le vie di ricorso?

  • Vie di ricorso effettive. Cioè previste dall’ordinamento e vigenti; che siano giurisdizioni appropriate e competenti; e che siano via ordinarie (I grado, appello, cassazione).
  • Vie di ricorso disponibili. Devono poter essere adite direttamente dal ricorrente (in Italia non la Corte Costituzionale).
  • Vie di ricorso adeguate. Cioè idonee a riparare le conseguenze della violazione che si sostiene di aver subito.

Il termine di sei mesi decorre dal momento in cui la sentenza interna definitiva viene notificata alla persona interessata fino al giorno fino al giorno in cui viene spedita la lettera che adisce la Corte (anteriore ai sei mesi).
15/11/2012
Requisiti per ricorso individuale (art. 35):

  • previo esaurimento vie ricorso interne;
  • termine dei 6 mesi;
  • le vie di ricorso devono essere : effettive, disponibili e adeguate;
  • il ricorso deve attenere alla violazione invocata;
  • non è necessario davanti il tribunale dire che la violazione è la violazione di un determinato articolo.

Sentenza 8 aprile 2008 – Caso Assanidzé c. Georgia
Contro la Georgia, stato di più recente adesione al Consiglio di Europa. Il ricorrente deve esperire le vie di ricorso interne disponibili (previste dall’ordinamento interno), attivabili direttamente dall’individuo, sufficienti (in grado di riparare la violazione). Ricorsi esistenti con grado sufficiente di certezza (esistere effettivamente, non solo l’idea, deve essere stato istituito quel grado di ricorso), in pratica e in teoria, in difetto sono privi di effettività e accessibilità. Corte dice di non perdere tempo di ricorrere a vie giudiziarie che non possono aiutare. Non sono presi in considerazione le vie di ricorso straordinarie (Corte costituzionale in Italia è un esempio), poiché non soddisfano i requisiti di effettività e accessibilità.
Altri requisiti contenuti dell’art. 35 che riguardano solo i ricorsi individuali :
La Corte non accoglie ricorso (par. 2) nel caso in cui sia: 1) anonimo : non accetta ricorso senza sapere chi è la persona di cui si tratta. Ricorsi in cui venivano usati nomi fittizi per non procurare effetti negativi verso i ricorrenti. Casi: Georgia e Russia, la Corte ha ritenuto che il requisito fosse soddisfatto nel capire chi era ricorrente; 2) non deve essere identico ad uno precedentemente esaminato o già sottoposto ad un’altra istanza internazionale (principio ne bis in idem : se un caso è già stato discusso non contiene fatti nuovi, non può essere discusso una seconda volta). 
La Corte dichiara irricevibile il ricorso (par. 3): 1) incompatibile con disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli (se non rispetta ratione loci, ratione personae, ratione temporis e ratione materiae), ricorso manifestamente infondato e abusivo (infondato: ciò di cui si lamenta il ricorrente le argomentazioni possono essere false, confuse, poco supportate. In alcuni casi, la Corte ha considerato un altro requisito: non deve essere considerata una “quarta istanza”, il suo compito non è correggere una valutazione sbagliata fornita dai tribunali interni. Abusivo: se il ricorso è offensivo verso la Corte, contiene espressioni scurrili, se i documenti sono stati falsificati, contengono informazioni false per depistare la Corte, trarla in inganno. 2) quando il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante salvo che il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli esiga esame del ricorso (la Corte si rende conto che la violazione sottende problema strutturale dello stato che va risolto) e a condizione di non rigettare per questo alcun caso che non sia stato debitamente esaminato da un tribunale internazionale (se la Corte si rende conto che il caso non è stato esaminato in modo debito, allora lo dichiara ricevibile). 
Introduzione del ricorso individuale:

  • Compilazione formulario;
  • Lingua : inglese, francese, o lingua del ricorrente;
  • Ricorso inviato per posta alla Cancelleria;
  • Procedura scritta;
  • Esame è gratuito;
  • Può essere assistito da un avvocato.

22/11/2012
L’art. 20 della CEDU (“Numero di giudici”) dice che “la Corte si compone di un numero di giudici pari a quello delle Alte Parti contraenti”. I giudici in questo momento sono 47, potranno diventare al massimo 48, qualora la Bielorussia ratificasse la Convenzione. I giudici non siedono in rappresentanza dello stato, non ha una funzione politica di rappresentanza degli interessi dello stato, ma rappresenta l’ordinamento giuridico al quale appartiene. L’art. 21 (“Condizioni per l’esercizio delle funzioni”) fissa dei requisiti tecnici per i candidati a divenire giudici. Al par. 1 dice che “i giudici devono godere della più alta considerazione morale e possedere i requisiti richiesti per l’esercizio delle più alte funzioni giudiziarie, o essere giureconsulti di riconosciuta competenza”. Due conseguenze fondamentali: 1) la Corte è un organo giudiziario esattamente come i tribunali nazionali perché i candidati devono “possedere i requisiti richiesti per l’esercizio delle più alte funzioni giudiziarie” (devono avere una competenza tecnica ed anche i requisiti); 2) il par. 2 ribadisce che i giudici non hanno funzione politica (“i giudici siedono alla Corte a titolo individuale”). Il par. 3 stabilisce delle incompatibilità con l’esercizio della funzione di giudice della Corte. I giudici, infatti, svolgono la loro attività presso la Corte a tempo pieno e per questo devono risiedere a Strasburgo. L’attività è di tipo assorbente e inoltre i giudici devono essere indipendenti ed imparziali. La scelta dei giudici viene fatta dall’Assemblea Parlamentare (composta da rappresentanti dei Parlamenti nazionali) “in relazione a ciascuna Alta Parte contraente, a maggioranza dei voti espressi, su una lista di tre candidati presentata dall’Alta Parte contraenti”. Vi sono quindi due step: il primo è essere scelti a livello nazionale, ed inseriti nella lista dei tre nomi, e poi essere votati dall’Assemblea Parlamentare. Quest’ultima prima di procedere alla votazione fa un’audizione a ciascuno dei candidati nella quale essi devono dimostrare di conoscere quale sarà il loro impegno e quali i problemi con i quali si troveranno a lavorare. Questo è l’unico tribunale internazionale i cui giudici hanno questo tipo di legittimazione democratica (anche per la Corte di Giustizia dell’UE non c’è nessun intervento del Parlamento europeo nell’elezione dei giudici). L’art 23 indica la durata del mandato “I giudici sono eletti per un periodo di nove anni. Essi non sono rieleggibili”. L’età massima è 70 anni e quindi al raggiungimento di tale età il mandato termina. I giudici rimangono in carica fino alla loro sostituzione e inoltre ciascun giudice finisce di seguire i propri casi. La Corte è assistita da Cancelleria e relatori, come indicato all’art. 24. gart. 25 stabilisce che la Corte in assemblea plenaria (ovvero composta di tutti e 47 i giudici membri) si riunisce per eleggere il Presidente e il vice presidente mentre normalmente opera in formazioni più ristrette.
All’art. 26 vengono enunciate le formazioni della Corte:

  • Giudice unico;
  • Comitato (3);
  • Camera (7);
  • Grande camera (17);
  • Assemblea plenaria (tutti i giudici della Corte, 47).

Ciascuna formazione ha le sue competenze. I ricorsi statuali sono sottoposti direttamente alla Camera, mentre i ricorsi individuali seguono una procedura che consenta qualora necessario di rigettare il caso.
Accertamento della ricevibilità dei ricorsi individuali
È enunciata all’art. 27. Il giudice unico e i referendari istruiscono la prima fase. Il compito del giudico è quello, eventualmente di giudicare irricevibile il ricorso, valutando appunto il rispetto dei requisiti necessari. L’aspetto deliberativo del giudice unico è solo questo. La decisione del giudice unico circa l’irrecevibilità è definitiva e non motivata (par. 2 art. 27), la comunicazione viene fatta per lettera. Se il ricorso non è dichiarato irricevibile, il ricorso viene trasmesso ad un Comitato (par. 3 art. 27). Il giudice unico non può giudicare circa un caso che riguarda lo stato a titolo del quale è stato eletto. Il Comitato è composto di tre giudici i quali hanno la possibilità di dichiarare l’irricevibilità del ricorso solo se tutti e tre si trovano d’accordo, viene fatto un esame più approfondito dei requisiti di ricevibilità (disciplinato all’art. 28). Anche la decisione del Comitato è definitiva. Il Comitato ha la possibilità di dichiarare ricevibile un caso (tutti e tre i giudici devono essere concordi). Una volta dichiarato ricevibile il Comitato, nel caso vi sia giurisprudenza consolidata della Corte, il Comitato può anche decidere in merito al caso.
27/11/2012
Il ricorrente non può preservare un ricorso alla Corte uguale a quello precedente. Se si hanno elementi diversi, allora è possibile.
Giurisprudenza consolidata: in numerose sentenze la Corte si è espressa nello stesso modo in relazione ad uno stesso oggetto. Emerge attraverso la stessa giurisprudenza della Corte che si tratta di sentenze di camera. Può accadere che ci sia anche solo una sentenza della Grande camera, che ha competenza particolari: interviene quando ci sono seri problemi interpretativi. Altra possibilità è data dai casi ripetitivi: ricorsi nei quali viene indicata una stessa violazione della CEDU. Questi ricorsi, che costituiscono una giurisprudenza costante, riguardanti lo stesso stato e lo stesso paese, sono i casi ripetitivi. Nascono con la Polonia: dopo la II Guerra Mondiale i confini sono cambiati, e persone si sono viste espropriare le proprietà senza indennizzo. Si parla di 80000 persone = molte meno hanno fatto ricorso. Nasce la sentenza pilota, che orienta la soluzione riguardo a questi ricorsi, per far sì che lo stato possa porre rimedio ai problemi strutturali (vedi sentenza Broniowski c. Polonia). Questa procedura è stata inserita in modo informale, non è scritta nella CEDU. È stata introdotta nel 2004. Nel 2011 ha modificato però il regolamento interno, introducendo la sentenza pilota (art. 61 – vedi Blackboard). Se tutti e tre i giudici sono concordi e dichiarano ricevibile il ricorso nello stesso documento si decide anche del merito.
Camera – è la composizione che normalmente decide il ricorso nel merito, laddove il ricorso è stato dichiarato ricevibile (art. 29, par.1). Un giudice unico può direttamente inviare ad una Camera. La Camera dichiara la ricevibilità, definitiva, e vedere se c’è stata a carico del ricorrente la violazione delle disposizioni. La Camera può scegliere se decidere separatamente o congiunta la ricevibilità e il merito. Il ricorrente deve indicare le richieste per un risarcimento. Se la Corte decide contestualmente ricevibilità e merito è peggio per il ricorrente: questo perché se la Corte decide solo la ricevibilità dopo il ricorrente ha tempo per formulare le richieste.
29/11/2012
Le sentenze della Corte sono definitive dopo tre mesi escluso quanto già accennato. Devono essere motivate, argomentando le motivazioni delle parti e poi quelle proprie della Corte. In questo contesto, i sistemi di garanzia istituiti dalla Corte Europea e dai trattati mirano a creare un meccanismo di controllo che viene esercitato sugli Stati che si sono volontariamente dichiarati favorevoli al rispetto dei diritti dell’ uomo. Il controllo esercitato dalla Corte sugli stati che hanno ratificato la Dichiarazione è:

  • Esterno, nel senso che l’ organo è esterno al gruppo si Stati che hanno ratificato l’ accordo. Diverso da ONU, dove sono gli stessi stati, tutti i membri, che sono sottoposti al controllo. A turno, tutti quanti monitorano uno stato. La Corte è al di fuori degli Stati sottoposti al suo controllo
  • Giudiziario. È un vero e proprio tribunale, non è un controllo di natura politica.
  • Posteriore. Si realizza dopo che la violazione o pretesa violazione è stata commessa. Non ha funzione preventiva.
  • Su impulso di parte. Non può essere fatto d’ ufficio dalla Corte, la quale può agire su una violazione o pretesa violazione solo quando le è sottoposto un caso specifico.
  • Puntuale. Soltanto in relazione ad un singolo caso controlla la conformità alla dichiarazione.

La nozione di vittima potenziale è stata elaborata nel tempo. La vittima potenziale non è soggetto d’ esame in realtà della Corte. Situazioni estremamente particolari. La Corte interviene quando il percorso del caso è già ben delineato. La sentenza di una Camera diventa definitiva dopo tre mesi se non si realizza la situazione in cui una delle parti ritenga di adire la Grande Camera, una composizione sufficientemente ampia da rappresentare tutti i sistemi giudiziari europei e dà assoluta garanzia al ricorrente. Il ricorso alla grande camera è limitato a situazioni molto particolari.
Competenze della Grande Camera:

  • Art. 43: rinvio. Le parti di una controversia possono, se ritengono non soddisfacente la sentenza di una Camera, quando ricorrono alcune circostanze,richiedere un esame ex novo del caso alla Grande Camera. Qualora il caso sia dichiarato ricevibile, la Grande Camera esamina il caso ex novo tenendo conto di ciò che ha sentenziato la Camera. Può confermare la decisione raggiunta dalla Camera o discostarsi. I giudici sono diversi, l’ unico legame sono il presidente e il giudice che rappresenta lo Stato in causa, con il ruolo di chiarire la posizione del paese e l’ ordinamento interno. La sentenza della Grande Camera è subito definitiva.
  • Art. 30: rimessione di un caso alla grande camera. Il caso viene rimesso dalla camera che ha in esame il caso alla Grande Camera, senza intervento delle parti in causa in tale processo. La Camera compie una dismissione della propria competenza a vantaggio della Grande Camera. Problemi che meritano una discussione più ampia e approfondita. La giurisprudenza assodata è composta da un numero consistente di sentenze della camera che vanno nella stessa direzione o una sentenza della grande camera. Anche qui, la rimessione è possibile con due vincoli:
  • Caso che solleva un problema interpretativo.
  • La soluzione rischia di dare luogo ad un contrasto con un caso precedente.

Ad esempio, è mutata l’ opinione pubblica internazionale, o le direttive di molti Paesi sulla materia trattata (esempio: in relazione alla possibilità mutare sesso tramite operazione e trascrivere sull’ atto di nascita il mutamento di sesso, la Grande Camera all’inizio davanti al Regno Unito che lo vietava, non considerava questo una violazione. In seguito, col mutamento del contesto, lo giudicò violazione). Il mutamento della giurisprudenza rientra nelle competenze della Grande Camera. Le parti possono opporsi all’intenzione della Camera di rimettere il caso alla Grande Camera. La competenza di decidere di rimettere il caso alla Grande Camera è della Camera. Dopo il mutamento della giurisprudenza i casi giudicati precedentemente sulla stessa materia in modo diverso non possono comunque fare ricorso se non sono intervenuti nuovi elementi. Questo è per mantenere la certezza del diritto. Non esiste filtro.
Dalla sentenza decorrono tre mesi, poi una delle due parti può richiedere rinvio alla grande camera, che può accogliere o meno tale domanda. Un gruppo di cinque giudici valutano la ricevibilità (paragrafo due). Il criterio è che il caso ponga grossi e gravi problemi d’ interpretazione della convenzione o pone un problema generale che merita di essere approfondito..

  • Art. 41. Codifica una regola di carattere generale, cioè se la persona ha subito una violazione esistono due possibilità per porvi rimedio:
      • se il diritto interno non permette di rimuovere le conseguenze della violazione, la Corte vuole il ripristino della situazione. Ho accertato la violazione, devo riparare, ti ricreo la situazione che avevi prima che ci fosse la violazione. Caso: io privato o società, sono proprietaria di un immobile che mi viene espropriato senza rispettare le regole del caso. Lo Stato che commette la violazione dovrebbe restituire l’ immobile (restituito ad integrum). Questo dove è possibile.
      • Caso di incarcerazione preventiva di 10 anni, o arresto e carcere e poi si scopre l’ innocenza, allora lo Stato non può applicare la restituzione, come fa restituire il tempo? L’ equa soddisfazione consisterà in altro, una somma di denaro.

La Corte non obbligata ad accordare l’ equa soddisfazione, ma solo se ritiene che sussistano delle ragioni particolari l’accorda. Come fa a calcolarla? Quali sono le voci che entrano in gioco nel calcolo della somma in denaro? Di solito non sono molti, rari casi di cifre importanti, di norma modeste. La Convenzione non stabilisce i criteri, che sono stati elaborati dalla corte. Nelle motivazioni delle sentenze troviamo spiegati i principi a cui si attiene anche nella determinazione dell’ equa soddisfazione. L’equa soddisfazione copre, ma non necessariamente sempre tutte, tre voci:

  • danno morale;
  • danno materiale;
  • spese processuali.

Danno materiale: deve esserci un nesso di causalità fra il danno sofferto e le cause della violazione. Questo è detto per esempio in tre sentenze, immobiliare Saffi, Scordino e Mamatkoulov. Per quanto riguarda le spese di giustizia la Corte soddisfa quelle che ritiene necessarie alla causa, secondo i criteri di necessità e ragionevolezza. Il ricorrente ovviamente deve chiederle, se no la Corte non le può rimborsare, e documentarle. Nella maggior parte dei casi la Corte riconosce l’indennizzo, l’equa soddisfazione. La Corte attraverso queste sentenze ha indicato agli stati cosa fare negli ordinamenti interni per sistemare la situazione. È lo scopo della Corte prevenire la ripetizione di tali violazione.
04/12/2012
Il rispetto dei diritti dell’uomo nell’Unione Europea
Nel 1948 viene adottata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. In quel momento storico l’ONU è una delle organizzazioni internazionali esistenti, nel contesto europeo la prima organizzazione internazionale costituita è il Consiglio d’Europa nel 1949. Quest’ultima è l’organizzazione nella quale gli stati si sono profusi per la realizzazione di un sistema di garanzia dei diritti umani. Il Consiglio d’Europa nell’idea originaria dei politici dell’epoca avrebbe dovuto diventare lo strumento per arrivare agli stati uniti d’Europa, ci si rese presto conto che non c’erano le condizioni perché ciò accadesse. L’obiettivo degli stati uniti d’Europa restava un obiettivo a lungo termine e si decise quindi di procedere per piccoli passi con le conquiste che erano a portata di mano. Nella prospettiva di raggiungere quel risultato una parte degli stati europei hanno messo insieme le loro forze per raggiungere ad un legame più stretto in alcuni settori, principalmente col fine della ricostruzione dell’economia degli stati.
Nel 1952 i rappresentanti di Belgio, Lussemburgo, Olanda, Italia, Francia e Germania diedero origine alla Comunità economica del carbone e dell’acciaio (CECA). Nella struttura di quest’organizzazione c’è un organo che non era presente nelle altre organizzazioni internazionali (c’era solo nel Consiglio d’Europa), un organo parlamentare. Questa presenza era indicativa del fatto che si volevano rappresentare interessi diversi, si vuole dare rilievo agli interessi dei popoli, che non sempre sono coincidenti con quelli degli stati. L’organo assembleare non rappresenta solo gli interessi della maggioranza al governo, ma contiene all’interno di sé un ventaglio più ampio di posizioni. Fino a quel momento un organo di questo tipo non esisteva. Forse la differenza più importante è il tipo di atti che possono essere adottati da alcuni organi di questa nuova organizzazione internazionale. Infatti, a partire dalla CECA, attraverso strumenti disciplinati in quel trattato e in quelli successivi, l’UE può adottare dei regolamenti che producono i loro effetti direttamente negli ordinamenti interni, senza bisogno di atti di recepimento. L’obiettivo di questa organizzazione è la realizzazione di un mercato comune del mercato dell’acciaio. L’esperienza positiva ha portato all’istituzione di due altre comunità europee: 1) la Comunità europea per l’energia atomica (EURATOM - 1952); 2) la Comunità economica europea (CEE - 1957). Queste tre comunità hanno in comune gli organi. Nel 1967 entrò in vigore il Trattato di Fusione del Consiglio, firmato nel 1965, di modo che ci fosse un unico organo in grado di operare sui diversi fronti.
Il problema del rispetto dei diritti dell’uomo non era quello su cui gli stati hanno concentrato la loro azione nel momento in cui hanno fondato queste tre comunità. L’unico accenno che troviamo nei trattati istitutivi riguarda due ambiti: si tratta della libertà di circolazione e del divieto di discriminazione fondata sul sesso e sulla nazionalità. Entrambi considerati funzionali alla realizzazione di un mercato comune. Già nel 1959 viene introdotta davanti alla Corte di Giustizia un ricorso contro un atto adottato dall’Alta Autorità della CECA contestandone l’incompatibilità con i diritti dell’uomo. Nel 1959 la Corte Europea di Giustizia ha emanato una sentenza nella quale si rifiutava di esprimersi in merito perché in quel momento si stava ancora cercando di affermare la preminenza del diritto comunitario su quello nazionale. Questo tuttavia non ha impedito alla Corte di doversi occupare poi più seriamente di questo tema ed in qualche modo di cominciare a colmare questa lacuna (silenzio delle norme comunitarie in materia di diritti dell’uomo), e si è sostanzialmente ritagliata un ruolo (non previsto nei trattati) in questa materia.
Alcune sentenze che marcano il cammino della Corte nella tutela dei diritti dell’uomo (guardare documento su blackboard):

  • Sentenza 12 novembre 1969 – caso Stauder. È un ricorso in via pregiudiziale, cioè presentato dai tribunali nazionali che chiedono un chiarimento in merito a come interpretare una norma di diritto comunitario, la Corte si limita ad interpretare, e il tribunale nazionale alla luce di questa sentenza giudica il caso concreto. In questo caso si domandava se l’art. 4 di una decisione della Commissione fosse compatibile con i principi generali del diritto comunitario, non c’era congruenza tra diverse versioni linguistiche e quindi la Corte doveva dare un’interpretazione uniforme. Nel par. 7 della sentenza la Corte afferma che “non rileva alcun elemento che possa pregiudicare i diritti fondamentali della persona, che fanno parte dei principi generali del diritto comunitario di cui la Corte garantisce l’’osservanza”. Questa frase contiene due fondamentali affermazioni: 1) i diritti della persona sono parte dei principi generali del diritto comunitario; 2) la Corte ne garantisce l’osservanza.
  • Sentenza 14 maggio 1974 – caso Nold. Una società si rivolge alla Corte di Giustizia per chiedere l’annullamento di un atto che la riguarda direttamente. A differenza della sentenza precedente c’è addirittura l’intitolazione di un paragrafo “Sulla censura di violazione dei diritti fondamentali”, in questo paragrafo si ribadisce l’affermazione contenuta nella sentenza del 1969. Inoltre si dice che la Corte nell’ottica di ottemperare a questo impegno è tenuta ad ispirarsi alle tradizioni costituzionali dei paesi membri dell’UE e che “i trattati fondamentali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo, cui gli stati membri hanno cooperato o aderito, possono del pari fornire elementi di cui occorre tenere conto”. A questo punto la Corte non ha più bisogno di ribadire la primazia del diritto comunitario su quello interno, ma evita di citare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
  • Sentenza 28 ottobre 1975 – caso Rutini. Rinvio pregiudiziale. C’è da parte di un atto francese una violazione della libertà di circolazione. In questa sentenza la Corte dice che gli stati membri sono liberi di porre limiti ai fini di mantenere l’ordine pubblico, ma questa libertà degli stati va intesa in senso restrittivo. Quindi i diritti dei cittadini possono venire limitati solo nell’ipotesi in cui la loro presenza costituisca una minaccia effettiva e grave all’ordine pubblico. Il passo ulteriore che ha fatto la Corte attraverso questa sentenza è che si fa un esplicito riferimento alla CEDU, in particolare agli articoli 8-9-10-11 e ad un Protocollo. Sostanzialmente la Corte dice agli stati che la discrezionalità che hanno deve essere misurata su quei parametri che la CEDU ha elaborato ai sensi del paragrafo 2 di questa disposizione. Avvicinamento notevole alla CEDU.
  • Sentenza 13 dicembre 1979 – caso Hauer. Ricorso in via pregiudiziale, contrasto tra regolamento e diritto di proprietà. Riconferma ciò che ha detto fino a quel momento relativamente all’importanza delle costituzioni nazionali e dei trattati in materia dei diritti umani a cui i membri dell’UE hanno collaborato o che hanno ratificato. L’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo viene ricopiato in questa sentenza. Sostanzialmente con questa sentenza la Corte di Giustizia adotta un’interpreazione della CEDU fatta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Alla fine degli anni ’70 benché nei trattati non ci sia scritto niente (oltre a libertà di circolazione e di non discriminazione basata su sesso e nazionalità), i diritti fondamentali sono garantiti dalla Corte europea di Giustizia. Questo processo ha innescato dibattito e la formazione di un movimento di idee che ha impiegato un certo tempo ad assumere delle forme concrete. Nel 1992, attraverso il Trattato di Maastricht, troviamo per la prima volta nei trattati istitutivi, un esplicito riferimento al rispetto dei diritti fondamentali. Questo riferimento è presente all’art. 6 del Trattato in cui si disponeva che: 1) l’UE si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e dello stato di diritto; 2) l’UE rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla CEDU e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario. Tutti gli stati membri UE avevano ratificano la CEDU e accettato il sistema di garanzia a quel punto. È chiaro però che il fatto di aver richiamato esplicitamente nei trattati istitutivi la CEDU non significa che è stata recepita nell’ordinamento, ma che è stata recepita dagli stati membri.
Dopo Maastricht anche gli stati cominciano ad essere consapevoli della necessità che la comunità in quanto tale aderisca alla CEDU. Tuttavia la Corte europea di Giustizia in un parere del 1994 ha detto che la comunità non può ratificare la CEDU per due ragioni: 1) non esiste nessun organo nelle comunità che abbia competenza in materia di diritti fondamentali; 2) se la Comunità aderisce entra a far parte di un ordinamento giuridico diverso dal proprio (gli atti comunitari sarebbero stati sottoposti al controllo di un organo esterno all’ordinamento comunitario). Sostanzialmente la Corte di Giustizia non sarebbe più stata l’ultima istanza in relazione all’interpreazione delle norme comunitarie. Nonostante questa battuta d’arresto in relazione alla possibilità di ratifica, le cose sono andate avanti attraverso l’introduzione di articoli in materia di diritti umani nei nuovi trattati.
Nel Trattato di Amsterdam è stato inserito l’art. 7 che prevede una procedura di accertamento di una violazione grave e persistente da parte di uno stato membro dei principi enunciati all’art. 6 par. 1. Poi anche Trattato di Nizza fino al Trattato di Lisbona che prevede l’adesione dell’UE alla CEDU. Inoltre tra Nizza e Lisbona fu elaborata, nel 1999, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

06/12/2012
La Carta europea dei diritti fondamentali
Viene stilata perché esisteva ed esistere una sorta di vuoto normativo in relazione ai diritti fondamentali al quale le istituzioni europee decisero di rimediare con questo documento. All’epoca questo documento non produceva nessun obbligo, né faceva parte del diritto secondario dell’Unione europea (atti delle istituzioni). Non aveva efficacia vincolante, quindi non era possibile invocare questa Carta di fronte ad un giudice nazionale, né di fronte alla Corte europea di Giustizia. Con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, si supera questo limite intrinseco e la Carta è equiparata ai trattati dell’Unione (TUE, TFUE, cioè al diritto primario dell’UE). L’art. 6 del TUE dice che la Carta è definita fonte di parigrado (stessa efficacia) dei trattati. È dunque a tutti gli effetti diritto primario.
La dottrina distingue tre categorie di diritti:

  • Prima generazione. Si tratta dei diritti civile e politici di matrice occidentale.
  • Seconda generazione. Diritti economici, sociali e culturali di matrice socialista.
  • Terza generazione. Grazie alla Carta africana si dice che i popoli sono titolari di diritti e ne fruiscono (es. ambiente).

La Carta di Nizza supera questa distinzione, inglobando i diritti fino alla terza generazione. È un catalogo vero e proprio dell’UE, che comprende diritti di ogni specie, è uno strumento moderno. Non è moderno per il novero dei diritti che sono diritti che si trovano nelle varie fonti già esistenti. Non ha tanto carattere normativo,ma documentale, quindi il suo scopo non è creare norme, ma raccoglierle e darvi un ordine.

Struttura materiale della Carta
Sei titoli sostanziali + uno conclusivo (ciascuno riguardante una sfera della vita dell’uomo):

  • Dignità;
  • Libertà;
  • Uguaglianza;
  • Solidarietà;
  • Cittadinanza;
  • Giustizia;
  • Disposizioni generali che disciplinano l’applicazione e l’interpretazione della Carta.

Al quarto punto del syllabus si ha la funzione della Carta (v. Blackboard): rafforzare, riaffermare e rendere più visibili i diritti. Tali diritti entravano prima nell’ordinamento europeo tramite il riferimento alla CEDU e agli ordinamenti nazionali. Era stato inoltre rafforzato dalla giurisprudenza della CEG. I diritti vengono così positivizzati, ossia raccolti in un documento. Nell’art. 6 par. 1 si dice che la Carta ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Al par. 2 invece si prevede l’adesione dell’UE alla CEDU. Ci sono dei negoziati in corso, tra i rappresentanti del’UE e quelli del Consiglio d’Europa, per l’attuazione di questa norma. È un processo lungo ed articolato. Per non perdere tempo intanto, è stata adottata la Carta di Nizza, è questa la principale esigenza alla base della sua creazione. La Carta di Nizza non è contenuta nei trattati anche se è diritto primario. Non è stata inserita nel TUE. Il motivo è politico: un’ipotetica costituzione europea. La Carta di Nizza doveva essere parte della costituzione europea (fallita, bocciata dal referendum da parte di Francia e Olanda), ma si preferì scorporarla dato l’insuccesso. C’è chi ha provato a sottrarsi a tale Carta e che in sede di negoziato ha fatto pressione per limitarne la portata e la forza vincolante (Gran Bretagna e Polonia). Si è andati in contro a questi due stati con il Protocollo 30 (contenente la clausola di opting-out per Regno Unito e Polonia), nel qual all’art. 1 si stabilisce che la portata della Carta è limitata a ciò che già esiste negli ordinamenti interni (non c’è possibilità di innovazione ed è possibile applicare la parte già presente nell’ordinamento di Polonia e Gran Bretagna). La Carta stessa al termine del Titolo 7 contiene le c.d. “spiegazioni” che chiariscono il significato e la portata di ciascun articolo. È un fonte interpretativa, obbligata, è la prima da tenere in considerazione.
Rapporto Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – CEDU
A livello di protezione si ha la clausola di equivalenza, che dice che il livello di tutela predisposto dalla Carta non può essere inferiore a quello della CEDU. Se ne presuppone almeno l’equivalenza. Questa norma è enunciata nell’art. 53 (“Livello di protezione”) della Carta stessa “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell'Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l'Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri”. La Carta come “standard minimo”.
11/12/2012
Ci sono due diverse organizzazioni internazionali, autonome, separate e distinte, l’Unione europea ed il Consiglio d’Europa, tuttavia vi sono dei punti di contatto e si sono create, proprio in relazione al rispetto dei diritti dell’uomo, delle sovrapposizioni. L’UE prima di adottare la Carta europea dei diritti fondamentali era l’unica organizzazione internazionale, anche regionale, a non avere un suo catalogo di riferimento rispetto alla tutela dei diritti umani. È chiaro che queste due organizzazione hanno una base comune, data dal fatto che tutti i membri dell’UE lo sono anche del Consiglio d’Europa, ma questo non vuol dire che esse siano in concorrenza tra di loro. il modo di procedere in relazione ai diritti dell’uomo nell’ambito dell’UE, ha tuttavia messo in allarme il Consiglio d’Europa, che si è sentito minacciato in una sua competenza.

L’adesione dell’Unione europea alla CEDU
La soluzione ai molteplici problemi è stata individuata nell’adesione dell’Unione europea alla CEDU. L’adesione sarebbe relativa solo alla Convenzione, l’Unione europea non diventerebbe parte contraente del Consiglio d’Europa. L’Unione europea è comunque membro di altre organizzazioni internazionali, come la FAO e il WTO. Quindi quello di cui si parla nei trattati è dell’adesione dell’Unione alla CEDU. Naturalmente questo pone un problema di natura giuridica: l’art. 59 par. 1 della CEDU infatti disciplina chi può aderire alla Convenzione “La presente Convezione è aperta alla firma dei paesi membri del Consiglio d’Europa”. Un passo per modificare questo articolo è stato fatto nel Protocollo 14, che ha introdotto un secondo paragrafo all’art. 59 “l’Unione europea può aderire alla presente Convenzione”. Anche sul fronte dell’Unione europea si è dovuto provvedere in modo analogo. Col Trattato di Lisbona, infatti, è stata introdotta una nuova norma: l’art. 6 par. 2 del TUE “L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati”. In entrambi i casi, tuttavia, nulla è disposto circa le modalità attraverso le quali l’adesione potrà concretizzarsi. L’impegno richiesto non è solo di tipo politico, quindi la volontà, ma anche di natura tecnico-giuridica. Il fatto che non siano state disposte le modalità, significa che si lascia sostanzialmente “carta bianca” alle due organizzazioni.

Sul versante dell’Unione europea
L’adesione si dovrà concretizzare in un accordo, la cui decisione sarà decisa all’unanimità dal Consiglio, previa approvazione del Parlamento europeo. Per entrare in vigore, la decisione del Consiglio necessiterà anche della previa approvazione degli stati membri, in conformità con le rispettive norme costituzionali ed eventualmente del parere della Corte europea di Giustizia.

Sul versante del Consiglio d’Europa
Bisognerà modificare il testo della CEDU per aggiungervi riferimenti espliciti all’Unione europea, dove essa si riferisce agli stati membri, e perché si possa realizzare la liason con l’UE occorrerà stipulare uno o due trattati internazionali: 1) per modificare la CEDU (Protocollo di emendamento della CEDU); 2) per vincolare l’UE (Trattato di adesione). Fin dal 2001 il Comitato dei Ministri ha dato mandato ad un Gruppo di lavoro di elaborare uno studio delle implicazioni giuridiche dell’adesione dell’Unione alla CEDU. Quanto ai contenuti i problemi maggiori segnalati dal Gruppo riguardano la necessità di un giudice espressione dell’Unione europea. Due soluzioni sono state prospettate: 1) un giudice ad hoc; 2) un giudice a tempo pieno. Il problema più importante risulta essere la fase di esecuzione delle sentenze, che potrebbe rendere necessaria la modifica dell’art. 14 dello Statuto del Consiglio d’Europa, laddove dispone la composizione del Comitato dei Ministri e le modalità di voto, entrambe riservate ai rappresentanti degli stati membri dell’organizzazione (l’UE infatti aderendo solamente alla CEDU, non diventerebbe un membro del Consiglio d’Europa). In alternativa, potrebbe essere sufficiente l’adozione di una risoluzione statuaria che autorizzi: 1) la partecipazione dell’UE; 2) la modifica dell’art. 46 della CEDU (“Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze”), considerata lex specialis, che potrebbe far sì che l’Unione venga portata davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo per la non esecuzione di una sentenza.

La situazione attuale in attesa di un’adesione
Adesso vi sono delle anomalie. Una delle principali è che non è possibile andare davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo per contestare una norma comunitaria. Nel 1958 la Commissione (del Consiglio d’Europa), che era stata adita di un ricorso (235/56), ha detto che non poteva accogliere tale ricorso in quanto metteva in causa la responsabilità dell’UE in relazione al rispetto della CEDU. Per tutti i casi che sono stati presentati nei primi anni di funzionamento della CEDU, la Convenzione ha mantenuto un atteggiamento molto cauto cercando di non creare frizioni con l’Unione europea, dichiarando quindi non ricevibili dei ricorsi relativi ad atti dell’UE. Dopo questa decisione della Commissione, nel 1978 la Commissione si è trovata confrontata con un altro caso relativo ad un sindacato francese che si lamentava del fatto che il governo francese non l’avesse nominato come candidato per un comitato consultivo dell’UE. in questi anni la Corte europea di Giustizia stava comunque compiendo dei passi, come abbiamo visto, per quanto riguarda la tutela dei diritti fondamentali. Anche in questo caso la Commissione ha emanato una decisione avente come oggetto appunto questo ricorso 8030/77, il quale è stato dichiarato non ricevibile. Nel 1984 venne presentato un altro ricorso numero 11123/84, il signor Tete si lamentava di una norma nazionale (francese) che dava esecuzione ad una norma comunitaria, il ricorso fu dichiarato non ricevibile in quanto la legge francese era compatibile con la CEDU. In questo contesto la Commissione ha ribadito che il Parlamento non è equiparabile agli organi legislativi nazionali. Ancora più importante è una decisione della Commissione del 1990 su un ricorso numero 13258/87 presentato da una società di import-export la quale si lamentava di un procedimento di esecuzione di una sentenza della CEG portato avanti dalla Germania nei suoi confronti. Per la prima volta viene espressa la teoria della protezione equivalente. La società ricorrente sosteneva che la Corte europea di Giustizia avesse violato il principio di presunzione di innocenza (art. 6 CEDU – diritto ad un equo processo), di conseguenza la Germania dando attuazione alla sentenza aveva violato lo stesso articolo. Il ragionamento che viene sviluppato dalla Commissione è che il sistema giuridico delle comunità europee non solo assicura i diritti fondamentali, ma ne assicura inoltre anche il controllo del loro rispetto. Quindi la Commissione fa stato in questa decisione in questa decisione di non ricevibilità di tutto quello che era successo sul versante dell’Unione europea nello sforzo di tutelare i diritti fondamentali. Fa riferimento anche ad una dichiarazione congiunta dei presidenti della Commissione, del Parlamento e del Consiglio del 1977 in cui si diceva che le comunità rispettavano i diritti fondamentali. Fu un atto atipico e non vincolante, ma che comunque la Commissione ricorda insieme alla giurisprudenza della CEG. Questo argomento porta la Commissione a decidere che non può dichiarare ricevibile questo ricorso e che nell’ambito dell’Unione europea vi è un rispetto dei diritti fondamentali sostanzialmente equivalente a quello che avviene nell’ambito del Consiglio d’Europa. Questo concetto venne fatto proprio in seguito anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Nel 1996, quando esistono ancora Commissione e Corte che operano insieme, un caso viene portato davanti alla Corte, questo significa che per la prima volta la Commissione ha dichiarato il caso ricevibile. Caso Cantoni c. Francia. Cantoni in quanto direttore di un supermercato era stato condannato per esercizio illegale della farmacia. La sua condanna era dovuta la fatto che vi era una nozione molto impreciso di medicina nell’ordinamento francese, la quale era presa direttamente da una norma comunitaria. Cantoni sostenne che la legge francese sulla base del quale era stato condannato non era sufficientemente chiara e precisa come statuito dall’art. 7 par. 1 della CEDU (“Nulla poena sine lege”). La norma francese violava dunque l’art. 7 par. 1, ma questa era direttamente presa da una direttiva comunitaria. La Corte comunque ritenne che la norma fosse sufficiente chiara e che dunque non vi fosse violazione, comunque per la prima volta una norma comunitaria sottesa ad una nazionale venne portata all’attenzione della Corte.

Sentenza Matthews c. Regno Unito (18 febbraio 1999)
Il caso è introdotto contro il Regno Unito dalla signora Matthews che era una cittadina britannica risiedente a Gibilterra. Le venne respinta una richiesta con la quale domandava di essere iscritta nelle liste per votare alle elezioni del Parlamento europeo, questo perché vi era una normativa inglese che escludeva il territorio di Gibilterra dalla partecipazione a tali elezioni. La ricorrente sosteneva una violazione dell’art. 3 del Protocollo 1 (“Diritto a libere elezioni”), mentre il governo inglese sosteneva che la violazione dovesse essere attribuita all’atto comunitario che sanciva questa decisione. La Corte quindi nel 1999 concluse che il Parlamento europeo è un organo legislativo al pari di quelli nazionali e che quindi i cittadini avessero diritti di partecipare alle sue elezioni, giungendo così alla conclusione della violazione della CEDU da parte del Regno Unito. La responsabilità di questa violazione è comunque dello stato non dell’UE.
Sentenza Bosphorus c. Irlanda (30 giugno 2005)
Anche questa è una sentenza di Grande Camera. La Bosphorus era una compagnia aerea turca che aveva preso in affitto per quattro anni due aerei da una compagnia jugoslava. Il CdS aveva adottato una risoluzione che prevedeva il sequestro di tutti gli aerei che in qualche modo avessero un collegamento con la ex Jugoslvia. Per dare esecuzione a questa risoluzione l’UE ha adottato un regolamento. Nel 1993 arriva a Dublino uno di questi aerei della compagnia Bosphorus, al quale venne fatta manutenzione da parte di una compagnia irlandese. Proprio quando la manutenzione è avvenuta arriva dal Comitato delle Sanzioni ONU il divieto di fare qualsiasi cosa e scatta il sequestro dell’aereo. La Bosphorus dopo aver esaurito i ricorsi interni fece ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo sostenendo che fosse stato violato l’art. 1 del Protocollo 1 (“Protezione della proprietà”). La Corte riconferma che gli stati possano fare parte di organizzazioni internazionali, ma che devono essere responsabili delle norme che pongono in essere. La Corte teorizza la Protezione equivalente, in cui dice che da per assodato che nel’ordinamento dell’UE i diritti fondamentali vengano rispettati, però la Corte verificherà ogni volta che questo avvenga davvero.

TUTELA INTERNAZIONALE DEI DIRITTI UMANI
II semestre
19/02/2013
Diritti tutelati dalla CEDU
Art. 1 – carattere generale: impone l’obbligo di rispettare gli articoli contenuti dall’art. 2 in poi.
Art. 2 – Diritto alla vita. È riconosciuto in tutti gli strumenti internazionali: dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 3), dal Patto sui diritti civili e politici (art. 6), dalla Convenzione interamericana sui diritti umani (art. 4), dalla Carta araba dei diritti dell’uomo (art. 5), dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (art. 4), nella Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo (art. 5), ecc.
Nella CEDU questo diritto non si presenta come assoluto, ma riconosce l’applicazione di una condanna a morte (par. 1 – “nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale”). La sentenza in questione deve essere pronunciata da un tribunale (riferimento art. 6 – equo processo) e deve essere prevista dalla legge nazionale per quello specifico reato. Questa era la situazione nel 1950 in relazione a questo tema vi sono stati sviluppi. La pena di morte non è accettabile in nessun momento, nemmeno in tempi di guerra. Il Protocollo n. 6 pone il divieto della pena di morte in tempi di pace (gli Stati parte della CEDU possono non aderire ai protocolli). Aperto alla firma nel 1983, il protocollo è entrato in vigore nel 1985 ed oggi è ratificato da 46 dei 47 stati membri del Consiglio d’Europa (la Russia ha firmato, ma non ratificato). Il Protocollo non ammette riserve. Il Protocollo 13, aperto alla firma nel 2002 ed entrato in vigore nel 2003 prevede il divieto di applicazione della pena capitale in qualunque tempo. Per il momento è stato ratificato da 43 paesi, mancano l’Armenia e la Polonia (che hanno solo firmato), Azerbaigian e Russia (non hanno nemmeno firmato). Negli altri stati sono state abrogate le norme sulla pena di morte. Dove rimangono al momento non vengono applicate.
Caso Ochalan c. Turchia (2005)
Il capo del PKK (partito dei lavoratori turchi) era detenuto perché considerato un terrorista. Viene condannato a morte. Ci sono considerazioni sul diritto alla vita. Vedi par. 166 e par. 169 (interpreazione restrittiva).
Il par. 2 considera le circostanze in cui violare tale diritto (ossia infliggere la pena di morte) non è violare questa disposizione. I casi sono:

  • Se il ricorso ad essa è reso necessario per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale;
  • Per consentire l’arresto regolare o impedire la fuga al detenuto;
  • Reprimere nelle modalità previste dalla legge una sommossa o un’insurrezione.

Caso Mokarazis c. Grecia (2004)
L’oggetto sono le operazioni di polizia che hanno portato alla morte di alcune persone. Par. 58: devono essere rispettate le garanzie che le operazioni di polizia siano state autorizzate dal diritto nazionale. Si tratta di normative ben precise, deve esserci un quadro normativo preciso che preveda l’uso della forza e preveda di porre rimedio in caso di violazione. Par. 57: l’art. 2 impone non solo l’astensione volontaria di produrre morte da parte dello Stato, ma pone anche l’obbligo di adottare misure necessarie alla protezione della vita. Vengono citati i principi delle UN. Par. 60: la Corte deve stabilire se il ricorso alla forza letale è legittimo, ma anche se le operazioni sono disciplinate da norme di condotta per ridurre i rischi di far perdere la vita all’interessato. La Corte precisa che il ricorso alla forza deve essere assolutamente necessario e proporzionato agli scopi che si vogliono raggiungere. La necessità deve essere valutata in modo restrittivo.
Caso McKan c. Regno Unito
La Corte deve valutare gli atti degli agenti e le circostanze in cui si è svolto il caso, come è stata preparata l’operazione, quali sono gli strumenti applicati per controllare l’operazione. Se lo Stato non dimostra la necessità, sussiste la violazione.
Caso Alicari c. Italia (2011)
La polizia ferma un’auto che viaggiava a velocità “sospetta”. Fermata la vettura il sig. Alicari scende e cerca di scappare. Il poliziotto lo rincorre, ma a causa della pioggia e del terreno scivoloso parte un colpo e Alicari muore. La Corte riconosce la violazione dell’art. 2 par. 2: non c’è la richiesta proporzionalità tra il fine perseguito e l’azione.
L’art. 2 par. 2 è considerato in collegamento all’art. 5, che sancisce il diritto alla libertà e alla sicurezza.
Caso Torreggiani e altri c. Italia
Detenuti in carcere in condizioni disumane, che la Corte riconosce non conformi alla Convenzione. La Corte precisa come l’adottare misure restrittive non deve causare dolore sulle persone private della loro libertà. L’uso della forza fisica è legittimo se è nella misura necessaria alla detenzione.
Il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti è corroborato da altre normative europee ed internazionali. Esistono due trattati internazionali per prevenirla:

  • La Convenzione ONU contro la tortura del 1984.
  • La Convenzione europea per la prevenzione della tortura del 1987, sotto l’egida del Consiglio d’Europa.

La prima istituisce un comitato, un organo di garanzia che vigili sul rispetto di questo divieto. La seconda istituisce un comitato che svolge visite in loco. Il comitato ha visitato l’Italia nel 2012: ha preparato un rapporto pubblicato e reso noto sul sito del Consiglio d’Europa. Non sono previsti strumenti coercitivi, il comitato si limita a denunciare. Ci sono state due censure verso la Turchia  e la Russia. Nei confronti di chi è sottoposto a privazione della libertà c’è la responsabilità che riguarda l’implementazione di misure necessarie per impedire alla persona privata della libertà di suicidarsi. È un obbligo positivo: non solo non devono essere posti in atto atti lesivi da parte di altri, ma anche dalla persona stessa contro di sé (due sentenze contro la Turchia).
26/02/2013
Sotto l’egida del Consiglio d’Europa nel 1997 è stata firmata la Convenzione di Oviedo, volta alla tutela dei diritti dell’uomo e della dignità umana rispetto al progresso della medicina e della tecnica. Anche nell’ambito dell’UNESCO pochi mesi dopo è stata adottata la Dichiarazione sul genoma umano. Questi strumenti hanno natura giuridica diversa, pur assomigliandosi nei contenuti: la Convenzione pone obblighi giuridici vincolanti in capo a quegli stati che l’hanno ratificata (è un trattato internazionale), mentre la dichiarazione non ha carattere vincolante, è una raccomandazione che invita gli stati a comportarsi in modo conforme. L’Italia benché abbia firmato nel ’97 non ha ancora ratificato la Convenzione come Lussemburgo, Olanda, Polonia e altri, anche stati come la Germania, la Russia e la Gran Bretagna non hanno ratificato né firmato la Convenzione. Essendo sufficienti cinque ratifiche (di cui almeno 4 di stati membri del Consiglio d’Europa) la Convenzione entrò in vigore nel 1999. Per il momento gli stati che hanno ratificato la Convenzione di Oviedo sono 29. Quest’ultima è dunque aperta anche alla firma da parte di stati non membri del Consiglio d’Europa, si tratta per lo più di stati osservatori presso il Consiglio.
La Convenzione di Oviedo per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina (Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla medicina)
Nel preambolo si fa riferimento alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, alla CEDU, alla Carta sociale europea, al Patto sui diritti civili e politici e il Patto sui diritti economici, sociali e culturali dell’ONU, alla Convenzione per la protezione dell’individuo riguardo all’elaborazione dei dati a carattere personale e la Convenzione sui diritti del bambino. Sempre nel preambolo si dice che “i benefici della biologia e della medicina debbono essere utilizzati per il beneficio delle generazioni presenti e future”. Importanza delle generazioni future, tema nato nell’ambito della tutela internazionale dell’ambiente.
Art. 1 – impegno a proteggere l’essere umano, la sua integrità e la sua dignità. Manca una definizione di essere umano, ma la Corte nella sua giurisprudenza ha detto che l’essere umano è da considerarsi come la persona nata. Diversamente nella Convenzione latino-americana a volte si considera il feto.
Art. 2 – afferma il primato della persona umana rispetto ai soli interessi della società e della scienza.
Art. 26 – i diritti dell’individuo possono subire alcune limitazioni, che non devono essere arbitrarie, ma devono rispondere a precisi requisiti: 1) essere previsti per legge; 2) costituire un’esigenza di necessità; 3) costituire una limitazione necessaria in una società democratica.
Art. 3 accesso equo alle cure sanitarie. Quindi un accesso equo a cure della salute di qualità appropriata. Si parla di accesso alle cure. L’accesso è equo, cioè senza discriminazione, tutte le persone devono essere in grado di utilizzare le cure sanitarie, le quali devono essere di qualità appropriata (espressione piuttosto vaga ed indicativa).
Art. 5 –  introduce una regola di carattere generale, quella secondo cui un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero ed informato.
Art. 10 – prende in considerazione la tutela della vita privata ed il diritto all’informazione. Al secondo paragrafo si dice che la volontà di una persona di non essere informata deve essere rispettata. Quindi vengono sanciti sia il diritto all’informazione sia il diritto a non essere informati.
Art. 6 – protezione delle persone che non hanno la capacità di consenso. Queste persone non possono ricevere un intervento se non per un diretto beneficio. Per quanto riguarda i minori l’intervento non può essere effettuato senza il l’autorizzazione del suo rappresentante, in alcune circostanze viene sentito direttamente il minore.
Art. 7 – tutela delle persone che soffrono di un grave disturbo mentale. Non possono essere sottoposte a trattamento se non quando l’assenza del trattamento possa essere gravemente pregiudizievole alla sua salute.
Art. 8 –  situazione di urgenza. In questo caso si può intervenire se l’intervento è ritenuto indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata.
Art. 9 –  vanno tenuti in considerazione i desideri precedentemente espressi dal paziente che al momento dell’intervento non è in grado di esprimere la sua volontà.
Art. 11 – divieto di discriminazione della persona in ragione del suo patrimonio genetico. Questo divieto integra l’art. 14 della CEDU la quale pone in divieto di discriminazione ampliato da un protocollo. Questo divieto riguarda le situazioni che possono essere comparate. Questo divieto non impedisce che possano essere prestati trattamenti più favorevoli laddove ciò compensi altre situazioni.
Art. 12 – test genetici predittivi. Possono essere fatti soltanto per fini medici/sanitari e di ricerca e sono sottoposti all’art. 5 (consenso).
Art. 13 – interventi sul genoma umano (modifica).
Art. 14 – l’utilizzo delle tecniche di assistenza medica alla procreazione non è ammesso per la scelta del sesso, a meno che non si tratti di malattie ereditarie legate al sesso.
Art. 16 – tutela delle persone che si prestano per la ricerca.
28/02/2013
I protocolli della Convenzione di Oviedo sono quattro di cui tre già entrati in vigore.
Un protocollo è dedicato alla ricerca biomedica ed è entrato in vigore nel 2007. Copre gli ambiti di ricerca che implicano un intervento sull’essere umano nel campo della biomedicina (art. 2). La regola generale è la libertà della ricerca (art. 4). Gli stati contraenti attualmente sono 8, il protocollo necessitava di 5 ratifiche per entrare in vigore. La ricerca deve comportare un rischio accettabile (art. 6) e devono essere fornite informazioni adeguate ai pazienti e ai volontari (art. 13), i quali devono esprimere liberamente il consenso a partecipare (art. 14). Tutti i protocolli hanno in comune l’art. 1 che rispecchia le finalità della Convenzione di Oviedo, proteggere l’essere umano nella sua dignità ed integrità. L’art. 5 fa riferimento all’efficacie comparabile dei risultati che si possono ottenere.
Un altro Protocollo è stato aperto alla firma degli Stati nel 2002 e riguarda il trapianto di organi e tessuti di origine umana. Esso è entrato internazionalmente in vigore nel 2006 e le ratifiche sono state 12 a fronte di un numero più ampio di firme (l’Italia non ha ratificato né la Convenzione di Oviedo, né i vari protocolli). All’art. 2 vengono indicati gli organi e i tessuti facenti parte di questo protocollo (ne sono esclusi: organi e tessuti riproduttivi, organi e tessuti fetali o embrionali, sangue e derivati). Vi è poi all’art. 9 una distinzione tra trapianti da persone viventi e persone morte (il prelievo di organi o tessuti da un donatore vivente è possibile solo nell’interesse terapeutico del ricevente, se non vi sono organi o tessuti da un donatore deceduto oppure se non vi sono alternative di efficacia comparabile). L’art. 3 parla dell’equo accesso ai servizi di trapianto per i pazienti. Devono essere fornite informazioni sia al donatore che al ricevente e deve esserci una manifestazione esplicita di consenso. Per quanto riguarda le persone decedute (art. 16) l’elemento critico riguarda l’accertamento della morte della persona da cui viene fatto l’espianto. L’art. 17 dice che il prelievo non può essere effettuato qualora la persona deceduta si sia precedentemente opposta. La legge 29 dicembre 1993 è la legge italiana di riferimento per la morte celebrale, integrata poi da un decreto ministeriale del 22 agosto 1994.
L’ultimo protocollo del 2008, che non è ancora entrato in vigore (ratificato solo da Moldova, Montenegro e Slovenia), riguarda i test genetici. Viene ribadita la finalità della protezione dell’individuo all’art. 1. La normativa si applica a campioni biologici di origine umana al fine di mettere in evidenza caratteristiche genetiche ereditarie e acquisite, non rientrano i test su embrioni o feti e i test a scopo di ricerca (art. 2). L’art. 4 ribadisce l divieto di discriminazione. Gli articoli successivi riguardano la qualità del servizio offerto, l’utilità dei test, il consenso informato, ecc.
Dichiarazione UNESCO sul genoma umano
Art. 1 – stessa finalità della Convenzione di Oviedo.
Art. 2 – allude al diritto al rispetto della dignità umana. Non bisogna ridurre gli individui alle loro caratteristiche genetiche.
Regola generale: libertà di ricerca (già art. 15 della Convenzione di Oviedo). Ha un limite nei diritti fondamentali della persona e nelle disposizioni che tutelino la stessa. Ricerca su esseri umani solo se non c’è un’efficacia comparabile (art. 5).
Art. 6 –  rischi e benefici. Non si deve trattare di rischi sproporzionati. Si fa riferimento anche a possibili rischi psicologici, non solo fisici.
artt. 7/8 – confidenzialità dati genetici deve essere protetta nelle condizioni previste dalla legge. Necessità che ci sia una pertinenza scientifica e sul piano etico.
I Protocollo – Clonazione
Protocollo aperto alla firma nel 2002 sul trapianto di organi e tessuti di origine umana. È entrato in vigore nel 2006 e le ratifiche per il momento sono state 12. Campo di applicazione: finalità terapeutiche, sono esclusi gli organi ed i tessuti riproduttivi, embrioni, sangue e derivati. Si distingue il trapianto tra vivi e quello da una persona deceduta. Nel primo caso non devono esserci alternative disponibili (efficacia comparabile), mentre nel secondo il momento critico è l’accertamento della morte per espianto, occorre una manifestazione di consenso, non è possibile se questo è negativo.
Art. 3 – diritto di accesso ai sevizi in condizioni di equità.
Normativa italiana sulla morte celebrale è la legge del 29 dicembre 1993, integrata poi da un decreto ministeriale del 2 agosto 1994.
Protocollo sui test genetici
Non ha ancora raggiunto il numero minimo di ratifiche, non c’è ancora uniformità di vedute.
Art. 2 – ambito di applicazione sono i campioni biologici di origine umana per identificare caratteristiche genetiche, sia ereditarie, che acquisite.
Art. 3 CEDU – proibizione della tortura
Non da un definizione alle espressioni utilizzate. Che cosa siano tortura, trattamento inumano e trattamento degradante è stato precisato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo alla luce di alcuni parametri. La Corte tiene conto dell’insieme del caso, della durata del maltrattamento, degli effetti fisici o mentali prodotti, del sesso e dell’età delle persone coinvolte. Alla luce di questi parametri la Corte a precisato la distinzione tra questi trattamenti in base all’intensità della sofferenza inflitta. Importante non è solo il fatto che il maltrattamento sia già stato subito, ma anche le situazioni che mettono l’individuo nella condizione di poter subire in un secondo momento il maltrattamento. La prima volta in cui la Corte ha fatto riferimento a questa possibilità è stata la sentenza Soering. Il trattamento inumano non era la pena di morte (vedi art. 2), ma la sofferenza che il sig. Soering avrebbe subito nel corridoio della morte.
05/03/2013
Art. 8 CEDU – diritto al rispetto della vita privata e famigliare
L’art. 8 mira a tutelare quattro sfere dell’autonomia della persona – la vita privata, la vita famigliare, il domicilio e la corrispondenza – questi ambiti non si escludono a vicenda. Ha la stessa struttura degli art. 9-10-11, nel primo paragrafo è individuato il diritto protetto e nel secondo le cause per il quale può essere violato. L’art. 8 è l’unico che comprende “il benessere economico del paese”, che si lega all’ambiente, al diritto ad un ambiente sano.
Esistono dei requisiti per valutare quando può esserci un’interferenza con l’esercizio dei diritti garantiti dall’art. 8:

  • Legittimità (previsione per legge);
  • Finalità (è legittima quando lo scopo rientra nel par. 2);
  • Necessità:
      • Margine di apprezzamento;
      • Motivi pertinenti e sufficienti;
      • Proporzionalità.

La nozione di vita privata è, per la Corte, un concetto ampio che non si presta ad una definizione esaustiva. Non essendoci una definizione esaustiva quando c’è un ricorso la prima cosa che fa la Corte è vedere se la doglianza rientra o meno nella sfera dell’art. 8.
L’art. 8 comprende:

  • L’integrità fisica e psicologica di una persona;
  • Aspetti dell’identità fisica e sociale di un individuo;
  • Il cognome e il nome delle persone fisiche;
  • Il diritto all’immagine e le fotografie di un individuo;
  • La reputazione e l’onore di un individuo;
  • Il diritto a stabilire ed allacciare rapporti con i propri simili e il mondo esterno;
  • I legami sociali tra gli immigrati radicati e la comunità in cui vivono;
  • Le attività professionali o commerciali;
  • La privacy;
  • Alcuni diritti dei disabili;
  • La sfera intima della persona e la vita sessuale;
  • Aborto;
  • Omosessualità;

Caso Goodwin c. U.K. (2002) – transessualismo
La Gran Bretagna non aveva permesso al sig. Goodwin di mettere in linea i suoi documenti con il suo cambio di sesso. La Corte ha valutato che ci fosse una violazione dell’art. 8 e ha condannato lo stato, i transessuali non possono “vivere in una zona grigia”.
Caso Evans c. Regno Unito (2005)
La signora Evans scopre di essere affetta da tumore e che probabilmente non potrà più avere figli, così decide di congelare degli ovuli fecondati dal marito. Durante la malattia la coppia si separa, lei guarisce e decide di usare lo stesso gli embrioni congelati. L’ex marito si oppone perché non vuole figli con lei e quindi il governo inglese nega il permesso. La signora quindi si appella alla CEDU per far valere il suo diritto a diventare genitore, ma la Corte la nega tutelando il diritto dell’ex marito di non diventare genitore. Si sarebbe potuto dire che la decisione del marito fosse già stata presa quando l’embrione è stato fecondato, ma la così non è poiché l’embrione non è equiparato al bambino, non ha diritto a nascere.

 

Caso Costa e Pavan c. Italia
Abolizione della legge 40. Referendum del 2005 non ha raggiunto il quorum. Per la Corte Costituzionale non tutta la legge è illegittima, ma solo alcune parti lo sono. Legge 40: no diagnosi pre-impianto.
Vita familiare

  • Protegge le relazioni tra i membri della famiglia (anche la definizione di vita famigliare sfugge ad una definizione univoca poiché è un concetto in costante evoluzione); il diritto al matrimonio è regolato dall’art. 12 della CEDU, non dall’art. 8. La Corte tiene conto della realtà sociale, non solo di quella biologica (rapporti di coppia, coppie non sposate che vivono con i figli). Rientra anche la coppia di omosessuali che vive in una relazione stabile, anche se non significa che abbiano esattamente gli stessi diritti delle coppie eterosessuali. Rientrano solo sotto l’art. 8, quindi per esempio il diritto al matrimonio può essere negato.

Adozione da parte di omosessuali, ci sono tre casi:

  • Single;
  • Coppia omosessuale;
  • Uno dei due ha già un figlio e l’altro compagno vuole adottarlo (es. di una coppia lesbica – X e Altri . Austria, 2013). L’Austria negava questo tipo di adozione, poteva esservi solo se il compagno era di sesso opposto. La Corte stabilisce che vi è una violazione dell’art. 8.

07/03/2013
Art. 8 CEDU – benessere del paese (diritto ad un ambiente sano)
Danni all’ambiente. Caso Lopez-Ostra c. Spagna, fabbrica di smaltimento di rifiuti. Chiarisce che l’art. 8 non protegge da tutti i danni all’ambiente, non esiste nella CEDU un diritto ambientale, ma tutela invece la salute delle persone. Es. il riscaldamento globale non può essere denunciato di fronte alla CEDU. Non vale solo il pericolo alla salute, ma anche il domicilio. Attiene alla sfera privata dell’individuo (non collettiva) e genera obblighi positivi per lo stato. Esistono anche obblighi positivi degli stati nei riguardi delle corporations: regolare le emissioni inquinanti; assicurare ai privati che ci sia un processo decisionale informato; assicurare la parte pubblica del processo decisionale.
Caso Hatton c. Gran Bretagna
I ricorrenti lamentano forti rumori da parte di un aeroporto. La Corte ha preso due decisioni diverse:

  • Nel 2001 la Camera ha stabilito che i voli violano l’art. 8.
  • Nel 2003 la Grande Camera dice che non c’è violazione dell’art. 8. È una decisione abbastanza importante, soprattutto perché la Grande Camera difficilmente smentisce la Camera. Ha verificato se nel processo decisionale sia stato dato il giusto peso agli individui.

Caso Guerra c. Italia
Manfredonia, esplosione di una torre, la sig.ra Guerra si lamenta che il diritto alla salute non è stato tutelato, non è stata informata che ci potessero essere rischi. La Corte decide che lo stato non ha violato le norme, ma c’è una violazione dell’art. 8 perché sono state negate le informazioni alla sig.ra Guerra.
Caso Disanno e Altri c. Italia – rifiuti a Napoli
I ricorrenti lamentano una violazione dell’art. 8 da parte dello stato per non aver garantito la raccolta dei rifiuti, e per la mancanza di informazione sui rischi del vivere in un posto dove non c’è una raccolta efficiente. C’è violazione dell’art. 8, ma solo per il primo punto, non viene riconosciuto invece per quanto riguarda la mancata informazione (c’è uno studio della protezione civile).
Aarhus Convention – 1998
Ne sono parte l’Italia e l’UE. il cittadino deve essere informato sulle tematiche di genere ambientale. È spesso utilizzata dalla Corte per vedere se uno stato è inadempiente.
12/03/2013
Protezione dei dati personali nel Consiglio d’Europa
La Convenzione sulla protezione delle persone
L’art. 1 fissa oggetto e scopo della Convenzione, mentre l’art. 2 fissa una serie di definizioni, compresa quella di dati a carattere personale. Con essi si deve intendere ogni informazione concernente una persona fisica identificata o identificabile.
La definizione di dato personale è contenuta nell’art. 4 della normativa italiana di riferimento ed è un po’ più scarna di quella della direttiva.
La giurisprudenza della CEDU
L’art. 8 non evoca esplicitamente il tema dei dati personali. La CEDU non si è sottratta al proprio compito e ha ritagliato una nozione sempre più ampia di vita privata, facendoci rientrare anche le tutele da assicurare ai dati personali. Sono quindi tutelate dall’art.8:

  • La raccolta, la memorizzazione e la conservazione dei dati personali;
  • L’accesso a tali informazioni;
  • La divulgazione di tali informazioni.

Per quanto concerne la raccolta, la memorizzazione e la conservazione dei dati esistono dei principi generali che sono stati affermati dalla Corte nelle proprie sentenze. Anche la semplice memorizzazione di dati personali da parte dello stato comporta un’ingerenza nel rispetto del diritto alla vita privata e famigliare e violazione dell’art.8, a meno che tale ingerenza non sia prevista dalla legge, non persegua uno scopo legittimo e non sia necessaria in una società democratica. Un obbligo positivo degli stati consiste nel prendere misure per la prevenzione effettiva di atti lesivi dei dati personali – anche nelle relazioni degli individui tra di essi – attraverso norme (penali) efficaci (cfr. Sentenza KU c. Finlandia, 2009, par. 43). La conservazione dei dati personali deve offrire garanzie adeguate contro abusi.
Uno dei primi casi che ha riguardato il tema della raccolta e della memorizzazione dei dati personali è quello Leander c. Svezia, 26 marzo 1987. Il sig. Leander è stato licenziato da un museo navale perché il direttore si è accorto che non era stato sottoposto ad un’indagine preventiva (prevista da un’ordinanza del 1969) sul controllo del personale. Questo controllo era ad insaputa degli assunti e il fascicolo non era accessibile all’interessato. La necessità di questo controllo personale derivava dal fatto che doveva attraversare dei locali in zone del museo, che adiacenti ad un base militare, erano sottoposte a certe restrizioni. Immediatamente la Corte chiarisce che la memorizzazione dei dati e l’impossibilità di contestarli costituivano un’ingerenza relativa alla vita privata e famigliare. Non trascura la Corte nel valutare questo caso che entra in gioco l’interesse della sicurezza nazionale. La Corte giunge ad individuare la contrapposizione degli interessi individuali del sig. Leander e gli interessi della società alla sicurezza nazionale. in questo caso come in tutti i casi in cui entra in gioco la sicurezza nazionale, la Corte valuta più meritevoli di tutela gli interessi della società che quelli dell’individuo. La Corte ha quindi concluso che l’ingerenza, oltre che prevista per legge, era necessaria in una società democratica e proporzionata all’obiettivo. La Corte precisa che l’atto normativo deve essere accessibile all’individuo per valutare gli effetti che ne potrebbero derivare nei suoi confronti. Questa sentenza è esemplificativa del ragionamento che la Corte fa in materia di raccolta e conservazione dei dati, in un contesto normale.
Molta parte della giurisprudenza della Corte prende in considerazione un altro profilo, che è quello della prevenzione e della repressione della criminalità. Per esempio la lotta al terrorismo. La sentenza di riferimento è la Klass e altri c. Germania, 6 settembre 1978. I ricorrenti sono avvocati che denunciavano la difformità di una disposizione nazionale, che poneva delle restrizioni alla corrispondenza, dalla CEDU. Attraverso questa sentenza la Corte ha ampliato la nozione di vittima, in quanto questi avvocati potrebbero avere implicazioni con il terrorismo, per via dei loro clienti, e quindi potrebbero essere a loro volta essere intercettati. Quindi la Corte ha detto che essi ricadono nella nozione di vittima. La Corte fa un’interpretazione restrittiva delle norme. La Corte tiene conto del fatto che si faccia riferimento a persone che si siano macchiati di gravi reati, tuttavia occorre che ci siano delle garanzie adeguate. Nel par. 50 della sentenza la Corte da delle delucidazioni. La Corte ritiene più meritevoli di tutela gli interessi generali e stabilisce quindi non ci sia stata violazione.
Un’altra sentenza è quella Uzun c. Germaniadel 2010. Il sig. Uzun era sospettato di aver preso parte nel 1982 a reati commessi da un gruppo terroristico anti-imperialistico. Il signore è stato posto sorveglianza su ordinanza del giudice per un lungo periodo. Il sig. Uzun si duole di essere stato intercettato oltre che con tutti gli altri mezzi, anche con un GPS posto sulla macchina di un suo amico. Al par. 78 della sentenza la Corte dice che per quanto riguarda il dispositivo GPS, il suo utilizzo non era esplicitamente previsto, ma poteva essere considerato un’evoluzione della normativa. In questo caso la Corte ha ritenuto che le garanzie che la legislazione offriva potevano essere considerate sufficienti, e che quindi non ci sia stata violazione. Anche in questo caso è prevalso l’interesse generale e che l’ingerenza fosse necessaria in una società democratica.
Un altro caso è quello McVeigh c. Regno Unito, 19 marzo 1981. I ricorrenti erano stati interrogati, fotografati, gli erano state rilevate le impronte digitali, e sostenevano che la conservazione di tali dati da parte della polizia costituisse una violazione dell’art. 8. Erano stati sospettati di terrorismo e quindi la Corte ritenne giusta la conservazione per garantire anche la sicurezza nazionale.

Vi sono stati poi casi riguardanti altre finalità e altri mezzi:
Caso Amman c. Svizzera del 2002. Il sig. Amman vendeva apparecchiature per la depilazione in Svizzera. Egli ricevette un’ordinazione da una donna che chiamava dall’ambasciata dell’URSS. L’ambasciata all’epoca era posta sotto controllo e quindi vennero fatte indagini sul sig. Amman, che poi finirono in uno schedario sulla protezione dello stato. Nel 1990 l’opinione pubblica svizzera venne a conoscenza dell’esistenza di questi schedari. Il ricorrente ha potuto accedere al suo fascicolo accorgendosi che erano presenti delle cancellature e non gli veniva consentito si sapere cosa era stato cancellato. La Corte diede ragione ad Amman.
Un altro caso riguarda la sentenza Draksas c. Lituania, 2012. Draksas è un politico lituano che nel 2003 viene posto sottocontrollo e venne intercettata una telefonata con un tale responsabile della campagna elettorale. C’è una fuga di notizie e Draksas chiede di sapere chi fossero i responsabili della divulgazione della registrazione. Oltre a quella telefonata vennero intercettate altre conversazioni con il Presidente della Repubblica, alcune delle quali sono state trasmesse nel corso del procedimento di impeachment del capo dello Stato. Poiché le sedute in merito sono pubbliche l’opinione pubblica ne venne a conoscenza. Il sig. Draksas contesta la legittimità dell’intercettazione delle telefonate con il Presidente della Repubblica perché esiste una normativa che impedisce di intercettare il capo di Stato. La Corte ha riconosciuto la violazione della prima intercettazione, quella con il privato cittadino, mentre ha riconosciuto la non violazione per quanto riguarda quelle con il Presidente della Repubblica.
Altri casi tengono conto in contesti diversi delle evoluzioni scientifiche (dati biometrici, campioni di cellule e campioni di DNA).
C’è una sentenza del 2008 S. e Marper c. Regno Unito. In questa sentenza i ricorrenti si dolevano del fatto che gli erano stati raccolti campioni di DNA, di cellule oltreché le impronte digitali durante un procedimento penale, conclusosi con un proscioglimento. La Corte ha concluso per la violazione perché si trattava di una raccolta di dati conservati a tempo indeterminato e per nessuna ragione, visto che il procedimento era stato chiuso. Va segnalato il par. 112 della sentenza, che sottolinea la necessità di un bisogno sociale imperativo che giustifichi la raccolta e la conservazione dei dati.
La tutela della vita privata si estende anche alle attività commerciali e professionali ed internet.
In relazione ad internet è importante il caso Copland c. Regno Unito, 2007.
Casi riguardanti l’accesso ai dati personali. Caso Gaskin c. Regno Unito. Gaskin era stato affidato ai servizi sociali e alla maggiore età chiede di accedere al proprio fascicolo personale. La cosa gli viene negata.
Caso Odièvre c. Francia.
Un altro aspetto preso in considerazione dalla Corte riguarda l’accesso alla cartella clinica.
Caso K.H. e altri c. Slovacchia (2009).
Accesso a fascicoli conservati dai servizi segreti.
L’ultimo problema è quello della divulgazione di dati personali a terzi o al pubblico.
14/03/2013
Informazione: l’opinione pubblica deve essere informata. Inoltre la persona deve conoscere il contenuto. Austria, Portogallo e Spagna: articoli per la tutela dei dati personali nella Costituzione. Altri stati hanno cominciato i lavori per progredire in questo senso. OCSE: ha adottato le linee guida, c’è stato un ampliamento non solo agli stati europei.
Convenzione: quasi tutti i membri del Consiglio d’Europa, mancano Russia, Turchia e San Marino che hanno solo firmato. È l’unico trattato vigente in materia. All’art. 1 sono indicati oggetto e scopo della stessa. Ci si riferisce all’uomo senza eccezioni. Inoltre in relazione al trattamento dei dati non entra solo in gioco la vita privata, ma può intersecarsi con altri diritti fondamentali. Può entrare in gioco la dignità umana. L’obiettivo con il quale è stata elaborata la Convenzione riguarda il trattamento automatizzato dei dati.
Direttiva 95/46
Art. 9 – collezione automatizzata dei dati personali, archivio di dati personali. Ha sostituito la formula banca dati. Trattamento automatizzato dei dati: manca una fase. La raccolta di dati che non sempre è possibile fare con trattamento automatizzato dei dati.
Art. 3 estendere le garanzie al di là del trattamento automatizzato dei dati.
Art. 4 – principi fondamentali della protezione dei dati.
Art. 5 – qualità dei dati.
Manca nella Convenzione il consenso alla raccolta dei dati. Ma mancando il riferimento alla fase di raccolta era comunque inutile metterlo.
16/04/2013
Patto sui diritti economici, sociali e culturali
In questo Patto è richiesto allo Stato di porre in essere comportamenti positivi, che consentano il godimento del diritto di cui si tratta. Il risultato richiesto è che l’individuo possa godere del suo diritto anche grazie allo strumento giudiziario (obblighi non immediati). Esistono anche obblighi immediati detti obblighi di due diligence. In capo allo stato ci sono anche obblighi positivi a realizzazione progressiva. È questo aspetto che connota i diritti di natura economica, sociale e culturale. L’art. 2 par. 1 del Patto dice “ciascuno degli Stati Parti del presente patto si impegna ad operare, sia individualmente, sia attraverso l’assistenza e la cooperazione internazionale, specialmente nel campo economico e tecnico, con il massimo delle risorse di cui dispone al fine di assicurare progressivamente con tutti i mezzi appropriati, compresa in particolare l’adozione di misure legislative, la piena attuazione dei diritti riconosciuti nel presente Patto”. La parola “progressivamente” è un’indicazione chiave insieme a “con tutti i mezzi appropriati” e all’affermazione “con il massimo delle risorse di cui dispone”. Non si tratta dunque di un assegno in bianco dato agli stati, ma ci sono delle indicazioni basilari circa le modalità operative. Non è il fatto che lo stato possa in modo arbitrario dare contenuto e porre in essere ciò che necessario per dare attuazione ai diritti contenuti nelle disposizioni, ma lo Stato deve farlo subito alla ratifica fermo restando le risorse di cui dispone (art. 1 par. 2). Un altro obbligo per lo stato sarà quello di non porre in essere delle misure peggiorative. È stato detto che ciascuno stato dovrà anche giustificare e spiegare le scelte poste in essere per raggiungere la realizzazione del diritto. Il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali che riceve i rapporti degli stati e supervisiona l’osservanza del Patto non è stato istituito automaticamente da quest’ultimo, ma è stato istituito dal Comitato economico e sociale delle Nazioni Unite.
All’art. 11 del Patto è garantito il diritto ad un livello di vita adeguato. In questo articolo si fa riferimento alla necessità di garantire agli individui un’alimentazione, un vestiario ed un alloggio adeguato ed al miglioramento continuo delle condizioni di vita. Al par. 2 è enunciato il diritto alla libertà dalla fame, solo in relazione a questo diritto si parla di diritto fondamentale. Nel 1964 a Roma viene convocata la prima Conferenza mondiale sull’alimentazione. Nel successivo vertice sempre a Roma del 1966 viene adottata la Dichiarazione sulla sicurezza alimentare. Queste conferenze erano organizzate dalla FAO che ha sede a Roma. Questa dichiarazione viene poi confermata nel 2000 attraverso la Dichiarazione del Millennio nella quale vengono adottati i Millenium development goals. Nel 2002 e nel 2004 sempre a Roma vi sono altri importanti vertici. Il problema non è soltanto di quantità di cibo, ma anche di accessibilità al cibo. Accessibilità che ha due diverse accezioni: fisica ed economica. Il cibo inoltre deve essere sufficiente, sicuro e nutriente. Osservazione generale numero 12 del 1999 in cui il Comitato dice che ciascun individuo ha diritto di accedere ad un’alimentazione adeguata in modo regolare, continuativo e liberamente. Questo cibo deve essere in grado di rispondere alle necessità nutrizionali che variano a seconda degli individui e dei contesti diversi in cui essi vivono. L’adeguatezza deve essere soddisfatta non solo in relazione alla quantità, ma anche alla qualità. Gli Stati hanno l’obbligo di rispettare e proteggere il godimento del diritto all’alimentazione. Per rispettare l’accesso al cibo gli stati devono eliminare eventuali discriminazioni.
18/04/2013
Diritto all’acqua
Sono pochissimi gli atti che fanno specifico riferimento al diritto all’acqua. Sono rari e non particolarmente recenti:

  • La Convenzione di Ginevra del 1949 sul diritto umanitario e i suoi due protocolli.
  • La Convenzione per la tutela dei minori del 1989 (art. 24 lettera C: i bambini devono godere di acqua pulita).
  • La Convenzione delle UN contro le discriminazioni della donna (art. 14 lettera H: “fornitura acqua”, anche se questo riferimento è in qualche modo limitato, è inserito in un elenco e vi è uno specifico riferimento alle donne delle zone rurali).

Nel 2002 il Comitato peri diritti economici, sociali e culturali ha riflettuto non solo sull’art. 11, ma anche sul 12 che guarda alle condizioni di salute. Da un’analisi dei due articoli ha ritenuto di poter derivare un “diritto all’acqua”, anche per garantire un diritto alla salute. Nel Commento Generale n. 15 il Comitato precisa che l’acqua è una risorsa limitata, che è un bene pubblico e che è fondamentale per la vita e per la salute.
Fondamento giuridico: artt. 11 e 12. Ma la base è stata ampliata con riferimento all’art. 6 del Patto sui diritti civili e politici che riconosce il diritto alla vita. Nel par. 2 c’è un’enunciazione riguardo al diritto di accesso all’acqua: lo stato ha l’obbligo di creare le condizioni che mettano in piedi un sistema tale da consentire l’approvvigionamento.
L’acqua deve avere determinate caratteristiche: deve essere sufficiente, potabile e consentire un livello di vita adeguato. Criteri:

  • Accessibilità – fisica ed economica – e disponibilità continua (non ci devono essere interruzioni arbitrarie del servizio).
  • Adeguatezza: non solo in relazione alla quantità disponibile. Già l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha elaborato un manuale nel quale sono precisati i parametri che devono essere soddisfatti nella fornitura dell’acqua. Riguardo alla quantità parla di 5/200 litri d’acqua al giorno a seconda del contesto. I luoghi di fornitura non devono distare più di un km o di 30 minuti di cammino.
  • Sicurezza e potabilità. Altri rapporti sono stati fatti dall’Alto Commissariato per i diritti dell’uomo. Il rapporto del 2007 (i rapporti vengono presentati annualmente dal Commissario) riguarda l’accesso equo all’acqua potabile, fa riferimento alle linee guida dell’OMS e fa propria la definizione di acqua salubre (= acqua che non presenta rischi per la salute, esente da sostanze chimiche o radioattive). L’individuo deve avere accesso a tutte le informazioni sull’acqua.

Diritto alla salute
L’osservazione generale n. 14/2000 del Comitato mette in luce come la forma dell’art. 12 non coincida con la definizione di salute contenuta nel trattato istitutivo dell’OMS, ma non ne differisca nel contenuto. Si parla al punto 11 di un diritto globale alla salute.
Comprende diritti e libertà. Diritto all’integrità fisica (si trasforma anche in divieto per lo stato) e libertà di controllare la propria salute ed il proprio corpo. Entrano in gioco anche i trattamenti sanitari effettuati senza il consenso. Di conseguenza anche la libertà di rifiutare i trattamenti. Il sistema di salute può essere pubblico o privato, ma lo stato non deve essere discriminativo. Anche qui si parla di accettabilità fisica ed economica. Elenco obblighi:

  • Servizi sanitari di base;
  • Accesso alle attrezzature e ai servizi (senza discriminazione);
  • Divieto di usare farmaci pericolosi;
  • Divieto di trattamenti coercitivi.

23/04/2013
Tutela internazionale del diritto al lavoro
Tale diritto è parte integrante della dignità umana. Concorre alla sopravvivenza del singolo e della sua famiglia e – nella misura in cui il lavoro sia liberamente scelto o accettato – concorre alla sua crescita e al suo riconoscimento nella comunità in cui si vive.
Fonti internazionali:

  • Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; all’art. 8 par. 3 vieta il lavoro forzato (?).
  • Patto sui diritti economici, sociali e culturali;
  • Patto sui diritti civili e politici;
  • Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione; art. 5 lettera E divieto di discriminazione in relazione al lavoro.
  • Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne; art. 11 par. 1.
  • Convenzione sui diritti dei fanciulli; art. 32.
  • Convenzione per la protezione dei lavoratori migranti e famiglie.

ILO (Convenzioni fondamentali):

  • Convenzione n. 29/1930, lavoro forzato. Fa sistema con la convenzione 105/10957 che prevede l’abolizione del lavoro forzato.
  • Convenzione n. 87/1948, libertà sindacale.
  • Convenzione n. 98/1949, contrattazione collettiva.
  • Convenzione n. 100/1951 e 103/1952, parità di trattamento.
  • Convenzione n.  105/1957, abolizione lavoro forzato.
  • Convenzione n.  111/1958, discriminazione.
  • Convenzione n. 138/1937, lavoro minorile.
  • Convenzione n. 182/1999, peggiori forme di lavoro minorile.

L’ILO è stata fondata nel 1919, con i trattati di Versailles che hanno posto fine alla prima guerra mondiale, è quindi più antica delle UN. Ciò che la caratterizza è l’organizzazione dei suoi organi: la delegazione di ciascuno stato si compone di quattro persone, due sono delegati e due sono rappresentanti delle forze sociali (lavoratori e datori di lavoro). La delegazione di ogni stato può votare solamente se completa, ma in ogni caso ogni membro a diritto ad un voto che può dunque discordare con quello degli altri membri della delegazione.
La Convenzione di Philadelphia adottata nel 1944 è molto importante perché sottolinea come il lavoro non sia una merce e ribadisce l’uguaglianza di tutti gli esseri umani per quanto riguarda l’accesso al lavoro, ma anche in generale.
Consiglio d’Europa

  • Carta sociale europea, 1961 (e successive modifiche).

Unione Europea

  • Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, 1989.
  • Carta dei diritti fondamentali dell’UE, 2007.

Unione Africana

  • Carta africana dei diritti degli uomini e dei popoli, 1981.

Organizzazione degli stati americani

  • Protocollo alla Convenzione americana sui diritti economici, sociali e culturali, 1988.

Patto sui diritti economici, sociali e culturali
Art. 6 – nella prima parte enuncia il diritto al lavoro e nella seconda parte, nel paragrafo due, indica agli stati quali dovrebbero essere le misure da adottare per dare contenuto al diritto enunciato in precedenza. L’enunciazione di questo art. riecheggia le finalità delle Nazioni unite.
Art. 7 – insieme al par. 1 dell’art. 6 circoscrive la dimensione individuale del diritto al lavoro.
Art. 8 – circoscrive la dimensione collettiva del diritto al lavoro.
Il lavoro a cui fa riferimento l’art. 6 è il cosiddetto “lavoro decente”, individuata nell’ambito dell’ILO. Questo lavoro:

  • Rispetta i diritti fondamentali dei lavoratori;
  • Rispetta i diritti relativi alle condizioni di lavoro (sicurezza e remunerazione).

Sempre nell’ambito dell’ILO sono state precisate anche la nozione di “lavoro forzato” e di “lavoro minorile”.
Il parametro per l’esercizio del diritto al lavoro è quello dell’accessibilità del mercato del lavoro. Elementi essenziali ed interdipendenti sono:

  1. Disponibilità di servizi specializzati per la ricerca del lavoro;
  2. Accessibilità del mercato del lavoro;
      • Divieto di discriminazione.
      • Pari opportunità.
      • Accessibilità fisica.
  1. Accettabilità e qualità delle condizioni di lavoro.

Obblighi degli stati:

    1. Obblighi di carattere generale.
    2. Obblighi di carattere specifico.
    3. Obblighi internazionali.

La violazione degli obblighi può esservi per incapacità dello stato o per assenza di volontà.
La dimensione collettiva enunciato all’art. 8 del Patto sui diritti economici, sociali e culturali riguarda il diritto di associarsi e di iscriversi al sindacato ed il diritto allo sciopero.
La Carta sociale europea
Nella sua formulazione originaria contiene nella prima parte l’enunciazione di 19 obiettivi di politica sociale degli stati contraenti.
30/04/2013
La Carta sociale europea (1961)
1961: non c’erano altri trattati vincolanti per gli stati sui diritti economici sociali e culturali. La Carta sociale europea voleva completare la carta per i diritti dell’uomo. Non è vincolante in tutti i suoi elementi per i contraenti, gli stati hanno l’obbligo giuridico di tutelare alcuni diritti fondamentali: possono scegliere cinque diritti dei sette considerati fondamentali (diritto al lavoro, alla libertà sindacale, negoziazione collettiva, sicurezza sociale, protezione della famiglia e protezione dei lavoratori migranti), oltre a questi o scelgono altri 10 articoli oppure scelgono tra 45 paragrafi. Titolari di questi diritti: i lavoratori degli stati che hanno ratificato la Convenzione, i cittadini dello stato ovvero lavoratori stranieri cittadini di stati contraenti della carta sociale.
Protocollo addizionale
La sua struttura è modellata su quella della Carta:

  1. Prima parte – nuovi principi;
  2. Seconda parte – riprende i medesimi diritti formulati in termini più dettagliati, enunciando impegni precisi per le parti:
      • Pari opportunità in materia di impiego e di professione;
      • Diritto all'informazione e alla consultazione;
      • Diritto di partecipare alla determinazione e al miglioramento delle condizioni di lavoro e dell'ambiente di lavoro;
      • Diritto delle persone anziane ad una protezione sociale.

Anche a proposito del Protocollo addizionale gli Stati contraenti hanno la facoltà di decidere il livello dell'impegno, potendosi vincolare anche solo ad uno o a più articoli, come dispone l'art. 5.
Protocollo di emendamento
ll Comitato europeo per i diritti sociali è il solo organo abilitato a valutare la congruenza della situazione di ciascuno Stato contraente con gli obblighi derivanti dalla Carta. I membri del Comitato europeo sono esperti di specchiata integrità e di conclamata competenza nelle materie sociali nazionali e internazionali, eletti dall’Assemblea parlamentare su una lista proposta dagli Stati contraenti. Il fatto che l’elezione dei membri del Comitato non sia completamente appannaggio delle parti contraenti costituisce un elemento estremamente positivo, in quanto l’intervento dell’Assemblea parlamentare introduce un elemento di democraticità nella procedura.
Protocollo addizionale (1988)
Lo stato che lo ratifica è obbligato a rispettare almeno uno di questi quattro principi/diritti:

  • Principio della pari opportunità in materia di impiego e professione;
  • Diritto del lavoratore di essere consultato e informato;
  • Diritto di essere a conoscenza del lavoro e dell’ambiente del lavoro;
  • Diritto delle persone anziane di essere tutelate.

Protocollo addizionale (1995)

  • Nuovo sistema di controllo costituito dai reclami collettivi.

Carta sociale europea rivista nel 1996
Carta sociale più i 2 protocolli aggiuntivi, più un protocollo del 1991 che non è mai entrato in vigore. Chiede agli stati di impegnarsi su sei articoli ritenuti fondamentali su un totale di nove (artt. 1-5-6-7-12-15-16-19-20). Oltre a questo complessivi 16 articoli o 63 paragrafi. Dopo l'elaborazione del Protocollo del 1995, i lavori per il rilancio della Carta sociale sono continuati in seno al Comitato Charte-Rel fino all'adozione, nell'ottobre 1994, di un progetto di Carta sociale rivista che, alla luce dell’evoluzione intervenuta in materia dal 1961 in poi, amplia il catalogo di diritti sociali fondamentali, ricomprendendoli in un unico testo. Gli obiettivi perseguiti dai promotori del rilancio sono stati sostanzialmente due:

  • Rafforzare la presa di coscienza dei diritti sociali in quanto diritti fondamentali;
  • Fare del nuovo trattato un punto di riferimento specialmente per i molti Stati dell'Europa centrale e orientale che si affacciavano al Consiglio d'Europa e che dovevano fronteggiare gravi problemi economici e sociali.

Trasmesso al Comitato dei Ministri e sentito il parere favorevole del Comitato di esperti indipendenti e dell'Assemblea parlamentare, il progetto veniva approvato nella stesura definitiva il 13 aprile 1996 e aperto alla firma degli Stati.
Sistema di controllo
Comitato europeo per i diritti sociali: il vero organo di controllo, composto da 15 tecnici competenti in materia di diritti economici e sociali, il comitato ha una sorta di legittimazione democratica perché è eletto dall’assemblea parlamentare. Ciascuno stato che ha ratificato la carta presenta una rosa di tre candidati, ma non si tratta di una rappresentanza politica. Come i giudici della Corte europea per i diritti dell’uomo. Gli stati sono tenuti a dare conto al comitato di ciò che hanno fatto, devono anche rendere conto anche in relazione alle altre disposizione della carta a cui non hanno aderito. Ogni due anni ciascuno stato è tenuto ad inviare al Segretario generale del Consiglio d’Europa un rapporto sull’applicazione nel proprio ordinamento delle disposizioni vincolanti della Carta. Per ciascuna disposizione accettata lo stato deve precisare e allegare i provvedimenti legislativi o regolamentari adottati, le convenzioni collettive concluse nonché ogni altra misura in grado di darvi esecuzione e ogni decisione giudiziaria pronunciata sulle questioni di principio concernenti la disposizione in oggetto. Nel rapporto deve essere altresì specificato l’ambito d’applicazione di tali provvedimenti, vale a dire se riguardano solo i nazionali o anche i cittadini delle altre parti contraenti, se si estendono a tutto il territorio nazionale o anche ai territori non metropolitani. Inoltre, allorché lo Stato sia vincolato anche da convenzioni dell’ILO, gli è richiesto di produrre copia dei pertinenti rapporti presentati all’Ufficio internazionale del lavoro, al fine di meglio valutare l’eventuale sovrapposizione delle normative Anche per quanto concerne le disposizioni non accettate della Carta sociale gli Stati sono tenuti a presentare analogo rapporto sulla legislazione e la pratica in vigore nei settori coperti da tali disposizioni. E ciò al fine di chiarire le diverse realtà e contribuire in modo costruttivo al superamento degli ostacoli che impediscono o ritardano la loro accettazione. In entrambi i casi, dal loro arrivo al Consiglio d’Europa i rapporti sono pubblici e possono essere consultati sul sito internet dell’organizzazione. Così dispone l’art. 22 della Carta sociale, che può essere considerato uno dei motori di sviluppo della legislazione e della pratica degli Stati contraenti.
Gli Stati sono tenuti ad inviare copia dei rapporti alle associazioni sindacali nazionali, alle quali è accordata la facoltà di formulare osservazioni. Analoga facoltà è riconosciuta alle organizzazioni non governative dotate di statuto consultivo presso il Consiglio d’Europa e particolarmente qualificate nei settori che ricadono sotto le disposizioni della Carta sociale. I rapporti degli Stati, integrati dalle osservazioni dei partner sociali, sono trasmessi per esame al Comitato europeo per i diritti sociali. Le conclusioni del Comitato costituiscono l’elemento essenziale della procedura di controllo poiché l’indipendenza dell’organo da cui promanano le pone al riparo dalle contingenze politico-economiche e conferisce loro carattere oggettivo.
Possono essere conclusioni:

  • Di conformità alle disposizioni della Carta;
  • Di non conformità. In tal caso, le misure necessarie per porre rimedio alla situazione dipenderanno dall’origine e dalla natura della violazione (legislazione, pratica amministrativa, giurisprudenza, ecc.).

Se il Comitato non dispone di sufficienti elementi di valutazione, può aggiornare la propria decisione al successivo ciclo di esame e lo Stato in oggetto è tenuto a fornire ulteriori e più dettagliate informazioni nel rapporto successivo. Nel silenzio dello stato interessato, il Comitato ha la facoltà di adottare una decisione di non conformità, non avendo la parte contraente dimostrato di ottemperare alle disposizioni della Carta. Le conclusioni del Comitato europeo per i diritti sociali e i rapporti degli Stati sono poi rimessi al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, ai fini della predisposizione delle sue decisioni.
02/05/2013
Norme a tutela della donna pre-ONU

  1. Repressione tratta delle bianche (1904).
  2. Repressione della tratta delle donne e dei bambini (1910-1921).
  3. Repressione tratta delle maggiorenni (1933).

Anche nell’ambito dell’ILO vengono elaborate delle convenzioni a tutela della donna:

  • Convenzione n. 3 sull’impiego delle donne prima e dopo il parto (1919).
  • Convenzione n. 4 sul lavoro notturno delle donne (1919).
  • Convenzione n. 45 sull’impiego delle donne nei lavori sotterranei (1935).

Azione delle UN porta ad una nuova azione nella lotta alla discriminazione. Il punto di riferimento è la parità formale tra i sessi che si può individuare già nella Carta delle UN. L’art. 1 par. 3 della Carta ONU contiene elementi che danno fondamento all’approccio di ci stiamo parlando. Nello stesso senso va l’art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ma troviamo qualcosa di analogo anche nell’art. 2 del Patto sui diritti civili e politici e all’art. del Patto sui diritti economici, sociali e culturali.
Nel 1979 viene stipulata la Convenzione dell’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW). Questa convenzione non introduce nuovi diritti, ma tende ad eliminare qualsiasi discriminazione a svantaggio della donna. L’art. 2 indica gli obblighi positivi e negativi degli stati contraenti. Alla lettera d si dice che gli stati sono tenuti ad astenersi da qualsiasi pratica discriminatoria nei confronti della donna. Per quanto riguarda gli obblighi positivi essi consistono nel porre in essere delle politiche o delle normative che favoriscano l’uguaglianza. Alla lettera e si dice che gli stati devono prendere ogni misura adeguata per eliminare la discriminazione contro le donne posta in essere da persone, organizzazioni o enti di ogni tipo. All’art. 4 si riconosce agli stati la facoltà di introdurre misure provvisorie per promuovere la parità della donna rispetto alla’uomo. All’art. 5 si dice che bisogna promuovere un ambiente culturale tale da rimuovere pregiudizi e pratiche basate su ruoli stereotipati di donne e uomini. La seconda parte della Convenzione contiene l’impegno da parte degli stati in riferimento a particolari diritti che riguardano la vita civile e politica. La lettera c dell’art. 7 si preoccupa di ricordare che le donne hanno il diritto di partecipare alle associazioni e alle organizzazioni non governative. L’art. 8 riguarda il diritto delle donne a partecipare alla vita internazionale, tramite la partecipazione alle organizzazioni internazionali. L’art. 16 riguarda la condizione della donna nel matrimonio ed è insieme all’art.2 uno degli articoli su cui sono apposte più riserve. L’ultima parte della Convenzione riguarda il sistema di controllo e l’art. 17 prevede l’istituzione del Comitato per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna.
Più recentemente è stato adottato un Protocollo che introduce la possibilità di presentare al Comitato delle comunicazioni individuali.
La prima delle conferenze mondiali delle UN sui diritti delle donne è quella di Città del Messico del 1975. Nel 1980 vi fu la seconda conferenza tenutasi a Copenaghen in cui viene data una nuova definizione di uguaglianza. Nel 1985 a Nairobi c’è una nuova conferenza nella quale vengono valutati i risultati del c.d. decennio dei diritti delle donne. I risultati è quasi sostanzialmente fallimentare, i progressi realizzati fino a quel momento non sono particolarmente significativi.

 

 

09/05/2013
La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1983)
1863: fondazione dell’Organizzazione regionale africana, che raggruppa la maggior parte degli stati del continente. La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli è stata elaborata nel 1981 ed è entrata in vigore nel 1983. L’Organizzazione nel 2000 modifica la sua denominazione in Unione africana (UA).
È un’organizzazione di tipo tradizione, non ci sono atti che hanno il potere di imporsi direttamente sugli stati, ma è sempre necessaria una forma di adesione volontaria. La Carta è vincolante per gli stati che l’hanno ratificata.
Fondamentale è il riferimento all’esperienza coloniale che si trova nel Preambolo, dove è presente, inoltre, un rimando alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (scritta prima della fine della decolonizzazione).
Artt. 3-4 – contengono il diritto al rispetto della vita e dell’integrità fisica e morale.
Art. 5 – divieto di schiavitù e della tratta degli esseri umani (dimensione molto amplia).
Art. 6 – libertà e sicurezza personale.
Art. 8 – coscienza di religione.
Art. 9 ­– diritto all’informazione e alla libertà di opinione.
Art. 10 – diritto di partecipazione.
Art. 11 – diritto di riunione.
Art. 12 – ha diverse sfaccettature, in particolare il par. 3 riconosce il diritto di asilo.
Art. 13 – diritto di partecipazione alla gestione della res publica.
Art. 14 – diritto di proprietà. Fino a qui si parla di diritti civili e politici, mentre nella seconda parte ci sono più diritti economici e sociali.
È uno dei primi trattati che fa riferimento anche agli anziani, come soggetto inserito nella comunità. A partire dall’art. 19 si trovano i diritti collettivi (inizialmente era codificato solo quello all’autodeterminazione). Ci sono dall’art. 22 i diritti collettivi di solidarietà e sempre nell’art. 22 si parla di diritto allo sviluppo. Questo diritto deve essere letto insieme all’art. 24 che parla di sviluppo sostenibile. Si parla anche di diritto alla pace. Titolari di questi diritti sono i popoli africani, ma nella Carta non è presente una definizione precisa di popolo (il popolo inoltre non è un soggetto riconosciuto ai sensi del diritto internazionale).
Art. 21 – il popolo emerge come elemento costitutivo dello stato. Sovranità come stato apparato e popolazione come elemento costitutivo.
Titolari dei diritti sono dunque etnie, popoli oppure lo stato in quanto tale? Di fronte alla tendenza a stati multietnici si è fatto leva sulla nozione di sovranità. La Commissione parla di violazione di un diritto appartenente all’etnia, mentre gli stati fanno più spesso riferimento al concetto di sovranità.
La Carta prevede un sistema di garanzia, che dà la possibilità di presentare dei ricorsi davanti ad una Commissione. Con un Protocollo addizionale alla Carta aperto alla firma nel 1998 ed entrato in vigore nel 2004 è stata introdotta la Corte africana dei diritti dell’uomo.
Nella Carta si parla di libertà di professare la propria religione, ma non di cambiarla.
Critica: non sono presenti riferimenti al tema del diritto di voto attivo e passivo.
Lacuna nel diritto delle donne, sulla condizione del matrimonio. Solo più tardi verrà fatto un Protocollo che sancisce e tutela i diritti delle donne: riferimento alle mutilazioni genitali, al matrimonio, all’alimentazione e alla casa.
Ancora in seguito verrà approvato un Protocollo sulla democrazia. L’ultimo Protocollo è quello che ha istituito la Corte, essa può essere adita dagli stati, dalla Commissione, dalle ONG e dagli individui (per gli ultimi due occorre che gli stati accettino la competenza, non basta la ratifica del Protocollo). La Commissione accoglie le comunicazioni e fa rapporti nei quali può accertare le eventuali violazioni.
14/05/2013
Carte arabo-islamiche a tutela dei diritti fondamentali
I testi arabi
Nell’ambito della Lega degli stati arabi solo nel 1968 è stata istituita una Commissione per i diritti dell’uomo, a seguito dell’invito a partecipare alla prima Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo (Teheran, 1969).
Proprio nel programma di attività della Commissione si allude per la prima volta all’idea di dare vita ad una codificazione dei diritti fondamentali della persona araba. Nei primi anni ’70 è stato elaborato un progetto di Dichiarazione dei diritti del cittadino negli stati e nei paesi arabi, definitivamente abbandonato nel 1982.
È da ricordare che al momento della ratifica della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo in sede ONU, l’Arabia Saudita che era membro dell’organizzazione, si era astenuta dalla ratifica a causa della non condivisione di alcuni punti, soprattutto in materia di diritti delle donne.
Nel 1994 si era raggiunto il consenso intorno ad un testo che poi è stato abbandonato. Ripreso nel 2004 il testo è poi entrato in vigore nel 2008 col nome di “Carta araba dei diritti dell’uomo”.
La Carta araba dei diritti dell’uomo (2008)
Nel Preambolo sono esposte finalità e motivi ideali (“riconoscendo la stretta relazione esistente tra diritti umani, pace e sicurezza”). Vi anche un richiamo alla Carta ONU, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ai due Patti ONU sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, e la Dichiarazione del Cairo sui diritti dell’uomo nell’Islam. Importante è lo stretto legame individuato tra pace e diritti umani, pace quindi intesa non solo come assenza di guerra. La sicurezza non è più soltanto la sicurezza territoriale attraverso gli armamenti, sicurezza è la sicurezza umana (human security). Il riferimento esplicito alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo conferma il valore universale che la dichiarazione oggi ha raggiunto, il riconoscimento del suo valore avviene anche da parte di stati che non la condividono pienamente. Un altro documento che viene richiamato nel Preambolo è la Dichiarazione del Cairo, che non è stato elaborato nel contesto ONU. Questa Dichiarazione proclama diritti che sono interpretati e applicati in un modo leggermente differente, pur essendo gli stessi riconosciuti nei trattati ONU, questo perché il punto di riferimento è la Shari’ah. Dal linguaggio utilizzato si capisce anche l’attribuzione di un diverso significato nel richiamo di questi strumenti, lasciando trasparire una certa ambiguità. In qualche modo sembra si voglia confermare una conformità con i documenti elaborati in sede ONU, che però va verificata per capire se è solo di facciata oppure reale.
Art. 1 – sottolinea la specificità dell’identità araba. Anche se al par. 4 si riprende un principio generale sui diritti umani.
Art.2 – principio di autodeterminazione politica ed economica. Il par. 4 riconosce esplicitamente il diritto dei popoli alla resistenza.
Art. 3 – riconosce il divieto di discriminazione. In realtà questo principio non è esattamente confermato in altre disposizioni. Già nel par. 3 di questa disposizione “uomini e donne sono uguali quanto a dignità umana, in un quadro di discriminazioni positive in favore della donna dalla Shari’ah islamica”. Viene riconosciuta un’uguaglianza davanti alla legge, ma non nella legge.
Art. 29 – per quanto riguarda la condizione della donna “gli stati adottano le misure che riterranno adeguate per consentire al figlio di acquisire la cittadinanza della madre”.
Art. 33 – precisa il concetto di matrimonio, esclusivamente tra uomo e donna. Si dice che laddove vige la Shari’ah sarà essa a disciplinare la condizione della donna.
Art. 24 – è un elenco di diritti di natura politica, che sono attribuiti ad “ogni cittadino” non ad ogni uomo, ad ogni individuo. C’è una discriminazione tra il cittadino e il non cittadino.
Art. 34 – anche il diritto al lavoro viene riconosciuto ad “ogni cittadino” non ad ogni individuo.
Art. 36 – assicura il diritto alla sicurezza sociale ad “ogni cittadino”.
Non è quindi esattamente vero che il divieto di discriminazione è assicurato a tutti gli individui come viene detto nell’art. 2.
Art. 7 – la pena di morte non è completamente bandita, come anche inizialmente nella CEDU e nel Patto sui diritti civili e politici prima dell’introduzione dei protocolli. La pena di morte in questo caso può essere applicata laddove sia prevista dagli ordinamenti nazionali, anche qualora si tratti di minori.
Art. 17 – si dice che ogni stato parte assicura che ogni minore abbia diritto ad uno speciale sistema di diritto penale. Ciò chiaramente non trova riscontro con la disposizione contenuta all’art. 7. Anche all’art. 33 si fa riferimento a salvaguardie introdotte per la particolare situazione del minore.
Art. 8 – nessuno sarà soggetto a tortura fisica o psicologica o ad un trattamento crudele, degradante, umiliante o inumano.
Art. 30 – libertà di pensiero, di coscienza e di religione senza restrizioni, slavo quelle stabilite dalla legge.
Art. 4 – contiene un elenco di diritti inviolabili. Non derogabili in tempo di guerra e situazioni di emergenza (art.5-8-9-10-13-14.6-15-18-19-20-22-27-28-29-30).
È previsto un sistema di controllo consistente in un Comitato che ha il compito di ricevere i rapporti degli stati su quello che hanno fatto per attuare la Carta. Il Comitato ha il compito di fare anche un suo rapporto e di invitare gli stati eventualmente ad attuare misure più efficaci. Si tratta di un controllo politico a posteriori. Si fa leva sulla buona volontà degli stati di rispettare gli impegni che essi volontariamente hanno accettato.
Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’Islam (1990)
Questa carta è stato adottato nell’ambito della Organizzazione per la conferenza islamica fondata a Rabat nel 1969. Questa organizzazione comprende stati disposti in diversi ambiti geografici ed in numero più ampio rispetto alla Lega araba. La specificità di questa organizzazione non è una visione ideologica, ma l’adesione ad una religione. Di conseguenza avremo una visione confessionale dei diritti dell’uomo, in questo contesto il fondamento di tutti io diritti risiede in Allah e la Shiari’ah in quanto manifestazione della volontà di Dio è superiore a qualsiasi altra legge umana. La Conferenza islamica dei ministri degli esteri è l’organo di questa organizzazione che ha elaborato la Dichiarazione del Cairo, è una dichiarazione ed in quanto tale non è un trattato internazionale, bensì un atto non vincolante.
Art. 1 – titolare dei diritti enunciati in questo documento non è ogni individuo, ma il credente islamico.
Art. 10 – religione connaturata all’essere umano.
Art. 22 – l’opinione deve essere conforme alla Shairi’ah.
Art. 7 – esplicito riferimento alla protezione dei feti. I bambini vanno educati in conformità con i valori etici e i principi della Shari’ah.
Art. 24 – tutti i diritti enunciati sono soggetti alla Shari’ah.
Art. 11 – condanna del colonialismo.
16/05/2013
Le UN sono le cornice naturale nella quale gli stati di nuova indipendenza hanno cercato di far valere le proprie posizioni a fronte di quelle dei paesi già sviluppati. Già dagli anni ’60 in paesi in via di sviluppo si sono trovati in una situazione di maggioranza numerica in sede di Assemblea generale. Anni ’70: contrapposizione tra paesi in via di sviluppo (non erano comunque un monolite, esistevano sostanziali differenze), e i paesi industrializzati. Le attese dei paesi in via di sviluppo vanno rapidamente deluse almeno per quanto riguarda il binomio: indipendenza e sovranità = sviluppo economico. Il confronto tra i due gruppi si è quindi esacerbato. I paesi industrializzati cercano altre sedi dove incontrarsi, in questo periodo ci sono i primi incontri di quello che ora è il G 20. Negli anni ’80 si afferma il dogma della liberalizzazione dei mercati e si sostiene che anche la cooperazione allo sviluppo debba essere informata ad essa.
Nell’ambito delle UN questo modo di pensare viene ripreso in un documento del 19990 sulla cooperazione economica e sociale, par. 21 (risoluzione dell’Assemblea generale delle UN). In essa di fa un esplicito riferimento alla sostenibilità, al concetto di sviluppo sostenibile (elaborato nel rapporto Brunland del 1997). Si dice che lo sviluppo non deve essere solo economico, ma anche sociale tenendo conto della tutela dell’ambiente (tema delle generazioni future). Muta quindi il concetto di sviluppo, sono inoltre di questi anni le prima conferenza sulla tutela dell’ambiente,la prima nel 1972.
Tutto questo si incrocia con il fenomeno della globalizzazione che si muove nella direzione dell’integrazione delle diverse economie, si pensa che essa possa risolvere i problemi dello sviluppo, eliminando le profonde differenze esistenti tra il nord ed il sud del mondo. Naturalmente non andò così. Per questo all’inizio del nuovo millennio in ambito UN si fa una riflessione su quali siano gli obiettivi per appianare le distanze tra le diversi parti del mondo. Peraltro nell’ultimo decennio del ‘900 ci si rende conto che la parte della popolazione che è in condizione di estrema povertà anziché diminuire è in continuo aumento.
L’Assemblea generale nel 2000 adotta la Dichiarazione del Millennio, che corrisponde ad un manifesto della comunità internazionale aggiornato al nuovo millennio. In questa dichiarazione si fa riferimento ad una responsabilità collettiva degli stati in merito agli obblighi positivi (punto 1). Si constata inoltre che i risultati della globalizzazione non sono stati quelli attesi (punto 5). Al punto 6 si mettono in evidenza i valori che devono ispirare le relazioni internazionali:

  • Liberta. Libertà dalla fame, dalla violenza, dall’oppressione o dall’ingiustizia. Una governance democratica e partecipativa è in grado di meglio assicurare questi diritti.
  • Eguaglianza. Sia a livello individuale che statuale.
  • Solidarietà.  Affinché i costi dello sviluppo possano essere ripartiti sulla base dell’equità e della giustizia globale.
  • Tolleranza.
  • Rispetto della natura. La tutela dell’ambiente si inserisce in diversi obiettivi proprio perché è fondamentale per la stessa sopravvivenza degli uomini.
  • Responsabilità condivisa.

La Dichiarazione del Millennio non fissa solo un quadro di valore, ma fissa anche degli obiettivi concreti (minimi essenziale) che devono essere raggiunti entro il 2015 (punto 19):

  • Sradicare la povertà estrema e la fame.
  • Rendere universale l’istruzione primaria.
  • Promuovere la parità di genere e l’autonomia delle donne.
  • Ridurre la mortalità infantile.
  • Migliorare la salute moderna.
  • Combattere l’HIV/AIDS, la malaria ed altre malattie.
  • Garantire la sostenibilità ambientale.
  • Sviluppare una partnership mondiale per lo sviluppo.

Questo sono gli obiettivi giudicati come minimi ed essenziali per lo sviluppo. Per esempio il punto 3 si concentra maggiormente sulla discriminazione nell’istruzione, non nel lavoro o nella vita politica. È stato sostenuto in dottrina che benché modesti e non esaustivi questi obiettivi costituiscono la tappa più importante dopo l’adozione del Patto sui diritti economici, sociali e culturali. Essi costituiscono un passaggio da un’enunciazione di principio ad una policy vera e proprio.
Nel 2002 si è svolta in Messico una conferenza in ambito UN sul finanziamento dello sviluppo. Il Monterrey Consens  è il risultato di questa conferenza, si sottolinea sia la collaborazione internazionale che il contributo individuale, anche da parte degli stessi paesi in via di sviluppo. Nel 2010 un gruppo di esperti ha fatto un rapporto monitorando il raggiungimento di questi obiettivi. Risoluzione nel 2010 dell’Assemblea generale che mette in evidenza che si sia fatto molto, ma che i risultati sono spesso contraddittori ed ineguali. Per esempio la lotta con l’estrema povertà era stata importante, ma nel frattempo si era inserita in questo tentativo la crisi economica e finanziaria del 2008. L’obiettivo dell’istruzione sembra che possa essere raggiunto nel 2015, ma gli altri presentano appunto questi risultati contraddittori.
Sempre in questi ultimi anni sono state avviate una serie di strategie per consentire il raggiungimento di questi obiettivi. Non ci si è comunque limitati al 2015, ma si è avvertita la necessità di cominciare ad imbastire una strategia post 2015 che promuova uno sviluppo più coinvolgente che riguardi anche gli stati già industrializzati. I tre valori fondanti sono:

  • Diritti dell’uomo.
  • Sostenibilità.
  • Eguaglianza.

Quali siano gli obiettivi non è ancora chiaro, sono state aperte delle consultazioni mondiali ed elaborati progetti nell’ambito di molte organizzazioni che si occupano di sviluppo.
Secondo un rapporto di un ONG i nuovi obiettivi sarebbero 11:

  • Crescita e sviluppo inclusivo.
  • Cibo e acqua sufficienti per svolgere una vita attiva.
  • Istruzione adeguata per una piena partecipazione alla vita del paese.
  • Buona salute, sulla base delle indicazioni dell’OMS.
  • Eguaglianza di genere.
  • Sostenibilità ambientale.
  • Sicurezza.
  • Comunità tali da assorbire e ridurre il rischio ambientale.
  • Qualità delle infrastrutture, delle comunicazioni, dei trasporti e dellenergia.
  • Rispetto dei diritti civili e politici.
  • Global governance.

 

Fonte: http://www.sviluppoepace.it/system/files/documents/APPUNTI%20TUTELA%20INTERNAZIONALE%20DEI%20DIRITTI%20UMANI.docx

Sito web da visitare: http://www.sviluppoepace.it

Autore del testo: M.LOVISOLO

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