Archittetura greca e romana

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Archittetura greca e romana

Francesco Morante

 

ARTE D'OCCIDENTE

profilo storico generale

I. Dalla preistoria a Roma

I. Premessa

I.1 Realtà e rappresentazione
La produzione figurativa ha per scopo la rappresentazione«. Intendiamo con tale termine il rendere visibile e concreto attraverso un oggetto o un’immagine qualcosa che possa essere comunicabile o trasmesso ad altri. Nel campo delle arti figurative rientrano fondamentalmente la pittura e la scultura, ma nella loro accezione più ampia sono da intendere con il primo termine tutte le arti che producono immagini, e con il secondo tutte le arti che producono oggetti. La rappresentazione è quindi l’atto cosciente e volontario del dare forma. Che cosa sia una forma è argomento che può essere visto da numerosi punti di vista. In questo caso intendiamo essenzialmente l’insieme delle cose esistenti. Dare forma significa far entrare nel mondo qualcosa che da quel momento inizia ad esistere. Dare forma in questo caso diviene il risultato di un processo creativo.
Ma da cosa nascono le forme? Sicuramente da una necessità funzionale. La natura ha creato l’insieme delle cose che ci circondano con una logica di ottimizzazione delle funzioni che dovevano svolgere. Ne è derivato un insieme, in cui ci sono elementi esteticamente gradevoli, altri meno. L’uomo nelle sue manifestazioni artistiche è ovviamente partito dalle forme già esistenti. In sostanza la sua è divenuta rappresentazione della realtà che lo circondava.
Cosa sia la realtà, lo acquisiamo come dato empirico. La realtà è tutto ciò che ci circonda e che possiamo percepire con i nostri sensi. Nel caso che la produzione artistica abbia come obiettivo la rappresentazione della realtà, il rapporto che intercorre tra realtà e rappresentazione è il seguente:
REALTÀ
percezione
ARTISTA
interpretazione
RAPPRESENTAZIONE
Tra la realtà e la rappresentazione si pone l’artista, che per giungere all’opera d’arte ossia alla rappresentazione compie almeno due processi: uno di percezione e uno di interpretazione. Il primo possiamo considerarlo un atto oggettivo mentre il secondo è un atto soggettivo. Questo tipo di processo non è solo finalizzato alla rappresentazione ma anche alla conoscenza: solo attraverso i processi di percezione ed interpretazione (e quindi di rappresentazione verbale o di autorappresentazione mentale non necessariamente figurativa) si può giungere alla conoscenza della realtà.
Si comprende ovviamente come la rappresentazione non solo consente la conoscenza della realtà ma amplia la realtà stessa di nuove forme, siano esse oggetti o immagini. La realtà per noi oggi non è solo natura ma anche storia e cultura. Ossia la realtà è l’insieme di tutte le cose esistenti, siano esse create dalla natura, siano esse create dall’uomo.

I.2. Naturalismo e antinaturalismo
Nelle arti figurative possiamo distinguere due atteggiamenti fondamentali: il naturalismo e l’antinaturalismo.
Diciamo che un’arte figurativa è di tipo naturalistico, quando la rappresentazione tende ad essere uguale alla realtà o alla percezione di essa. È invece antinaturalistica quando la rappresentazione è dissimile dalla realtà o dalla sua percezione.
Naturalismo e antinaturalismo non sono due categorie assolute ma hanno infiniti gradi intermedi. Ad un estremo avremo manifestazioni naturalistiche di tipo mimetico o imitativo (ad esempio il ritratto); dall’altro manifestazioni come la pittura astratta, che sono antinaturalistiche in quanto rappresentano realtà che non sono altrimenti percepibili se non attraverso quella rappresentazione.
Il concetto di naturalismo e antinaturalismo non è da intendersi come meccanica corrispondenza tra un modello (la realtà) e una copia (la rappresentazione), bensì definisce un atteggiamento complessivo che potremmo definire come segue.
La produzione umana è sempre artificio. Essa tuttavia può simulare la natura, utilizzando le immagini che essa offre anche per rappresentare cose prodotte dalla propria immaginazione. Il naturalismo quindi si basa più sul concetto di simulazione, che non di imitazione della realtà. Quando manca non solo l’imitazione ma anche la categoria più generica di simulazione del reale, si ha in assoluto l’antinaturalismo.
Rivedendo la storia dell’arte sulla scorta di questi due parametri, si possono classificare tutti i periodi storici come naturalistici o antinaturalistici. L’arte nelle sue prime manifestazioni del periodo paleolitico nacque come naturalistica. Il pensiero umano, non possedendo ancora l'astrazione razionale che solo la lunga pratica di un linguaggio articolato consente, operava per categorie analogiche: l’immagine percepita differenziava e qualificava la sostanza delle cose. E così l’immagine era il referente unico per la rappresentazione del reale.
Quando nel Neolitico si abbandona la rappresentazione dell’immagine per ricercare la sinteticità del graffito, si opera forse la più grande rivoluzione culturale mai realizzata. Passando dal disegno al segno, l’arte ci testimonia che l’uomo preistorico non lavora più sulle immagini ma sui concetti. È iniziato quel processo di razionalizzazione logica che porta alla nascita del linguaggio semiotico, che con la sua rappresentazione verbale del mondo consente, prima ancora che la comunicazione, il pensiero. È con la formulazione del linguaggio articolato che l’uomo inventa il software per far funzionare il suo cervello. E la nascita del linguaggio si accompagna ad una sperimentazione per tradurre il linguaggio in scrittura. Fu una fase di elaborazione lenta, che si andò perfezionando per alcuni millenni anche se è implicito ritenere che linguaggio e scrittura abbiano seguito fin dall’inizio un percorso comune e parallelo.
E tra i graffiti neolitici e i geroglifici egizi non corre alcuna differenza concettuale. Infatti le prime scritture, nel loro essere ideogrammatiche e non fonetiche, ci danno la prova di come linguaggio e scrittura nascano con il passaggio dal disegno al segno operata tra la fine del paleolitico e l’inizio del Neolitico.
L’arte neolitica quindi è sicuramente antinaturalistica. Ma, seppure in misura minore, lo sono anche le arti delle prime grandi civiltà che troviamo nei periodi storici: quella egiziana e quella sumerica.
Il primo grande balzo per ritornare al naturalismo lo operò solo la cultura greca classica nel VI secolo a.C. Solo in questo momento l’arte recupera un legame forte con l’oggettività della realtà che rappresenta senza il filtro di schematizzazioni o semplificazioni interpretative più o meno logiche. E l’aderenza all’oggettività è il dato che caratterizza ed omogeneizza tutto il periodo, esteso non solo all’arte greca ma anche a quella ellenistica e romana.
Il Medioevo è invece profondamente antinaturalistico. Abbandonando la preoccupazione della resa formale per privilegiare l’aspetto contenutistico del messaggio artistico, fece divenire l’arte visiva un surrogato della comunicazione verbale. In ciò giocò un ruolo notevole l’egemonia della cultura religiosa cristiana sulle manifestazioni artistiche.
Il ritorno al naturalismo coincise con la fine del Medioevo. In scultura il naturalismo fu riconquistato già dalla cultura tardo-gotica. In pittura invece il ritorno al naturalismo fu tutto di marca italiana, e soprattutto fiorentina, prima con Giotto e poi con la scoperta della prospettiva e l’avvio della grande stagione dell’arte rinascimentale. E l’arte moderna è rimasta naturalistica fino alla metà dell’'800. Da Manet in poi, attraverso l’Impressionismo e le Avanguardie storiche l’arte ritorna ad essere profondamente antinaturalistica.
Non è un caso che questa trasformazione avvenga in coincidenza con l’avvento della fotografia e del cinema, che consentono una diversa rappresentazione della realtà, del tutto naturalistica perché ottenuta con mezzi meccanici.

II. La preistoria

II.1. L’arte paleolitica
I primi esempi di arte figurativa risalgono a circa 25.000 o 30.000 anni fa. Questa età viene definita paleolitica, in quanto l’uomo utilizza utensili in pietra. Le manifestazione artistiche di questo periodo sono pitture rupestri ritrovate in grotte spesso inaccessibili, ubicate nella Francia centrale e nella Spagna settentrionale. Il dato che appare evidente in queste prime rappresentazioni è l’aderenza al naturalismo: l’uomo preistorico concepisce le immagini come raffigurazione del mondo visibile. Realtà che, al di là dei suoi limiti tecnici, l’artista cerca di raffigurare così come egli la percepisce.
Molte ipotesi sono state fatte sulle motivazioni che hanno indotto gli uomini preistorici a produrre immagini nelle caverne. Dato che i soggetti di queste immagini sono quasi sempre animali, si è pensato ad una specie di ritualità religiosa. L’uomo del Paleolitico viveva soprattutto di caccia. Procurarsi il proprio sostentamento con un’attività violenta basata sullo scontro fisico doveva ingenerare molte ansie esistenziali. A queste si dava probabilmente una risposta in termini, che possiamo definire pre-magici. La magia è il credere che esistono legami misteriosi tra le cose che, se sfruttati, producono relazioni di cause ed effetti. Da sempre uno dei pilastri della magia è il credere che esista un legame invisibile tra l’immagine e la cosa rappresentata. In tal modo si può produrre un effetto (benefico o malefico) sulla cosa (per esempio, un animale) agendo sulla sua immagine. Così si giustificherebbe questa produzione di immagini di animali quale magia propiziatoria che compivano i cacciatori.
Tuttavia, ricorrendo allo schema illustrato in premessa, la rappresentazione del reale è sempre momento di conoscenza. Attraverso la costruzione di una immagine si chiarisce meglio, a livello di coscienza dell’artista, la realtà che si va a rappresentare. È probabile che questa sia la spiegazione, più semplice ma più plausibile del perché l’uomo del Paleolitico abbia iniziato a disegnare immagini nelle caverne. Ovvero che si tratti di un metodo di informazione circa le risorse esistenti in un luogo.

II.2. Il Neolitico
L’età paleolitica finisce circa 10.000 o 12.000 anni fa. In questo periodo si ha una modificazione notevole, passando da una economia di prelievo (caccia e raccolta di vegetali spontanei) ad una economia di produzione (agricoltura ed allevamento). Le conseguenze furono notevoli e portarono a una struttura embrionale delle società, che sono quelle attuali.
Possiamo ritenere che il cacciatore paleolitico non avesse un legame stabile con un luogo specifico ma vivesse di flussi migratori, spostandosi alla ricerca di nuove prede. L’agricoltore neolitico doveva necessariamente radicare la propria vita al sito da coltivare. Nacque così il concetto di proprietà terriera e si specializzò ulteriormente la differenziazione dei popoli, in quanto gli agricoltori che coltivavano appezzamenti contermini finirono per costituire una comunità con usi e costumi propri. In questo momento in pratica nacque il concetto di nazione come connubio di etnia e di territorio di appartenenza. Ed in questa fase con la necessità di insediamenti stabili nacquero l’architettura e le prime forme di insediamento urbano. L’attività costruttiva, insieme a quella agricola, fu l’inizio della trasformazione che da allora l’uomo è andato compiendo della superficie terrestre, trasformandola da ambiente naturale a proprio habitat. In sintesi possiamo ritenere che in questa fase nacque il concetto di territorio così come lo intendiamo ancora oggi.
Con le prime forme di villaggi stabili e di città nacque la specializzazione del lavoro e di conseguenza la società cominciò a differenziarsi in classi sociali. In questa fase possiamo ritenere che si configurò anche la religione. I riferimenti dei cacciatori paleolitici non potevano che essere figure maschili, perché dovevano indurre la forza necessaria per lo scontro con le prede. Le divinità arcaiche degli agricoltori neolitici erano femminili, perché l’agricoltura si fonda non sulla forza (che è un principio genetico maschile) ma sulla fertilità (che è invece un principio genetico femminile). Il cacciatore si procurava il cibo attraverso la morte, l’agricoltore attraverso la nascita.
Un ritorno alle divinità maschili si ebbe quando la forza divenne nuovamente un elemento propulsivo. Quando cioè le comunità divennero predatrici di altre comunità. La conquista della ricchezza avveniva non più a scapito della natura e degli animali ma degli altri uomini che avevano già accumulato altre ricchezze. Questo è un passaggio che si comincia a verificare già nell’età neolitica ma che diverrà intenso solo quando si passerà dalla preistoria alla storia: a quella fase, che va dal 4000 a.C. in poi, che vide sorgere i primi grandi imperi lungo il Nilo e l’Eufrate.

II.3. L’invenzione del linguaggio
Il passaggio dal Paleolitico al Neolitico è una fase fondamentale della nostra storia. In questo momento infatti l’uomo riesce ad inventare un linguaggio più articolato. Riesce ad elaborare un meccanismo che serve a pensare ancor prima che a comunicare. È solo grazie al linguaggio che l’uomo può articolare dei pensieri e non solo elaborare delle sensazioni, in quanto il linguaggio è lo strumento di pensiero per eccellenza. Ma, affinché si abbia un linguaggio, deve avviarsi un grande processo che è quello della significazione. Bisogna cioè rendere universalmente validi i segni linguistici e le regole per usarli.
In base alla moderna linguistica si definisce segno l’unione inscindibile di significato e significante. Una parola (sedia, tavolo, bottiglia, bicchiere) è un segno. Essa rappresenta una realtà, così come le immagini, ma in maniera diversa. Le immagini colgono l’aspetto visibile del reale, le parole solo il concetto. Per cui con l’immagine si ottiene una rappresentazione di una realtà particolare, con le parole si ottiene una rappresentazione più generica ed universale (la parola sedia indica tutti gli oggetti, indipendentemente da forma e fattura, che permettono di sedersi, la parola bottiglia tutti gli oggetti, di dimensione non eccessiva, che consentono di contenere un liquido, e così via).
I segni linguistici, proprio perché non rimandano visivamente all’immagine delle cose, per funzionare devono essere univoci: ad una categoria di oggetti deve corrispondere un solo segno e quel segno deve indicare solo quella categoria di oggetti e non altre. In questo modo nasce un segno: quando la parola (il significante) indica senza possibilità di errore l’oggetto o il concetto che rappresenta (il significato).
Questa fase di elaborazione del linguaggio nel grande processo della significazione viene testimoniata proprio dalle rappresentazioni artistiche del Neolitico. Nel passaggio dal Paleolitico al Neolitico si va da una visione fondamentalmente naturalistica ad una concezione antinaturalistica. Le raffigurazioni tendono ad essere sempre più semplificate e stilizzate. Si passa in sostanza dal disegno al segno.
Le raffigurazioni non colgono più l’individuo ma diventano il simbolo di una classe di individui. Operando per categorie concettuali, si passa da un pensiero fondato sull’analogia (l’immagine) a uno fondato sulla logica (la parola).
Rispetto alle pitture vengono preferite le incisioni proprio per la maggiore immediatezza di esecuzione e comunicazione. In questa fase, in pratica, la rappresentazione serve a sperimentare la conquista successiva dopo quella del linguaggio: la scrittura.

III. Le prime grandi civiltà

III.1. La nascita della storia
Il passaggio dal Neolitico all’età successiva viene segnato dalla scoperta dei metalli e dalla sostituzione degli utensili in pietra con quelli forgiati prima in bronzo e poi in ferro. Ma la transizione è segnata da due altri fenomeni: la nascita della scrittura e la nascita dei primi grandi imperi.
La prima scoperta permette, come viene abitualmente ammesso, di uscire dalla preistoria per entrare nella storia. Non solo la scrittura permette di differire la comunicazione umana nel tempo e nello spazio, ma diviene strumento fondamentale per l’accumulo del sapere. Per costituire quella grande memoria collettiva che sono i libri e le notizie scritte, strumenti fondamentali per la trasmissione del sapere.
Nello stesso periodo vediamo formarsi delle civiltà fortemente caratterizzate: l’impero egiziano lungo le sponde del fiume Nilo e l’impero sumero nella valle tra il Tigri e l’Eufrate. Ad essi nel corso dei secoli successivi si affiancheranno altre civiltà sorte nel bacino del Mediterraneo e nell’Asia Minore: i fenici, i cretesi, gli ittiti ed altri.
In pratica dopo le nazioni in questo periodo nascono gli stati. Ossia degli insiemi organizzati politicamente e giuridicamente per poter regolare le attribuzioni di poteri, l’emanazione delle leggi, l’amministrazione della giustizia e delle funzioni di governo.
In questa fase, con la nascita della scrittura le parole, originate dalle immagini, prendono sempre più autonomia. Da questo momento immagini e parole seguiranno sempre due percorsi paralleli, costituendo i due grandi poli del pensiero umano. Come detto in precedenza, avremo da un lato il pensiero analogico (che si affida alle immagini), dall’altro il pensiero logico (che si affida alle parole, ai numeri, alle formulazioni dialettiche e matematiche).

III.2. L’antico Egitto
La civiltà dell’antico Egitto pone un altro problema interessante sull’uso e sul significato delle arti visive: il rapporto con il potere. Lo stato egiziano era impostato su una monarchia fortemente autoritaria. Anche la religione era detenuta da caste sacerdotali aristocratiche e dogmatiche. La produzione artistica in questa società era espressione di un potere forte. E come tale non ebbe, e non poteva avere, caratteri di creatività individuale, ma doveva attenersi alle formule stereotipe della tradizione, necessarie a perpetuare l’immagine di potenza del faraone e del suo impero.
Anche questa è una costante che si ritroverà nelle culture successive: ogni qualvolta l’arte viene prodotta in un regime di tipo dittatoriale, non ha mai caratteri creativi. Anzi, la creatività diviene elemento considerato negativo, da eliminare perché non funzionale al controllo delle coscienze e delle libertà individuale che il potere dittatoriale persegue.
L’arte egiziana rimane, per quanto detto, un fenomeno abbastanza singolare. Per tremila anni, dal suo sorgere al suo tramontare, ebbe caratteristiche sempre uguali. La figura umana venne disegnata sempre alla stessa maniera. Maniera decisamente caratteristica, basata su una contemporanea visione di profilo (per gambe, braccia e viso) e frontale (per il busto e l’occhio). Questo modello, che denuncia palesemente il suo antinaturalismo, nella sua immutabilità finisce per funzionare al pari di un segno: cioè è un significante, che con la sua forma immodificabile esprime sempre il medesimo significato.
In sintesi, considerando che la scrittura geroglifica egiziana al pari di tutte le scritture ideogrammatiche conserva ancora un legame con la significazione visiva (e non fonetica, come nelle nostre lingue), si può dire che nella cultura egiziana la differenza tra scrittura ed immagini non fosse molto evidente. Segni e disegni hanno la medesima radice e il medesimo fine: la comunicazione.

III.3. Arte aulica e arte popolare
Nell’antico Egitto probabilmente non tutta la produzione artistica era diretta alla rappresentazione del potere. L’attività degli artisti era rivolta anche ad un mercato più ampio, quello dei dignitari e dei notabili, ed alla esportazione. Qui, pur nelle poche testimonianze ritrovate, è possibile notare una espressione più immediata e popolare. In pratica, già nell’antico Egitto l’arte veniva considerata diversamente se aveva un fine aulico o un fine popolare. Nel primo caso le esigenze dell’ufficialità venivano espresse nella grandezza monumentale, nella fissità della tradizione, nelle simmetrie rigide. Nel secondo l’arte acquistava maggiore libertà ed un intento narrativo superiore. Gli oggetti e le rappresentazioni hanno un carattere più intimo e raccontano i fatti eroici o grotteschi della vita.
Nei confronti della narrazione l’arte aulica ha un atteggiamento duplice. Può accettare ed utilizzare la narrazione se crede nella storia (ed è quanto avviene nell’arte romana e in quella occidentale in genere); non utilizza la narrazione se il potere non si legittima sulla storia: cioè sulla grandezza dei fatti del passato. Ed è quanto avviene in genere nelle mentalità politiche orientali. In questo caso la storia viene vista anzi come qualcosa di negativo. La storia sono le modificazioni nel tempo. Un potere come quello egiziano si fondava invece sul concetto di immodificabilità nel tempo. La storia è un pensiero dinamico: si basa sull’evoluzione e sul cambiamento. Chi detiene il potere, per le esigenze della sua conservazione tende a negare la storia come evoluzione e cambiamento. E così anche l’arte doveva affermare il principio che il tempo era immutabile. Il futuro non era suscettibile di potenzialità diverse perché l’arte del passato e del presente rappresentavano l’immagine di un potere senza modificazioni. Sempre uguale a se stesso.

III.4. L’arte minoica
Coeva allo sviluppo dell’arte egiziana, l’arte cretese (detta anche minoica dal nome del mitico personaggio Minosse) veniva affermando una diversa visione dell’arte. A Creta si sviluppò una civiltà dai caratteri più liberi e fantasiosi, meno condizionata da poteri forti e, forse data la sua condizione insulare, meno angosciata da guerre e da saccheggi e quindi meno oppressa dalla militarizzazione della propria società. La vita si svolgeva in grandi palazzi, che al proprio interno avevano la dimensione e la differenziazione di un intero villaggio. Qui l’arte aveva innanzitutto il compito dell’architettura: plasmare l’habitat di vita. E lo faceva senza forzature eccessive. La composizione dell’edificio avveniva adattandosi al luogo con varietà planimetrica ed altimetrica sconosciuta ad esempio nell’architettura egizia o sumera.
In questi palazzi l’arte figurativa giocava un ruolo fino ad allora inedito: quello della decorazione. Le immagini cioè non venivano utilizzate per rappresentare concetti da comunicare come nell’arte egiziana ma per abbellire i luoghi di vita. E quindi il carattere richiesto ad un’arte così intesa è ovviamente la bellezza. Il fine è quello del godimento estetico. Fu proprio in questo momento che nacque l'idea che arte è sinonimo di bello. Concetto poi trasmesso all’arte greca e di qui giunto fino a noi, anche se più come preconcetto visto che oggi non coincide con il nostro giudizio sull’arte se non a livello popolare.
L’arte cretese rispetto a quella egiziana appare più libera e spontanea. Ha caratteri di freschezza rappresentativa, che riescono a cogliere la realtà con immediatezza e sintesi felice. È un arte quindi di tipo naturalistico anche se non esente da qualche tecnica antinaturalistica. Le figure si affidano soprattutto al disegno della linea di contorno; i colori sono stesi senza effetti chiaroscurali ma con campiture uniformi e vivaci, che finivano per esaltare il valore decorativo di queste immagini rispetto a quello mimetico.
L’arte, sia come architettura che come pittura, nella cultura cretese appare come un’unica attività tesa al bello. Nel suo caso arte e artificio tendono a coincidere, in quanto tutta la produzione umana viene a soddisfare la identica domanda di qualità.

III.5. L’arte micenea
La cultura cretese sopravvisse, con alterne vicende, dal 2500 a.C. fino al 1100 a.C. Nella sua ultima fase si estese anche alla penisola peloponnesiaca, influenzando la cultura di origine achea, detta micenea dal nome della città dove sono state scoperte le maggiori testimonianze.
La civiltà micenea rispetto a quella minoica è più influenzata dagli eroi, quei principi achei che hanno combattuto la guerra contro Troia. E il carattere di questa cultura dalle connotazioni di maggiore valore assegnato alla virilità si ritrova, ad esempio, nell’architettura, impostata a caratteri di imponenza e solidità difensiva. Ma l’esaltazione dell’eroe guerriero trovò la sua forma di rappresentazione preferita nei canti poetici, in quella lenta elaborazione delle forme di scrittura e recitazione da parte di aedi e rapsodi, che portò alcuni secoli dopo ai poemi omerici. Inizia in questa fase l’uso della parola in forma artistica. L’espressione verbale rispetto ad altre rimane più legata ad una percezione immediata del contenuto. L’elaborazione dei carmi eroici portò invece a perfezionare le tecniche di scrittura, in particolare la metrica, dando alla poesia il suo valore di forma estetica.
In questo momento nelle società occidentali le parole, anche nell’arte e non solo nella comunicazione, acquisirono maggiore importanza rispetto alle immagini. La successiva cultura greca, erede delle civiltà minoico-micenea, sviluppando la filosofia ha accentuato ulteriormente la distanza tra immagini e parole, tramandandola a tutto l'Occidente.

IV. L’arte greca

IV.1. La periodizzazione dell’arte greca
La civiltà greca ha dato una accelerazione notevole a molti ambiti del pensiero e della cultura. Dalla filosofia al teatro, dalla poesia alla matematica, non c’è stato ambito della conoscenza che non sia stato esplorato dagli antichi greci. Da un contesto così vivace e produttivo non rimane esclusa nessuna attività artistica. La scultura venne portata a livelli insuperabili; la pittura raggiunse obiettivi mai neppure tentati; l’architettura perfezionò talmente le sue forme da rimanere eredità valida per molti secoli a venire. Nella grande parabola dell’arte greca si possono distinguere diversi periodi che segnano l’evolversi delle conquiste tecniche ed artistiche di questa civiltà. In sintesi possiamo suddividere l’arte greca in tre periodi fondamentali:
1. periodo di formazione
2. periodo di maturazione
3. periodo di diffusione.
1. Il periodo di formazione va dal 1100 al 650 circa a.C. In questa fase si assiste a una produzione artistica ancora legata a schemi rudimentali, dove predomina una stilizzazione geometrica di fondo memore ancora della produzione che in queste zone avvenne in età neolitica e del bronzo e che va sotto il nome di arte cicladica. Una ulteriore partizione di questo periodo può essere sinteticamente fatta tra due periodi principali:
il periodo geometrico (XI-VIII sec. a.C.), in cui predomina uno stile astratto e decorativo ottenuto con motivi geometrici. Anche la figura, sia umana che animale, viene resa con una geometrizzazione costruttiva, che tende a rendere le varie parti di un corpo come figure elementari, quali il triangolo, il trapezio, il cono, il cilindro, la sfera, eccetera.
il periodo orientale (VII sec. a.C.): in questo periodo si iniziò a produrre la grande statuaria e l’architettura monumentale dei templi sotto l’influenza delle grandi culture orientali.
2. Il periodo della maturazione (dal 650 al 330 circa a.C.) vede l’arte greca raggiungere le alte vette di una espressione artistica piena e matura che resterà insuperata in tutto il mondo antico. In base all’evoluzione stilistica questo periodo di eccezionale fioritura può essere suddiviso nei seguenti periodi:
il periodo arcaico (650-480 a.C.) è il periodo in cui iniziò a mostrarsi l’autonomia del gusto greco nel momento in cui le influenze orientaleggianti erano pienamente superate.
il periodo severo (480-450 a.C.): fase di transizione dal periodo arcaico a quello classico, in cui emergono le figure di scultori quali Mirone e Policleto e ha inizio la grande statuaria in bronzo.
il periodo classico (450-400 a.C.) coincide con l’età di Pericle e con la realizzazione sull’acropoli di Atene delle grandi opere di Fidia, Ictino e Callicrate. È il momento di maggiore equilibrio estetico dell’arte greca ed è quello che è stato sempre considerato di maggior perfezione.
il periodo del secondo classicismo (400-323 a.C.) è il periodo che va dalla guerra del Peloponneso alla morte di Alessandro e rappresenta una fase di maggior interesse problematico, in cui si assiste alla progressiva ricerca di un espressionismo maggiore meno legato alla pura forma estetica.
3. il periodo della diffusione (323 - 31 a.C.) è la fase in cui l’arte greca non è più lo stile nazionale di alcune città greche e delle loro colonie ma diviene uno stile internazionale diffuso in tutta l’area del Mediterraneo ed oltre.
A questo periodo si dà di solito il nome di arte ellenistica. Esso va convenzionalmente dalla morte di Alessandro alla battaglia di Azio, quando i romani divennero i padroni assoluti di tutte le principali aree in produzione ellenistica.
Da questo momento l’Ellenismo di fatto non scompare ma viene assorbito dell’arte romana, che divenne l’erede del mondo artistico dei greci.

IV.2. Il Classico
L’arte greca si lega indissolubilmente con il concetto di classico. Al termine classico, più che l’individuazione cronologica di un periodo storico preciso va richiesto il contenuto estetico di una particolare visione dell’arte. Il Classico si lega al concetto di perfezione assoluta. È classica un’arte non suscettibile di valutazioni contingenti o relative, quali fenomeni di gusto individuale e soggettivo, ma ispirata a valori universali ed eterni che daranno sempre un sereno godimento estetico.
Come giunse l’arte greca ad un risultato simile? L’arte greca, benché avesse l’eredità della cultura minoica-micenea come base di partenza, in realtà iniziò il suo percorso autonomo agli inizi del 1000-1100 a.C. quando il Peloponneso fu invaso dai dori. L’arrivo di queste nuove popolazioni comportò lo spostamento degli achei e degli ioni verso Est, le isole cicladiche e la costa turca. I dori, popolo di origine rurale esente da raffinatezze estetizzanti, portò inizialmente ad un apparente decadimento della produzione artistica rispetto all’ultima produzione sub-micenea. In realtà in questa fase si affermò una nuova visione del manufatto artistico, in cui prevaleva la volontà di affidarsi alla matematica e alla geometria. Lo spirito matematico, quando si esaurì la fase detta periodo geometrico, rimase una costante della visione artistica greca.
In questo atteggiamento c'erano le premesse per lo sviluppo del razionalismo greco. In questa fase la produzione artistica, ridotta a sperimentazioni geometriche, finì per produrre oggetti e rappresentazioni del tutto antinaturalistiche, in cui prevaleva la schematizzazione geometrica di tipo quasi astratto. L’inversione di tendenza avvenne nel cosiddetto periodo orientale, quando l’arte greca venne a spostarsi sul piano delle arti orientali, in cui prevaleva la rappresentazione volumetrica e la produzione della grande statuaria. L’arte greca iniziò a convertirsi al naturalismo ma senza perdere il suo essenziale spirito matematico. E così ottenne risultati superiori a qualsiasi altro stile antico.
Uno dei concetti del naturalismo greco è la proporzione. La proporzione è anche una formulazione matematica: essa stabilisce l’uguaglianza di due rapporti.
a : b = c : d
Gli artisti greci non si limitano ad osservare il corpo umano. Lo misurano per individuare i rapporti numerici che esistono tra una parte e l’altra e tra le singole parti e il tutto. Arrivarono così a definire che in un corpo perfetto ed armonico la testa, ad esempio, deve essere l’ottava parte dell’altezza. Cioè:
testa : altezza = 1 : 8
Dopo di che la statua, indipendentemente dalla sua dimensione, risulterà proporzionata se rispetta il medesimo rapporto. Ossia:
rapporti della rappresentazione = rapporti della realtà
L’arte greca classica non potrebbe essere più naturalistica. Ha una tale fiducia nel suo spirito di razionalizzazione che annulla anche il problema della percezione: cerca di rappresentare la realtà depurata da qualsiasi forma di soggettivismo sia percettivo sia interpretativo. Giunge così nella statuaria a risultati che sul piano della fedeltà anatomica non hanno eguali.
Il concetto di proporzione fu alla base dell’istituzione del canone di Policleto ma anche degli ordini architettonici. Canone ed ordini divennero quindi strumenti normativi che fissavano le leggi e gli ambiti in cui poteva muoversi la creatività artistica. Essi contribuirono molto a definire l’omogeneità stilistica dell’arte greca, pur restando uno strumento matematico astratto.
Ma il concetto di classico non si limita ad una razionalizzazione dei metodi e delle procedure artistiche, che avrebbero portato solo a conquiste tecniche per una migliore rappresentazione mimetica. Il Classico va oltre.
La realtà umana ha infinite forme: gli individui. Alcuni possono essere belli, altri meno. Copiando l’individuo, si avrebbe la rappresentazione di un uomo. L’artista greco invece vuole rappresentare l’uomo, ossia il limite perfetto a cui può giungere la forma umana. E a ciò giunge per approssimazioni successive: sceglie le parti migliori, che riesce ad individuare nei singoli individui, e le assembla.
Perché i greci volevano rappresentare l’uomo? Sicuramente perché intesero sempre la conoscenza come conoscenza universale. Un simile atteggiamento li portò alla formulazione del mito come racconto archetipo, in cui non importa la verità ma la verosimiglianza, dove ciò che conta non è il ricordo di un fatto particolare ma l’espressione di un significato universale. La rappresentazione dell’uomo ideale non è altro che una ricerca del mito.
Ma oltre che forma il corpo umano è anche movimento. Può modificare il proprio aspetto in base alla posa, all’espressione del viso, ai gesti che compie. Ed anche qui, il Classico è tale perché ricerca il momento di maggior armonia formale. Quell’istante che prende il nome di momento pregnante, di grande concentrazione interiore o di assenza di emozioni, che rendono eterno un singolo istante.
Proporzione ed armonia: queste sono le due ricette principali dell’arte classica. E da allora nel successivo sviluppo dell’arte occidentale sono divenute le caratteristiche di qualsiasi Classico. Inutile dire che, per la grande fortuna di cui ha goduto, il Classico è divenuto sinonimo di perfezione. È divenuto l’espressione di principi e valori senza tempo; di una bellezza esente da mode passeggere.

IV.3. Finalità dell’arte, artisti, democrazia
Se l’arte egizia ci appare statica ed immutabile nella sua stereotipa ripetizione, l’arte greca ci appare, per contro, dinamica ed evolutiva. La concezione, con cui si guarda al fenomeno dell’arte greca, è quella tipica della parabola: una fase crescente, un fase apicale e una fase discendente. L’arte egizia potrebbe essere paragonata invece a una retta orizzontale. I motivi di questa differenza furono essenzialmente due. Il primo fu di ordine politico: l’arte egizia risentiva della subordinazione a un potere politico forte e come tale finì per adeguarsi alla visione generale di sudditanza e mancanza di libertà; per contro, l’arte greca ricevette impulso dal clima di democrazia in cui fiorì. La Grecia, pur essendo una nazione, non divenne mai uno stato e si organizzò secondo una visione municipalistica (la polis), che garantiva una partecipazione più diretta alla vita politica delle classi aristocratiche e borghesi. L’idea che l’arte sia ricerca del nuovo e quindi evoluzione qualitativa secondo una dinamica di sperimentazione, è conseguenza diretta della libertà espressiva dell’artista. Se all’artista viene riconosciuta la libertà, può variare la propria visione dell’arte e di coneguenza raggiungere obiettivi diversi e migliori rispetto agli artisti delle generazioni precedenti. Se il clima politico non è basato sul principio delle libertà individuali, appare evidente che anche l’artista non gode di quel fervore di ricerca e perfezione individuale, che da sempre rappresenta una motivazione fondamentale per i progressi dell’arte. Pur senza considerarla una equazione meccanica, è evidente che le libertà politiche creano un terreno fertile anche per l’arte, mentre la coercizione dittatoriale, imprigionando la fantasia e la libertà creativa individuale, limita le modificazioni dell’espressione artistica e l’evoluzione dello stile.
Il secondo motivo, che differenziò l’arte greca da quella egizia, fu di ordine culturale: gli egizi usavano l’arte figurativa, al pari della scrittura, per la comunicazione e la propaganda politica; i greci invece facevano arte per due diversi motivi: la bellezza e la conoscenza.
La bellezza per i greci non era decorazione bensì il piacere per le cose giuste e perfette. La bellezza aveva sempre un fondamento matematico. Rappresentava in sostanza l’ordine dell’universo. E l’attività artistica, se intesa come rappresentazione del reale, è sempre un metodo per attingere la conoscenza.
Se la democrazia fu la premessa per lo sviluppo dell’arte greca, l’ansia di conoscenza ne fu invece la spinta principale. Non a caso nell’antica Grecia oltre alla democrazia nacque anche la filosofia. La filosofia, come attività conoscitiva basata sulla speculazione, fu il definitivo trionfo del linguaggio, inteso come strumento fondamentale del pensiero, e quindi della conoscenza. I greci, pur portando l’arte figurativa a livelli qualitativi mai raggiunti prima, di fatto la posero su un livello di importanza inferiore, decretandone la definitiva subordinazione alla parola.
Questa apparente contraddizione emerge in tutta la sua evidenza se si passa a considerare l’atteggiamento che i greci ebbero nei confronti degli artisti. Questi non furono mai considerati dei veri intellettuali. Anzi, anche con una punta di disprezzo, furono sempre considerati né più né meno che degli artigiani. Ovvero dei tecnici, tanto che in greco l’arte figurativa veniva denominata con la parola techne.
Un’altra contraddizione, in fondo anche questa solo apparente, fu l’utilizzo successivo dell’arte greca. Fino ai nostri giorni l’arte classica è sempre stata quella a cui hanno ricorso i regimi forti, dagli antichi romani alle dittature del XX secolo. Il Classico come arte di regime sembra una contraddizione con uno stile che nacque proprio dalla democrazia. In realtà, proprio per gli alti risultati raggiunti nelle concezioni successive l’arte greca è rimasta come un risultato non più perfezionabile ma solo da imitare ed applicare. In tal modo, imponendo una visione artistica basata sul metodo applicativo e non sulla fantasia, il regime forte che ricorreva al Classico, aveva buon gioco sulla pericolosa ed incontrollabile anarchia che l’arte, lasciata libera, poteva fomentare.

IV.4. L’Ellenismo
Viene universalmente riconosciuto che la fase di maturazione dell’arte greca giunse durante il V sec. a.C. nell’Atene di Pericle. È il periodo in cui operarono grandi scultori come Policleto, Mirone e Fidia. È il periodo in cui furono eretti i principali templi dell’acropoli di Atene. Su tutti il Partenone, che rappresenta il maggior tempio greco mai costruito. A questa fase ne seguì una successiva, coincidente con il IV sec. a.C., in cui l’arte greca si avviò a percorrere nuove vie. Con scultori come Skopas o Prassitele si iniziò a sperimentare anche la rappresentazione del contenuto interiore e psicologico e non solo della forma esteriore del corpo umano. Si iniziò ad utilizzare la rappresentazione per comunicare emozioni. L’intensità drammatica di azioni eroiche o la rappresentazione di sensazioni, quali la malinconia o l’estasi, divennero parametri nuovi dell’arte greca, non più basata solo sul sereno godimento estetico della forma pura e perfetta. Ciò si intensificò soprattutto nel periodo ellenistico. Con il termine Ellenismo si intende il periodo che va dalla morte di Alessadro Magno (323 a.C.) alla conquista romana dell’Egitto sancita dalla battaglia di Azio del 41 a.C. È questo il periodo che vide l’arte greca diffondersi per un’area molto vasta del bacino mediterraneo e dell’Asia mediorientale. Ad una fase in cui l’arte greca era stata l’espressione nazionalistica di alcune polis greche, successe una fase in cui quest’arte divenne cosmopolita ed universale. Essa ebbe come centri di produzione non solo Atene ma anche Pergamo, Rodi, Antiochia e soprattutto Alessandria d’Egitto, la città fondata da Alessandro Magno alle foci del Nilo.
In questo periodo Alessandria divenne la vera capitale culturale dell’antichità, il centro in cui converse tutta la sapienza antica e il cui maggior monumento divenne la Biblioteca. In essa erano raccolti la maggior parte dei testi prodotti dal mondo classico. I numerosi incendi che subì fino alla totale distruzione nel VII secolo ad opera degli arabi, ci hanno privato di una grande fonte di conoscenza sulla storia e sulla cultura antica.
L’arte ellenistica presenta caratteri che la differenziano da quella propriamente classica. Vengono sempre meno rispettati canoni quali la proporzione, la misura, l’equilibrio compositivo, per dar luogo a prodotti che miravano al meraviglioso, allo scenografico, e che utilizzavano quale criterio ideativo la complessità e il virtuosismo tecnico. E nell’arte ellenistica, specie nella rappresentazione umana, si assiste ad un maggior verismo e ad una maggior analisi anche introspettiva e psicologica, di contro all’arte classica che tendeva ad idealizzare le proprie rappresentazioni artistiche limitandosi però alla sola forma esteriore dell’uomo.
L’arte ellenistica fu un fenomeno di ampia e profonda portata. Essa non solo fu più estesa territorialmente, ma si aprì ad un pubblico molto più vasto, anche privato, non limitandosi alle funzioni civiche e religiose. La sua opera di divulgazione della civilità artistica greca fu fondamentale sia per la successiva arte romana, sia per i riflessi che produsse sulla cultura bizantina e sulla coscienza artistica europea fino a tempi recenti.

V. L’arte romana

V.1. L’arte protoitalica e etrusca
Dall’età della pietra all’età del ferro la penisola italiana aveva conosciuto uno scacchiere di culture diversificate, che però non raggiunsero mai i caratteri elevati delle civiltà che negli stessi secoli si stavano sviluppando in Grecia ed in Oriente. Queste culture (che con termine generico in età protostorica vengono definite appenniniche, per essere poi distinte nell’età del ferro in villanoviane, osco-sabelliche, laziali, umbre, campane, sannitiche, picene e apule) conservano nell’arte un carattere comune: una tendenza alla semplificazione geometrica che portava i manufatti artistici a risultati di espressione intensa e vigorosa anche se di esecuzione sommaria.
Sono prodotti di culture a scarsa urbanizzazione, prive di traffici commerciali notevoli che le pongano in contatto con civiltà più evolute. L’unica civiltà che sviluppò maggiormente la vocazione al commercio e ai traffici fu quella etrusca. Questo popolo, sulle cui origini molto si è discusso, sviluppò una propria identità culturale nei territori dell’Italia centrale compresi tra i fiumi Arno e Tevere. Ebbe uno sviluppo temporale compreso tra il 700 e il 100 a.C., coincidente con il periodo monarchico e repubblicano di Roma. E nei primi secoli della storia romana l’arte prodotta a Roma rimase sostanzialmente etrusca, esaurendosi solo quando Roma fu conquistata dall’arte greca ed ellenistica a partire dal II secolo a.C.
Le conoscenze ancora lacunose sulla cultura etrusca hanno condizionato anche la nostra comprensione del fenomeno artistico. Nell’arte etrusca infatti convivono molteplici tendenze, non sempre sintetizzabili organicamente. Sono evidenti influenze orientali e puniche ma soprattutto greche, frutto degli scambi commerciali con le città meridionali della Magna Grecia. Ne derivò un’arte con contenuti estetici alti, meno naturalistica di quella greca ma con una maggiore tendenza al realismo.

V.2. L’arte classica secondo Roma
La definizione di arte romana è stata molto controversa e ha subito notevoli revisioni critiche. La cultura europea ha scoperto l’arte greca solo dopo il XVIII secolo. E da quel momento, chiarito meglio il contributo greco alla costruzione dell’arte classica, si è svalutata l’arte romana, apparsa solo come una copia, o al meglio un epigono, dell’arte greca. Oggi più attente valutazioni dei fenomeni artistici del passato hanno portato a rivalutare il contributo artistico romano, ricollocandolo nella sua giusta prospettiva. Di fatto un’arte romana intesa come stile autonomo ed originale non è mai esistita. È esistita un’arte prodotta a Roma: questa arte è stata etrusca fino al I secolo a.C.; è divenuta ellenistica dopo questa data. Roma non ha elaborato un suo stile ma ha sfruttato gli stili delle culture etrusche ed ellenistiche, dando loro uno scopo e un significato inediti.
Parlare solo di scopi utilitaristici è riduttivo. La cultura romana si differenzia da quella greca per una costante di fondo: crede alla storia e non al mito. Storia e mito hanno in comune la forma di rappresentazione: il racconto. La differenza non sta nel fatto che la storia è racconto di fatti veri mentre il mito è racconto di cose false. La differenza è che il mito racconta cose universali, la storia racconta cose particolari. Il racconto ha sempre la funzione di insegnare e pertanto sia la storia che il mito insegnano. Ma, mentre la storia insegna ciò che è avvenuto nel passato dandoci le coordinate del presente, il mito insegna i grandi fatti esistenziali e metafisici dando le coordinate dell’esistenza e dell’immutabilità nella condizione umana.
Storia e mito servono in sostanza a due cose diverse. La categoria del mito è più funzionale a chi, come i greci, vuole conoscere, capire e spiegare. La categoria della storia è più funzionale a chi, come i romani, vuole legittimare e conservare il frutto del proprio passato, ossia l’impero costruito. La storia come categoria di pensiero è legata al tempo molto più del mito. La storia ha fiducia nella categoria del progresso inteso come evoluzione e coltiva la religione della memoria. Ed è da queste premesse che l’arte romana differisce dalla greca. Nell’arte romana non c'è la rappresentazione statuaria di atleti simbolo della bellezza ideale (mito dell’uomo perfetto), ma troviamo il ritratto, ossia la memoria del singolo, reale protagonista della storia. Non l’uomo universale ma l’uomo particolare. E ovviamente la narrazione di fatti storici diviene per la prima volta autonoma categoria di rappresentazione. I cicli narrativi, concepiti per le colonne istoriate o sugli archi trionfali erano sconosciuti all’arte greca. Così come lo erano cippi e iscrizioni funerarie.
Il passaggio dal mito alla storia, dall’universale al particolare, dal bello ideale al ritratto, dal momento pregnante alla narrazione, fanno giustamente considerare l’arte romana più realista dell’arte greca. Ma anche il fine dell’arte cambiò nella sostanza. Non più una rappresentazione tesa al bello e alla conoscenza, ma agli scopi utilitaristici che la rappresentazione del passato ha sempre: conservare la memoria utilizzandola per la propaganda di valori politici. Quindi l’arte romana, potenzialmente volta ad un pubblico meno aristocratico ma più popolare, rispetto all’arte greca è non solo più realista ma anche più popolaresca. Rispetto all’arte greca l’arte romana perse il fine estetico per trovare un fine etico. Non è un caso se si pensa che i greci ci hanno lasciato in eredità la filosofia, mentre i romani ci hanno lasciato in eredità il diritto.
Questo per ciò che riguarda le arti figurative. Dove invece i romani mostrarono originalità e inventiva fu l’architettura, che per il suo fine pratico rispondeva meglio alle esigenze di una grande organizzazione civile come era l’Impero Romano. E nell’architettura i romani si applicarono più che in altre arti.
A differenza dei greci non adottarono il sistema trilitico ma quello ad arco, che con minore impiego di materiale consentiva di realizzare maggiori superfici coperte. L’architettura romana infatti spaziò in un maggior numero di tipologie di edifici (dalle case ai templi, dalle terme alle basiliche, dagli anfiteatri alle ville) rispetto a quella greca, che invece sviluppò un solo tipo di edificio: il tempio. Tuttavia anche nell’architettura i romani furono debitori verso i greci di un importante aspetto stilistico con gli ordini architettonici. La perfezione di dorico, ionico e corinzio conquistò i romani, che non esitarono ad utilizzarli anche se costruivano i loro edifici con la tecnica dell’arco. Anzi l’impiego che essi fecero degli ordini come elemento decorativo ma soprattutto come strumento di progettazione modulare, coniugandolo alla statica dell’arco, perfezionò ulteriormente il linguaggio classico dell’architettura, rendendolo valido per una infinità di soluzioni che l’architettura occidentale ha continuato a sperimentare fino ai giorni nostri.
L’arte romana esaurì la sua vitalità agli inizi del IV secolo. Ai tempi di Costantino avvennero due eventi che avrebbero dato una svolta improvvisa al mondo antico. Con l’editto di Milano del 313 avvenne la conversione dell’Impero Romano al Cattolicesimo. Nel 330 l’imperatore Costantino spostò la capitale da Roma a Bisanzio. L’arte antica si diramò in due direzioni, che presto avrebbero totalmente modificato e rinnegato i principi dell’arte classica. In Occidente l’Arte Paleocristiana agli inizi e medievale in seguito. In Oriente invece l’eredità dell’antico fu raccolta dall’arte bizantina.
L’arte romana scomparve definitivamente. Dopo circa mille anni si conclusero la parabola dell’arte classica avviata dai greci nel VII secolo a.C., e la ricerca formale basata sui principi del naturalismo, dell’equilibrio, dei valori estetici, per essere sostituite da un’arte antinaturalistica e con le nuove forme di espressione richieste dai nuovi contenuti morali, imposti dall’egemonia della religione cristiana. Solo con il Rinascimento il segno dell’arte occidentale si invertì nuovamente, reinterpretando l’eredità della cultura classica e facendola rivivere in una nuova stagione artistica che scelse nuovamente i principi ispiratori dell’arte classica: il naturalismo, l’equilibrio compositivo, la ricerca del bello e attraverso di essa della conoscenza.

Fonti e approfondimenti: www.francescomorante.it
Francesco Morante

 

ARTE D'OCCIDENTE

profilo storico generale

II. Da Roma al Medioevo

VI. Il tardo antico

VI.1. L’Arte Paleocristiana
Il passaggio dall’età antica al Medioevo fu segnato da due rivoluzioni fondamentali: una ideologico-culturale e una politico-istituzionale. La rivoluzione ideologico-culturale fu la sostituzione delle religioni pagane con la religione cristiana. La rivoluzione politico-istituzionale fu determinata dall'arrivo in Italia di nuove popolazioni, cosa che provocò la fine dell’Impero Romano d’Occidente.
Questi due eventi hanno definitivamente chiuso un’epoca storica. Con la scomparsa del mondo antico anche l’arte cambiò profondamente e radicalmente. La prima grande innovazione fu l’abbandono della visione naturalistica per un’arte di tipo antinaturalistica. Non solo venne meno il concetto della mimesi, fondamento dell’arte classica, ma scomparve soprattutto il concetto di bellezza. Il bello con la nuova religione cristiana perse di valore, divenendo anzi un non-valore in quanto legato al piacere effimero.
Bisogna ricordare che la nuova religione cristiana diede per la prima volta all’uomo una sostanza spirituale eterna, l’anima, e con questo nuovo concetto aprì un dualismo di profonda ed intensa dialettica tra il corpo e l’anima, ovvero tra la forma e il contenuto. Il primo divenne solo il contenitore imperfetto e corruttibile dell’anima, la vera essenza umana. Il piano dei valori venne spostato a quello unicamente spirituale. Tutto ciò che poteva produrre piacere ai sensi venne visto con sospetto, se non apertamente avversato. E così l’arte perse una delle sue funzioni principali, quella del piacere estetico.
Tuttavia la religione cristiana non ha mai rifiutato l’arte figurativa. L’ha anzi favorita ed utilizzata ampiamente, ma dandole una funzione ben precisa ed univoca: quella dell’insegnamento religioso. Una funzione quindi didattica o didascalica che, utilizzando le immagini delle divinità e il racconto delle loro storie, cercava di insegnare i fondamenti e i precetti della nuova religione al più ampio pubblico possibile. All’arte venne riconosciuta la funzione di comunicare con gli analfabeti, con coloro che non potevano apprendere la dottrina dalle scritture ma che potevano conoscere la nuova religione guardando le immagini sacre. Considerando che un’opera d’arte è sempre un’unione inscindibile di contenuto e forma, si può affermare che con la cultura cristiana il protagonista della rappresentazione artistica divenne solo il contenuto. E ciò fu la più grande frattura con l’arte classica, che aveva sempre privilegiato la forma.
L’Arte Paleocristiana si sviluppò in tutte le regioni interessate dalla nuova religione in un periodo compreso tra il I e il V secolo. È un periodo in cui l’arte classica ha ancora vitalità sotto la sfera dell'egemonia culturale di Roma e in cui si crea una consonanza di fondo tra arte classica e paleocristiana. Entrambe hanno i caratteri della comunicazione eminentemente narrativa e popolare. Ciò che le distingue è che l’arte romana è tesa alla propaganda di ideologie politiche e civili, l’Arte Paleocristiana è tesa alla propaganda di ideologie religiose ed etiche. La prima è funzionale al culto della personalità dell’imperatore e alla legittimazione del suo potere, la seconda al proselitismo e alla conversione. Anche la forma di rappresentazione rimase sostanzialmente identica. La prima Arte Paleocristiana non differisce stilisticamente dall’arte romana, ma ne imita schemi compositivi e tecniche esecutive. In questa fase appare evidente che l’arte funziona soprattutto come linguaggio. L’Arte Paleocristiana non cerca di inventarsene uno, che poteva non cogliere l’obiettivo della massima divulgazione, ma si affida al più collaudato, quello appunto dell’arte classica in versione romana.
Ciò che l’Arte Paleocristiana inventa è la trasformazione dell’immagine in simbolo. Con l’Arte Paleocristiana compaiono le funzioni comunicative dell'allegoria e della metafora, che separano il senso letterale dal contenuto vero della comunicazione. Allegoria e metafora erano già ampiamente presenti nella produzione artistica precedente, ma è solo con il Cristianesimo che assurgono a pratica universale. Il simbolo nella sua duplice significazione di allegoria e metafora è un parametro che condiziona tutta la produzione artistica del Medioevo.
L’Arte Paleocristiana sostituì man mano l’arte classica, e questo suo progressivo affermarsi avvenne principalmente dopo il 313, anno in cui con l’editto di Costantino la religione non fu più perseguitata dalla legge romana. Prima di tale data l’Arte Paleocristiana era un fenomeno quasi illegale e in ciò si giustifica anche il suo totale ricorso all’allegoria e alla metafora, così da nascondere il reale messaggio dell’opera d’arte in una spiegazione apparentemente diversa. Dopo il 313 l’Arte Paleocristiana , finora manifestatasi solo come arte figurativa in luoghi appartati quali le catacombe, si avvicinò ad un altro ambito artistico: quello dell’architettura. E qui apportò una grande innovazione. Mentre le religioni pagane hanno sempre considerato il tempio come la casa della divinità e quindi, in questa sua sacralità, inaccessibile ai comuni fedeli, la religione cristiana ha considerato l’edificio di culto come la casa del popolo di Dio, e quindi accessibile a tutti. Con la fine del Classicismo la tipologia del tempio scomparve definitivamente per essere sostituita da quella della chiesa. Anche la chiesa non nacque da una nuova invenzione ma fu il riadattamento di una tipologia già esistente presso gli antichi romani: quella della basilica. La basilica per gli antichi romani era un vasto edificio coperto con finalità civili, una specie di tribunale. I primi cristiani adattarono questo edificio a luogo di culto. La sua ampia spazialità interna ben si prestava a contenere vaste masse di popolo, che qui potevano assistere alla celebrazione delle liturgie evangeliche. La scelta della basilica quale nuovo edificio di culto non fu dettata solo da una esigenza funzionale ma anche di immagine. Il tempio era visivamente troppo legato al concetto di religione pagana. Se i cristiani avessero edificato un tempio al loro dio non avrebbero affermato quella grande novità che li contraddistingueva dalle altre religioni pagane. Il dio dei cristiani è unico, e non può entrare in un pantheon di dei considerati falsi. La basilica servì così ad affermare la discontinuità della religione cristiana rispetto alle altre religioni esistenti.

VI.2. L’arte bizantina
L’imperatore Costantino fu protagonista dei due eventi principali che contribuirono a chiudere il mondo antico e che aprirono gli scenari futuri del mondo medievale. Fu egli ad emanare nel 313 l’editto di Milano, con il quale fu liberalizzato il culto della religione cattolica. Successivamente, intorno al 330, spostò la capitale dell’Impero da Roma a Bisanzio, che, divenuta capitale, prese il nome di Costantinopoli. Alla morte di Costantino iniziò quel processo di divisione che avrebbe portato alla costituzione dell’Impero Romano d’Oriente, con capitale Costantinopoli, e dell’Impero Romano d’Occidente, con capitale Roma e, per un periodo, Milano. La sorte di questi due imperi ebbe esiti molto diversi. L’Impero Romano d’Occidente scomparve nel 476 per lasciare una situazione di azzeramento culturale ed artistico, oltre che politico e sociale.
L’Impero Romano d’Oriente, noto anche come Impero Bizantino, sopravvisse per ben altra durata, e fra alterne vicende si è estinto solo nel XVI secolo con la conquista da parte degli ottomani. Questo impero pertanto ha rappresentato per tutto il Medioevo il vero erede della cultura figurativa del mondo antico, pur se ha dirottato questa eredità verso esiti che non hanno più nulla in comune con l’arte classica.
La base della cultura artistica bizantina fu la religione cristiana, interpretata con connotati teocratici e assolutistici. In una condizione ideologica molto serrata e statica la religione veniva vista come rivelazione. La venuta di Gesù nel mondo aveva annunciato il vero ordine dell’Universo e a questo ordine bisognava adeguare il tutto. Dio non solo era unico ma era il concetto stesso di assoluto, una entità perfetta e ovviamente immutabile nella sua perfezione. Questo concetto sembrò pervadere ogni manifestazione di vita sociale e culturale.
Fu negato il concetto di storia come divenire. In ciò si produsse la maggiore frattura con l’eredità tardo-romana e occidentale in genere. L’arte quindi non doveva essere narrativa, ma rappresentare l’epifania del divino. Il divino era qualcosa di astratto per sua natura, perché immateriale. Pertanto la sua rappresentazione non doveva seguire le leggi fisiche della nostra percezione sensoriale ma quelle della visione interiore.
I punti fondamentali della tecnica pittorica bizantina furono:
1. gli sfondi dorati: essi servivano a dare alle immagini sacre un valore assoluto, in quanto le astraevano da qualsiasi contesto spaziale o temporale;
2. la ieraticità dei volti, espressioni quindi sempre immutabili e fisse, dove la divinità veniva intesa nell’assenza di qualsiasi emozione interiore, passionalità o tratto psicologico;
3. l’assenza di tridimensionalità: le figure, proprio perché rappresentavano enti immateriali, non potevano avere lo spessore tipico delle cose terrene ma manifestarsi come immagini proiettate, come apparizioni diafane ed evanescenti.
L’arte bizantina, pur mantenendosi pressoché costante per tutti i suoi mille e più anni di storia (fenomeno riscontrabile solo nell’arte dell’antico Egitto), ebbe diverse fasi. Di particolare significato fu soprattutto il periodo iconoclasta compreso tra il 730 e l’843. In esso la cultura teocratica bizantina portò agli estremi limiti la sua concezione di assolutezza spirituale degli enti divini, negando la possibilità e la plausibilità di una loro rappresentazione in immagine. In questo periodo avvenne una notevole diaspora di artisti, che da Costantinopoli furono costretti a trasferirsi altrove, in particolare in Europa occidentale. L’incontro della cultura bizantina con quella occidentale produsse notevoli influenze reciproche. Da questo momento l’arte bizantina acquistò un maggior interesse per la narrazione mentre la cultura occidentale grazie agli artisti bizantini ebbe modo di riallacciarsi all’eredità dell’antico, scomparsa in Occidente dopo il crollo dell’arte classica.
Dopo la scissione della Chiesa d’Oriente da quella d’Occidente, l’arte bizantina rimase il linguaggio figurativo proprio della cristianità ortodossa, sopravvivendo in tutti quei paesi (soprattutto dell’Europa orientale, dalla Grecia alla Russia) in cui tale religione è ancora presente.

VII. Il Medioevo

VII.1. L’arte altomedievale
L’arte classica con le sue ultime manifestazioni tardo-antiche e paleocristiane scomparve definitivamente a metà del VI secolo. La scomparsa dell’Impero Romano e la formazione dei nuovi regni barbarici segnò un periodo di profonda instabilità sociale. La popolazione europea fu letteralmente decimata da carestie, epidemie, guerre, saccheggi e distruzioni varie e la cultura europea ripartì quasi dal nulla. Uno dei primi effetti di questa nuova precarietà politica e sociale fu la scomparsa della civiltà urbana. Le città si spopolarono progressivamente fino quasi a scomparire. La popolazione sopravvissuta ai profondi disastri del VI secolo si spostò a vivere in àmbiti rurali. Sorsero villaggi rurali dall’economia di autosussistenza definiti curtes. La nobiltà di nuovo lignaggio scelse per le proprie residenze non la città ma i castelli dislocati in posizioni isolate rispetto ai centri urbani. Con il fenomeno del monachesimo, che si affermò a partire dal VI secolo, anche la cultura religiosa si trasferì in àmbiti extra-urbani. Uniche autorità politico-istituzionali, che rimasero in alcuni dei centri urbani principali e ne garantirono una larvale sopravvivenza, furono i vescovi.
Il VI secolo rappresentò una cesura anche nella cultura artistica per più generazioni. In tal modo venne ad interrompersi quella trasmissione del sapere e del saper fare, che si acquisiva proprio nell’apprendistato presso le botteghe e i maestri attivi. Il sapere antico scomparve definitivamente. L’arte classica era oramai definitivamente persa.
Tre sono dunque i fenomeni che maggiormente segnano lo sviluppo della successiva arte altomedievale:
1. la scomparsa della civiltà urbana;
2. la perdita della sapienza tecnica antica;
3. il nuovo significato dato all’arte visiva dalla religione cristiana.
La decadenza delle città comportò anche un crollo delle attività architettoniche, e di quelle artistiche ad esse connesse. Scomparve del tutto la grande statuaria mentre ebbe scarsissima continuità la decorazione ad affresco. Del resto il calo demografico aveva reso le città superstiti sovradimensionate per le nuove esigenze abitative. I nuovi dominatori stranieri, mai dotati di una elaborata cultura architettonica, si limitarono a riutilizzare gli edifici già esistenti, sviluppando al contempo un linguaggio architettonico del tutto nuovo. I loro edifici furono plasmati con materiali poveri (soprattutto mattoni), in cui spesso compaiono elementi lapidei (colonne, cornici, trabeazioni, ecc.) provenienti da edifici classici in rovina. In tale contesto l’unica attenzione dei nuovi costruttori veniva posta solo alla solidità dell’edificio senza alcuna preoccupazione estetica fondata su canoni di proporzione e di equilibrio tra le parti compositive.
In campo figurativo si determinò la netta tendenza alla riduzione delle dimensioni delle opere d’arte. Scomparsa la statuaria, la scultura si manifestò solo in realizzazioni a bassorilievo. Tale tecnica fu resa sempre più stilizzata, negando spesso il concetto stesso di plasticità: i rilievi divennero talmente bassi da finire in molti casi per essere semplici disegni incisi sul piano lapideo. Contemporaneamente si sviluppò con maggiore intensità l’arte orafa. Ciò fu una naturale conseguenza della nuova economia medievale. Scomparse le grandi entità statali come l’Impero Romano, che garantivano una economia monetaria, l’oro divenne l’unico valore certo. Un oggetto d’oro può anche essere un brutto prodotto artistico ma conserva comunque il suo valore intrinseco di metallo prezioso. Inoltre l’oggettistica d’oro e le pietre preziose erano maggiormente funzionali ad una tesaurizzazione basata principalmente sul formarsi dei patrimoni personali e non collettivi, quali edifici pubblici, chiese e opere d’arte annesse. E in un contesto sociale, in cui il diritto e la legge vengono sostituite dai patti e dai vincoli di feudalità, è comprensibile che la preoccupazione principale fosse la difesa della propria situazione individuale, garantita solo ed unicamente dal possesso di un patrimonio personale. Scomparsa la moneta, rimaneva unicamente l’oro a garantire il formarsi della ricchezza ed era quindi del tutto naturale che l’arte si rivolgesse soprattutto alla lavorazione di questo metallo. Allo sviluppo dell’oreficeria si legò anche lo sviluppo degli smalti, surrogato povero delle pietre preziose ma che consentiva agli orafi medievali di arricchire di notevoli effetti la loro produzione.
Ad un analogo fenomeno di riduzione di dimensioni si assiste anche nella produzione pittorica. Scomparsi quasi del tutto gli affreschi ed i mosaici, la produzione figurativa si esplicò unicamente negli scriptoria. I monasteri rimasero gli unici centri culturali attivi nell’alto Medioevo e la loro attività principale fu la trascrizione dei testi antichi. In tal modo fu consentita la conservazione e la trasmissione di un sapere antico che altrimenti sarebbe andato perso. I monaci dediti alla copia dei manoscritti antichi, detti amanuensi, inventarono due grosse novità: la forma del libro rilegato, che sostituì il rotolo antico, e le illustrazioni inserite nel testo. Nacquero così i codici miniati, la cui scomparsa avverrà solo nel XVI secolo, quando la nuova tecnica di stampa a caratteri mobili si affermerà definitivamente. Le illustrazioni inserite nei codici vennero definite miniature per l’uso prevalente dell’inchiostro rosso chiamato minio.
Un’altra caratteristica dell’arte altomedievale è la tendenza alla decorazione aniconica. Motivi geometrici lineari e curvi vengono variamente intrecciati per ottenere effetti decorativi astratti. Questa tendenza all’aniconismo, riscontrabile sia nelle miniature, sia nell’oreficeria, sia nelle decorazioni scultoree a bassorilievo, si ritrova soprattutto nell’arte del VII e VIII secolo. È il periodo in cui la cultura figurativa fu influenzata dalle nuove dominazioni che si vennero a formare in Europa (goti, longobardi, franchi, ecc.). Questa tendenza aniconica fu un fenomeno molto generalizzato nell’arte di quei secoli, non solo in Europa occidentale. Anche la cultura artistica bizantina di questo periodo rigettò la produzione di immagini per effetto dell’iconoclastia decretata dagli imperatori di Bisanzio.
E nello stesso periodo un’altra cultura si affacciò sul Mediterraneo: quella araba. Sulla spinta della religione mussulmana, che conquistò gran parte dei territori compresi tra l’Asia minore il Nord Africa e l’Europa meridionale (in particolare la Spagna e la Sicilia), la nuova cultura araba produsse effetti notevoli sull’arte figurativa occidentale. Anche l’arte islamica è sempre stata connotata da una tendenza di fondo di tipo aniconico. La preziosità della lavorazione dei manufatti arabi è sempre giocata su decorazioni astratte, realizzate con notevole fantasia e ricercatezza.
Nel campo dell’arte iconica, il controllo dell’immagine attuata dagli artisti dell’alto Medioevo è spesso grossolana e di fattura incerta. Le opere, per la quasi totalità di soggetto religioso, si compongono prevalentemente di simboli. La loro realizzazione formale è sempre basata sulla stilizzazione mentre il loro contenuto va variamente interpretato fra allegorie o metafore simboliche. Questa tendenza al Simbolismo, iniziata con l’Arte Paleocristiana , percorre tutto il Medioevo. Nell’iconografia dell’arte medievale tutto acquista un significato simbolico, in particolare gli animali che per alcuni loro attributi tipici acquistano valori simbolici ben precisi: il leone è simbolo della forza, il cane della fedeltà, il serpente del peccato, il pavone della vita eterna, la fenice della resurrezione, e così via.
Nel corso dell’alto Medioevo la cultura occidentale appare decisamente arretrata rispetto agli splendori dell’arte classica. Apparve chiaramente anche alla coscienza degli stessi protagonisti del tempo, che in vario modo già sentivano il fascino di un passato di maggiore forza e splendore artistico. La tendenza a far rinascere la classicità è un fenomeno che in Occidente si manifesta per la prima volta con il formarsi del regno di Carlo Magno. Anche nella denominazione di Sacro Romano Impero la volontà di ricollegarsi all’eredità dell’antico è chiara. Tuttavia la conoscenza del passato era labile e l’antico preso a modello in realtà venne filtrato dalla cultura bizantina, che con il mondo classico conservava comunque una linea di continuità diretta.
A parte la considerazione sugli esiti di tale rinascenza artistica carolingia, il fenomeno fu di importanza notevole, invertendo il segno dell’arte occidentale e riportandola nel canale di una riscoperta del naturalismo che traesse ispirazione dalla realtà e dalla natura, di contro a quell’antinaturalismo la cui ispirazione erano unicamente le sacre scritture con tutto il loro carico di concettualizzazioni e che potevano essere tradotte in immagini solo attraverso la funzione segnica dei simboli.

VII.2. Il Romanico
La ripresa dell’economia in uno con il rinnovato sviluppo delle città avvenne dopo l’anno Mille. Il rifiorire dei commerci e il nuovo impulso che ebbe l’agricoltura, insieme ad una rinnovata coscienza civica che fece proprio dell’appartenenza ad una città il fondamento della propria identità e cultura, crearono un clima adatto alla ripresa dell’attività costruttiva.
Nuove città e villaggi sorsero secondo una visione urbanistica agli antipodi di quella classica: non più schemi geometrici regolari fatti di strade che si incontravano ad angolo retto, ma un intrigo di vie e viuzze su cui si aprivano case secondo una morfologia quanto mai varia. Il tutto formava un insieme molto pittoresco, specie quando i paesi – ed era la maggior parte dei casi – nascevano su cime di colline, in cui quindi la varietà planimetrica si univa al movimento altimetrico. Rispetto alle città fondate dai romani, che sorgevano per lo più in posizione pianeggiante e nei fondovalle per controllare meglio le vie che percorrevano l’Impero, le città che sorsero nel Medioevo sono quasi sempre situate in posizione dominante sul territorio circostante. La difficoltà di accedere a questi nuovi borghi era motivo di difesa in un periodo in cui la sicurezza delle città era garantita solo dalla milizia civica.
L’edificio simbolico di questa rinnovata attività costruttiva fu la cattedrale. Su questo edificio, in cui si riconosceva la popolazione di una città o di un villaggio, si concentrò l’attenzione della cultura architettonica del tempo, elaborando il Romanico, che dopo l’età classica sarà il primo stile internazionale adottato da tutti gli stati europei allora esistenti. Pur avendo varianti regionali che rendono distinguibile il Romanico lombardo da quello pisano o il Romanico provenzale da quello renano o da quello catalano, ebbe alcune costanti che sono rintracciabili in tutte le aree geografiche che applicarono questa nuova architettura. I limiti cronologici in cui si sviluppò il Romanico, vanno intesi secondo le aree geografiche: tuttavia in senso generale si possono considerare come momento iniziale la fine del X secolo e come termine la metà del XIII secolo. Esso cadde in disuso quando lo stile Gotico, che pure era una evoluzione del Romanico, rinnovò ampiamente il bagaglio tecnico e formale dell’architettura.
Il termine “romanico” è stato interpretato in diversi modi: può essere un riferimento all’area geografica in cui si diffuse, quando coincideva con quella in cui si parlavano le lingue romanze; o può riferirsi a una ripresa delle concezioni architettoniche già conosciute dai romani. In particolare dall’architettura romana quella romanica fece propria la tecnica costruttiva delle volte a crociera. L’architettura iniziò il nuovo corso stilistico, che noi definiamo Romanico, quando le volte sostituirono i tetti in capriate lignee.
I motivi per sostituire le capriate erano molteplici: le strutture in legno richiedevano manutenzione continua ma soprattutto erano facilmente infiammabili. Gli incendi che si sviluppavano nelle chiese erano difficilmente domabili, con il risultato che era necessario rifare i tetti con una notevole frequenza. Il tentativo di dare alle chiese una copertura più stabile e duratura portò a sostituire il legno con i mattoni in laterizio o le pietre. Ecco quindi la scelta di coprire le chiese con volte in muratura.
Inizialmente, ancora in fase di Preromanico, le prime sperimentazioni per coprire le chiese con delle volte avvennero utilizzando le volte a botte. Ma la volta a botte era difficilmente adattabile a chiese a più navate: essa infatti necessita di un muro continuo e notevolmente pesante sui due lati perimetrali. La soluzione giusta era ricorrere alla volta a crociera, che, scaricando il suo peso su quattro pilastri d’angolo, permetteva di scomporre lo spazio della chiesa in campate comunicanti tra loro in quanto non interrotte da muri.
L’arco utilizzato dall’architettura romanica, al pari di quanto avevano già fatto i romani, era a tutto sesto: aveva cioè il profilo di un perfetto semicerchio. In questo caso una volta a crociera, che si compone di archi a tutto sesto, deve avere la base quadrata: la distanza cioè tra i quattro pilastri deve essere uguale su ogni lato. E ciò per una necessità statica imprescindibile: gli archi che compongono una crociera devono avere la stessa altezza. E dato che in un arco a tutto sesto la larghezza dell’arco è obbligatoriamente doppia rispetto alla sua altezza, ne derivava la necessità di impostare una volta a crociera su una pianta quadrata.
E così il quadrato della crociera divenne il modulo costruttivo della cattedrale romanica. Fissata la dimensione di un quadrato che costituisce una porzione della navata laterale, le altre crociere che appartengono alla stessa navata devono avere la stessa dimensione, in quanto hanno con il primo quadrato un lato in comune. La navata centrale, per avere una dimensione maggiore delle navate laterali, dovrà comporsi necessariamente di quadrati multipli – in genere doppi – di quelli che costituiscono le navate laterali: in tal modo essa scarica il proprio peso su un pilastro ogni due. E quindi anche le altre campate laterali, per avere lati in comune con le altre navate, dovranno necessariamente comporsi dello stesso modulo quadrato.
Ma, ciò che unifica lo stile Romanico, oltre a questa modularità costruttiva, è la pesantezza strutturale. Le volte rispetto alle capriate lignee sono più pesanti e inoltre scaricano forze inclinate, non verticali: pertanto necessitano di murature molto spesse e pesanti, adatte a contrastare le notevoli spinte laterali delle pesanti volte. Queste murature dovevano essere così grosse e resistenti che era necessario limitare anche l’apertura di finestre. Rispetto alle basiliche paleocristiane o bizantine, in cui la luce pioveva dall’alto dei finestroni che si aprivano in sommità alla navata centrale, le cattedrali romaniche divennero edifici molto bui.
All’esterno queste chiese avevano un aspetto così solido e massiccio da sembrare quasi delle fortezze, all’interno si componevano di spazi silenziosi ed oscuri. Molta della suggestione religiosa che una cattedrale romanica trasmette si deve proprio a queste sue caratteristiche.
Sul piano tipologico la cattedrale romanica portò innovazioni rispetto alla basilica paleocristiana soprattutto nella parte terminale della chiesa. Il corpo delle navate rimase pressoché intatto mentre fu maggiormente articolata la zona absidale. Quest’area della chiesa, detta anche coro o presbiterio in quanto destinata ai religiosi, si arricchì di più cappelle che si aprivano a raggiera verso l’esterno. Spesso sotto il presbiterio sorgeva la cripta, ambiente sotterraneo riservato alla conservazione di sepolcri o di reliquie.
Maggior sviluppo ebbe anche il transetto, il braccio trasversale rispetto alla navata che contribuì a dare alle chiese la forma di una croce latina. Con il termine croce latina si distingueva la croce che aveva un braccio più lungo degli altri – che nella chiesa corrispondeva alla navata –, rispetto alla croce greca, che aveva i quattro bracci uguali, definendo una pianta non longitudinale ma centrale. Questo tipo di croce fu definita greca, perché era preferita e utilizzata dall’architettura bizantina.
In Italia il Romanico ebbe più varianti regionali: la principale si sviluppò nell’area padana e si configurò come uno stile abbastanza omogeneo. Esempi del Romanico padano sono la chiesa di S. Ambrogio a Milano, la chiesa di S. Michele a Pavia, la cattedrale di Parma e la cattedrale di Modena. Questa chiese si contraddistinguono per la chiarezza compositiva delle piante, per l’impiego di mattoni o pietre a faccia vista, per la tripartizione della facciata. Da qui il Romanico si diffuse in tutta l’area centro settentrionale, restandone esclusa Venezia, che per i suoi contatti con l’Oriente rimase legata ad una concezione architettonica bizantina. Tant’è che dopo l’anno Mille, quando si provvide alla costruzione della basilica di San Marco, si adottò una soluzione tipicamente bizantina: una chiesa a croce greca coperta con cupole raccordate a pilastri mediante pennacchi.
Controversa è anche l’adesione al Romanico dell’architettura toscana di quei secoli. In Toscana tre città si distinsero per una ricerca stilistica che le portò ad esiti diversi ed originali: Firenze, Siena e Pisa. Le architetture che si produssero qui assimilarono dal Romanico solo alcuni elementi, a volte puramente decorativi: la loro concezione sembra legarsi con un filo autonomo e non mediato da tecniche costruttive nordiche all’architettura tardo romana. Uno degli aspetti più significativi di questa singolarità è che in queste città si usò ancora la decorazione marmorea, sia interna che esterna. Ma è soprattutto la concezione dell’edificio ad essere diversa. L’architettura romanica funzionava secondo un principio additivo: si aggiungevano parti secondo le esigenze funzionali, creando un insieme poco controllato ma che veniva omogeneizzato dall’impiego di materiali e tecniche costruttive analoghi. Restavano assenti valutazioni legate alla proporzione estetica degli edifici e alla simmetria.
L’area toscana, ma soprattutto Firenze, sembra invece non dimenticare quei concetti già sperimentati dall’architettura classica, così che, seppure aderisca in parte al Romanico o al Gotico, lo fa secondo una concezione originale: in pratica già dopo l’anno Mille divenne il laboratorio di incubazione di quell’architettura rinascimentale, che nel XVI secolo concliuse definitivamente l’architettura medievale.
Nell’Italia meridionale la stagione del Romanico coincise con la dominazione normanna. Questa popolazione aveva fornito notevoli contributi non solo alla nascita del Romanico ma anche alla sua evoluzione nel Gotico. Nell’Italia meridionale trovarono un ambiente culturale già segnato dalla presenza bizantina ed araba – quest’ultima soprattutto in Sicilia. Il Romanico che sorse qui infatti ebbe commistioni originali ed interessanti con elementi spuri presi da queste altre concezioni architettoniche.
Diverso è invece il caso della Puglia. Qui il Romanico, grazie all’intenso traffico di pellegrini e crociati che interessò la regione, trovò terreno fertile per esplicitare un’architettura dallo stile più omogeneo e con una caratteristica decisamente originale: la risoluzione plastica degli elementi decorativi. La ripresa dell’architettura dopo l’anno Mille si era accompagnata a quella dell’attività scultorea, la cui produzione era intimamente legata a quella delle cattedrali. Pur nelle varianti stilistiche, i canoni formali di questa scultura sono omogenei per l’intera Europa: le figurazioni iconografiche sono sempre a bassorilievo, mentre a tutto tondo sono solo le parti architettoniche, quali cibori, pulpiti, ceri pasquali, cattedre, eccetera.
Il carattere delle figurazioni iconografiche su temi religiosi aveva aspetti severi e seriosi. Invece la scultura romanica pugliese elaborò un suo repertorio originale di figure, che raccontavano di strani animali, esotici o fantastici, in perenne lotta con uomini che sembrano sempre soccombere a questa natura fantastica e terribile. Ma ciò che rende interessante queste sculture è la tendenza al tutto tondo più esplicita che altrove e la capacità di controllare dinamismo e movimento delle figure scolpite. In questo periodo la Puglia conobbe i cantieri artistici delle costruzioni che Federico II di Svevia realizzò all’inizio del XIII secolo ed è lecito supporre che qui si elaborò la nuova cultura artistica che portò al rinnovamento plastico del XIV e XV secolo.

VII.3. Il Gotico
I normanni furono grandi costruttori di cattedrali. A loro si deve l'innovazione costruttiva che permise al Romanico di evolversi nello stile Gotico: le volte costolonate. La costruzione di una volta a crociera richiede una impalcatura lignea che riproduca per intero l’intradosso – ossia la superficie inferiore – della volta. Solo quando la volta sarà completata potrà essere disarmata della struttura di sostegno. Ciò comportava un notevole impiego di legname da montarsi con grande sapienza di incastri, così da riprodurre con esattezza la superficie su cui dovevano appoggiarsi i conci in pietra o in mattoni.
La scoperta dei normanni fu che una volta a crociera si compone non solo dei quattro archi perimetrali ma anche di due archi in diagonale, che hanno in comune il concio in chiave. Questi due archi possono essere realizzati quindi indipendentemente da tutta la volta. Ecco che così la volta a crociera poteva comporsi di due fasi costruttive: prima la realizzazione dei quattro archi laterali e dei due diagonali; quindi il riempimento dei quattro triangoli sferici - detti unghie – che erano compresi tra gli archi realizzati. In tal modo la costruzione della volta poteva realizzarsi in fasi successive – ogni unghia poteva poi essere costruita indipendentemente dalle altre – con impalcature meno impegnative e più economiche.
La costolonatura degli archi che costituivano le volte a crociera portò a due risultati fondamentali: uno estetico, sul quale l’architettura gotica fondò molta della sua immagine; e uno statico. Quest’ultimo fu forse il più notevole. In pratica fece capire che le strutture possono essere scomposte secondo linee di forze.
L’architettura romanica si basava sul principio statico di masse voluminose che venivano contrastate e sorrette da altre masse dalla notevole gravità. I normanni indicarono invece una nuova via: nelle masse e nei volumi i carichi e le forze si possono concentrare solo in alcune linee e punti, così da convogliare su di esse la resistenza strutturale dell’edificio. In pratica cominciarono a distinguere in una struttura architettonica le parti portanti – quelle che devono sorreggere i pesi propri e di altre membrature – da quelle portate – che sono in genere solo di riempimento e chiusura degli spazi.
Ma la svolta decisiva per l’evoluzione dal Romanico al Gotico fu l’utilizzo dell’arco a sesto acuto. Rispetto all’arco a tutto sesto l’arco acuto ha una geometria variabile: in esso l’altezza non è in funzione della larghezza ma può assumere rapporti diversi. Nell’arco a tutto sesto l’altezza dell’arco è sempre pari alla metà della sua larghezza; in un arco a sesto acuto l’altezza dell’arco è sempre superiore alla metà della sua larghezza, ma di una quantità che può essere variabile.
L’arco a sesto acuto permise agli architetti medievali di esplicitare meglio la loro nuova concezione costruttiva che si basava su un telaio strutturale concentrato in punti e linee di forze. Un arco scarica il proprio peso con forze inclinate. Queste forze tendono a ribaltare verso l’esterno i sostegni, che per resistere alla spinta devono avere un peso notevole. L’arco a sesto acuto per via della sua particolare geometria, pur a parità di peso, rispetto ad un arco a tutto sesto scarica una forza meno inclinata rispetto alla verticale. Trasmette ai sostegni una spinta orizzontale minore. Cioè l’effetto di ribaltamento verso l’esterno è inferiore e pertanto i sostegni possono essere più snelli e leggeri.
Ciò quindi portò a due risultati notevoli per la realizzazione delle cattedrali. Le strutture potevano essere più slanciate, favorendo la tendenza a realizzare costruzioni sempre più alte e nel contempo potendo concentrare la parte resistente dell’edificio in pilastri snelli, liberndo ampie superfici che non vennero occupate da murature ma da vetrate. La cattedrale gotica rispetto a quella romanica ridivenne un ambiente luminoso e di una luminosità molto suggestiva, in quanto le vetrate erano sempre istoriate con vetri dai colori vivaci.
Ma quando le cattedrali divennero troppo alte, l'instabilità dei sostegni degli archi si ripresentò nuovamente. La spinta laterale di un arco può anche essere molto contenuta, ma se essa sollecita un pilastro eccessivamente alto e snello è sufficiente a creare instabilità. La soluzione però nella nuova logica strutturale non poteva essere quella di ricorrere alla maggior gravità dei sostegni aumentandone spessore e peso, ma di contrapporre alle forze destabilizzanti altre linee di forze resistenti. Ecco che così all’esterno delle cattedrali nacquero gli archi rampanti, che partivano da terra come puntelli per andare a sostenere archi impostati ad altezze sempre più vertiginose. Sul piano compositivo gli archi a sesto acuto permisero agli architetti di svincolarsi dal modulo quadrato, che aveva condizionato le cattedrali romaniche. Infatti con gli archi a sesto acuto la condizione statica di realizzare archi della stessa altezza si può ottenere anche con archi dalla larghezza variabile: in un arco acuto l’altezza dell’arco non è strettamente correlato alla sua larghezza. Una volta a crociera con archi acuti può essere rettangolare, con una libertà di conformazione molto più ampia.
Ritornando quindi alle costolonature, queste nell’architettura gotica trovarono un impiego totale, correndo senza soluzione di continuità su tutte le parti dell’edificio – volte e pilastri – e rendendo visibile quell’intrigo di linee di forze, che costituivano lo scheletro portante dell’edificio, intanto che sfruttavano tale immagine a fini decorativi: in pratica la bellezza di queste cattedrali veniva manifestata nella mirabile concezione strutturale, mostrando con orgoglio l’intelligenza ingegneristica che ne aveva contraddistinto la realizzazione.
I germi della nuova architettura gotica sono visibili in alcune costruzioni normanne già al fine del XII secolo, ma l’edificio che per primo applicò il nuovo stile fu la cattedrale di Saint Denis nell’Île de France, costruita a partire dal 1130. Da questa data lo stile Gotico si diffuse prima in Francia e poi in tutta Europa, soppiantando progressivamente lo stile Romanico. Il Gotico divenne progressivamente lo stile dell’Europa nordica, trovando numerose applicazioni non solo nell’architettura religiosa ma anche civile in Francia, Inghilterra e Germania. Il carattere tipico del gusto gotico fu l’accentuazione del linearismo, che si estese anche alle arti figurative. E in questo linearismo prevalse una tendenza alla verticalità e alla linea spezzata. Entrambe le caratteristiche erano racchiuse nell’arco a sesto acuto. Ma esso non fu l’unico arco utilizzato in questo periodo: molta fortuna ebbe anche l’arco polilobato, utilizzato in architettura soprattutto per l’apertura di bucature – finestre, balconi, portici, eccetera – o nella costruzione di elementi scultorei decorativi – altari, baldacchini, pulpiti, eccetera. Altro arco dal gusto tardo gotico fu il Tudor, che ebbe fortuna soprattutto in Inghilterra. In Italia il Gotico trovò applicazioni molto limitate, in cui l’arco acuto fu utilizzato non con le sue consequenzialità di logica strutturale ma più come elemento di decorazione alla moda. Ne nacque un’architettura ibrida, più attenta agli effetti di decorazione plastica e pittorica che non alle invenzioni strutturali. Le città che si convertirono al Gotico furono Siena e Venezia. La prima perché nel corso del XIV secolo ebbe notevoli scambi diplomatici e culturali con la Francia, da cui importò un gusto artistico complessivamente gotico; la seconda perché in questo periodo andò intensificando i suoi scambi culturali soprattutto con il mondo tedesco.
Un fenomeno di diffusione del Gotico fu anche lo sviluppo degli ordini monastici che si ebbe nel basso Medioevo. Precedentemente da Cluny in Francia l’ordine cluniacense aveva diffuso la concezione architettonica romanica. Successivamente l’ordine cistercense, che ebbe un rapido sviluppo prima in Francia e poi in Europa a partire dal 1100, adottò uno stile Gotico semplice ed essenziale. Gli unici esempi che ci rimangono in Italia di queste chiese Gotico-cistercensi sono le abbazie di Fossanova e Casamari nel Lazio. Ma un altro ordine monastico, l’ordine francescano, divenne in Italia mezzo di diffusione di uno stile Gotico alquanto originale. Il Gotico francescano infatti adottò nuovamente la copertura a capriate lignee, invece delle volte a crociera costolonate. Tale scelta fu originata dalla precisa volontà di proporre un’architettura povera in linea con i concetti di parsimonia materiale su cui si è sempre fondato l’insegnamento francescano. Esempio di questa architettura è la chiesa di Santa Croce a Firenze.
In Italia meridionale l’introduzione dell’architettura gotica coincise con un’altra conquista, quella degli angioini, avvenuta nel 1266 quando Carlo d’Angiò sconfisse Manfredi di Svevia. Gli angioini introdussero nel regno di Napoli l’uso dell’arco acuto, ma qui venne impiegato con un materiale diverso, il tufo, che consentiva di realizzare strutture più leggere. E molte chiese gotiche dell’Italia meridionale trovarono nell’uso degli archi ogivali in tufo e nelle coperture con capriate lignee una cifra stilistica originale rispetto al Gotico d’oltralpe.
Lo sviluppo dell’architettura gotica in Europa portò a costruzioni sempre più ardite e complesse nel loro meccanismo strutturale. Le costolonature, che ne rendevano evidenti le linee di forze, si moltiplicarono a tal punto che in campo architettonico il Gotico del tardo XIV e del XV secolo prese il nome di Gotico fiorito. Tale stile trovò applicazioni notevoli soprattutto in Inghilterra, Francia e Germania.

VII.4. La nascita dell’arte italiana
Mentre la rinascita dell’architettura avviene a partire dall’anno Mille, bisogna aspettare ancora qualche secolo prima che un fenomeno analogo interessi le arti figurative. Durante il periodo romanico anche la pittura e la scultura vedono una produzione più intensa soprattutto per la decorazione delle cattedrali, ma non conoscono un rinnovamento stilistico reale. Le immagini appaiono bloccate in forme stereotipe e realizzate con povertà di mezzi espressivi. Le sculture, sempre a bassorilievo, hanno figure rigide e geometrizzate. Sia in pittura che in scultura è del tutto sconosciuto il problema della visione in profondità: le figure che animano una scena sono poste su un unico piano di rappresentazione con evidenti effetti di sproporzione e di irrazionalità spaziale. Il maggior centro di irradiazione artistica rimane sempre Bisanzio e da lì il gusto delle icone dorate pervade ancora l’Europa occidentale.
L’avvio di un’arte figurativa di reale ispirazione europea occidentale inizia solo quando si avverte la necessità di superare gli stilemi figurativi bizantini. Ciò avviene a partire dal XIII secolo in poi e in due aree geografiche precise: l’Italia centrale e la Francia. In Italia il problema di superare l’arte bizantina viene impostato sul ritorno al naturalismo e alla razionalità terrena della visione in opposizione al misticismo antinaturalistico bizantino. In Francia il superamento avviene sul piano della significazione: non più un’arte di ispirazione religiosa che rimandasse ad un ordine teocratico delle cose, ma un’arte laica che esprimesse i nuovi ideali cavallereschi dell’Europa cortese. Sul piano stilistico le differenze tra arte italiana e arte francese, o gotica, sono notevolissime. La prima imbocca decisamente la strada della tridimensionalità per giungere a una rappresentazione del reale che sia in armonia con i fenomeni reali della visione umana. La seconda si mantiene invece sul piano di una concezione antinaturalistica dell’arte, dove alla razionalità della rappresentazione viene preferito l’effetto decorativo delle linee curve e dei colori vivaci. Tuttavia l’arte figurativa, sia gotica che italiana, mostra nel corso del XIII e XIV secolo una identica destinazione: entrambe sono realizzate come decorazione o arredo degli edifici architettonici, in particolare di quelli religiosi, chiese, cattedrali, monasteri, pievi, eccetera. E questa particolare subalternità delle arti figurative all’architettura determinò una precisa differenzazione tipologica tra arte italiana e arte gotica. L’edificio gotico ha uno scheletro strutturale di tipo lineare che riesce a liberare ampie superfici da destinare a vetrate. In tali costruzioni l’affresco divenne impraticabile: nacquero così le vetrate istoriate. Le immagini furono realizzate con vetri dai colori vivaci connessi tra loro da sottili piombature e collocate nei vani delle finestre. In Italia questa rigida concezione strutturale del Gotico non ebbe mai ampia diffusione, così che l’architettura praticata in quei secoli offrì sempre ai pittori ampie superfici murarie su cui era possibile intervenire con la classica tecnica della pittura ad affresco.
In un primo momento fu l’arte gotica a egemonizzare il panorama artistico europeo e ciò fino alla metà del XV secolo. In seguito, con lo sviluppo del Rinascimento fu invece l’arte italiana ad imporre la propria visione artistica all’intero mondo occidentale. Il percorso che l’arte italiana compì per giungere al Rinascimento durò circa due secoli e l'origine si può collocare alla prima metà del '200. Tema fondamentale per ritrovare una autonoma vocazione artistica fu lo studio dell’antico. Le passate grandezze dell’arte romana mostravano sempre più non solo la superiorità dell’arte classica rispetto a quella medievale, ma indicavano chiaramente la differenza tra l’arte occidentale e quella bizantina. In particolare la prima ha tre fondamenti che all’arte bizantina sono sconosciuti: il naturalismo, il senso della bellezza terrena, il gusto per la narrazione. Ed è proprio partendo da questi tre parametri, che l’arte italiana iniziò il suo percorso di affrancamento rispetto all’arte bizantina.
I primi fermenti di questo nuovo atteggiamento culturale – da ricordare che si manifestano negli stessi anni in cui nasce anche la lingua italiana – hanno origine nell’Italia meridionale all’epoca di Federico II. Ma la scomparsa di Federico II nel 1250 fece spostare il baricentro dell’attività artistica e culturale nell’Italia centrale, in particolare in Toscana. Ed è qui che nascono o operano i grandi protagonisti dell’arte italiana. I Pisano, famiglia di scultori il cui capostipite, Nicola, forse era originario della Puglia, operarono tra Pisa, Siena e altre città del centro Italia. In particolare dallo studio degli antichi sarcofagi romani trassero indicazioni per il recupero dei volumi e dello spazio. Le forme divennero più plastiche e salde, acquistando nel contempo naturalismo e verità. Le loro composizioni, benché a basso rilievo, agivano in un ampio spazio virtuale, dove i piani di rappresentazione si sviluppavano in profondità. Fu così definitivamente superato il limite della scultura romanica di porre le figure su un unico piano di rappresentazione. E con Giovanni Pisano, il maggior artista italiano del '300, la scultura superò anche il limite che aveva connotato tutta la produzione medievale: il ricorso esclusivo al bassorilievo. Con lui dopo quasi mille anni ricomparve la scultura a tutto tondo.
Tra fine '200 e inizi '300 anche la pittura aveva trovato la sua precisa autonomia, soprattutto grazie a Giotto. Egli fu il primo pittore a produrre immagini che possono essere definite realistiche. La sua tecnica principale fu l’uso del chiaroscuro. Sfruttando la diversa tonalità che il colore assume in funzione della luce che colpisce gli oggetti e i corpi, riuscì a dare apparenza tridimensionale alle sue figure. Ma egli ebbe chiari anche altri problemi della riduzione della visione reale in immagini bidimensionali. Tra questi lo scorcio e la prospettiva, che egli iniziò ad applicare in maniera intuitiva e d’anticipo di quasi un secolo rispetto ai pittori rinascimentali. La sua attività lo portò ad operare in molti centri della penisola, da Roma a Milano, da Firenze a Napoli, da Assisi a Padova, dando ampia diffusione alla sua nuova visione artistica.
Nel '300 un altro centro mostrò notevole vitalità nell’area toscana: Siena. Quì al contrario di Firenze si affermò una visione artistica che la avvicinava maggiormente alla Francia e allo stile Gotico. Numerosi furono i protagonisti di questo Gotico senese, anche se tra tutti spicca Simone Martini. Nello stesso periodo l’attività artistica dei fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti sembrò introdurre nell’arte senese l'influenza delle novità giottesche. Ma la loro scomparsa avvenuta nella peste del 1348 interruppe l’evoluzione del linguaggio pittorico giottesco, non solo in ambito senese. Nella seconda metà del '300 furono gli artisti gotici ad imporre nuovamente la loro visione artistica, basata sulle linee curve e leziose, realizzata con colori puri stesi a campiture uniformi dove prevaleva la evocazione fantastica di un mondo fatato e magico, che tanto successo riscuoteva nell’ambito delle corti europee che vivevano l’autunno del Medioevo. Ma il Gotico aveva vinto solo una battaglia. Agli inizi del '400 Firenze produsse alcuni dei massimi geni artistici mai esistiti – Brunelleschi, Masaccio, Donatello – che resero improvvisamente inattuale lo stile Gotico come Giotto aveva fatto con lo stile bizantino. Da questo momento ebbe inizio il Rinascimento, la più grande stagione artistica mai verificatasi in Italia. L’arte visiva giunse al massimo controllo possibile della rappresentazione naturalistica, consentendo agli artisti il pieno controllo della propria espressione figurativa.

Fonti e approfondimenti: www.francescomorante.it
Francesco Morante

 

ARTE D'OCCIDENTE

profilo storico generale

III. Il Rinascimento italiano

VIII. Il Rinascimento

VIII.1. Il ritorno all’antico
Il tema del ritorno all’antico nel Rinascimento non ha un significato di restaurazione del passato ma di ritorno a quella visione artistica basata sul naturalismo, che già caratterizzava l’età classica e che fu poi disattesa e modificata in direzione fondamentalmente antinaturalistica dall’arte del periodo medievale. Gli artisti rinascimentali cercarono di imitare negli antichi il senso per l’osservazione della natura, della sua rappresentazione in senso oggettivo e non simbolico, la ricerca della perfezione delle forme, delle composizioni armoniose. E soprattutto cercarono di spostare il baricentro della volontà di rappresentazione (e quindi di conoscenza) da Dio all’uomo.
Nel Medioevo il senso dell’essere dell’uomo nel mondo era sempre mediato dalla teologia, dall’interpretazione delle sacre scritture, dalla mistica trascendentale. L’arte finiva necessariamente per rappresentare solo il tema del sacro e il rapporto con il mondo divino, temi che per il loro elevato tasso di spiritualità portavano a rappresentazioni dove l’immagine era il simbolo: le cose rappresentate seguivano una logica allusiva, che nulla aveva a che vedere con la dinamica della realtà oggettiva che colgono i nostri sensi.
L’arte bizantina, che ebbe presenza ed influenza notevole in Occidente durante il periodo medievale, si basava unicamente sull’epifania del divino. Il divino era qualcosa di astratto per sua natura, perché immateriale. Pertanto la sua rappresentazione non doveva seguire le leggi fisiche della nostra percezione sensoriale ma quelle della visione interiore.
La cultura artistica italiana iniziò a reagire contro l’arte medievale e bizantina già nel XIII secolo, quando uno studio più attento dell’eredità figurativa del tardo antico portò a riavvicinare gli artisti ai valori dell’arte classica. Se grazie al mecenatismo di Federico II di Svevia una prima scintilla si ebbe già nella prima metà del secolo in Italia meridionale, lì dove il rinnovamento divenne più intenso fu l’Italia centrale, la Toscana in particolare, nel periodo tra il 1250 e il 1348.
Tanti furono gli artefici che dettero contributi a questo rinnovamento artistico: tra essi due impersonano più compiutamente la figura del nuovo artista: Giotto e Giovanni Pisano. Entrambi ebbero come obiettivo la rappresentazione tridimensionale. Giotto riportò in pittura l’uso del chiaroscuro nella rappresentazione dei volumi e si avviò a sperimentare in maniera più intuitiva che non analitica la tridimensionalità prospettica; Giovanni Pisano riscoprì nei bassorilievi la disposizione delle figure su più piani di rappresentazione e ritornò ad una scultura a tutto tondo, praticamente scomparsa in Occidente dopo la caduta dell’Impero Romano.
Il rinnovamento artistico italiano avvenne in un momento in cui la cultura artistica europea era egemonizzata dal Gotico. Questo nuovo stile, nato inizialmente in ambito architettonico, ben presto influenzò anche la pittura e la scultura. Nel Gotico il problema della tridimensionalità era del tutto ignorato mentre veniva posta enorme attenzione sugli effetti preziosi, nella decorazione delle superfici, nell’intreccio delle linee curve, nella leziosità delle pose. Nella prima metà del '300 il Gotico in Italia trovò la sua prima applicazione a Siena dove massimo interprete del periodo fu Simone Martini.
Dopo la peste del 1348, che fece numerose vittime anche tra gli artisti, il cammino dell’arte italiana sulla traccia di Giotto e Giovanni Pisano sembrò interrompersi per lasciare il campo alla tendenza gotica. Il secolo che va dalla metà del '300 alla metà del '400 fu quello del tardo-gotico, detto anche Gotico internazionale per l’ampia diffusione che conobbe in tutta Europa o Gotico cortese perché fu lo stile che meglio interpretò l’ideale cavalleresco e mondano delle corti europee.
In questo periodo e in contrasto con l'egemonia del Gotico nacque l’arte rinascimentale. Essa fiorì a Firenze nei primi decenni del '400 grazie ad un genio indiscusso: Filippo Brunelleschi. Brunelleschi iniziò la sua attività come orafo (mestiere che, per tutto il periodo del basso Medioevo, non differiva in nulla da quello dello scultore) e in tale veste partecipò al concorso bandito nel 1401 per la realizzazione della seconda porta del Battistero di Firenze.
Tema del concorso era il Sacrificio di Isacco da inserirsi in una formella di forma e dimensione analoga al compasso gotico adottato da Andrea Pisano nella realizzazione della prima porta del Battistero nel 1330. Il Brunelleschi presentò una formella di impostazione volumetrica chiara, dove le figure erano poste in uno spazio tridimensionale. Il concorso fu vinto invece da Lorenzo Ghiberti, che presentò una formella di stile Tardogotico, con figure non sovrapposte ma distanziate l’una dall’altra e poste su un unico piano di rappresentazione.
Ma la fama di Brunelleschi doveva ancora venire. Nel secondo e terzo decennio del secolo egli diede un contributo fondamentale alla pittura rinascimentale: scoprì la prospettiva. Si risolveva così il problema di tradurre correttamente le immagini prese dalla realtà tridimensionale in rappresentazioni bidimensionali. Se Giotto con il chiaroscuro aveva insegnato come rappresentare i volumi, Brunelleschi con la prospettiva insegnò come rappresentare lo spazio. Ma Brunelleschi non fu mai pittore. Dopo gli esordi come orafo e scultore l’attività che lo caratterizzò fu quella di architetto. Egli infatti riuscì a trovare una soluzione all’arduo problema di edificare la cupola sulla chiesa di Santa Maria del Fiore a Firenze. Questa chiesa, progettata da Arnolfo di Cambio alla fine del '200, fu progressivamente ampliata in corso di costruzione, così che agli inizi del '400 risultava ancora incompleta. La dimensione eccessiva a cui era stata portata rendeva quasi impossibile realizzare la cupola che doveva coronare l’incrocio della navata con il transetto secondo le conoscenze tecniche del tempo.
In pratica la costruzione di una cupola, come di qualsiasi struttura a volta, necessita di una impalcatura di legno che sostenga i conci fino al momento in cui viene collocato il concio in chiave. Il tamburo, su cui andava impostata la cupola, aveva già un’altezza di circa 60 metri: la cupola pertanto doveva innalzarsi ad un’altezza notevole. Inoltre data la larghezza del tamburo questa cupola doveva avere un diametro di circa 43 metri. C'era bisogno di una quantità enorme di legname per realizzare qualcosa come un palazzo di trenta piani: una simile incastellatura andava al di là delle possibilità tecnologiche del tempo. Tuttavia un’altra cupola di dimensioni analoghe a quella del duomo fiorentino era già stata realizzata dai romani: quella del Pantheon. In fondo la cupola di S. Maria del Fiore era più grande di soli 90 centimetri. Bastava capire come avevano fatto i romani e seguire il loro esempio. Fu quanto fece il Brunelleschi. Una cupola è in effetti una volta abbastanza singolare: essa è una perfetta semisfera. Pertanto può considerarsi composta da meridiani e paralleli. I meridiani sono gli archi che hanno in comune lo stesso concio in chiave; i paralleli sono invece le sezioni orizzontali della cupola che costituiscono dei perfetti anelli concentrici posti uno sull’altro. Se affrontiamo la costruzione della cupola tenendo presenti i paralleli, appare evidente che ogni anello viene sostenuto dall’anello sottostante e non necessita quindi di armature provvisorie. In pratica basta sostenere i conci finché questi non formano un anello intero. Dopo di che si può disarmare e passare alla costruzione dell’anello superiore. In tal modo si realizzava la cupola secondo un principio costruttivo definito autoportante.
Anche nella costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore Brunelleschi indicò il rapporto di un artista rinascimentale con l’antico: un rapporto fatto di metodo di indagine e di riscoperta, non di pedissequa imitazione.

VIII.2. La prospettiva
L’arte medievale aveva semplificato la raffigurazione sia pittorica che scultorea, annullando tutti gli effetti di spazialità. Le figure, in pose e immagini sempre molto schematiche, venivano collocate nel quadro o nei bassorilievi sempre su un unico piano verticale. Ciò portava ad una rappresentazione del tutto anti-naturalistica, in quanto le immagini artistiche non assomigliavano in nulla alle immagini che i nostri occhi colgono della realtà circostante.
Il naturalismo in pittura può essere definito come la riproduzione che più si avvicina a quella sensoriale del nostro occhio. Ci sono leggi ottiche molto precise che regolano la nostra vista. L’occhio raccoglie i raggi visivi dallo spazio, li fà convergere in un punto e quindi li proietta su un piano ideale posto all’interno dell’occhio. In pratica traduce la realtà tridimensionale in immagini bidimensionali. Il pittore opera allo stesso modo: percepisce una realtà tridimensionale e la traduce in rappresentazioni bidimensionali. Se la rappresentazione segue le stesse leggi ottiche dell’occhio umano, abbiamo una pittura naturalistica; diversamente si va nel simbolico o nell’astratto.
Nel naturalismo pittorico, se l’interpretazione arriva a modificare l'oggettività della visione e della rappresentazione, si tende ad annullarla. La conclusione di questa ricerca portava a comprendere il funzionamento della visione oculare e a tradurlo in un sistema logico da applicarsi per la costruzione della rappresentazione. Tale sistema logico è ciò che si definisce prospettiva.
Tra le varie regole alla base della prospettiva se ne possono citare almeno due:
1. le rette che nello spazio tridimensionale sono parallele nelle rappresentazioni piane tendono a convergere in un punto, detto punto di fuga, che è unico per tutte le rette parallele alla medesima direzione;
2. l’altezza degli oggetti tende a ridursi progressivamente mano a mano che questi si allontanano dal punto di osservazione.
Applicando queste regole si possono ottenere immagini del tutto simili a quelle che i nostri occhi trasmettono al cervello. In tal modo il quadro viene ad essere una sorta di illusione spaziale, dove le figure sembrano non collocarsi su una superficie piana ma in uno spazio virtuale che si apre a partire dal piano di rappresentazione.
Dopo la scoperta del chiaroscuro, che sfruttava la luce per definire attraverso la differenza di tonalità la tridimensionalità dei volumi, la prospettiva consentiva di rappresentare la tridimensionalità dello spazio attraverso l’uso della geometria proiettiva. Da questo momento in poi la tecnica pittorica del Rinascimento italiano andò ad affermarsi come la più avanzata e perfetta, conquistando un ruolo di egemonia in campo europeo ed occidentale fino alla metà dell’'800.
Le prime applicazioni della prospettiva avvennero a Firenze nel terzo decennio del XV secolo ad opera di Masaccio nel campo della pittura e di Donatello nel campo della scultura.
Intanto nuovi fronti di ricerca artistica venivano aperti in Olanda. Qui lo sviluppo della pittura fiamminga, l’altra grande novità europea del XV secolo nel contesto egemone della cultura tardogotica, portò ad indagare con maggiore attenzione la specificità della luce nella formazione della visione ma soprattutto all’invenzione della pittura ad olio, che rispetto alla tempera consentiva di ottenere colori più brillanti, più sfumati, e in genere più veritieri.
Maestri indiscussi di questa corrente artistica furono Jan Van Eyck, Roger Van Der Wayden, il Maestro di Flemalle. La loro fu una pittura dalla resa fotografica ottenuta grazie ad una grande sapienza nel trattamento del particolare più minuto. Una pittura estremamente analitica, a cui però mancava la sintesi propria della visione prospettica: quella sintesi che, riconducendo tutto ad un unico punto di vista, rendeva la composizione pittorica unitaria e razionale.
Masaccio, senza dubbio il primo pittore rinascimentale, morto all’età di soli 26 anni lasciò un’eredità che venne presto ripresa da altri artisti operanti a Firenze, quali il Beato Angelico, Filippo Lippi, Paolo Uccello, Domenico Veneziano. In essi si nota spesso un tentativo di mediazione tra il Rinascimento eroico e severo di Masaccio e le leziosità e preziosità dell’ultimo Tardogotico, che in quegli stessi anni vedeva in Italia ancora qualche grande interprete, come Gentile da Fabriano e il Pisanello.
Alla metà del secolo tuttavia la pittura rinascimentale si cominciava a diffondere in tutta Italia. A questa diffusione contribuirono alcuni trattati scritti sulla prospettiva, quali quelli di Leon Battista Alberti o di Piero della Francesca; ma soprattutto contribuì proprio la presenza di artisti di formazione fiorentina, che iniziarono a operare in vari centri della penisola. Il Beato Angelico fu chiamato a decorare la cappella Niccolina a Roma; Piero della Francesca alla splendida corte di Federico di Montefeltro ad Urbino; Andrea Mantegna alla corte dei Gonzaga a Mantova e di lì attraverso il cognato Giovanni Bellini riuscì ad estendere la pittura rinascimentale anche in area veneziana; Leonardo da Vinci operò nella Milano degli Sforza; Sandro Botticelli, il Perugino, Luca Signorelli, il Pinturicchio furono chiamati a decorare la cappella Sistina in Vaticano.
All’inizio del '500 la capitale del Rinascimento italiano divenne Roma, dove la presenza contemporanea di artisti come Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Bramante, Giulio Romano, Sebastiano del Piombo, creò una stagione di creatività artistica intensa ed esaltante. Il Rinascimento ormai era patrimonio comune dell’intera cultura artistica europea e contemporaneamente alla scoperta dell’America contribuì a quel rinnovamento culturale che chiudeva definitivamente il Medioevo per aprire l'Età moderna.

VIII.3. Il nuovo ruolo dell’artista
Fino alla fine del Medioevo la considerazione del ruolo dell’artista nell’ambito della società era pari a quella di un artigiano. Persone cioè la cui abilità era soprattutto manuale. E pertanto la pittura e la scultura venivano annoverate tra le cosiddette arti meccaniche e non tra le arti liberali come la poesia, la cui invenzione non richiedeva abilità manuale (non comportava che le mani si sporcassero) ma solo ispirazione intellettiva. All’artista non veniva riconosciuto il ruolo che con termine moderno definiamo di intellettuale. Ciò perché non si intendeva l’attività artistica come qualcosa di creativo ma di prevalentemente tecnico. E questo era un atteggiamento antico: già al tempo degli antichi greci, in cui per la prima volta fu impostato il problema dell’autonomia dell’arte ma non dell’invenzione creativa (l’arte era soprattutto mimesi), l’arte figurativa veniva definita col termine techne.
Sul piano delle scelte dei soggetti e dei contenuti unico e vero arbitro era solo il committente. E quanto più il committente era espressione di un potere forte politico o religioso, tanto più il ruolo dell’artista si limitava a quello di mero esecutore. Ed infatti la grande evoluzione dell’arte greca fu anche conseguenza del regime democratico in cui poté svilupparsi. Ma fu un’evoluzione che non portò alla libertà creativa degli artisti in quanto questi restavano condizionati e subordinati alla creazione superiore della natura di cui si facevano imitatori. L’arte romana fu anch’essa imitazione, o della realtà o dei modelli greci. Anche nel mondo romano l’artista svolse un ruolo prevalentemente tecnico. Nel Medioevo, in cui si assistì a un quasi monopolio artistico da parte delle gerarchie ecclesiastiche, l’aderenza al dogma divenne un vincolo ancora più inibitivo per qualsiasi libertà creativa personale. E difatti il Medioevo fu percorso da numerosi artisti anonimi, la cui abilità artigianale non ne fece personaggi degni di ricordo postumo.
Con la nascita dell’Umanesimo e del Rinascimento nelle arti figurative gli artisti presero coscienza del nuovo ruolo che andavano svolgendo nella società del loro tempo e rivendicarono anche per sé il ruolo di artisti liberali, ossia di intellettuali. Ciò che consentiva la nuova rivendicazione fu un’inedita articolazione del processo artistico, che portava a scindere concettualmente il momento dell'ideazione da quello dell'esecuzione. In tal modo la vera abilità o professionalità dell’artista veniva spostata sul piano dell’ideazione, rispetto all’esecuzione che al limite poteva essere demandata ad altri. All’artista era di pertinenza il momento dell’invenzione. Ma perché l’invenzione si traducesse in progetto dell’opera d’arte, era necessario mettere a punto uno strumento progettuale che verificasse la bontà dell’invenzione prima della sua esecuzione definiti va. E tale strumento fu il disegno.
Da questo momento il disegno assunse una considerazione ed una importanza nuova. Il disegno infatti, delineando le figure, organizzando la loro distribuzione, sperimentando nuovi punti di vista e nuovi scorci, rendeva l’attività artistica una continua sperimentazione dai connotati fortemente logici e razionali, che erano del tutto indipendenti dalla esecuzione definitiva delle opere. E la pratica del disegno divenne lo strumento fondamentale che unificava tutte le arti: possedere la capacità di disegnare significava saper progettare un dipinto, una scultura, un edificio, un gioiello, un mobile, praticamente tutto.
La nuova concezione artistica portava a privilegiare la razionalità del pensare e del fare, razionalità che divenne il termine di maggiore differenziazione anche polemica con il mondo medievale, basato più sulla fede e sulla trascendenza che non sulla razionalità umana. E questo bisogno di organizzare razionalmente in pittura e scultura la rappresentazione dello spazio ebbe come conseguenza la necessità di organizzare razionalmente anche lo spazio costruito: quello cioè dove operava l’architettura. Anche qui il primo protagonista del nuovo corso fu Filippo Brunelleschi. Anche qui il ritorno agli ordini architettonici classici ebbe più valore per la riscoperta di uno strumento progettuale che non per il ritorno ad un fattore di gusto.
Gli ordini classici sono un sistema modulare, la cui validità estetica è stata sperimentata da secoli di architettura classica. La loro applicazione, fatta di norme precise e certe, consentiva di ritornare a princìpi di armonia, di simmetria, di distribuzione di masse e di pesi, di partizioni regolari e sequenziali, che risultavano più gradevoli allo spirito ordinatore dell’artista rinascimentale.
In questo grande ritorno alla razionalità Leonardo da Vinci ha rappresentato l’uomo emblematico del Rinascimento. Colui che con l’uso della sua mente riesce a spaziare nei campi più disparati, da quelli artistici a quelli ingegneristici, da quelli teorici a quelli pratici. Suo grande rivale fu il Michelangelo Buonarroti. Anch’egli di formazione fiorentina ma più suggestionato dall’ambiente neoplatonico della Firenze di Lorenzo de’ Medici, Michelangelo fu un genio più passionale ed irruento di Leonardo. Di temperamento altrettanto caldo quanto quello del primo era freddo, fu percorso per tutta la sua attività artistica da grandi ossessioni esistenziali, che egli sublimò nella sua famosa terribilità di visione.
Artista eclettico quanto pochi altri, Michelangelo predilesse sempre l’attività di scultore, per la quale si sentiva più votato. Nel far uscire una forma da un masso di materia bruta, egli avvertiva in modo molto intenso e lancinante i contrasti spirito-corpo, vita-morte, forma-materia. Se Leonardo indagava i corpi umani per scoprire con freddo spirito osservatore le leggi meccaniche e fisiologiche del loro funzionamento, Michelangelo avvertiva nella fisicità materiale dell’uomo il lato bruto del suo essere, quel lato che lo portava alla corruzione della materia e alla morte, alla quale si opponeva la incorruttibilità dello spirito e del suo anelito di eternità. Il suo non-finito in scultura, come nella Pietà Rondanini, la sua ultima opera, crea la massima tensione possibile tra questi opposti, lasciandoci la testimonianza più alta ed intensa del dolore di vivere.
Michelangelo operò prevalentemente tra Firenze e Roma. Un percorso analogo fu seguito da un altro grande maestro del Rinascimento: Raffaello Sanzio. Nato ad Urbino e dopo un periodo di formazione fiorentina, Raffaello si trasferì a Roma dove divenne uno dei massimi interpreti della pittura rinascimentale. Genio solare e felice, nella sua breve vita (morì nel 1520 a 37 anni) operò con lena instancabile, lasciandoci una quantità incredibile di opere. Egli riuscì a sintetizzare gli insegnamenti più diversi, raccolti dal Perugino fino a Leonardo e a Michelangelo, acquisendo una tale abilità da poter controllare la rappresentazione di qualsiasi immagine. E i suoi erano quadri costruiti sempre con grande equilibrio e con grazia dolcissima, tanto da meritargli già quando era in vita l’aggettivo di “divino”.
Agli inizi del '500 un altro grande contributo all’arte rinascimentale venne da Venezia. Alla fine del '400 la città lagunare era ancora legata ad un mix stilistico, che interpretava in maniera originale le influenze dell’arte bizantina e dell’arte gotica. Alla fine del secolo la pittura rinascimentale venne introdotta da Giovanni Bellini. Suoi continuatori furono Giorgione e Tiziano Vecellio. La loro divenne presto una ricerca del tutto originale, a cui fu dato il nome di pittura tonale.
Il tono è quella sfumatura di un colore, che varia al variare della sua luminosità. Quando la luce colpisce gli oggetti viene riflessa e ci rimanda così la percezione dei colori. Ma se il colore può essere considerato una qualità oggettiva dell’oggetto, la nostra percezione del colore è invece condizionata dalla luce e varia al variare sia dell’intensità luminosa, sia dell’angolo d’incidenza della luce rispetto alla superficie riflettente.
Se la luce illumina un oggetto piano, avremo un angolo d’incidenza costante e quindi una tonalità uniforme di colore; se invece illumina un oggetto curvo, avremo un angolo d’incidenza variabile e quindi la tonalità varia uniformemente da un tono più chiaro ad uno più scuro. Questa osservazione aveva già portato alla scoperta dell’effetto chiamato chiaroscuro, usato già nell’arte italiana del '300 per la resa tridimensionale dei corpi e dei volumi. Un’altra scoperta riguardo alla luce era stata merito dall’arte fiamminga agli inizi del '400. I fiamminghi infatti capirono che la luce può provenire da una fonte diffusa (con raggi paralleli tra loro) o da una fonte concentrata con raggi che tengono a convergere in un punto. E se la pittura occidentale aveva sempre considerato la luce come uniformemente diffusa, i fiamminghi furono i primi a sperimentare la differenza di tono nel caso in cui la fonte luminosa fosse concentrata. È possibile notarlo già nel Ritratto dei Coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck, dove la parete di fondo, pur essendo piana, è trattata a chiaro-scuro in quanto la luce che la illumina è solo quella proveniente dalla finestra posta sulla destra. In sostanza anche l’illuminazione di una superficie piana avviene con un angolo di incidenza variabile, se la fonte luminosa è concentrata. Questa novità influenzò in maniera più o meno diretta anche l’arte rinascimentale, sia attraverso Antonello da Messina (che introdusse in Italia anche la pittura ad olio, inventata proprio dai fiamminghi), sia attraverso Leonardo da Vinci. Quest’ultimo si concentrò poi su ricerche personali, raggiungendo livelli di conoscenza della percezione ottica delle forme, dello spazio e della luce talmente avanzate, che rimasero quasi senza seguito nella cultura artistica successiva. Antonello fu invece uno dei protagonisti della introduzione a Venezia del colore fiammingo, fornendo uno degli stimoli allo sviluppo della pittura tonale.
La novità della pittura veneziana stava nel trattare con tonalità chiare o scure gli effetti atmosferici, creando profondità spaziali ottenute solo con la luce e le ombre senza ricorrere alle geometrie delle architetture dipinte, che nell’arte rinascimentale fiorentina rendevano visibile lo spazio virtuale in cui si rappresentava la scena. Questa grande novità, che ebbe influenze profonde in tutta l’arte successiva almeno fino a Manet nella seconda metà dell’'800, nacque per la grande importanza che i pittori veneziani attribuivano al colore.
Il disegno portava ad immagini dove la riconoscibilità delle forme era garantita dai tratti neri che ne delineavano i margini. Ciò era un’astrazione, in quanto le forme non finiscono con tratti neri ma con variazioni di colori o di toni. Gli artisti veneziani, prediligendo la pittura al disegno, avevano l’obiettivo di giungere ad immagini più vere e naturali e così finirono per abolire quasi del tutto il disegno nella realizzazione dei loro quadri.

VIII.4. Il dissolversi del Rinascimento
Nella seconda metà del '500 il Rinascimento vide una generale diffusione in tutta Europa. La scoperta della prospettiva, unita alle altre scoperte sulla luce e sul colore, aveva fornito un vocabolario completo di soluzioni formali, che per la sua validità tecnica ebbe il senso di una conquista astorica slegata da fattori di gusto o di stile.
Alla metà del '500 in Italia il Rinascimento, ormai maturo, conobbe una stagione intensa, caratterizzata da tantissimi ottimi artisti, ma mancante delle personalità geniali della prima metà del secolo, Leonardo, Michelangelo, Raffaello. Ciò ha portato a considerare questo periodo in rapporto al precedente in maniera analoga al rapporto che ci fu tra Ellenismo e arte greca classica: non più periodo di ricerca ma di codificazione delle norme artistiche già acquisite e di loro diffusione attraverso la pratica accademica.
Per questo motivo all’arte della seconda metà del '500 è stato dato il nome di Manierismo, dove con il termine Maniera (fare arte alla maniera di…) si denotava appunto la codificazione accademica del fare artistico così come praticato dai grandi maestri precedenti. Da qui poi il termine Manierismo ha acquisito una universalità astorica, indicando ogni momento della produzione artistica riscontrabile in tutti i periodi storici in cui si procedeva senza ulteriori sperimentazioni ma applicando i princìpi artistici già di provata efficacia e successo. In seguito, dall’'800 in poi, il termine Manierismo è stato generalmente sostituito da quello di Accademismo, indicando in sostanza il medesimo atteggiamento.
Ma l’evento che nella seconda metà del '500 doveva influenzare maggiormente l’arte del periodo successivo fu il Concilio di Trento con il clima controriformistico che ne seguì. L’arte manieristica, divenuta sempre più formale, era quasi del tutto indifferente rispetto ai contenuti, soprattutto quelli etici. La Controriforma volle invece richiamare gli artisti ad una maggiore osservanza della serietà del compito loro affidato, soprattutto quando producevano opere di soggetto religioso. Ricordiamo che il Rinascimento dopo la fine dell’età classica aveva riportato anche contenuti mitologici o laici all’interno della produzione artistica, spezzando di fatto quel monopolio che la Chiesa e la religione avevano avuto sulla produzione artistica per tutto il Medioevo. Tuttavia anche nel Rinascimento le opere su soggetti religiosi costituivano la quota maggiore della produzione di un artista.
Il Concilio di Trento dettò norme precise sulla produzione artistica. Vietando l’uso del nudo e l’ispirazione al mondo classico e alla mitologia pagana, chiudeva definitivamente il mondo figurativo del Rinascimento. I primi a farne le spese furono Paolo Veronese per una sua Ultima cena nota come Cena in casa Levi , Michelangelo per il suo Giudizio Universale nella Cappella Sistina. Paolo Veronese, a cui si contestava l’eccessiva liceità, fu costretto ad eliminare dal suo affresco le figure considerate blasfeme e a cambiare titolo all’opera, che divenne appunto la Cena in casa Levi. Nel 1563, anno di conclusione del Concilio di Trento e della morte di Michelangelo, si iniziarono a coprire le nudità considerate più scandalose del suo affresco nella Sistina. Il mondo dell’arte sembrò reagire con senso di cupezza al nuovo clima di inquisizione e caccia alle streghe. Il senso della morte, del peccato, dell’espiazione riacquistarono nuovo vigore, pur se in forme meno mistiche ma più truculente rispetto al Medioevo. L’artista che più di ogni altro impersonò questo momento storico fu Michelangelo Merisi, il Caravaggio. La sua fu un’autentica rivoluzione nel campo della pittura e l'influenza sull’arte europea successiva fu immensa. Egli è stato l’ultimo grande pittore italiano che ha fatto scuola in Europa. L’arte italiana, che da Giotto in poi aveva acquisito un ruolo primario indiscusso, con Caravaggio declinava dal suo primato dopo tre secoli in cui grazie al Rinascimento aveva totalmente dominato la scena europea. Dagli inizi del '600 in poi le novità artistiche verranno da altri luoghi: Parigi soprattutto, ma anche l’Olanda, l’Inghilterra, la Spagna.
Ma torniamo a Caravaggio. La sua fu una pittura tutta giocata sulla verità nuda e cruda. Nessuna idealizzazione, nessuna trasfigurazione. I vecchi avevano l’aspetto di veri vecchi anche se impersonavano dei santi (vedasi la Crocifissione di San Pietro), e i giovani avevano l’aspetto di ragazzi di borgata anche se rappresentavano divinità mitologiche (vedasi il Bacchino malato). E questo suo realismo, che ai contemporanei apparve eccessivo, ha fatto definire la sua pittura come naturalistica. Tuttavia la grande novità tecnica che portò Caravaggio non fu tanto il naturalismo, quanto il modo di dosare la luce e l’ombra nei suoi quadri.
Egli per illuminare la scena sceglieva una luce concentrata, proveniente ad esempio da una fiaccola che diffondeva una luce vivace ma rossastra. Con una illuminazione tanto scarsa l’ombra prevaleva su ciò che rischiarava. E nei quadri di Caravaggio ciò che è realmente protagonista è proprio il buio. Un’oscurità densa, piena di mistero e di angoscia, di paura e di terrore. Un’oscurità da cui emergono quasi come incubi le immagini delle persone. Immagini parziali, che mostrano quel tanto che basta per farci intendere cosa succede. Ma in un attimo, prima che tutto ritorni alla sostanza tenebrosa dell’ombra.
Qualcosa di così drammatico non si era mai visto prima. La pittura di Caravaggio creava un pathos che andava al di là del dramma che rappresentava. Creava una inquietudine sottile e penetrante, che solleticava direttamente alcune delle risonanze più profonde dell’animo umano.
Anche la vita di Caravaggio sembra uno specchio della sua pittura: breve, intensa, drammatica, violenta. La sua fuga da Roma con l’accusa di aver ucciso un giovane in una lite da osteria lo portò a peregrinare nel Sud d’Italia, tra Napoli, la Sicilia e Malta. Qui lasciò un’impronta che avrebbe condizionato tutta l’arte napoletana del '600 (Battistello Carracciolo), e di qui la sua influenza si estese anche alla Spagna (Zurbaran). Ma la sua pittura suggestionò anche quella olandese (Rembrandt, Van Honthorst) e quella francese (De La Tour), estendendosi così a tutta l’Europa.
Il caravaggismo in area napoletana e spagnola fu la pittura della religione gesuitica e controriformistica in cui la morte era la vera protagonista dei destini umani con tutto il suo carico di ammennicoli macabri ed orridi. In Olanda, invece, acquistò toni di intimismo lirico, che tendeva più al fiabesco che non al orrifico. E ciò soprattutto nell’ultimo Rembrandt, dove le immagini hanno la sostanza stessa dei sogni. Ma qui va notata soprattutto la tecnica, che lo rende di certo il pittore più importante del '600 europeo. Una tecnica che lo avvicina al vecchio Tiziano, che nelle sue ultime opere aveva già sperimentato una pittura dalla trama rada, con poche pennellate, senza levigatezza ma con il tocco del pennello reso evidente dalla mancanza di rifiniture successive. In Tiziano quella tecnica aveva reso le sue immagini quasi decomposte (Il sacrificio di Marsia), sintomo di quel disfarsi della forma, che si accompagna al disfarsi della materia vitale di chi è al tramonto della propria vita. In Rembrandt, anche se possono esserci le stesse motivazioni legate alla maturità e alla vecchiaia, le immagini sono grandiose e sublimi, perché sono la sintesi inscindibile di ideazione ed esecuzione. Sono immagini che vanno direttamente da una visione interiore alla tela attraverso una mano felice, a cui bastano pochi tocchi di pennello per creare le forme, i riflessi della luce, le suggestioni atmosferiche.
Il Rinascimento aveva separato idealmente il momento della concezione di un’opera d’arte da quello della esecuzione. L'esecuzione spesso non era più neppure eseguita dall’artista ma veniva quasi totalmente demandata ai collaboratori. E in ciò l’esempio più caratteristico fu quello di Raffaello, la cui enorme bottega lavorava quasi a ciclo industriale, come una catena di montaggio. Questa visione molto moderna di concepire un ciclo produttivo, finiva col togliere alle opere quella loro aura di unicità. Anche la pittura di Michelangelo e di Caravaggio con tutta la sua carica di innovazione e di invenzione alla fine poteva sempre essere imitata o copiata. La pittura di Rembrandt no, perché era il frutto di una mano unica. E con ciò si riaffermava prepotentemente il ruolo dell’artista in quanto sintesi di pensiero ed azione; di creatore unico della sua opera. Visione questa dell’artista, che entrerà in crisi solo con le Avanguardie storiche del '900.

Fonti e approfondimenti: www.francescomorante.it
Francesco Morante

 

ARTE D'OCCIDENTE

profilo storico generale

IV. Dal '600 all''800

IX. Dal '600 all''800

IX.1. Il Barocco
Il '600 è stato il secolo di Caravaggio e di Rembrandt ma soprattutto del Barocco. Con questo termine più che uno stile va inteso un modo di essere che va oltre la produzione artistica. Ed infatti il termine “barocco” ha preso un significato universale che denota qualcosa di fantasioso, di artificioso, di irregolare, di eccessivo. Il '600 è stato un secolo in cui le apparenze avevano un ruolo notevole. La stessa vita sociale era legata agli sfarzi e ai protocolli formali: gli abbigliamenti erano sempre complicati ed artificiosi, fatti di merletti, parrucche, acconciature elaborate; gli oggetti d’uso avevano sempre forme arzigogolate e strambe, con dorature, velluti, decorazioni eccessive; tutto era ostentazione e vanità, lusso e sfarzosità.
Questo atteggiamento basato sull’eccesso ebbe riscontro anche nella produzione artistica, soprattutto nell’architettura. Qui infatti la razionalità basata sulla geometria e sugli ordini architettonici, che aveva informato l’architettura del Rinascimento, fu totalmente negata da un’architettura tutta e solo di linee curve. Ed infatti i protagonisti principali del Barocco, che nacque a Roma intorno al 1630, furono tre architetti: Francesco Borromini, Gian Lorenzo Bernini e Pietro da Cortona. Il primo in verità fu solo architetto, mentre il Bernini fu anche e soprattutto scultore, Pietro da Cortona pittore.
Se l’architettura rinascimentale si era occupata soprattutto degli edifici in quanto oggetti in sé e solo raramente delle città (giusto qualche piazza quale il Campidoglio), il Barocco si occupò invece prevalentemente degli spazi urbani. Nelle città il Barocco dilagò come una pelle nuova che rivestiva gli spazi secondo le necessità del rinnovamento del gusto. Una pelle che creava decorazioni mosse e curve, mai geometriche, con effetti scenografici bellissimi.
Queste decorazioni, che potevano indifferentemente rivestire un edificio antico o uno nuovo creando una omogeneità di immagine che nulla rivelava dell’essenza delle strutture, in seguito furono avvertite come qualcosa di falso, di posticcio, che nasconde la verità delle cose. E in effetti proprio sul dualismo vero-falso si fonda molto della concezione artistica del Barocco.
Il Rinascimento era nato dalla polemica razionalista nei confronti della trascendentalità medievale, che riduceva tutto alla fede. Il Rinascimento quindi era alla ricerca di quel vero che era una caratteristica imprescindibile dal bello. E il suo naturalismo pittorico, fondato sulla razionalizzazione delle immagini sulla base della prospettiva ottica umana, cercava il suo primato proprio nella verità della visione rappresentata. Il Barocco invece aveva scisso l’apparenza dalla sostanza delle cose. E riusciva a rendere vere, o veritiere, anche immagini false: da qui uno dei grandi filoni dell’arte barocca, che possiamo definire dell’illusionismo.
È chiaro che, se si cerca il gioco delle apparenze, si crea l’ambiguità tra il vero e il falso, che tendono a confondersi tra loro con facilità. Ma perché il Barocco gioca con il falso? Perché il vero in quegli anni era divenuto di esclusivo dominio della scienza. Di quella scienza che, basandosi sul metodo sperimentale di Galileo Galilei e sui nuovi metodi matematici di Isaac Newton, aveva ridotto la ricerca del vero a fredda razionalità. L’aveva condotta in un territorio dove la fantasia e l’immaginazione non avevano cittadinanza.
Il Barocco in sostanza crea il concetto di immagine in senso già moderno, come apparenza delle cose. E l’apparenza in un secolo come il '600 non può che tendere all’enfatico, al retorico, all’artificioso, al bizzarro, al capriccioso. E per questo tende ad aprire un varco tra immagine e sostanza. Se dare a ciò un giudizio di falsità è del tutto legittimo, meno legittimo è giudicare il Barocco come irrazionale. Infatti la cultura figurativa barocca, così come l’architettura e l’artigianato del periodo, si è basata su una grandissima perizia tecnica. Una perizia spinta fino ai limiti del virtuosismo, che non poteva assolutamente essere irrazionale.
Il Barocco comunque è stato un movimento di gusto più che uno stile artistico, che si affermò in tutte le capitali europee. Ebbe molta fortuna in Spagna ed in Portogallo, diffondendosi nelle loro colonie e divenendo lo stile anche dell’America Latina. Ma il Barocco ebbe successo anche in Francia, in Germania, in Austria e nell’Est europeo.
In seguito, nel corso del XVIII secolo, il Barocco prese toni meno foschi e drammatici rispetto all’arte del secolo precedente. Divenne quello stile che con termine francese venne definito Rococò. Il gusto dell’irregolare e del fantasioso servì a dare immagine al gusto aristocratico e neoborghese della galanteria, della seduzione. Ma il '700 si apriva a nuove istanze sociali e culturali. Presto lo spirito di razionalità dell’Illuminismo avrebbe reagito contro il principio dell’irregolarità fantasiosa ed arbitraria tipico del Barocco e del Rococò. Nel contempo la nascita dell’archeologia moderna, insieme agli scavi che dall’inizio del secolo cominciarono ad essere effettuati a Ercolano e Pompei, permise di conoscere meglio quell’arte classica a cui, quasi come un mito, si era ispirata l’arte rinascimentale, e per estensione tutta l’arte italiana a partire dal '200 in poi. Fu una conoscenza che come un vento nuovo fece di colpo avvertire il Barocco come una peste del gusto. Una degenerazione della rinascita che, partendo da principi classici, era andata verso l’anarchia e l’arbitrio. Quasi come un ritorno all’ordine il nuovo gusto neoclassico chiuse definitivamente l’epoca barocca in nome di un pratica artistica che unisse razionalità illuministica e riscoperta filologica dell’antico.

IX.2. Il Neoclassicismo
La vicenda del Neoclassicismo inizia alla metà del XVIII secolo (1750) per concludersi con la fine dell’Impero Napoleonico nel 1815. Ciò che contraddistingue lo stile artistico di quegli anni fu l’adesione ai princìpi dell’arte classica. Quei principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione, serenità, erano stati presenti nell’arte degli antichi greci e degli antichi romani, che proprio in questo periodo fu riscoperta e ristudiata con maggior attenzione ed interesse grazie alle numerose scoperte archeologiche.
I caratteri principali del Neoclassicismo sono diversi:
1. esprime il rifiuto dell’arte barocca e della sua eccessiva irregolarità;
2. fu un movimento teorico, grazie soprattutto al Winckelmann che ipotizzò il ritorno al principio classico del bello ideale;
3. fu una riscoperta dei valori etici della romanità e ciò soprattutto in David e negli intellettuali della Rivoluzione Francese;
4. fu l’immagine del potere imperiale di Napoleone, che ai segni della romanità affidava la consacrazione dei suoi successi politico-militari;
5. fu un vasto movimento di gusto, che finì per riempire con i suoi segni anche gli oggetti d’uso e d’arredamento.
I principali protagonisti del Neoclassicismo furono il pittore Anton Raphael Mengs (1728-1779), lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), che furono anche i teorici del Neoclassicismo, gli scultori Antonio Canova (1757-1822) e Bertel Thorvaldsen (1770-1844), il pittore francese Jacques-Louis David (1748-1825), i pittori italiani Andrea Appiani (1754-1817) e Vincenzo Camuccini (1771-1844).
Winckelmann, Mengs, Canova, Thorvaldsen operarono tutti a Roma, che nella seconda metà del '700 divenne la capitale incontrastata del Neoclassicismo, il baricentro dal quale questo nuovo gusto si irradiò in tutta Europa. A Roma nello stesso periodo operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi, che con le sue incisioni a stampa diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. L’Italia nel '700 fu la destinazione obbligata di quel Grand Tour, che per la nobiltà e gli intellettuali europei rappresentava una esperienza fondamentale di formazione del gusto e dell’estetica artistica. Roma in particolare, dove si stabilirono scuole ed accademie di tutta Europa, divenne la città dove avveniva l’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori. Tra questi ci fu anche David, il pittore più ortodosso del nuovo gusto neoclassico.
Con l’opera del David il Neoclassicismo divenne lo stile della Rivoluzione Francese e ancor più in seguito lo stile ufficiale dell’Impero di Napoleone. E dalla fine del '700 la nuova capitale del Neoclassicismo non fu più Roma ma Parigi.
Il Neoclassicismo tende a scomparire subito dopo il 1815 con la sconfitta di Napoleone. Nei decenni successivi venne progressivamente sostituito dal Romanticismo, che nel 1830 soppiantò definitivamente il Neoclassicismo. Tuttavia, pur se non rappresenta più l’immagine di un’epoca, il Neoclassicismo sopravvisse come fatto stilistico per quasi tutto l’'800, soprattutto nella produzione aulica dell’arte ufficiale e di stato e nelle Accademie di Belle Arti. E questa sopravvivenza stilistica oltre ai consueti limiti cronologici è riscontrabile soprattutto nella produzione di un artista come Ingres, la cui opera si è sempre attenuta ai canoni estetici della grazia e della perfezione, capisaldi di qualsiasi Classicismo.
Tra i motivi di questo rinato interesse per il mondo antico ci furono le scoperte archeologiche, che segnarono tutto il XVIII secolo. In questo secolo furono scoperte prima Ercolano, poi Pompei, quindi Villa Adriana a Tivoli e i templi greci di Paestum; ed infine giunsero dalla Grecia numerosi reperti archeologici, che finirono nei principali musei europei, a Londra, Parigi, Monaco. Negli stessi anni si diffusero numerose pubblicazioni, tra cui Le rovine dei più bei monumenti della Grecia del 1758 del francese Le Roy, Le antichità di Atene del 1762 degli inglesi Stuart e Revett e le incisioni di antichità italiane del romano Piranesi, che contribuirono notevolmente a diffondere la conoscenza dell’arte classica. Questa opera di divulgazione fu importante non solo per la conoscenza della storia dell’arte ma anche per il diffondersi dell’estetica del Neoclassicismo. Con queste campagne di scavo non solo si ampliò la conoscenza del passato ma fu chiaro il rapporto, nel mondo classico, tra arte greca e arte romana. Quest’ultima rispetto alla greca apparve solo un pallido riflesso ed un epigono, se non addirittura una semplice copia. La vera fonte della grandezza dell’arte classica venne riconosciuta nella produzione greca degli artisti del V-IV secolo a.C., quel periodo eroico che vide sorgere la statuaria plastica di Fidia, Policleto, Mirone, Prassitele fino a Lisippo. E la perfezione senza tempo di questa scultura influenzò profondamente l’estetica del '700, divenendo modello per gli artisti del tempo.
Il Neoclassicismo nacque come desiderio di una arte più semplice e pura rispetto a quella barocca, vista come eccessivamente fantasiosa e complicata. Questo desiderio di semplicità si coniugò alla constatazione, fornita dalle scoperte archeologiche, che già in età classica si era ottenuta un’arte semplice ma di nobile grandiosità. Il Barocco apparve allora come il frutto malato di una degenerazione stilistica che, pur partita dai principi della classicità rinascimentale, era andata deformandosi per la ricerca dell’effetto spettacolare ed illusionistico.
Il Barocco è complesso, virtuosistico, sensuale: il Neoclassicismo vuole essere semplice, genuino, razionale. Il Barocco propone l’immagine delle cose che può anche nascondere nella sua bellezza esterna le brutture interiori; il Neoclassicismo non si accontenta della sola bellezza esteriore, vuole che questa corrisponda ad una razionalità interiore. Il Barocco perseguiva effetti fantasiosi e bizzarri, il Neoclassicismo cerca l’equilibrio e la simmetria; se il Barocco si affidava alla immaginazione e all’estro, il Neoclassicismo si affida alle norme e alle regole.
Il principio della razionalità è una componente fondamentale del Neoclassicismo. È da ricordare che il '700 è stato il secolo dell’Illuminismo. Di una corrente filosofica che cerca di rischiarare la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre dell’ignoranza, della superstizione, dell’oscurantismo, attraverso la conoscenza e la scienza. E per far ciò bisogna innanzitutto liberarsi da tutto ciò che è illusorio. E l’arte barocca ha sempre perseguito l’illusionismo come pratica artistica.
Il Neoclassicismo ha diversi punti di similitudine con il Rinascimento: come questo fu un ritorno all’arte antica e alla razionalità. Ma le differenze sono sostanziali: la razionalità rinascimentale era di matrice umanistica e tendeva a liberare l’uomo dalla trascendenza medievale; la razionalità neoclassica è invece di matrice illuministica e tendeva a liberare l’uomo dalla retorica, dalla ignoranza e dalla falsità barocca. Il ritorno all’antico per l’artista rinascimentale era il ritorno ad un atteggiamento naturalistico nei confronti della rappresentazione, che lo liberava dal Simbolismo astratto del Medioevo; per l’artista neoclassico fu invece la codificazione di una serie di norme e di regole che servivano ad imbrigliare quella fantasia che nell’età barocca aveva agito con eccessiva licenza e sregolatezza. Infine rispetto alla grande stagione dell’arte rinascimentale quella neoclassica ha esiti ben modesti, in cui si avverte una frigidità di sentimenti e di sensazioni che la rende poco affascinante.
Massimo teorico del Neoclassicismo fu il Winckelmann. Nel 1755 pubblicava le Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, nel 1763 la Storia dell’arte nell’antichità. In questi scritti egli affermava il primato dello stile classico (soprattutto greco, che lui idealizzava al di là della realtà storica), quale mezzo per ottenere la bellezza ideale contraddistinta da nobile semplicità e calma grandezza. Winckelmann considerava l’arte come espressione di un’idea concepita senza il soccorso dei sensi. Un’arte quindi tutta cerebrale e razionale, purificata dalle passioni e fondata su canoni di bellezza astratta. Le sue teorie artistiche trovarono un riscontro immediato nell’attività scultorea di Antonio Canova e di Thorvaldsen.
La scultura più di ogni altra arte sembrò adatta a far rivivere la Classicità. Le maggiori testimonianze artistiche dell’antichità sono infatti sculture. E nella scultura neoclassica si avverte il legame più diretto e immediato con l’idea di bellezza classica. Una pittura classica di fatto non esiste, anche perché le testimonianze di quel periodo sono quasi tutte scomparse. Le uniche pitture ad affresco a noi note comparvero proprio in quegli anni negli scavi di Ercolano e Pompei. Esse tuttavia, per quanto suggestive nella loro iconografia così esotica, si presentavano di una semplificazione stilistica (definita compendiaria) inutilizzabile per la moderna sensibilità pittorica. Così che i pittori neoclassici dovettero ispirarsi stilisticamente più alla pittura rinascimentale italiana, in particolare a Raffaello, che non all’arte classica vera e propria.
I caratteri della scultura neoclassica sono la perfezione di esecuzione, la estrema levigatezza del modellato, la composizione molto equilibrata e simmetrica, senza scatti dinamici. La pittura neoclassica si riaffidò agli strumenti del naturalismo rinascimentale: la costruzione prospettica, il volume risaltato con il chiaroscuro, la precisione del disegno, immagini nitide senza giochi di luce ad effetto, la mancanza di tonalismi sensuali.
I soggetti delle opere d’arte neoclassiche divennero personaggi e situazioni tratti dall’antichità classica e dalla mitologia. Le storie di questo passato, oltre a far rivivere lo spirito di quell’epoca che tanto suggestionava l’immaginario collettivo di quegli anni, serviva alla riscoperta di valori etici e morali di alto contenuto civile, che la storia antica proponeva come modelli. La storia antica quindi divenne un serbatoio di immagini allegoriche da utilizzare come metafora sulle situazioni del presente. Ciò è maggiormente avvertibile per un pittore come David, nei cui quadri la storia del passato è solo un pretesto o una metafora per proporre valori ed idee per il proprio tempo.
Il Neoclassicismo nella sua poetica invertì il precedente atteggiamento dell’arte Rococò. Questa nella sua ricerca della sensazione emotiva o sensuale sceglieva immagini che materializzavano l’attimo fuggente. Il Neoclassicismo non propone mai la massima del carpe diem ma, coerentemente con la sua impostazione classica, rappresenta solo momenti pregnanti, quelli in cui c'è la maggiore carica simbolica di una storia. In cui si raggiunge l’apice di intensità psicologica, di concentrazione, di significanza: il momento in cui un certo fatto o evento entra nella storia o nel mito.

IX.3 Il Romanticismo
Il Romanticismo è un movimento artistico dai contorni meno definiti rispetto al Neoclassicismo. Benché si sia affermato in Europa dopo che il Neoclassicismo ha esaurito la sua vitalità, ossia intorno al 1830, in realtà era nato molto prima. Le prime tematiche, che lo preannunciavano, sorsero già verso la metà del XVIII secolo. Esse tuttavia rimasero in incubazione durante tutto lo sviluppo del Neoclassicismo per riapparire e consolidarsi solo nei primi decenni dell’'800. Il Romanticismo ha poi cominciato ad affievolirsi verso la metà del XIX secolo, anche se alcune sue suggestioni e propaggini giungono fino alla fine del secolo.
Il Romanticismo è un movimento che si definisce bene proprio confrontandolo con il Neoclassicismo. Mentre il Neoclassicismo dà importanza alla razionalità umana, il Romanticismo rivaluta la sfera del sentimento, della passione ed anche della irrazionalità. Il Neoclassicismo è profondamente laico e persino ateo; per contro il Romanticismo è un movimento di grandi suggestioni religiose. Il Neoclassicismo aveva preso come riferimento la storia classica; il Romanticismo invece guarda alla storia del Medioevo, rivalutando questo periodo che fino ad allora era stato considerato buio e barbarico. Infine, mentre il Neoclassicismo impostava la pratica artistica sulle regole e sul metodo, il Romanticismo rivalutava l’ispirazione e il genio individuale.
È da considerare inoltre che, mentre il Neoclassicismo è uno stile internazionale e in ciò rifiuta le espressioni locali considerandole folkloristiche ossia di livello inferiore, il Romanticismo si presenta con caratteristiche differenziate da nazione a nazione. Così di fatto il Romanticismo inglese risulta differente da quello francese, italiano o tedesco, e così via.
Il Romanticismo in realtà, a differenza del Neoclassicismo, non è uno stile, in quanto non si fonda su dei princìpi formali definiti. Esso può essere invece considerato una poetica, in quanto, più che alla omogeneità stilistica tende alla omogeneità dei contenuti, che sono sintetizzabili in quattro grandi categorie:
1. l’armonia dell’uomo nella natura;
2. il sentimento della religione;
3. la rivalutazione dei caratteri nazionali dei popoli;
4. il riferimento alle storie del Medioevo.
La categoria estetica del Neoclassicismo è stata sempre e solo una: il bello. Il bello è qualcosa che deve ispirare sensazioni estetiche piacevoli, gradevoli, e per far ciò deve nascere dalla perfezione delle forme, da armonia, regolarità, equilibrio, eccetera. Già dalle sue prime formulazioni teoriche presso gli antichi greci il bello conserva al fondo una regolarità geometrica che è il frutto della capacità umana di immaginare e realizzare forme perfette. Pertanto nella concezione propriamente neoclassica il bello è la qualità specifica dell’operare umano. La natura non produce il bello ma produce immagini che possono ispirare due sentimenti fondamentali: il pittoresco o il sublime.
Il sublime conosce la sua prima definizione teorica nel 1756 grazie a E. Burke con un saggio dal titolo Ricerca filosofica sulla origine delle idee del sublime e del bello. Burke considera il bello e il sublime opposti tra loro. Il sublime non nasce dal piacere della misura e della forma bella né dalla contemplazione disinteressata dell’oggetto, ma ha la sua radice nei sentimenti di paura e di orrore suscitati dall’infinito, dalla dismisura, da «tutto ciò che è terribile o riguarda cose terribili» (per esempio il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio: riprendendo questi esempi Kant dirà: «sono sublimi le alte querce e belle le aiuole; la notte è sublime, il giorno è bello»).
Immanuel Kant approfondisce il significato del sublime. Il sublime non deriva, come il bello, dal libero gioco tra sensibilità e intelletto, ma dal conflitto tra sensibilità e ragione. Si ha pertanto quel sentimento misto di sgomento e di piacere che è determinato sia dall’assolutamente grande e incommensurabile (la serie infinita dei numeri o l’illimitatezza del tempo e dello spazio: sublime matematico), sia dallo spettacolo dei grandi sconvolgimenti e fenomeni naturali, che suscitano nell’uomo il senso della sua fragilità e finitezza (sublime dinamico).
Il pittoresco è una categoria estetica che trova la sua prima formulazione solo alla fine del '700 grazie ad U. Price, che nel 1792 scrisse Un saggio sul pittoresco, paragonato al sublime e al bello. Tuttavia la sua prima comparsa nel panorama artistico è rintracciabile già agli inizi del '700, soprattutto nella pittura inglese e poi nel Rococò francese. Il pittoresco rifiuta la precisione delle geometrie regolari per ritrovare la sensazione gradevole nella irregolarità e nel disordine spontaneo della natura.
Il pittoresco è la categoria estetica dei paesaggi. Tutta la pittura romantica di paesaggio conserva questa caratteristica. Essa nel corso del '700 ispirò anche il giardinaggio, facendo nascere il cosiddetto giardino all’inglese. L’arte del giardinaggio nel corso del Rinascimento e del Barocco aveva prodotto il Giardino all’italiana, ossia una composizione di elementi vegetali (alberi, siepi, aiuole) e artificiali (vialetti, scalinate, panchine, padiglioni, gazebi) ordinati secondo figure geometriche e regolari. Il Giardino all’inglese rifiuta la regolarità geometrica e dispone ogni cosa in un’apparente casualità. Divengono elementi caratteristici di questo tipo di giardino i vialetti tortuosi, i dislivelli, le pendenze, la disposizione irregolare degli arbusti. Un altro elemento caratteristico del Giardino all’inglese è la falsa rovina.
Il sentimento della rovina è tipico della poetica romantica. Le rovine ispirano la sensazione del disfacimento delle cose prodotte dall’uomo, dando allo spettatore la commozione del tempo che passa. Le testimonianze delle civiltà passate, pur se vengono aggredite dalla corrosione del tempo, rimangono comunque presenti in questi segni del passato. E la rovina per lo spirito romantico è più emozionante e piacevole di un edificio o di un manufatto intero. Ovviamente nell’arte del giardinaggio, pur in mancanza di rovine autentiche, ci si accontentava di false rovine. Ossia di copie di edifici o statue del passato riprodotte allo stato cadente.
Uno dei tratti più caratteristici del Romanticismo è la rivalutazione del lato passionale e istintivo dell’uomo. Questa tendenza porta a ricercare le atmosfere buie e tenebrose, il mistero, le sensazioni forti, l’orrido e il pauroso. L’artista romantico ha un animo ipersensibile, sempre pronto a continui turbamenti. L’artista non si sente più un borghese ma inizia a comportarsi in modo anticonvenzionale. In alcuni casi diventa decisamente asociale e amorale. È disperato e maledetto, alimenta il proprio genio di trasgressioni ed eccessi.
L’artista romantico è un personaggio fondamentalmente pessimista. Vive il proprio malessere psicologico con grande drammaticità. E il risultato di questo atteggiamento è un arte che non di rado ricerca l’orrore, come alcuni quadri di Gericault che raffigurano teste di decapitati o le visioni allucinate di Goya come Saturno che divora i figli.
Dopo un secolo, il '700, che era stato fortemente laico ed anticlericale, l’arte romantica riscoprì anche la sfera religiosa; il fenomeno era iniziato già nel 1802 con la pubblicazione da parte di Chateaubriand de Il genio del Cristianesimo. Negli stessi anni iniziava, soprattutto grazie a von Schlegel e Schelling in Germania, una concezione mistica e idealistica dell’arte, intesa come dono divino. L’arte deve scoprire l’anima delle cose, rivelando concetti quali il sentimento, il religioso, l’interiore. Il primo pittore a seguire queste indicazioni fu il tedesco C. D. Friedrich.
Questo interesse per la dimensione della interiorità e della spiritualità umana portò il Romanticismo a preferire linguaggi artisti non figurativi, come la musica e la letteratura e la poesia. Queste infatti sono le arti che più di altre incarnano lo spirito del Romanticismo.
Sono diversi i motivi che portarono la cultura romantica a rivalutare il Medioevo. I principali sono tre:
1. il Medioevo è stato un periodo mistico e religioso;
2. nel Medioevo si sono formate le nazioni europee;
3. nel Medioevo il lavoro era soprattutto artigianale.
Nel Medioevo la religione aveva svolto un ruolo fondamentale per la società del tempo. Forniva le coordinate non solo morali, ma anche esistenziali. Allo spirito della religione era improntata tutta l’esistenza umana. Questo aspetto fa sì che nel Romanticismo si guardi al Medioevo come ad un’epoca positiva, perché pervasa da un forte misticismo e spiritualità.
Inoltre la rivalutazione del Medioevo nasceva da un atteggiamento polemico sul piano politico. È da ricordare infatti che il Neoclassicismo nella sua ultima fase era divenuto lo stile di Napoleone e del suo impero. Di una entità politica cioè che aveva cercato di eliminare le varie nazioni europee per fonderle in un unico stato. Per le coscienze europee il crollo dell’Impero Napoleonico aveva significato soprattutto la rivalutazione delle diverse nazionalità che nel nostro continente si erano formate proprio nel Medioevo con il crollo di un altro impero sovranazionale: quello romano.
Il Neoclassicismo, nella sua perfezione senza tempo, aveva cercato di sovrapporsi alle diversità locali. Il Romanticismo invece vuole rivalutare la diversità dei vari popoli e delle varie nazioni, quindi guarda positivamente all’epoca in cui in Europa si era formata la diversità culturale: il Medioevo.
Il terzo motivo di rivalutazione del Medioevo nasce da un atteggiamento polemico nei confronti della Rivoluzione Industriale. Alla metà del '700 le nuove conquiste scientifiche e tecnologiche avevano permesso di modificare sostanzialmente i mezzi della produzione, passando da una fase in cui i manufatti erano prodotti artigianalmente a una in cui venivano prodotti meccanicamente con un ciclo industriale. La nascita delle industrie rivoluzionò molti aspetti della vita sociale ed economica. Permise di produrre una quantità di oggetti notevolmente superiore ad un costo notevolmente inferiore. Tuttavia, soprattutto nella sua prima fase, la produzione industriale portò a un peggioramento della qualità estetica degli oggetti prodotti.
Questa conseguenza fu avvertita soprattutto dagli intellettuali inglesi, che verso la metà dell’'800 proposero il rifiuto delle industrie per un ritorno all’artigianato. Il lavoro artigianale secondo questi intellettuali consentiva la produzione di oggetti qualitativamente migliori e inoltre arricchiva il lavoratore del piacere del lavoro, che nelle industrie non era possibile. Le industrie con il loro ciclo ripetitivo della catena di montaggio non creavano la possibilità per un lavoratore di amare il proprio lavoro, con la conseguenza della sua alienazione e dell’impoverimento interiore.
Sorsero così in Inghilterra delle scuole di arte applicata e di mestieri dette Arts and Crafts. In queste scuole venivano prodotti manufatti in modo rigorosamente artigianale, ma per questa loro caratteristica finivano per costare notevolmente in più rispetto alle analoghe merci prodotte dalle industrie. Tendenzialmente erano quindi destinate ad un pubblico ricco e di élite. E quindi non più alla portata proprio della classe operaia, che dalla Rivoluzione Industriale aveva tratto il beneficio di poter acquistare un maggior numero di oggetti perché più economici.
La risposta ai mali della Rivoluzione Industriale data dai movimenti di Arts and Crafts era anacronistica. E l’illusione di poter sostituire le industrie con l’artigianato si rivelò fallimentare. La giusta soluzione alla qualità della produzione industriale fu data solo alla fine del secolo dalla cultura che si sviluppò nell’ambito del Liberty. La soluzione fu la definizione di una nuova specificità estetica, l’industrial design, che avrebbe portato ad una nuova figura professionale: il designer.
Parallelamente ai gruppi di Arts and Crafts sorse in Inghilterra un movimento pittorico, che diede una ultima interpretazione del Romanticismo nella seconda metà dell’'800: i Preraffaelliti. Animato da Dante Gabriel Rossetti, si ripropose anche nel nome di far rivivere la pittura medievale, sviluppatasi appunto prima di Raffaello.

IX.4 Il Realismo
Il Romanticismo cominciò a mostrare qualche cedimento già alla metà dell’'800, quando soprattutto in Francia gli artisti scelsero una maggiore adesione alla realtà sociale del proprio tempo senza fughe nella storia del passato o nel mondo dei sentimenti e della religione.
Le motivazioni di questo atteggiamento nuovo furono molteplici. Sul piano culturale ci fu l’affermazione della mentalità del positivismo, che introduceva elementi di pensiero nuovi. Il grande sviluppo scientifico e tecnologico, che si stava svolgendo in quegli anni, produsse fiducia nei mezzi del progresso, della scienza e della razionalità umana. Fu una novità che diede un duro colpo alla mentalità tipicamente romantica, che prediligeva una forma di pensiero basata sull’emozione, sul sentimento, sulla religione e in alcuni casi anche sull’irrazionalità.
Sul piano sociale ed economico si cominciarono a sentire sempre più gli effetti della Rivoluzione Industriale. L’abbandono dell’artigianato e dell’agricoltura determinò una notevole riconversione sociale da parte di classi che si riversarono sul settore dell'industria. I problemi di questo fenomeno furono l’inurbamento eccessivo delle città e il peggioramento delle condizioni di vita del proletariato urbano. Questa situazione creò notevoli tensioni sociali e portò alla nascita delle teorie socialiste.
Nel 1848 ci furono nuove tensioni politiche in Francia e dopo nuovi moti rivoluzionari fu deposta la monarchia e venne proclamata la Seconda Repubblica. È in questo clima che iniziarono a sorgere le prime teorie artistiche del Realismo nelle arti figurative. Ed avvenne con l’affermazione, sempre in Francia, del naturalismo letterario di Baudelaire, Flaubert e Zola. Di una corrente che preferiva raccontare il dramma e le passioni delle persone comuni, non dei grandi eroi, descrivendo la realtà del proprio tempo in maniera cruda ed impietosa per mostrarne tutta la vera realtà.
L’attenzione per le classi piccolo borghesi e del proletariato fu comune quindi a più campi del sapere. In campo filosofico il positivismo di Auguste Comte portò alla nascita della sociologia; in campo politico ed economico le analisi e gli scritti di Marx ed Engels portarono alla nascita del socialismo; in campo letterario si sviluppò il naturalismo di Zola e Flaubert; nel campo artistico nacque il Realismo di alcuni pittori francesi della metà del secolo: Coubert, Millet, Daumier.
Il termine “realismo” è molto generico ed indica ogni movimento artistico che sceglie la rappresentazione fedele della realtà. Il Realismo francese della seconda metà dell’'800 non si discosta da altri tipi di correnti realiste. In questo caso la scelta ha però un preciso significato culturale e ideologico: rappresentare la vera condizione di vita delle classi lavoratrici senza nessuna trasfigurazione che mascherasse i problemi reali.
Protagonista principale del Realismo pittorico francese fu soprattutto Gustave Courbet. La sua pittura produsse un grande impatto sul panorama artistico francese, abituato a considerare l’arte come luogo evocativo di fatti epici e grandiosi. Courbet propose invece quadri i cui soggetti erano gente povera, semplice, brutta. Questa scelta di Courbet ebbe un effetto provocatorio e polemico perché aveva l’obiettivo di imporre al pubblico dell’arte, fatto di grandi borghesi, la descrizione di quelle sofferenze delle classi inferiori, la cui colpa era socialmente imputabile proprio agli interessi della grande borghesia. Inutile dire che l’arte di Courbet non ricevette un'accoglienza entusiastica. Analoga sorte fu riservata a Daumier, la cui spietata critica sociale e politica, realizzata con litografie caricaturali, gli procurò problemi notevoli. Maggior accettazione ebbe invece il Realismo di Millet, la cui rappresentazione di un mondo rurale dai caratteri ancora idilliaci e romantici non infastidiva.
Nel fenomeno del Realismo va anche considerata l’esperienza pittorica della Scuola di Barbizon. Con tale termine si intende un gruppo di pittori, di cui il principale è Theodore Rousseau, che dal 1835 in poi si riunirono in un paesino nei pressi di Fontainebleau. Questa scuola pittorica produsse soprattutto paesaggi e contribuì a superare il vedutismo settecentesco in nome di una maggiore sincerità di rappresentazione. Tra i pittori francesi che più hanno innovato la pittura di paesaggio, dev'essere ricordato soprattutto Camille Corot, la cui capacità di cogliere il vero nella visione di paesaggio ne fa uno dei più grandi vedutisti di tutti i tempi. La pittura di paesaggio di Corot fu molto conosciuta in Italia anche per via dei numerosi viaggi che il pittore fece nella nostra penisola, influenzando la maggior parte dei pittori italiani dell’'800.
Il Realismo fu la premessa per la pittura di Manet e degli Impressionisti, la cui grande carica innovativa sul piano del linguaggio pittorico non deve far dimenticare che anche l’Impressionismo fu soprattutto un movimento di rappresentazione del vero. In realtà l’adesione alla realtà quotidiana e alla storia del presente fu una caratteristica di tutta l’arte francese dell’'800. Dal tardo Neoclassicismo di David e Gros il Realismo attraversa il Romanticismo di Gericault e Delacroix, passa per la pittura di Courbet e degli Impressionisti e arriva fino a Cezanne.
Ma ciò che porta a definire, più delle altre, realista la pittura di Courbet, fu proprio il diverso contenuto ideologico della sua arte: la rappresentazione della realtà come denuncia della società. E da questo momento qualsiasi arte di forte contenuto ideologico, portata sul piano della denuncia sociale, ha scelto il Realismo come stile documentario, vero ed inoppugnabile, che rappresenta la reale condizione sociale delle classi povere ed emarginate. Il Realismo ebbe infatti un'eredità nel Realismo socialista, che si è sviluppato nel XX secolo presso quegli stati, come la Russia e la Cina, che hanno scelto il socialismo reale come forma di governo.

IX.5. L’Impressionismo
L’Impressionismo è un movimento pittorico francese che nasce intorno al 1860 a Parigi. Deriva direttamente dal Realismo, in quanto si interessa soprattutto della rappresentazione della realtà quotidiana. Ma rispetto al Realismo non ne condivide l’impegno ideologico o politico: non si occupa dei problemi ma solo dei lati gradevoli del suo tempo.
La vicenda dell’Impressionismo è una cometa che attraversa la storia dell’arte, rivoluzionandone completamente soprattutto la tecnica. Dura poco meno di venti anni: al 1880 si può già considerare un'esperienza chiusa. Esso tuttavia lascia una eredità con cui faranno i conti tutte le esperienze pittoriche successive. Non è azzardato dire che è l’Impressionismo ad aprire la storia dell’arte contemporanea.
La grande rivoluzione dell’Impressionismo è soprattutto la tecnica, anche se molta della sua fortuna presso il grande pubblico deriva dalla poetica.
La tecnica impressionista nasce dalla scelta di rappresentare solo e soltanto la realtà sensibile. Evita qualsiasi riferimento alla costruzione ideale della realtà per occuparsi solo dei fenomeni ottici della visione. E per farlo, cerca di riprodurre la sensazione ottica con la maggiore fedeltà possibile.
Dal punto di vista della poetica l’Impressionismo sembra indifferente ai soggetti. In realtà, proprio perché può rendere piacevole qualsiasi cosa rappresenti, l’Impressionismo diviene lo stile della dolce vita parigina di quegli anni. Non c’è nessuna evasione romantica verso mondi idilliaci, sia rurali sia mitici; c’è invece una volontà dichiarata di calarsi interamente nella realtà urbana di quegli anni per evidenziarne tutti i lati positivi e piacevoli. E anche le rappresentazioni paesaggistiche o rurali portano il segno della bellezza e del progresso della civiltà. Sono paesaggi visti con occhi da cittadini.
I protagonisti dell’Impressionismo furono soprattutto pittori francesi. Tra essi il più impressionista di tutti fu Claude Monet. Gli altri grandi protagonisti furono Auguste Renoir, Alfred Sisley, Camille Pissarro e, seppure con qualche originalità, Edgar Degas. Un posto separato lo occupano, tra la schiera dei pittori definiti Impressionisti, Edouard Manet, che fu in realtà il precursore del movimento, e Paul Cézanne, la cui opera è quella che per prima supera l’Impressionismo degli inizi.
Date fondamentali per seguire lo sviluppo dell’Impressionismo sono:
1863: Edouard Manet espone La colazione sull’erba;
1874: anno della prima mostra dei pittori Impressionisti presso lo studio del fotografo Nadar;
1886: anno dell’ottava e ultima mostra impressionista.
L’Impressionismo non nacque dal nulla. Esperienze fondamentali per la sua nascita sono da rintracciare nelle esperienze pittoriche della prima metà del secolo: soprattutto nella pittura di Delacroix e dei pittori inglesi Constable e Turner. Tuttavia la profonda opzione per una pittura legata alla realtà sensibile portò gli Impressionisti, e soprattutto il loro precursore Manet, a rimeditare tutta la pittura dei secoli precedenti che aveva esaltato il tonalismo coloristico: dai pittori veneziani del '500 ai fiamminghi del '600, fino all’esperienza degli spagnoli Velazquez e Goya.
Punti fondamentali per seguire le specificità dell’Impressionismo sono:
1. il problema della luce e del colore;
2. la pittura en plain air;
3. l'esaltazione dell’attimo fuggente;
4. i soggetti urbani.
La grande specificità del linguaggio pittorico impressionista sta soprattutto nell’uso del colore e della luce. Il colore e la luce sono gli elementi principali della visione: l’occhio umano percepisce inizialmente la luce e i colori, dopo di che attraverso la sua capacità di elaborazione cerebrale distingue le forme e lo spazio in cui sono collocate. La maggior parte dell'esperienza pittorica occidentale, tranne alcune eccezioni, si è sempre basata sulla rappresentazione delle forme e dello spazio.
Il rinnovamento della tecnica pittorica avviato da Manet parte proprio dalla scelta di rappresentare solo la realtà sensibile. Su questa scelta ebbero non poca influenza le scoperte scientifiche di quegli anni. Il meccanismo della visione umana divenne sempre più chiaro e si capì meglio il procedimento ottico di percezione dei colori e della luce. L’occhio umano ha recettori sensibili soprattutto a tre colori: il rosso, il verde e il blu. La diversa stimolazione di questi tre recettori produce nell’occhio la visione dei colori diversi. Una stimolazione simultanea di tutti e tre i recettori mediante tre luci pure (rossa, verde e blu) dà la luce bianca. Questo meccanismo è quello che viene definito sintesi additiva.
Il colore che percepiamo dagli oggetti è luce riflessa dagli oggetti stessi. In questo caso l’oggetto di colore verde non riflette le onde di colore rosso e blu, ma solo quelle corrispondenti al verde. In pratica l’oggetto, tra tutte le onde che costituiscono lo spettro visibile della luce, ne seleziona solo alcune. I colori, che l’artista pone su una tela bianca, seguono lo stesso meccanismo: selezionano solo alcune onde da riflettere. In pratica i colori sono dei filtri che non consentono la riflessione degli altri colori. In questo caso, sovrapponendo più colori, si ottiene successivamente la filtratura progressiva e quindi la soppressione di varie colorazioni, fino a giungere al nero. In questo caso si ottiene quella che viene definita sintesi sottrattiva.
I colori posti su una tela agiscono sempre operando una sintesi sottrattiva: più i colori si mischiano e si sovrappongono, meno luce riflette il quadro. L’intento degli Impressionisti è proprio limitare al minimo la perdita di luce riflessa, così da dare alle loro tele la stessa intensità visiva che si ottiene da una percezione diretta della realtà.
Per far ciò, adottano le seguenti tecniche:
1. utilizzano solo colori puri;
2. non diluiscono i colori per realizzare il chiaro-scuro, che nelle loro tele è del tutto assente;
3. per esaltare la sensazione luminosa accostano colori complementari;
4. non usano mai il nero;
5. anche le ombre sono colorate.
Ciò che distingue due atteggiamenti fondamentalmente diversi tra i pittori Impressionisti è il risultato a cui tendono:
1. da un lato ci sono pittori, come Monet, che propongono sensazioni visive pure, senza preoccuparsi delle forme che producono;
2. dall’altro ci sono pittori, come Cézanne e Degas, che utilizzano la tecnica impressionista per proporre la visione di forme inserite in uno spazio.
Monet fa vaporizzare le forme dissolvendole nella luce; Cezanne ricostruisce le forme, ma utilizzando solo la luce e il colore.
La pittura, così come concepita dagli Impressionisti, era solo colore. Essi pertanto riducono, e in alcuni casi sopprimono del tutto, la pratica del disegno. Questa scelta esecutiva si accostava all'altra caratteristica di questo movimento: la realizzazioni dei quadri al di fuori degli atelier e direttamente sul posto. È ciò che con termine usuale viene definito en plain air.
L’en plain air non è una invenzione degli Impressionisti. Già i paesaggisti della Scuola di Barbizon utilizzavano questa tecnica. Tuttavia ciò che questi pittori realizzavano all’aria aperta era in genere una stesura iniziale, da cui ottenere il motivo sul quale lavorare poi in studio rifinendolo fino alla stadio definitivo. Gli Impressionisti, e soprattutto Monet, portarono al limite estremo la pratica dell’en plain air, realizzando e finendo i loro quadri direttamente sul posto.
Questa scelta era dettata dalla volontà di cogliere con freschezza e immediatezza tutti gli effetti luministici che la visione diretta fornisce. Una successiva prosecuzione del quadro nello studio avrebbe messo in gioco la memoria, che poteva alterare la sensazione immediata della visione. Gli Impressionisti avevano osservato che la luce è estremamente mutevole. Che quindi anche i colori erano soggetti a continue variazioni. E questa percezione di mutevolezza è una delle sensazioni piacevoli della visione diretta, che loro temevano si perdesse con una stesura troppo meditata dell’opera.
La scelta dei pittori impressionisti di rappresentare la realtà cogliendone le impressioni istantanee, portò questo stile ad esaltare su tutto la sensazione dell’attimo fuggente.
Secondo i pittori Impressionisti la realtà muta continuamente di aspetto. La luce varia ad ogni istante, le cose si muovono spostandosi nello spazio: la visione di un momento è già diversa nel momento successivo. Tutto scorre. Nella pittura impressionista le immagini trasmettono sempre una sensazione di mobilità.
L’attimo fuggente della pittura impressionista è totalmente diverso dal momento pregnante della pittura neoclassica e romantica. Il momento pregnante sintetizza la storia nel suo momento più significativo; l’attimo fuggente non ha nulla a che fare con le storie: esso coglie le sensazioni e le emozioni. E quelle raccolte nella pittura impressionista sono sempre sensazioni e impressioni felici, positive, gradevoli. Per la prima volta dopo la scomparsa della pittura Rococò l’Impressionismo rifugge dagli atteggiamenti tragici o drammatici. Torna a rappresentare un mondo felice ed allegro. Un mondo dove si può vivere bene.
L’attimo fuggente della pittura impressionista ha analogie evidenti con la fotografia. Anche la fotografia infatti coglie un'immagine dalla realtà in una frazione di secondo. E dalla fotografia gli Impressionisti non solo prendono la velocità della sensazione ma anche i particolari tagli di inquadratura, che danno alle loro immagini un sapore particolare di modernità.
Sul piano dei soggetti l’Impressionismo si presenta con un’altra caratteristica fondamentale: quella di rappresentare principalmente gli spazi urbani. E lo fa con una evidente esaltazione della gradevolezza della vita in città. Questo atteggiamento è una novità decisa. Fino a questo momento la città era stata vista come qualcosa di malefico e di infernale. Soprattutto dopo lo sviluppo della Rivoluzione Industriale i fenomeni di urbanesimo estremo avevano deteriorato gli ambienti cittadini. La nascita delle industrie aveva congestionato le città. Erano emersi i primi effetti dell’inquinamento. I centri storici si erano affollati di immigrati dalle campagne, le periferie sorgevano come baraccopoli senza alcuna qualità estetica ed igienica. Le città erano dunque viste come entità malsane.
L’Impressionismo è il primo movimento pittorico che ha un atteggiamento positivo nei confronti della città. E di una città in particolare: Parigi. La capitale francese sul finire dell’'800 è la città più importante e gaudente d’Europa. In essa si raccolgono intellettuali e artisti, ci sono i maggiori teatri e locali di spettacolo, si trovano le cose più eleganti e alla moda, si può godere di tutti i maggiori divertimenti del tempo.
Tutto questo fa da sfondo alla pittura degli Impressionisti e fornisce molto del suo fascino. I luoghi raffigurati nei quadri Impressionisti diventano tutti seducenti: le strade, i viali, le piazze, i bar, gli stabilimenti balneari lungo la Senna, i teatri (da ricordare soprattutto le ballerine di Degas), persino le stazioni, come nel famoso quadro di Monet La Gare Saint-Lazare.

IX.6. Il Postimpressionismo
Il Postimpressionismo è un termine convenzionale usato per individuare le molteplici esperienze figurative sorte dopo l’Impressionismo. Il denominatore comune è proprio l’eredità dalla generazione precedente. Il Postimpressionismo non può essere giudicato uno stile, in quanto non è assolutamente accomunato da caratteri stilistici unici. Esso è un’etichetta per individuare un periodo cronologico, che va circa dal 1880 agli inizi del 1900.
La grande novità dell’Impressionismo è stata la rivendicazione di una specificità del linguaggio pittorico che ponesse la pittura su un piano totalmente diverso dalla produzione di altre immagini. Da ricordare che in questi anni la nascita della fotografia aveva messo a disposizione uno strumento di riproduzione della realtà totalmente naturalistico. La fotografia registra la visione ottica con una fedeltà e velocità a cui nessun pittore potrà mai giungere. La fotografia pertanto ha occupato di prepotenza uno dei campi specifici per cui era nata la pittura: quello di riprodurre la realtà.
Che l’arte avesse per mezzo espressivo la riproduzione della realtà visibile era un dato implicito e costante di tutta l’esperienza artistica occidentale. Solo nell’alto Medioevo, dal VII al IX secolo, si era assistito ad una fase artistica aniconica. Ma occorre ricordare che l’alto Medioevo fu il periodo di maggior decadenza della cultura occidentale in genere, vide l’affermazione della iconoclastia dei bizantini e dell’aniconismo delle culture arabe e di quelle cosiddette barbariche.
In sostanza tutta la cultura occidentale ha sempre inteso l’arte quale riproduzione del reale, avendo come obiettivo qualitativo finale il perfetto naturalismo. Questo atteggiamento culturale di fondo si rompe proprio nel corso del XIX secolo, quando le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche portano alla nascita della fotografia e del cinema, perfezionando allo stesso tempo le tecniche della riproduzione a stampa. La civiltà occidentale diviene sempre più una civiltà delle immagini, ma paradossalmente la pittura in questo processo si trova a svolgere un ruolo sempre più marginale.
Competere con la fotografia sul piano del naturalismo sarebbe stato perdente e perfettamente inutile. Alla pittura bisognava trovare un’altra specificità che non fosse quella della riproduzione naturalistica. È quanto sul piano tecnico fanno i pittori dell’Impressionismo e sul piano dei contenuti faranno i pittori della fase successiva. Agli inizi del '900 l’arte, e in particolare la pittura, hanno completamente cambianto funzione: non riproducono, ma comunicano.
Ovviamente anche l’arte precedente comunicava. Tutto ciò che rientra nell’ambito della creatività umana è anche comunicazione. Solo che nell’arte precedente questa comunicazione avveniva sempre per il tramite della riproduzione del visibile. Ora, dal Postimpressionismo in poi, l’arte ha solo ed unicamente l’obiettivo della comunicazione, senza più porsi il problema della riproduzione. Ovvero l’arte serve a mettere in comunicazione due soggetti – l’artista e lo spettatore – utilizzando la forma che è essa stessa realtà senza riprodurre la realtà visibile.
Nel breve volgere di pochi decenni le premesse di questo nuovo atteggiamento porteranno a rivoluzioni totali nel campo dell’arte, dove la nascita dell’Astrattismo intorno al 1910 sancisce definitivamente la rottura tra arte e rappresentazione del reale.
Nella fase del Postimpressionismo l’attività di alcuni pittori crea le premesse di uno degli stili fondamentali del '900: l’Espressionismo. Il termine “espressionismo” nacque proprio in opposizione a quello di Impressionismo. I pittori impressionisti rappresentano le proprie sensazioni visive, le emozioni del proprio occhio. I pittori espressionisti vogliono esprimere molto di più. Tutte le proprie emozioni, interiori e psicologiche, non solo quelle ottiche e sensoriali.
Quello che storicamente viene definito Espressionismo, nasce intorno al 1905, contemporaneamente in Francia ed in Germania con due gruppi: i Fauves e Die Brucke. Le loro novità artistiche e stilistiche vengono preparate dal 1880 in poi da tre pittori postimpressionisti: Van Gogh, Gauguin e Munch. Con loro la pittura comincia a riprodurre realtà non visibili dall’occhio ma riproduce il riflesso interiore della realtà esterna.
Le motivazioni all’origine delle loro opere sono molto diverse, così come sono diversi i risultati ai quali giungono. Tuttavia sia Van Gogh, sia Gauguin, sia Munch esprimono una forte carica di drammaticità, che li pone su un piano opposto rispetto all’Impressionismo. L’Impressionismo è stato connotato da una gioiosità di fondo. Al contrario l’Espressionismo e tutto ciò che è venuto prima e dopo, a cominciare da Van Gogh, esprimono sentimenti e sensazioni più intense e dolorose, che toccano alcuni dei centri nervosi più profondi della natura umana.
Su un versante opposto si svolge negli stessi anni l’attività pittorica di altri pittori definiti postimpressionisti. Tra essi troviamo Cezanne, Seurat, Toulouse-Lautrec, che superano l’Impressionismo soprattutto sul piano della tecnica di rappresentazione.
Tra queste personalità la più complessa risulta quella di Cezanne, la cui pittura rimane una delle più difficili da decodificare. Egli aveva partecipato a tutta la vicenda artistica della seconda metà dell’'800. Aveva esposto nella prima mostra di pittori impressionisti nello studio di Nadar, proponendo quadri che già mostravano una certa originalità rispetto a quelli degli altri artisti del gruppo. La sua differenza appare più evidente dopo il 1880, divenendo egli uno dei protagonisti del superamento della pittura impressionista.
L’Impressionismo si era caratterizzato per due punti fondamentali: le inquadrature di tipo fotografico e la forma evanescente della rappresentazione. Tutto era risolto con il colore per cercare la sensazione di un solo istante. Anche Cezanne risolveva la sua pittura solo con il colore. Ma egli cercava di ottenere una immagine più ferma ed equilibrata. Egli tendeva a cogliere l’equilibrio delle forme per esprimere una sensazione di serenità senza tempo. La sua pittura fu importante soprattutto per le influenze che produsse su un pittore come Picasso, dando vita ad un altro grande movimento avanguardistico del '900: il Cubismo.
La ricerca dell’Impressionismo si era basata su un principio tecnico che era già alla base della pittura di Manet: quello di usare solo colori puri, evitandone la sovrapposizione. In tal modo i quadri acquistavano una maggiore luminosità. Questo procedimento fu portato alle estreme conseguenze da George Seurat, che fu il fondatore di uno stile definito Pointillisme. La sua pittura infatti si componeva di tanti minuscoli punti di colori primari, accostati sulla tela a formare una specie di mosaico. Questo stile, che più correttamente va definito Divisionismo, si basava su un principio ottico fondamentale: il melange optique, ossia la mescolanza ottica. L’occhio umano ad una certa distanza non riesce più a distinguere due punti accostati tra loro, ma vede una sola macchia. Se i due puntini sono blu e giallo, l’occhio vede invece una macchia verde. Se i puntini blu e giallo sono puri, l’occhio vede un verde molto brillante, più brillante di quanto possa fare un pittore mescolando dei pigmenti per ottenere sulla sua tavolozza un verde da utilizzare sulla tela. La pittura divisionista produsse una influenza notevolissima su tutti i pittori della generazione successiva, molti dei quali saranno protagonisti delle Avanguardie storiche del '900.
Toulouse-Lautrec rappresenta un caso particolare nella vicenda della pittura di fine secolo. Potrebbe essere considerato l’ultimo degli Impressionisti ma anche un precursore dell’Espressionismo per il suo tratto molto inciso e nervoso, che lo accomuna alla pittura espressionista. Tuttavia anche per la sua produzione di manifesti egli fornì molti stimoli al sorgere di quello stile decorativo, definito Liberty, che contraddistinse la produzione di arte applicata tra fine '800 e inizi '900.

IX.7. Il Simbolismo
Il Simbolismo è una corrente artistica che si affermò in Francia a partire dal 1885 circa come reazione al naturalismo e all’Impressionismo. L’arte in questo movimento era concepita come espressione concreta e analogica dell’idea, momento di incontro e di fusione di elementi della percezione sensoriale e spirituali. La pittura che ne derivava era estremamente raffinata, ricca di simbologie mitologico-religiose, e si proponeva di esplorare quelle suggestive regioni della coscienza umana all’affascinante confine tra realtà e sogno, che fino ad allora erano rimaste sempre escluse da qualsiasi indagine artistica.
Precorritori di questo movimento furono i pittori Gustave Moreau (1826-1898) e Pierre Puvis de Chavannes (1824-1898). Nei loro quadri sono già evidenti alcuni dei temi utilizzati dalla pittura simbolista: in particolare il ricorso alla mitologia e alle storie bibliche, rivisitate come l’apparizione di un sogno, in cui le immagini e i contenuti hanno la finalità di essere dei simboli.
Il simbolo è qualcosa che sta in luogo di (ad esempio la bilancia che simboleggia la giustizia). Si differenzia dall’allegoria in quanto quest’ultima rimane maggiormente confinata nell’ambito della significazione letteraria e logica. Il simbolo è invece analogico, risolve il suo significato solo nella forma. Il Simbolismo è una delle componenti fondamentali dell’animo umano, che spesso traduce solo in immagini concetti ed emozioni che con le parole necessitano di elaborazioni complesse. Il simbolo pertanto ha una sintesi che riesce a racchiudere solo nella sua forma contenuti anche complessi, per lo più universali o mitici.
Il Simbolismo in pittura dà immagine a quelle suggestioni culturali molto più vaste, che vanno sotto il nome di Decadentismo e che caratterizzano la fine del XIX secolo. E al pari del Decadentismo il Simbolismo è caratterizzato da una estetizzazione ultra-raffinata, in cui l’azione è pressoché nulla, mentre tutte le passioni e le tensioni vitali vengono vissute nell’ambito del sogno.
Il maggior pittore simbolista è Odilon Redon (1840-1916). Benché amico degli Impressionisti, egli rifiutò decisamente l’uso di questo stile soprattutto perché non era interessato a rappresentare la realtà così come essa appare. Nella sua pittura la natura è soprattutto sogno ed egli ne coglie gli aspetti più sfuggenti, anormali, inspiegabili.
Altre suggestioni simboliste, pur su un piano stilistico totalmente diverso, sono rintracciabili anche nella pittura di Paul Gauguin. I soggetti dei suoi quadri hanno sempre un contenuto simbolico, ma in Gauguin è assente qualsiasi suggestione letteraria per esplorare in maniera autonoma i territori della spiritualità ancestrale e primitiva. Da Gauguin prendono però le mosse alcuni dei gruppi artistici che si collocano decisamente nella scia del Simbolismo: prima la Scuola di Pont-Aven e quindi i Nabis.
La Scuola di Pont-Aven era un gruppo di artisti che si riuniva intorno a Gauguin in Bretagna dal 1886 al 1894. Temi fondamentali della loro pittura erano il rifiuto della copia dal vero, l’esaltazione della memoria e dell’immaginazione. In tal modo cercavano una dimensione nuova e più intima della realtà, effettuando una specie di doppia fuga verso il passato e verso l’esotico. La loro tecnica stilistica divenne il Cloissonisme: al pari di come erano realizzate le vetrate gotiche, la loro pittura si componeva di stesure di zone piatte di colore delimitate da contorni scuri.
I Nabis (nome che in ebraico significa profeti) furono un movimento della seconda generazione simbolista. Suggestionati dalla pittura di Gauguin, che conobbero nel 1888, i Nabis operarono prevalentemente tra il 1891 e il 1900. Si dedicarono con grande attenzione alle arti applicate (francobolli, carte da gioco, marionette, manifesti, paraventi, carte da parati, decorazioni murali), in cui facevano ampio uso di simboli storici e mitologici risolti con notevole sintesi espressiva. La loro opera contribuì notevolmente alla nascita dell’estetica liberty.
Il Simbolismo non interessò solo la Francia ma conobbe una ampia diffusione in tutta Europa. In Svizzera può considerarsi simbolista l’opera pittorica di Arnold Böcklin (1827-1901). Pur esente da quel clima di morboso decadentismo del Simbolismo francese, anche la sua pittura si colloca nei territori tra la realtà e il sogno. Il suo stile è più saldo e plastico e meno visionario di quello degli altri pittori simbolisti. Ma le sue immagini (L’isola dei morti, 1880) hanno un indubbio fascino visionario che, reinterpretando i temi del Romanticismo nordico, sono contraddistinte da atmosfere tenebrose e lugubri.
Di marca simbolista è anche il contenuto della pittura di Gustav Klimt (1862-1918), il maggiore esponente della Secessione viennese. La sua pittura, benché abbia una cifra stilistica molto originale, si basa sempre su soggetti di tipo simbolico, come Le tre età della vita, Salomè, Danae, Giuditta, eccetera.

IX.8. Il Liberty
Con il nome di Liberty si intende un vasto movimento artistico, che tra fine '800 ed inizi '900 interessò soprattutto l’architettura e le arti applicate. Il fenomeno prese nomi diversi a seconda delle nazioni in cui sorse. In Francia prese il nome di Art Noveau, in Germania di Jugendstil, in Austria fu denominato Secessione, in Spagna Modernismo. In Italia inizialmente ebbe il nome di Floreale per assumere poi il più noto nome di Liberty, così come veniva chiamato in Inghilterra.
Il Liberty nacque dal rifiuto degli stili storici del passato, che nell’architettura di quegli anni erano la prassi più seguita. Invece cercò ispirazione nella natura e nelle forme vegetali creando uno stile nuovo e del tutto originale rispetto a quelli allora in voga. Caratteri distintivi del Liberty divennero l’accentuato linearismo e l’eleganza decorativa.
Nato inizialmente in Belgio grazie all’architetto Victor Horta, il Liberty si diffuse presto in tutta Europa, divenendo in breve lo stile della nuova borghesia in ascesa. Esso si fondò sul concetto di coerenza stilistica e progettuale tra forma e funzione. Adottando le nuove tecniche di produzione industriale e i nuovi materiali, il ferro, il vetro e il cemento, di fatto il Liberty giunse per la prima volta alla definizione di una nuova progettualità: quella che oggi chiamiamo industrial design.
Il problema di dare qualità alla produzione industriale era stato già avvertito dalla cultura precedente. Ma nel caso dei movimenti di Arts and Crafts inglesi la risposta era stata semplicemente anacronistica: ritornare alla produzione artigianale. Il Liberty diede per la prima volta la risposta giusta al problema della qualità del prodotto industriale, che andava risolto sul piano della qualità progettuale.
L’estetica del Liberty si affidò molto all’uso della linea e degli elementi lineari. Protagonista divenne soprattutto la linea curva definita a colpo di frusta: una linea cioè che dopo una curvatura ampia si torceva in repentini scatti di curvatura più stretta.
Le immagini che si ottenevano producevano effetti decorativi molto suggestivi e di grande eleganza, ma che in genere tendevano all’astrazione più pura. Quando nel Liberty comparivano delle immagini, queste risentivano molto del clima simbolista in voga in quegli anni. La stilizzazione delle figure era sempre molto evidente, venivano risolte tutte sul piano della bidimensionalità con l’uso della linea funzionale di contorno.
Nel campo pittorico non ci fu un vero e proprio stile Liberty, che si affermò invece nella grafica o nelle arti applicate. Influenze e suggestioni Liberty sono avvertibili in alcuni pittori che operarono in quegli anni, come Aubrey Beardsley, Toorop e Hodler. Ma il pittore che più di ogni altro raccolse nel suo stile le indicazioni che derivavano dal Liberty fu Gustav Klimt.
Tra i maggiori esponenti della Secessione viennese, Klimt elaborò uno stile inconfondibile molto originale e personale. Reinterpretando elementi della tradizione gotica e bizantina, egli componeva i suoi quadri come fossero dei mosaici o degli arabeschi. Faceva largo uso dell’oro, spesso utilizzato per lo sfondo, e di colori molti vivaci e puri. Le sue figure, connotate da torsioni e deformazioni che già preannunciano l’Espressionismo, appaiono all’interno di tessuti coloristici molto vivaci e tendenti al bidimensionale. Ne risulta una spazialità del tutto inedita, in cui le immagini appaiono sospese tra realtà e sogno, in una dimensione dove il tempo sembra sciogliersi nel silenzio.

Fonti e approfondimenti: www.francescomorante.it
Francesco Morante

 

ARTE D'OCCIDENTE

profilo storico generale

V. Dalle Avanguardie al Postmoderno

X. Il '900

X.1.Caratteri generali del '900
Mai come nel '900 la cultura artistica ha conosciuto una accelerazione. Nel corso di questo secolo le novità e le sperimentazioni artistiche si sono susseguite con ritmo talmente incalzante da fornire un quadro molto disomogeneo, in cui l'organizzazione del tutto in pochi schemi interpretativi è difficile e sommario. Decine di movimenti e di stili si sono succeduti esaurendo la loro presenza, a volte, nel giro di pochi anni o al massimo di qualche decennio.
La storiografia di questo secolo nella maggior parte dei casi risulta un elenco più o meno dettagliato dei tanti movimenti e protagonisti apparsi alla ribalta della scena artistica. Ciò tuttavia fornisce scarsi riferimenti di catalogazione critica. Un approccio diverso all’interpretazione artistica del '900 si può ottenere ricorrendo alle categorie più generali dell’àmbito culturale. In particolare con riferimento agli inizi del '900 le categorie critiche più agevoli risultano soprattutto tre:
1. la comunicazione;
2. la psicologia;
3. il relativismo.
1. La comunicazione
La comunicazione è quell’atto mediante il quale si ottiene una trasmissione di informazioni da un soggetto (emittente) ad un altro soggetto (ricevente). Il mezzo di trasmissione della comunicazione è il linguaggio. Affinché avvenga una comunicazione, condizione essenziale è che il linguaggio deve essere conosciuto da entrambi i soggetti: l’emittente ed il ricevente.
Nell’ambito dell’arte molti possono essere i linguaggi utilizzabili: dalle parole (poesia) alle immagini (pittura), dai suoni (musica) ai movimenti del corpo (danza) e così via. Alcuni linguaggi posseggono una universalità, come la musica, che in genere può essere compresa da tutti. Altri linguaggi richiedono una conoscenza specifica: per poter leggere una poesia bisogna conoscere la lingua in cui è stata scritta.
Le immagini possono essere considerate un linguaggio anch’esso universale, purché rimangano nell’ambito della rappresentazione naturalistica. Definiamo naturalistiche quelle immagini che propongono una rappresentazione della realtà simile a quella che i nostri occhi propongono al cervello. Le immagini naturalistiche rispettano i meccanismi fondamentali della visione umana: la prospettiva, il senso della tridimensionalità, la colorazione tonale data dalla luce e così via.
Il naturalismo è sempre rappresentazione della realtà in quanto ne segue le leggi fondamentali di strutturazione. La gran parte dell’arte occidentale ha sempre utilizzato il naturalismo per la rappresentazione artistica. Ciò ha permesso all’arte figurativa di essere un mezzo di comunicazione più popolare e diffuso che non la scrittura.
Nel corso dell’'800 la nascita prima della fotografia e poi della cinematografia hanno permesso la riproduzione della realtà con strumenti tecnici pressoché perfetti. Ciò ha decisamente tolto alla pittura uno dei suoi scopi ritenuti specifici: quello di riprodurre in immagini la realtà. Se la cosa poteva apparire negativa, di fatto ha imposto alla pittura una diversa impostazione del suo fare. Abbandonato il terreno della rappresentazione, e quindi del naturalismo, l’arte figurativa ha cominciato ad esplorare i vasti ed inediti territori della comunicazione.
In sostanza l’arte moderna non ha più interesse a rappresentare la realtà. L’arte moderna usa le forme per comunicare pensieri, idee, emozioni, ricordi e quanto altro può risultare significativo. Pertanto nell’approccio all’arte moderna non bisogna mai porsi l’interrogativo, guardando un’opera d’arte, di cosa essa rappresenti, ma di cosa comunichi.
Tuttavia la comunicazione richiede sempre un linguaggio che deve essere noto sia all’artista sia al fruitore dell’opera. Il naturalismo è un linguaggio universale in quanto rispetta le regole universali della visione umana. L’arte moderna, abbandonando il naturalismo, abbandona il linguaggio comunicativo più diffuso e popolare. E così è costretta ogni volta a inventarsi un nuovo linguaggio. Con il rischio che i linguaggi non sempre vengono assimilati e compresi, producendo di fatto l’incomprensibilità del messaggio che l’artista voleva trasmettere.
E ciò produce un paradosso singolare: l’arte moderna vuole solo comunicare, ma per farlo spesso sceglie la strada della incomunicabilità. O per lo meno impone, prima di capire il messaggio, la necessità di studiare il nuovo linguaggio utilizzato dall’artista. Ciò comporta che l’arte moderna necessita di un approccio colto. Solo studiando da vicino le problematiche connesse ai movimenti ed ai singoli artisti, è possibile comprendere il significato di un’opera d’arte.
2. La psicanalisi
La nascita della psicanalisi grazie a Sigmund Freud ha rivoluzionato il concetto dell’interiorità umana. Se prima l’articolazione della psiche veniva posta sul dualismo ragione-sentimento, ora viene spostata sul dualismo coscienza-inconscio.
L’inconscio è quella parte della nostra psiche in cui sono collocati pensieri ed emozioni che, senza che l’individuo se ne renda conto, interagiscono con la sua coscienza orientando o influenzando le sue preferenze, motivazioni e scelte esistenziali.
L’aver individuato questo nuovo territorio dell’animo umano ha aperto notevoli possibilità all’arte moderna. Il linguaggio delle parole, essendo un linguaggio logico, consente la comunicazione più immediata e diretta con la coscienza delle persone, dove di fatto ha sede la razionalità umana. Il linguaggio delle immagini, data la sua natura di linguaggio analogico, si presta meglio ad esplorare, o a comunicare con l’inconscio.
Alcuni movimenti artistici sono nati proprio con l’intenzione di tradurre in immagini ciò che ha sede nell’inconscio. Chi ha scelto con maggior impegno questa strada è stato soprattutto il Surrealismo.
Ma tale interesse ha alimentato anche la poetica di altri movimenti avanguardistici dell’inizio secolo, come l’Espressionismo e l’Astrattismo.
Tuttavia rimane costante a tutti i movimenti del '900 la finalità di una comunicazione che sia totale: ossia che giunga anche ai territori più profondi e recessi della psiche umana.
3. Il relativismo
Nel corso del '900 si assiste ad una sempre maggiore frantumazione delle epistemologie forti. Cadono le certezze sia dovute alla religione, sia riposte nella scienza, nella politica o nella filosofia. L’Occidente in particolare si sente sempre più immerso in un mondo incerto, dove tutto è relativo. A questa conclusione sembra giungere anche la scienza, che con la Teoria della Relatività di Einstein porta a riconsiderare tutto l’impianto di riferimenti fissi su cui era costruito l’edificio della Fisica.
Ad analoghe posizioni giungono gli scrittori, come Luigi Pirandello, che con le sue opere letterarie e teatrali vuole dimostrare come la verità sia solo un «punto di vista che varia da persona a persona». In campo filosofico la comparsa dell’Esistenzialismo contribuisce a ridefinire la realtà solo in rapporto al singolo individuo.
Questo nuovo clima culturale non poteva non incidere sul panorama artistico. Venuta meno la certezza di una verità assoluta, ogni sperimentazione sembra muoversi nel campo di una preventiva ricerca di sé. Nasce l’esigenza di manifestare le proprie intenzioni, per dare le coordinate entro cui collocare la nuova esperienza estetica. E ne è la riprova il fatto che quasi tutti i movimenti avanguardistici dei primi anni del secolo nascono con dichiarazioni programmatiche, i manifesti, che servono proprio a questo scopo.
In seguito l'ulteriore frammentazione della ricerca artistica rimette in gioco anche la partecipazione del fruitore dell’opera d’arte, al quale si chiede una partecipazione attiva alla significazione del fare artistico. In questo caso l’arte più, che dare delle risposte, pone delle domande, lasciando il senso di quanto proposto alla libera e a volte diversa interpretazione del pubblico e dei critici. La necessità di un approccio così problematico all’arte contribuisce in maniera a volte decisiva a rendere l’arte moderna sempre meno popolare e sempre più élitaria.

X.2. Concetto di avanguardia storica
I numerosi movimenti artistici sorti all’inizio del '900 sono stati tutti caratterizzati da una volontà di rottura con il passato. Questa forte carica di rinnovamento li ha posti in prima linea nell’ambito delle nuove ricerche artistiche. Ciò ha determinato l’appellativo dato a questi movimenti di Avanguardie. Tutto il '900 in realtà è stato caratterizzato da un clima di sperimentazione continua. Ma per delimitare quelli che sono stati i primi movimenti di rinnovamento si usa la convenzione di definirli Avanguardie storiche.
Lo spazio temporale di questo fenomeno coincide con gli anni a cavallo della Prima guerra mondiale. Le prime Avanguardie nascono intorno al 1905 con l’Espressionismo; le ultime agli inizi degli anni ’20 con il Surrealismo (1924).
Parigi nel corso del XIX secolo si era affermata come la capitale europea in campo artistico. Il fenomeno delle Avanguardie storiche interessa invece tutta l’Europa, anche se Parigi continua a conservare un ruolo determinante nel campo artistico. Le prime due Avanguardie sorsero infatti nella capitale francese. Nel 1905 si costituì il gruppo dei Fauves, che rappresenta il primo movimento di ispirazione espressionistica. Nello stesso anno l’Espressionismo si diffuse soprattutto in Germania e nei paesi nordici. Nel 1907, grazie a Picasso e Braque, sempre a Parigi sorse il movimento del Cubismo.
Anche il Futurismo, che è un’avanguardia decisamente italiana, partì da Parigi. Qui infatti sul quotidiano Le Figaro Filippo Tommaso Marinetti nel 1909 pubblicò il Manifesto del Futurismo. Il Cubismo e il Futurismo produssero influenze notevoli in Russia, dove in quegli anni sorsero movimenti quali il Cubofuturismo, il Suprematismo e il Costruttivismo.
Anche la seconda Avanguardia italiana di quegli anni, la Metafisica, in embrione nacque a Parigi, dove Giorgio De Chirico, il massimo rappresentante del movimento, svolse parte della sua attività giovanile.
Una cesura notevole nello sviluppo delle Avanguardie fu determinato dallo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914. Numerosi artisti furono costretti a partire per il fronte e molti di essi morirono in guerra. A Zurigo, nella Svizzera neutrale, si rifugiarono numerosi artisti ed intellettuali e qui nel 1916 nacque il movimento di maggior rottura tra le Avanguardie storiche: il Dadaismo.
Dal Dadaismo e dalla Metafisica nel 1924 nacque quella che viene considerata l’ultima delle Avanguardie storiche: il Surrealismo. Anche qui il centro di maggior irradiamento del nuovo movimento fu soprattutto la Francia con epicentro a Parigi.
Infine, pur se non può essere considerato un movimento omogeneo e compatto, le Avanguardie storiche produssero il fenomeno di maggior novità nell’arte del '900: l’Astrattismo. L’abbandono definitivo della mimesi naturalistica avvenne intorno al 1910 grazie soprattutto ad un artista di origine russa ma operante in Germania: Wassilj Kandiskij. La sua formazione artistica è di matrice espressionistica, tanto che l’Astrattismo nella sua fase iniziale può essere considerato un estremo limite dell’Espressionismo. In seguito l’Astrattismo conobbe sviluppi notevolissimi, divenendo soprattutto nel Secondo dopoguerra terreno fertile per numerose sperimentazioni, che attraverso l’Arte Informale e l’Arte Concettuale arrivano fino ai giorni nostri.
Il fenomeno delle Avanguardie si spense intorno agli anni ’30. La foga rinnovatrice aveva momentaneamente esaurito la sua carica rivoluzionaria. A questo momento di pausa artistica corrispose in quegli anni l’affermazione in campo politico di regimi totalitari e reazionari, quali il fascismo in Italia e il nazismo in Germania, che si fecero fautori di un indirizzo artistico di stampo tradizionalistico e accademico. Avversarono apertamente i nuovi stili artistici, arrivando in Germania a definirli arte degenerata ed eliminandoli dai musei e dalle collezioni statali. Molti esponenti artistici, che avevano operato in Germania, furono costretti ad emigrare negli Stati Uniti, dove trasferirono molte delle novità culturali prodotte in Europa. Un fenomeno analogo accadde in Russia, dove con Stalin si affermò l'indirizzo artistico definito Realismo socialista, che rifiutava la sperimentazione in favore di un’arte di matrice popolare con forti contenuti ideologici.
Ma le Avanguardie storiche avevano oramai totalmente modificato il concetto di arte visiva. In pochi anni avevano accumulato un patrimonio enorme di idee e di concetti, che divennero la vera eredità per tutti i movimenti futuri, che si sono sviluppati in campo artistico fino ai giorni nostri.

X.3. L’Espressionismo
Il termine “espressionismo” indica in senso molto generale un’arte dove prevale la deformazione di alcuni aspetti della realtà, così da accentuarne i valori emozionali ed espressivi. In tal senso l'Espressionismo prende una valenza universale. Al pari del Classico, che esprime sempre il concetto di misura ed armonia, o di Barocco, che caratterizza ogni manifestazione legata al fantasioso o all’irregolare, Espressionismo è sinonimo di deformazione.
Nell’ambito delle Avanguardie storiche con il termine espressionismo indichiamo una serie di esperienze sorte soprattutto in Germania, la nazione che più si identificò con questo fenomeno culturale in senso non solo artistico.
Alla nascita dell’Espressionismo contribuirono diversi artisti operanti negli ultimi decenni dell’'800. In particolare possono essere considerati dei pre-espressionisti Van Gogh, Gauguin, Munch e Ensor. In questi pittori sono già presenti molti degli elementi che costituiscono le caratteristiche più tipiche dell’Espressionismo: l’accentuazione cromatica, il tratto forte ed inciso, la drammaticità dei contenuti.
Il primo movimento che può essere considerato espressionistico nacque in Francia nel 1905: i Fauves. Con questo termine vennero dispregiativamente indicati alcuni pittori, che esposero presso il Salon d’Autumne quadri dall’impatto cromatico molto violento. Fauves in francese significa belve. Di questo gruppo facevano parte Matisse, Vlaminck, Derain, Marquet ed altri. La loro caratteristica comune era il colore, steso in tonalità pure. Le immagini che loro ottenevano erano sempre autonome rispetto alla realtà. Il dato visibile veniva reinterpretato con molta libertà, traducendo il tutto in segni colorati che creavano una pittura molto decorativa. Alla definizione dello stile concorsero soprattutto la conoscenza della pittura di Van Gogh e Gauguin. Da questi due pittori i Fauves presero la sensibilità per il colore acceso e la risoluzione dell’immagine solo sul piano bidimensionale.
Nello stesso anno in cui comparvero i Fauves, il 1905, a Dresda in Germania si costituì un gruppo di artisti che si diede il nome Die Brücke (il Ponte). I principali esponenti furono Ernest Ludwig Kirchner e Emil Nolde. In loro sono presenti i tratti tipici dell’Espressionismo, la violenza cromatica e la deformazione caricaturale, ma in più c'è una forte carica di drammaticità, che nei Fauves non era presente. Nell’Espressionismo nordico infatti prevalgono sempre temi quali il disagio esistenziale, l’angoscia psicologica, la critica a una società borghese ipocrita e a uno stato militarista e violento.
Alla definizione dell’Espressionismo nordico fu determinante il contributo di pittori quali Munch ed Ensor. E di Munch i pittori espressionisti colsero la suggestione del fare pittura come esplosione di un grido interiore, che portasse in superficie tutti i dolori e le sofferenze umane ed intellettuali degli artisti del tempo.
Un secondo gruppo espressionistico si costituì a Monaco nel 1911: Der Blaue Reiter (Il Cavaliere Azzurro). Principali ispiratori del movimento furono Wassilj Kandiskij e Franz Marc. Con questo movimento l’Espressionismo prese una svolta decisiva. Nella pittura fauvista o dei pittori del gruppo Die Brücke la tecnica era di rendere espressiva la realtà esterna, così da farla coincidere con le risonanze interiori dell’artista. Per Der Blaue Reiter invece l’artista al limite poteva anche ignorare totalmente la realtà esterna a se stesso. Da qui a una pittura totalmente astratta il passo era breve. E infatti fu proprio Wassilj Kandiskij il primo pittore a scegliere la strada dell’Astrattismo totale.
Il gruppo Der Blaue Reiter si disciolse in breve tempo. La loro ultima mostra avvenne nel 1914. In quell’anno scoppiò la guerra e Franz Marc, partito per il fronte, morì nel 1916. Alle attività del gruppo partecipò anche il pittore svizzero Paul Klee, che si sarebbe reincontrato con Wassilj Kandiskij nell’ambito della Bauhaus, la scuola d’arte applicata fondata nel 1919 dall’architetto Walter Gropius. All’interno di questa scuola l’attività didattica di Kandiskij e Klee contribuì in maniera determinante a fondare i principi di una estetica moderna, trasformando l’Espressionismo e l’Astrattismo da un movimento di intonazione lirica ad un metodo di progettazione razionale di una nuova sensibilità estetica.
Il termine Espressionismo nacque come alternativa alla definizione di Impressionismo. Le differenze tra i due movimenti sono sostanziali e profonde. L’Impressionismo rimase sempre legato alla realtà esteriore. L’artista impressionista limitava la sua sfera di azione all’interazione che c’è tra la luce e l’occhio. In tal modo cercava di rappresentare la realtà con una nuova sensibilità, cogliendo solo quegli effetti luministici e coloristici, che rendono piacevole ed interessante uno sguardo sul mondo esterno.
L’Espressionismo invece rifiutava il concetto di una pittura sensuale (ossia di una pittura tesa al piacere del senso della vista), spostando la visione dall’occhio all’interiorità più profonda dell’animo umano. L’occhio secondo l’Espressionismo è solo un mezzo per giungere all’interno, dove la visione interagisce con la nostra sensibilità psicologica. E la pittura che nasce in questo modo non deve fermarsi all’occhio dell’osservatore, ma deve giungere al suo interno.
Un’altra profonda differenza divide i due movimenti. L’Impressionismo è stato sempre connotato da un atteggiamento positivo nei confronti della vita. Era alla ricerca del bello e proponeva immagini di indubbia gradevolezza. I soggetti erano scelti con l’intento di illustrare la gioia di vivere. Di una vita connotata da ritmi piacevoli e vissuta quasi con spensieratezza.
Totalmente opposto è l’atteggiamento dell’Espressionismo. La sua matrice di fondo rimane sempre profondamente drammatica. Quando l’artista espressionista vuol guardare dentro di sé o dentro gli altri, trova sempre toni foschi e cupi. Al suo interno c'è l’angoscia, dentro gli altri la bruttura mascherata dall’ipocrisia borghese. E per rappresentare tutto ciò l’artista espressionista non esita a ricorre ad immagini brutte e sgradevoli. Anzi con l’Espressionismo il brutto diviene una vera e propria categoria estetica, cosa mai avvenuta prima con tanta enfasi nella storia dell’arte occidentale.
Da un punto di vista stilistico la pittura espressionista muove soprattutto da Van Gogh e da Gauguin. Del primo prende il segno profondo e gestuale, del secondo il colore come simbolo interiore. La pittura espressionista risulta quindi totalmente antinaturalistica, lì dove l’aderenza alla realtà dell’Impressionismo collocava questo movimento ancora nei limiti del naturalismo, pur inteso solo come percezione della realtà.

X.4. Il Cubismo
Il percorso dell’arte contemporanea è costituito di tappe che hanno segnato il progressivo annullamento dei canoni fondamentali della pittura tradizionale. Nella storia artistica occidentale l’immagine pittorica per eccellenza è stata sempre considerata di tipo naturalistico. Ossia le immagini della pittura devono riprodurre fedelmente la realtà, rispettando gli stessi meccanismi della visione ottica umana. Questo obiettivo era stato raggiunto con il Rinascimento italiano, che aveva fornito gli strumenti razionali e tecnici del controllo dell’immagine naturalistica: il chiaroscuro per i volumi, la prospettiva per lo spazio. Il tutto era finalizzato a rispettare il principio della verosimiglianza attraverso la fedeltà plastica e coloristica.
Questi princìpi dal Rinascimento in poi sono divenuti fondamentali del fare pittorico, istituendo quella prassi che con termine corrente viene definita accademica.
Dall’Impressionismo in poi la storia dell’arte ha progressivamente rinnegato questi princìpi, portando la ricerca pittorica ad esplorare territori, che fino a quel momento sembravano posti al di fuori delle regole. Già Manet aveva totalmente abolito il chiaroscuro, risolvendo l’immagine, sia plastica che spaziale, in soli termini coloristici.
Le ricerche condotte dal Postimpressionismo avevano smontato un altro pilastro della pittura accademica: la fedeltà coloristica. Il colore in questi movimenti ha una sua autonomia di espressione, che va al di là della imitazione della natura. Ciò consentiva ad esempio di rappresentare dei cavalli di colore blu, se ciò era più vicino alla sensibilità del pittore e ai suoi obiettivi di comunicazione, anche se nella realtà i cavalli non hanno quella colorazione. Questo principio divenne poi uno dei fondamenti dell’Espressionismo.
Era rimasto da smontare l’ultimo pilastro su cui era costruita la pittura accademica: la prospettiva. Ed è quando fece Picasso nel suo periodo di attività che viene definito cubista.
Già nel periodo postimpressionista gli artisti cominciarono a svincolarsi dalle leggi ferree della costruzione prospettica. La pittura di Gauguin ha una risoluzione bidimensionale, che la rende già antiprospettica. Ma colui che deforma volutamente la prospettiva è Paul Cezanne. Le diverse parti che compongono i suoi quadri sono quasi tutte messe in prospettiva, ma da angoli visivi diversi. Gli spostamenti del punto di vista a volte sono minimi e neppure percepibili ad un primo sguardo, ma di fatto demoliscono il principio fondamentale della prospettiva: l’unicità del punto di vista.
Meditando la lezione di Cezanne, Picasso portò lo spostamento e la molteplicità dei punti di vista alle estreme conseguenze. Nei suoi quadri le immagini si compongono di frammenti di realtà, visti da angolazioni diverse e miscelati in una sintesi del tutto originale. Nella prospettiva tradizionale la scelta di un unico punto di vista imponeva al pittore di guardare solo ad alcune facce della realtà. Nei quadri di Picasso l’oggetto viene rappresentato da una molteplicità di punti di vista, così da ottenere una rappresentazione totale dell’oggetto. Tuttavia questa sua particolare tecnica lo portava ad ottenere immagini dalla apparente incomprensibiltà, in quanto risultavano del tutto diverse da come la nostra esperienza è abituata a vedere le cose.
E da ciò nacque anche il nome Cubismo, dato a questo movimento con intento denigratorio in quanto i quadri di Picasso sembravano comporsi solo di sfaccettature di cubi.
A differenza degli altri movimenti avanguardistici il Cubismo non nacque in un momento preciso né con un intento preventivamente dichiarato. Il Cubismo non fu cercato ma semplicemente trovato da Picasso grazie al particolare atteggiamento di non darsi alcun limite ma di sperimentare tutto ciò che era nelle sue possibilità.
Il quadro che convenzionalmente viene indicato come l’inizio del Cubismo è Les demoiselles d’Avignon, realizzato da Picasso tra il 1906 e il 1907. Subito dopo nella ricerca sul Cubismo si inserì anche George Braque, l’altro grande protagonista di questo movimento che negli anni antecedenti la Prima guerra mondiale vide la partecipazione di altri artisti, quali Juan Gris, Fernand Léger e Robert Delaunay. I confini del Cubismo rimangono però incerti proprio per questa sua particolarità di non essersi mai costituito come un vero e proprio movimento.
Avendo soprattutto a riferimento la ricerca pittorica di Picasso e Braque, il Cubismo viene solitamente diviso in due fasi principali: la prima è il Cubismo analitico e la seconda il Cubismo sintetico.
Il Cubismo analitico è caratterizzato da un procedimento di numerose scomposizioni e ricomposizioni, che danno ai quadri di questo periodo la loro inconfondibile trama di angoli variamente incrociati. Il Cubismo sintetico invece si caratterizza per una rappresentazione più diretta ed immediata della realtà che vuole evocare, annullando del tutto il rapporto tra figurazione e spazio. In questa fase compaiono nei quadri cubisti dei caratteri e delle scritte, infine anche i papier collés, ossia frammenti incollati sulla tela di giornali, carte da parati, carte da gioco e frammenti di legno. Più di ogni altro movimento pittorico il Cubismo sintetico rivoluziona il concetto stesso di quadro, portandolo ad essere esso stesso realtà e non rappresentazione della realtà.
L’immagine naturalistica ha un limite ben preciso: può rappresentare solo un istante della percezione. Avviene da un solo punto di vista e coglie solo un momento. Quando il Cubismo rompe la convenzione sull’unicità del punto di vista, introduce nella rappresentazione pittorica un nuovo elemento: il tempo.
Per poter vedere un oggetto da più punti di vista, è necessario che la percezione avvenga in un tempo prolungato che non si limita ad un solo istante. È necessario che l’artista abbia il tempo di vedere l’oggetto e quando passa alla rappresentazione porta nel quadro la conoscenza che egli ha acquisito dell’oggetto. La percezione pertanto non si limita al solo sguardo ma implica l’indagine sulla struttura delle cose e sul loro funzionamento.
I quadri cubisti sconvolgono la visione perché introducono quella che viene definita la quarta dimensione da quando, negli stessi anni, veniva postulata in fisica dalla Teoria della Relatività di Albert Einstein. La contemporaneità dei due fenomeni rimane tuttavia casuale, senza un reale nesso di dipendenza reciproca.
Appare tuttavia singolare come in due campi diversissimi tra loro si avverta la medesima necessità di andare oltre la conoscenza empirica della realtà per giungere a nuovi modelli di descrizione e rappresentazione del reale.
L’introduzione di questa nuova variabile, il tempo, è un dato che non riguarda solo la costruzione del quadro ma anche la sua lettura. Un quadro cubista, così come tantissimi quadri di altri movimenti del '900, non può essere letto e compreso con uno sguardo istantaneo. Deve invece essere percepito con un tempo preciso di lettura. Il tempo cioè di analizzarne le singole parti e ricostruirle mentalmente, per giungere con gradualità dalla immagine al suo significato.

X.5. Il Futurismo
Il Futurismo è un’Avanguardia storica di matrice totalmente italiana. Nato nel 1909 grazie al poeta e scrittore Filippo Tommaso Marinetti, il Futurismo divenne in breve tempo il movimento artistico di maggior novità nel panorama culturale italiano. Si rivolgeva a tutte le arti, coinvolgendo poeti, pittori, scultori, musicisti e così via, proponendo in sostanza un nuovo atteggiamento nei confronti dell'arte. Ciò che il Futurismo rifiutava era il concetto di un’arte élitaria e decadente, confinata nei musei e negli spazi della cultura aulica. Proponeva invece un balzo in avanti per esplorare il mondo del futuro, fatto di parametri quali la modernità contro l’antico, la velocità contro la stasi, la violenza contro la quiete e così via. In sostanza il Futurismo si connotò già al suo nascere come un movimento con due caratteri fondamentali:
1. l’esaltazione della modernità;
2. l’impeto irruento del fare artistico.
Il Futurismo ha una data di nascita precisa: il 20 febbraio 1909. In quel giorno infatti Marinetti pubblicò sul giornale parigino Le Figaro il Manifesto del Futurismo. In questo scritto sono già contenuti tutti i caratteri del nuovo movimento, sintetizzati in undici punti.
«1. Noi vogliamo cantar l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno.
4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e mugnificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.
7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.
8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.
9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica.
11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta».
In un altro suo scritto Marinetti dichiarò come doveva essere l’artista futurista.
«Chi pensa e si esprime con originalità, forza, vivacità, entusiasmo, chiarezza, semplicità, agilità e sintesi. Chi odia i ruderi, i musei, i cimiteri, le biblioteche, il culturismo, il professoralismo, l’Accademismo, l’imitazione del passato, il purismo, le lungaggini e le meticolosità. Chi vuole svecchiare, rinvigorire e rallegrare l’arte italiana, liberandola dalle imitazioni del passato, dal tradizionalismo e dall’Accademismo e incoraggiando tutte le creazioni audaci dei giovani».
Il fenomeno del Futurismo ha quindi una spiegazione genetica molto chiara. La cultura dell’'800 era stata troppo condizionata dai modelli storici. Il passato, specie in Italia, era divenuto un vincolo dal quale sembrava impossibile affrancarsi. Oltre a ciò la tarda cultura ottocentesca si era anche caratterizzata per il Decadentismo, che proponeva un’arte fatta di estasi pensose quale fuga dalla realtà nel mondo dei sogni. Contro tutto ciò insorse il Futurismo, cercando un’arte che esprimesse vitalità e ottimismo per costruire un mondo nuovo basato su una nuova estetica.
L’adesione al Futurismo coinvolse molte delle giovani leve fra gli artisti, tra cui numerosi pittori che nel giro di pochi anni crearono uno stile futurista ben chiaro e preciso. Tra di loro il maggior esponente fu Umberto Boccioni, al quale si affiancarono Giacomo Balla, Gino Severini, Luigi Russolo e Carlo Carrà.
Il movimento ebbe due fasi, separate dalla Prima guerra mondiale, il cui scoppio disperse molti degli artisti protagonisti della prima fase del Futurismo. Boccioni morì nel 1916 in guerra. Carrà, dopo aver incontrato De Chirico, si rivolse alla pittura metafisica e come lui fecero altri giovani pittori, come Mario Sironi e Giorgio Morandi, i cui esordi erano stati tra i Futuristi.
Nel Dopoguerra il carattere di forza virile di questo movimento finì per farlo integrare nell’ideologia del fascismo, esaurendo così la sua spinta rinnovatrice per essere assorbito paradossalmente negli schemi di una cultura ufficiale e reazionaria. Questa sua adesione al fascismo ne ha molto limitato la considerazione critica da parte della cultura italiana successiva, che ha visto questo movimento come qualcosa di folkloristico e provinciale. La sua rivalutazione sta avvenendo solo da pochi anni e dopo che soprattutto la storiografia inglese ha riscoperto questo fenomeno artistico. Il Futurismo tuttavia, nonostante il suo limite di essere un movimento solo italiano e non internazionale, ha esercitato una influenza notevole nel dibattito artistico di quegli anni, contribuendo in maniera determinante alla nascita delle Avanguardie russe, come il Cubofuturismo, il Suprematismo e il Costruttivismo.
Uno dei tratti più tipici del Futurismo è proprio la grande produzione di manifesti. Attraverso questi scritti gli artisti dichiaravano i propri obiettivi e gli strumenti per ottenerli. Essi risultano quindi molto importanti per la comprensione del Futurismo. Da essi è possibile non solo valutare le intenzioni degli artisti, ma anche in che misura le intenzioni si sono attuate nella loro produzione reale.
Il primo Manifesto sulla Pittura Futurista risale al 1910. A firmarlo furono Boccioni, Carrà, Russolo, Severini e Balla. In esso non si va molto oltre le semplici enunciazioni di principi, che ricalcano gli obiettivi fondamentali del movimento. Si ribadisce il rifiuto del passato, dell’Accademismo, delle convenzioni e delle imitazioni.
Molto più interessante è il secondo manifesto, che gli stessi artisti redassero l’anno successivo, datato 11 febbraio 1911. In La pittura futurista. Manifesto tecnico si legge:
«Il gesto, per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale.
Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza delle immagini nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo da corsa non ha quattro gambe: ne ha venti, e i loro movimenti sono triangolari».
In questo passo si coglie già uno dei fondamenti della pittura futurista: l’intenzione di rappresentare non degli oggetti statici ma in continuo movimento. E soprattutto cercando di rappresentarli, dando l’idea del loro dinamismo. La sensazione dinamica doveva ricercarsi moltiplicando le immagini, scomponendole e ricomponendole secondo le direzioni del loro movimento.
Più oltre segue un passo che ci fornisce un altro dei parametri fondamentali della pittura futurista.
«Lo spazio non esiste più; una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici s’inabissa fino al centro della terra. Il Sole dista da noi migliaia di chilometri; ma la casa che ci sta davanti non ci appare forse incastronata nel disco solare? […] Le sedici persone che avete intorno a voi in un tram che corre sono una, dieci, quattro tre: stanno ferme e si muovo; vanno e vengono, rimbalzano sulla strada, divorate da una zona di sole, indi tornano a sedersi, simboli persistenti della vibrazione universale. E, talvolta, sulla guancia della persona con cui parliamo nella via noi vediamo il cavallo che passa oltre. I nostri corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così che il tram che passa entra nelle case, le quali alla loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano».
«I nostri corpi entrano nei divani, e i divani entrano in noi»: la frase esprime con estrema chiarezza uno dei tratti più tipici del Futurismo: la scelta di intersercare le immagini, arrivando ad una rappresentazione di sintesi dove tutte le cose si compenetrano tra loro, creando un nuovo tipo di spazialità.
Parte del manifesto è ovviamente dedicata allo stile, affermando che la nuova pittura deve basarsi sulla scomposizione del colore già attuata dai Divisionisti. Ma il Divisionismo deve essere solo uno strumento, non un fine della rappresentazione. La scomposizione dei colori (che viene definita complementarismo congenito) non solo deve esaltare la sensazione di dinamicità, ma contribuire a quella nuova spazialità dove è proprio la luce, insieme al moto, a far compenetrare gli oggetti tra loro.
Il manifesto si conclude con una sintesi finale espressa in quattro punti:
«NOI PROCLAMIAMO:
1. Che il complementarismo congenito è una necessità assoluta nella pittura, come il verso libero nella poesia e come la polifonia nella musica;
2. Che il dinamismo universale deve essere reso come sensazione dinamica;
3. Che nell’interpretazione della Natura occorre sincerità e verginità;
4. Che il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi».
La pittura futurista ha molte analogie e qualche notevole differenza con il Cubismo. Il Cubismo scomponeva l’oggetto in varie immagini e poi le ricomponeva in una nuova rappresentazione. Il Futurismo non intersecava diverse immagini della stessa cosa ma direttamente diverse cose tra loro. Il risultato stilistico a cui si giungeva era però molto simile ed affine. Del resto non bisogna dimenticare che gli artisti futuristi erano ben a conoscenza di ciò che il Cubismo faceva in Francia. Non solo perché il Futurismo nacque, di fatto, a Parigi con Marinetti, ma anche perché uno di loro, Gino Severini, viveva ed operava nella capitale francese.
Ciò che invece distinse i due movimenti fu soprattutto il diverso valore dato al tempo. La dimensione temporale era già stata introdotta nella pittura dal Cubismo. Ma si trattava di un tempo lento, fatto di osservazione, riflessione e meditazione. Il Futurismo ha invece il culto del tempo veloce. Del dinamismo che agita tutto e deforma l’immagine delle cose.
È proprio la velocità il parametro estetico della modernità. Del resto il mito della velocità per il Futurismo ha degli impeti quasi religiosi. Disse Marinetti in un suo scritto: «Se pregare vuol dire comunicare con la divinità, correre a grande velocità è una preghiera».
Nei quadri futuristi la velocità si traduceva in linee di forza rette: davano l’idea della scia che lasciava un oggetto che correva a grande velocità. Mentre in altri quadri, soprattutto di Balla, la sensazione dinamica era ricercata come moltiplicazione di immagini messe in sequenza tra loro. Così che le innumerevoli gambe che compaiono su un suo quadro non appartengono a più persone, ma sempre alla stessa bambina, vista nell’atto di correre (Bambina che corre sul balcone).

X.6. La Metafisica
La Metafisica è l’altro grande contributo all’arte europea che provenne dall’Italia nel periodo delle Avanguardie storiche. Per la sua palese figuratività, esente da qualsiasi innovazione del linguaggio pittorico, la Metafisica è da alcuni esclusa dal contesto vero e proprio delle Avanguardie. Essa tuttavia fornì importanti elementi per la nascita di quella che viene considerata l’ultima tra le Avanguardie: il Surrealismo.
Protagonista e inventore di questo stile fu Giorgio De Chirico. Iniziò a fare pittura metafisica già nel 1909, anno di nascita del Futurismo. Ma rispetto a quest’ultimo movimento la Metafisica si colloca decisamente agli antipodi. Nel Futurismo è tutto dinamismo e velocità; nella Metafisica predomina la stasi più totale. Non solo non c’è la velocità, ma tutto sembra congelarsi in un istante senza tempo dove le cose e gli spazi si pietrificano per sempre. Il Futurismo vuol rendere l’arte un grido alto e possente; nella Metafisica predomina invece la dimensione del silenzio più assoluto. Il Futurismo vuole rinnovare totalmente il linguaggio pittorico; la Metafisica si affida invece agli strumenti più tradizionali della pittura: soprattutto la prospettiva.
Si potrebbe pensare che la Metafisica alla fine sia solo un movimento di retroguardia, fermo a posizioni accademiche. E invece riesce a trasmettere messaggi totalmente nuovi, la cui carica di suggestione è immediata ed evidente. Le atmosfere magiche ed enigmatiche dei quadri di De Chirico colpiscono proprio per l’apparente semplicità di ciò che mostrano. Le sue immagini propongono una realtà, che solo apparentemente assomiglia a quella che noi conosciamo dalla nostra esperienza. Uno sguardo più attento ci mostra che la luce è irreale e colora gli oggetti e il cielo di tinte innaturali. La prospettiva, che sembrava costruire uno spazio geometricamente plausibile, è invece quasi sempre volutamente deformata così che lo spazio acquista un aspetto inedito. Le scene urbane, che sono protagoniste indiscusse di questi quadri, hanno un aspetto dilatato e vuoto. In esse predomina l’assenza di vita. Le rappresentazioni di De Chirico superano la realtà, andando in qualche modo oltre. Ci mostrano una nuova dimensione del reale. Da ciò il termine “metafisica”, usato per definirla. Le immagini di De Chirico sono il contesto ultimo a cui può pervenire la realtà creata dal nostro vivere.
La Metafisica come movimento ufficiale sorse solo nel 1917 a Ferrara dall’incontro tra De Chirico e Carlo Carrà. Quest’ultimo proveniva dalle file del Futurismo, ma se ne era progressivamente distaccato. L’incontro lo convinse del recupero della figura e dell’esplorazione di quel mondo arcaico e fisso che caratterizza la pittura metafisica di De Chirico. Dal Futurismo si convertì anche Giorgio Morandi, che nella purezza e severità delle immagini metafische trovò la sua cifra stilistica più personale. Alla Metafisica aderirono, seppure a tratti, altri pittori italiani, tra cui Alberto Savinio, fratello di De Chirico, Filippo De Pisis, Mario Sironi e Felice Casorati.
Nel 1921 il gruppo della Metafisica era già sciolto, dato che la maggior parte dei suoi protagonisti si erano aggregati intorno alla corrente di Valori Plastici. Ma la pittura metafisica di fatto non scomparve, restando una cifra di fondo molto riconoscibile di Giorgio De Chirico e di molti degli artisti, che avevano condiviso la sua esperienza.

X.7. Il Dadaismo
Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce a Zurigo in Svizzera nel 1916. La situazione storica in cui il movimento ha origine è quello della Prima guerra mondiale con un gruppo di intellettuali europei che vi si rifugianoper sfuggire alla guerra. Questo gruppo è formato da Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck, Hans Richter, e il loro esordio ufficiale viene fissato al 5 febbraio 1916, giorno in cui fu inaugurato il Cabaret Voltaire fondato dal regista teatrale Hugo Ball. Alcuni di loro sono tedeschi, come il pittore e scultore Hans Arp, altri rumeni, come il poeta e scrittore Tristan Tzara o l’architetto Marcel Janco.
Le serate al Cabaret Voltaire non sono molto diverse dalle serate organizzate dai Futuristi: in entrambe vi è l’intento di stupire con manifestazioni inusuali e provocatorie, così da proporre un’arte nuova ed originale. E in effetti i due movimenti, Futurismo e Dadaismo, hanno diversi punti comuni (quale l’intento dissacratorio e la ricerca di meccanismi nuovi del fare arte) ma anche qualche punto di notevole differenza: soprattutto il diverso atteggiamento nei confronti della guerra. I Futuristi nella loro posizione interventista sono tutto sommato favorevoli alla guerra, mentre i Dadaisti sono del tutto contrari. Questa impostazione diversa conduce ad una valutazione facile, anche se inesatta, per cui il Futurismo è un movimento di destra mentre il Dadaismo è di sinistra. Altro punto in comune tra i due movimenti è inoltre l’uso dei manifesti quale momento di dichiarazione di intenti.
Ma veniamo ai contenuti principali del Dadaismo. Innanzitutto il titolo. La parola Dada, che identificò il movimento, non significava assolutamente nulla, e già in ciò vi è una sua caratteristica: quella di rifiutare ogni atteggiamento razionalistico. Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e viene usato come una clava per abbattere le convenzioni borghesi intorno all’arte. Pur di rinnegare la razionalità i Dadaisti non rifiutano alcun atteggiamento dissacratorio e tutti i mezzi sono idonei per giungere al loro fine ultimo: distruggere l’arte. Distruzione assolutamente necessaria per poter ripartire con una nuova arte non più sul piedistallo dei valori borghesi ma coincidente con la vita stessa e non separata da essa.
Dopo il suo esordio a Zurigo il movimento si diffonde ben presto in Europa, soprattutto in Germania e quindi a Parigi. Benché il Dadaismo sia ben circoscritto e definito in area europea, c'è la tendenza a far ricadere nel medesimo ambito anche alcune esperienze artistiche che negli stessi anni ebbero luogo a New York negli Stati Uniti. L’esperienza dadaista americana nacque dall’incontro di alcune notevoli personalità artistiche: il pittore francese Marcel Duchamp, il pittore e fotografo americano Man Ray, il pittore franco-spagnolo Francis Picabia e il gallerista americano Alfred Stieglitz.
Ma la vita del movimento è abbastanza breve. Del resto non poteva essere diversamente. La funzione principale del Dadaismo era quello di distruggere una concezione oramai vecchia e desueta dell’arte. E questa è una funzione che svolge in maniera egregia, ma per poter divenire proposta necessitava di una trasformazione, che avvenne tra il 1922 e il 1924 quando il Dadaismo scomparve e nacque il Surrealismo.
Il Dadaismo rifiuta ogni atteggiamento razionale e per poter continuare a produrre opere d’arte si affida ad un meccanismo ben preciso: la casualità. Il caso in seguito troverà diverse applicazioni in arte: lo useranno sia i Surrealisti per far emergere l’inconscio umano, sia gli Espressionisti astratti per giungere a nuove rappresentazioni del caos, come farà Jackson Polloch con l’Action Painting.
Ma torniamo al Dadaismo. In un suo scritto il poeta Tristan Tzara descrive il modo dadaista di produrre una poesia. Il passo proposto di seguito è decisamente esplicativo del loro modo di procedere.
«Per fare un poema dadaista.
Prendete un giornale. Prendete delle forbici. Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che contate di dare al vostro poema.
Ritagliate l’articolo. Ritagliate quindi con cura ognuna delle parole che formano questo articolo e mettetele in un sacco. Agitate piano.
Tirate fuori quindi ogni ritaglio, uno dopo l’altro, disponendoli nell’ordine in cui hanno lasciato il sacco.
Copiate coscienziosamente. Il poema vi assomiglierà.
Ed eccovi “uno scrittore infinitamente originale e d’una sensibilità affascinante, sebbene incompresa dall’uomo della strada”».
In un suo passo Hans Arp afferma: «La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a noi incomprensibile come la causa prima onde origina la vita, può essere conosciuta soltanto in un completo abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa legge creerà la vita vera e propria».
Si capisce come il Dadaismo non muore del tutto, ma si trasforma in effetti nel Surrealismo, movimento quest’ultimo che può quasi considerarsi una naturale evoluzione del primo.
Un notevole contributo dato alla definizione di una nuova estetica sono i ready-made. Il termine indica opere realizzate con oggetti reali, non prodotti con finalità estetiche e presentati come opere d’arte. In pratica i ready-made sono un’invenzione di Marcel Duchamp, il quale inventa anche il termine per definirli, che in italiano significa approssimativamente già fatti, già pronti.
I ready-made nascono ancor prima del movimento dadaista, dato che il primo ready-made di Duchamp, la Ruota di bicicletta, è del 1913. Essi diventano nell’ambito dell’estetica dadaista uno dei meccanismi di maggior dissacrazione dei concetti tradizionali sull'arte. Soprattutto quando Duchamp nel 1917 propose uno dei suoi ready-made più noti: la Fontana.
In pratica con i ready-made venne meno il concetto, per cui l’arte era il prodotto di una attività manuale coltivata e ben finalizzata. Opera d’arte poteva essere qualsiasi cosa, posizione che aveva la sua conseguenza nel fatto che nulla è arte. Ma questa evidente tautologia era superata dal capire che innanzitutto l’arte non deve separarsi altezzosamente dalla vita reale, ma confondersi con questa, e che l’opera dell’artista non consiste nella sua abilità manuale ma nelle idee che riesce a proporre. Infatti il valore dei ready-made era solo nell’idea. Abolendo qualsiasi significato o valore alla manualità dell’artista, l’artista non è più colui che sa fare delle cose con le proprie mani, ma che sa proporre nuovi significati alle cose, anche per quelle già esistenti.

X.8. Il Surrealismo
La nascita della psicologia moderna grazie a Freud ha fornito molte suggestioni alla produzione artistica della prima metà del '900. Soprattutto nei Paesi dell’Europa centro settentrionale le correnti pre-espressionistiche e espressionistiche hanno utilizzato ampiamente il concetto di inconscio per far emergere alcune delle caratteristiche più profonde dell’animo umano, di solito mascherate dall’ipocrisia della società borghese del tempo.
Sempre da Freud i pittori che dettero vita al Surrealismo presero un altro elemento, che diede loro la possibilità di scandagliare e far emergere l’inconscio: il sogno.
Il sogno è quella produzione psichica che ha luogo durante il sonno ed è caratterizzata da immagini, percezioni, emozioni che si svolgono in maniera irreale o illogica. O che per meglio dire possono essere svincolate dalla normale catena logica degli eventi reali, mostrando situazioni che in genere nella realtà sono impossibili a verificarsi. Il primo studio sistematico sull’argomento risale al 1900, quando Freud pubblicò L’interpretazione dei sogni. Secondo lo studioso «il sogno è la via regia verso la scoperta dell’inconscio». Nel sonno infatti viene meno il controllo della coscienza sui pensieri dell’uomo e il suo inconscio può quindi emergere liberamente, travestendosi in immagini di tipo simbolico. La funzione interpretativa è necessaria per capire il messaggio che proviene dall’inconscio in termini di desideri, pulsioni o malesseri e disagi.
Il sogno propone soprattutto immagini: si svolge quindi secondo un linguaggio analogico: di qui spesso la sua difficoltà ad essere tradotto in parole, ossia in un linguaggio logico. La produzione figurativa può dunque risultare più immediata per la rappresentazione diretta ed immediata del sogno. E da qui discende la teoria del Surrealismo.
Il Surrealismo come movimento artistico nacque nel 1924. Alla sua nascita contribuirono in maniera determinante sia il Dadaismo sia la pittura metafisica.
Teorico del gruppo fu soprattutto lo scrittore André Breton. Fu egli a redigere il Manifesto del Surrealismo nel 1924. Mosse da Freud per chiedersi come mai sul sogno, che rappresenta molta dell’attività di pensiero dell’uomo visto che trascorriamo buona parte della nostra vita a dormire, ci si sia interessati così poco. Secondo Breton bisogna cercare il modo di giungere ad una realtà superiore (appunto una surrealtà) in cui conciliare i due momenti fondamentali del pensiero umano: quello della veglia e quello del sogno.
Il Surrealismo è dunque il processo mediante il quale si giunge a questa surrealtà. Sempre Breton così definisce il Surrealismo: «Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale».
L’automatismo psichico è quindi un processo automatico che si realizza senza il controllo della ragione (il pensiero senza freni inibitori, siano essi morali o estetici, libro di vagare e raccogliere immagini, idee, parole senza costrizioni o propositi precostituiti, senza scopi preordinati) e fa sì che l’inconscio, quella parte di noi che si fa viva nel sogno, emerga e si esprima, divenendo operante mentre siamo svegli. È così raggiunta quella realtà superiore, la surrealtà, in cui si conciliano veglia e sogno.
Al Surrealismo aderirono diversi pittori europei, tra i quali Max Ernst, Juan Mirò, René Magritte e Salvador Dalì. Non vi aderì Giorgio De Chirico che pure con la sua pittura metafisica aveva fornito un contributo determinante alla nascita del movimento, mentre vi aderì, seppure con una certa originalità, il fratello Andrea, più noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio.
Il Surrealismo è un movimento che pratica un'arte figurativa e non astratta. La sua figurazione non è ovviamente naturalistica, anche se ha con il naturalismo un dialogo serrato. E ciò per l’ovvio motivo che vuol trasfigurare la realtà ma non negarla.
L’approccio al Surrealismo è stato diverso da artista ad artista in ragione delle diversità personali di chi lo ha interpretato. Ma in sostanza possiamo suddividere la tecnica surrealista in due grosse categorie: quella degli accostamenti inconsuenti e quella delle deformazioni irreali.
Gli accostamenti inconsueti sono stati spiegati da Max Ernst, pittore e scultore surrealista. Egli, partendo da una frase del poeta Comte de Lautréamont, «bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio», spiegava che tale bellezza proveniva dall’«accoppiamento di due realtà in apparenza inconciliabili su un piano che in apparenza non è conveniente per esse». Procedendo per libera associazione di idee, si uniscono cose e spazi tra loro apparentemente estranei per ricavarne una sensazione inedita. La bellezza surrealista nasce allora dal trovare due oggetti reali, veri, esistenti (l’ombrello e la macchina da cucire), che non hanno nulla in comune, assieme in un luogo egualmente estraneo ad entrambi. Tale situazione genera una visione inattesa, che sorprende per la sua assurdità e perché contraddice le nostre certezze.
Le deformazioni irreali riguardano invece la categoria della metamorfosi. Le deformazioni espressionistiche nascevano dal procedimento della caricatura ed erano tese alla accentuazione dei caratteri e delle sensazioni psicologiche. La metamorfosi invece è la trasformazione di un oggetto in un altro, come ad esempio donne che si trasformano in alberi (Delvaux) o foglie che hanno forma di uccelli (Magritte).
Entrambi questi procedimenti hanno un unico fine: lo spostamento del senso. Ossia la trasformazione delle immagini, che abitualmente siamo abituati a vedere in base al senso comune, in immagini che ci trasmettono l’idea di un diverso ordine della realtà.
Tra i Surrealisti chi più gioca con gli spostamenti del senso è il pittore belga René Magritte (1898-1967). Dopo aver scoperto la pittura di De Chirico si avvicinò al Surrealismo nel 1927, divendone uno dei protagonisti principali. I suoi quadri sono realizzati in uno stile da illustratore di evidenza quasi infantile.
Nell’opera di Magritte è possibile trovare un po’ tutti gli elementi e le tecniche del Surrealismo. Egli gioca con le immagini e le parole, accostando oggetti e nomi non loro, oppure disegnando una pipa e scrivendoci sotto che quella non è un pipa. Gioca con il rapporto tra immagine naturalistica e realtà, proponendo immagini dove il quadro nel quadro ha lo stesso identico aspetto della realtà che rappresenta, al punto da confondersi con esso. Combina nel medesimo quadro cieli diurni e paesaggi notturni. Accosta, sospesi nel cielo, una nuvola ed un enorme masso di pietra. Trasforma gli animali in foglie o in pietra. Fa ritratti dei quali nasconde la parte più significativa, il volto. Fa baciare due persone tra loro con la testa completamente coperta da un lenzuolo bianco. Il suo è un Surrealismo molto mentale, anche se ha contenuti di una poesia lieve e suggestiva.

X.9. L’Astrattismo
Nelle arti figurative il concetto di “astratto” assume il significato di non reale. L’arte astratta è quella che non rappresenta la realtà. L’arte astratta crea immagini che non appartengono alla nostra esperienza visiva. Essa cioè cerca di esprimere i propri contenuti nella libera composizione di linee, forme, colori senza imitare la realtà concreta in cui noi viviamo.
L’astratto in tal senso nasce agli inizi del '900. Ma esso era già presente in molta produzione estetica precedente, anche molto antica. Sono astratte sia le figurazioni che compaiono sui vasi greci, sia le miniature altomedievali, solo per fare alcuni esempi. In questi casi però la figurazione astratta aveva un fine estetico ben preciso: quello della decorazione.
L’arte astratta di questo secolo invece ha un fine completamente diverso: quello della comunicazione. Vuole esprimere contenuti e significati, senza prendere in prestito nulla dalle immagini già esistenti intorno a noi.
All’astratto si è arrivati mediante l'astrazione. Il concetto di astrazione è molto generale ed esprime un procedimento mediante il quale l’intelletto umano descrive la realtà solo in alcune sue caratteristiche. Da processi di astrazione nascono le parole, i numeri, i segni, e così via: nel campo delle immagini i segni intesi come simboli che rimandano a cose o idee sono già un modo “astratto” di rappresentare la realtà. Nel campo dell’astrazione entrano anche la stilizzazioni che ad esempio proponeva l’arte liberty. E ovviamente tutta l’esperienza estetica delle Avanguardie storiche è un modo tendenzialmente astratto di rappresentare la realtà.
Ad esempio la Scomposizione di una bottiglia, che effettua Picasso, gli consente di giungere ad una rappresentazione astratta di quella bottiglia. Ma nel suo quadro la bottiglia, intesa come realtà esistente, rimane presente.
L’Astrattismo invece nasce quando nei quadri non c'è più alcun riferimento alla realtà, quando i pittori procedono in maniera totalmente autonoma rispetto alle forme reali per cercare e trovarne altre del tutto inedite e diverse da quelle già esistenti. In questo caso l’Astrattismo ha una evoluzione, che non è più definibile di astrazione, ma diviene totale invenzione.
L’Astrattismo nasce intorno al 1910 grazie al pittore russo Wassilj Kandinskij. In quegli anni egli operava a Monaco, dove aveva fondato il movimento espressionistico Der Blaue Reiter. Il suo Astrattismo conserva infatti una matrice fondamentalmente espressionistica. È teso a suscitare emozioni interiori, utilizzando solo la capacità dei colori di trasmettere delle sensazioni.
Da questo momento la nascita dell’Astrattismo ha la forza di liberare la fantasia di molti artisti, che si sentono totalmente svincolati dalle norme e dalle convenzioni fino ad allora imposte al fare artistico. I campi in cui agire per nuove sperimentazioni si aprono a dismisura. E le direzioni in cui si svolge l’arte astratta appaiono decisamente eterogenee con premesse ed esiti profondamente diversi.
Nel campo dell’architettura e del design l’arte astratta smuove finalmente un grosso vincolo che aveva condizionato tutta la produzione ottocentesca: quella di mascherare le cose e gli edifici con una “pelle” stilistica a cui affidare la riuscita estetica del manufatto. L’arte astratta sembra dire che può esistere un’estetica delle cose che nasce dalle cose stesse, senza che esse debbano necessariamente imitare qualcosa d'altro. E come l’arte astratta possa divenire metodo di una nuova progettazione estetica nell’architettura e nelle arti applicate, è un processo che si compie nella Bauhaus negli anni ’20 e ’30 e che vede protagonista ancora Wassilj Kandinskij. Ma l’idea che l’astratto potesse servire a costruire un mondo nuovo era già nata qualche anno prima in Russia con l'avanguardia definita Costruttivismo.
Negli anni ’30, in coincidenza con il fenomeno di recupero della figuratività chiamato «ritorno all’ordine», l’Astrattismo subisce dei momenti di pausa. È un’arte che al pari di quella delle altre Avanguardie non viene accettata dai regimi totalitari, che si formano in quegli anni: il nazismo in Germania, il fascimo in Italia, il comunismo in Russia, il franchismo in Spagna. E in conseguenza di questo atteggiamento molti artisti europei emigrano negli Stati Uniti, dove portano l’eredità delle esperienze artistiche dei primi decenni del '900 europeo.
Le esperienze astrattiste hanno ritrovato nuova vitalità nel secondo dopoguerra, dando luogo a diverse correnti, quali l’Action Painting, l’Informale, il Concettuale, l’Optical Art. Nuovi campi di sperimentazione sono stati tentati dagli artisti, uscendo dal campo delle immagini per rendere esperienza estetica la gestualità, la materia e così via.
L’arte astratta nasce come volontà di espressione e di comunicazione, ma lo fa con un linguaggio di cui difficilmente si conoscono le regole. Il problema interpretativo dell’arte astratta è stato in genere impostato su due categorie essenziali: la prima si affida alla psicologia gestalitica, la seconda all’esistenzialismo.
La psicologia gestaltica studia l’iterazione tra l’uomo e le forme. Ossia come la percezione delle forme diviene esperienza psicologica. Il modo con cui questa esperienza psicologica si struttura segue leggi universali. Ad esempio il cerchio tende ad esprimere sempre la medesima sensazione, indipendentemente da cosa abbia forma circolare. E così avviene per i colori, per l’articolazione tra forme e forme, tra colori e colori e tra forme e colori. In sostanza l’atto percettivo, affidandosi ad esperienze già possedute e a meccanismi di fondo, tende a interpretare le cose che vede indipendentemente da cosa esse rappresentino.
Pertanto anche l’immagine astratta trasmette informazioni percettive che stimolano una reazione di tipo psicologico. Se la psicologia gestaltica può spiegare il meccanismo per cui un’opera astratta può apparire bella o brutta, difficilmente può chiarire quale opera apparirà bella e quale no. In sostanza non può fornire elementi di valutazione critica, restando questi comunque pertinenti al campo specifico della storia dell’arte e alla storia del gusto.
Tuttavia la psicologia gestaltica ha fornito numerosi elementi per inquadrare il problema, chiarendo come l’arte astratta riesca a comunicare con la psicologia dell’osservatore. E soprattutto nella sua fase iniziale l’Astrattismo si è ampiamente appoggiata alle categorie interpretative gestaltiche.
Altro metodo di decifrazione dell’arte astratta è quello di rintracciare l’esperienza esistenziale da cui è nata la specifica opera. L’artista vive la medesima realtà di tutti. Riceve le stesse sollecitazioni, le interpreta con la sua specifica sensibilità e in più rispetto agli altri le sa tradurre in forma. L’opera assume valore di documento storico-culturale. Sostanziandosi, il gesto creativo diviene traccia esistenziale e di tutta l’iterazione tra realtà, sollecitazione, sensibilità e creatività, che solo l’artista sa esprimere e oggettivare.

X.10. Il Secondo dopoguerra
Nei primi due decenni di questo secolo le Avanguardie storiche hanno totalmente rivoluzionato il panorama artistico europeo. In nome di una sperimentazione continua con l’Astrattismo giungono ad un’arte che è totalmente agli antipodi con qualsiasi tradizione precedente. La rottura con il passato appare definitiva.
Ma l’apice di questa parabola si esaurì già nel terzo decennio del secolo. Il riflusso ad un’arte più tradizionale si compì soprattutto negli anni ’30. In questo decennio si incontrarono due tendenze opposte, che ricondussero il panorama artistico ad un ritorno alla figuratività. Da un lato ci fu l’atteggiamento dei regimi totalitari, che si instaurarono in Europa e furono fondamentalmente contrari alle arti di Avanguardia ed alle libertà che esse pretendevano, dall’altro ci fu il riflusso degli stessi protagonisti delle Avanguardie (emblematico il caso di Picasso), che inaspettatamente ritornarono a modelli rappresentativi più tradizionali.
Quando nel 1937 Picasso compose la sua grande opera sul bombardamento di Guernica, il suo linguaggio figurativo tornò improvvisamente alle scomposizioni e sintesi cubiste. Ma ciò passò quasi in secondo piano rispetto al grande significato extra-artistico dell’opera, ossia l’impegno che l’artista esplicava nel denunciare una grande tragedia dell’umanità. Il significato di Guernica fu quindi letto principalmente come monito per gli artisti ad impegnarsi nella lotta ideologica e politica.
Non bisogna dimenticare infatti che il momento storico era dei più drammatici: la conquista del mondo, tentata dai nazifascisti con l’immane conflitto bellico che scatenarono, non consentiva a nessuno di estraniarsi da un impegno attivo. Neppure agli artisti era consentita l’evasione dalla realtà, che in quel momento si presentava così tragica.
Questo atteggiamento si protrasse anche negli anni immediatamente seguenti la fine della Seconda guerra mondiale. I grandi problemi lasciati sul campo dal conflitto e l’inizio della Guerra fredda, lo scontro ideologico tra Occidente e Paesi a regime comunista sui temi del capitalismo, indussero molti artisti a mettere la propria arte al servizio delle idee politiche e sociali.
Questo atteggiamento segnò la situazione artistica italiana di quegli anni, determinando la comparsa di due schieramenti opposti: i realisti e i formalisti. I primi, capeggiati da Guttuso, proponevano un’arte che si impegnasse nella realtà sociale del tempo, i secondi (Pietro Consagra, Achille Perilli, Piero Dorazio e altri) pretendevano una maggiore autonomia, rivendicando il diritto alle ricerche formali e stilistiche.
Questo tipo di polemica culturale dà comunque il senso dell’idealismo, ingenuo e tipicamente europeo, di volercredere che l’arte possa servire a cambiare la realtà e a costruire un mondo migliore. Rispetto a ciò appare quindi di tutt’altra portata e segno la comparsa sulla scena artistica internazionale dell’Espressionismo astratto americano. La sua grande carica rivoluzionaria fu proprio la dichiarata disillusione nelle possibilità dell’arte.
Con l’Espressionismo astratto si inaugurò un nuovo filone artistico, definito in seguito Informale e che costituisce di fatto la prima tendenza nuova del Secondo dopoguerra. Ma con l’Espressionismo astratto abbiamo un’ulteriore novità. Le tendenze innovative dell’arte contemporanea non si formano più solo in Europa, ma anche nel continente americano.
Il decennio degli anni ’30 era stato significativo per il fenomeno della grande emigrazione di artisti europei verso gli Stati Uniti. Qui la loro presenza fornì un grosso stimolo, innescando una serie di esperienze che nel Dopoguerra avrebbero prodotto molte novità, come uno spostamento dei baricentri artistici. Se prima Parigi poteva ben considerarsi la capitale mondiale dell’arte moderna, successivamente questo primato si è spostato verso New York. La recente evoluzione dei sistemi di comunicazione ha creato anche nel mondo dell’arte quel senso di villaggio globale che caratterizza la cultura odierna, rendendo di fatto inattuale la definizione di capitale artistica.

X.11. L’Informale
Con il termine “informale” vengono definite una serie di esperienze artistiche sviluppatesi soprattutto negli anni ’50 e che hanno una matrice astratta fondamentale. La caratteristica dell’Informale è di essere contrario a qualsiasi forma.
Ma cosa sono le forme? Nella realtà sensibile è forma tutto ciò che ha un contorno, con il quale un oggetto o un organismo si differenzia dalla realtà circostante e nel quale si definiscono le sue caratteristiche visive e tattili. Anche l’arte astratta, soprattutto nelle sue correnti più geometriche, si costruisce per organizzazione di forme. Queste, non più imitate dalla natura, nascono solo nella visione (o immaginazione) dell’artista, ma rimangono pur sempre delle forme.
L’Informale, rifiutando il concetto di forma, si differenzia dalla stessa arte astratta costituendone al contempo un ampliamento. Questo ampliamento non è da intendersi solo come possibilità di creare immagini nuove ma anche come allargamento del concetto stesso di creatività artistica, in quanto l’Informale produrrà in seguito una notevole serie di tendenze, che finiscono per sconfinare del tutto dalle tradizionali categorie di pittura e scultura. L’Informale è pertanto da considerarsi una matrice fondamentale di tutta l’esperienza artistica contemporanea.
Il termine “informale” fu coniato negli anni ’50 dal critico francese Tapié. A questa etichetta sono state variamente attribuite, e poi negate, molte ricerche di quegli anni. Oggi nell’ambito dell’Informale si tende a individuare due correnti principali: l’Informale gestuale e l’Informale materico. Ma a queste due tendenze vanno di certo uniti altri due segmenti: quello dello Spazialismo e quello della Pittura Segnica.
L’Informale gestuale, definito anche Action Painting, proviene soprattutto dagli Stati Uniti e coincide di fatto con l’Espressionismo astratto. Il suo maggior rappresentante è Jackson Pollock. La sua tecnica pittorica consisteva nello spruzzare o far gocciolare (dripping) i colori sulla tela, senza procedere ad alcun intervento manuale diretto sulla superficie pittorica. Le immagini così ottenute si presentano come un intreccio caotico di segni colorati, in cui non è possibile riconoscere alcuna forma.
I quadri informali sono pertanto la negazione di una conoscenza razionale della realtà, ossia diventano la rappresentazione di un universo caotico in cui non è possibile porre alcun ordine razionale. In tal modo l’esperienza artistica diventa solo testimonianza dell’essere e dell’agire. E in ciò si lega molto profondamente alle filosofie esistenzialistiche di quegli anni, che proponevano una visione di tipo pessimistico rispetto alla possibilità dell’uomo di realizzarsi nel mondo.
Le premesse dell’Informale di gesto si legano in maniera molto diretta ad alcune esperienze delle Avanguardie storiche. In particolare al Dadaismo si può fa risalire il suo rifiuto per la cultura, all’Espressionismo la violenza delle immagini proposte. Ma soprattutto dal Surrealismo l’Informale prende un principio fondamentale: la valorizzazione dell’inconscio. Nell’Informale di gesto infatti il risultato che si ottiene è del tutto automatico: deriva non da scelte formali coscienti, ma da gesti compiuti secondo movenze in cui la gestualità deriva dalla liberazione delle proprie energie interiori. In tal modo l’automatismo psichico dei Surrealisti arriva alle sue estreme conseguenze. In esso non vi è alcun momento cosciente che cerchi di razionalizzare o spiegare ciò che proviene dall’inconscio.
Il fascino di quest’arte risiede proprio nel suo farsi. Da essa infatti possiamo far derivare tutte quelle esperienze successive, come il Comportamentismo, la Body Art o le Performance, in cui il risultato estetico non risiede più nell’opera compiuta ma solo nel vedere l’artista all’opera. Tra i principali artisti americani dell’Action Painting vanno ricordati, oltre a Pollock, Willem de Kooning e Franz Kline.
L’Informale di materia è la tendenza che si manifesta maggiormente in Europa. Esso deriva da un’antica dicotomia da sempre presente nella cultura occidentale da Platone in poi: la polarità materia-forma. Il primo termine indica il magma informe delle energie primordiali, il secondo definisce l’organizzazione della materia in organismi superiori. Questo contrasto tra materia e forma era stato un termine problematico nella scultura di Michelangelo e da lì ha influenzato la scultura moderna attraverso la riscoperta di Rodin. Con l’Informale si appropriano di questa problematica anche i pittori, proponendo immagini in cui i valori estetici ed espressivi sono appunto quelli dei materiali utilizzati.
L’Informale di materia inizia nello stesso anno in cui Pollock inventa l’Action Painting, il 1943. Protagonista è il pittore francese Jean Fautrier. Egli, rifacendosi alle esperienze del Cubismo sintetico di Picasso e Braque e alle ricerche surrealiste di Max Ernst, inserisce nei suoi quadri materiali plastici che emergono dalla superficie. In tal modo rompe il confine tra immagine bidimensionale e immagine plastica, proponendo opere che non sono più classificabili nelle categorie tradizionali di pittura o scultura.
Ai valori espressivi dei materiali si rivolgono altri artisti informali europei: tra essi emergono soprattutto il francese Jean Dubuffet, lo spagnolo Antoni Tápies e l’italiano Alberto Burri. Quest’ultimo in particolare propone opere dalla singolare forza espressiva, ricorrendo a materiali poveri: legni bruciati, vecchi sacchi di juta, lamiere, plastica, eccetera.
Lo Spazialismo è una corrente non uniforme, che si può riconoscere attraverso due artisti principali: l'argentino Lucio Fontana e il russo (ma naturalizzato americano) Marc Rothko. Anche le loro ricerche possono ricondursi all’Informale per la comune assenza di forme, così come definite sopra. Tuttavia la loro ricerca mira ad altri risultati, diversi da quelle degli altri informali. Le loro opere suggeriscono effetti spaziali del tutto inediti: il primo, Fontana, ricorrendo a buchi e tagli prodotti nelle tele, il secondo alle stesure di colore secondo macchie di sottile variazione tonale. Entrambe queste ricerche hanno la capacità di suscitare atmosfere immateriali e non terrene, proponendo una inedita visione di spazi che vanno al di là dello spazio percettivo naturale.
La Pittura Segnica infine è un’ultima versione dell’Informale, anche se da questa si differenzia per la mancanza di un netto rifiuto della forma. In queste ricerche la forma, benché non del tutto assente, tende a trasformarsi in segno cioè in un elemento grafico di riconoscibilità formale ma non contenutistica. Le ricerche della Pittura Segnica tendono a costruire nuovi alfabeti visivi ma non concettuali, in cui è evidente la componente calligrafica. Tra gli artisti più significativi di questa tendenza sono da citare l’italiano Giuseppe Capogrossi e in Francia George Mathieu, Wols (pseudonimo di Wolfgang Schultze) e Hans Hartung, questi ultimi di origine tedesca.

X.12. La Pop Art
L’Informale ha sicuramente ben rappresentato un certo clima culturale esistenzialistico tipico degli anni '50. La sua carica pessimistica di fondo tuttavia fu compresa solo da una ristretta cultura d’élite. E ben presto ha mostrato la sua inattualità nei confronti di una società in rapida trasformazione, che si caratterizzava sempre più come massa, dominata dai tratti positivi ed ottimistici del consumismo.
Ed è proprio dall’incontro tra arte e cultura dei mass-media che sorge la Pop Art. La sua nascita avviene negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni ’50 con le prime ricerche di Robert Raushenberg e Jasper Johns. Ma la sua esplosione avviene soprattutto negli anni ’60, conoscendo una prima diffusione e consacrazione con la Biennale di Venezia del 1964.
I maggiori rappresentanti di questa tendenza sono tutti artisti connaturati americani: Andy Warhol, Claes Oldenburg, Tom Wesselmann, James Rosenquist, Roy Lichtenstein ed altri. Ed in ciò si definisce anche una componente fondamentale di questo stile: essa appare decisamente il frutto della società e della cultura americana. Cultura largamente dominata dall’immagine, ma immagine che proveniva dal cinema, dalla televisione, dalla pubblicità, dai rotocalchi, dal paesaggio urbano largamente dominato dai grandi cartelloni pubblicitari.
La Pop Art ricicla tutto ciò in una pittura che rifà in maniera fredda ed impersonale le immagini proposte dai mass-media. Si va dalle bandiere americane di Jasper Johns alle bottiglie di Coca Cola di Warhol, dai fumetti di Lichtenstein alle locandine cinematografiche di Rosenquist.
La Pop Art documenta quindi in maniera precisa la cultura popolare americana (da qui quindi il suo nome, dove Pop sta per diminutivo di popolare), trasformando in icone le immagini più note o simboliche tra quelle proposte dai mass-media. L’apparente indifferenza per le qualità formali dei soggetti proposti, così come il procedimento di pescare tra oggetti che apparivano triviali e non estetici, ha indotto molti critici a considerare la Pop Art come una specie di nuovo Dadaismo. Se ciò può apparire in parte plausibile, diverso è però il fine. In essa infatti è assente qualsiasi intento dissacratorio, ironico o di denuncia.
Il più grosso pregio della Pop Art rimane invece quello di documentare, senza paura di sporcarsi le mani con la cultura popolare, i cambiamenti di valore indotti nella società dal consumismo. Quei cambiamenti che consistono in una preferenza per valori legati al consumo di beni materiali e alla proiezione degli ideali comuni sui valori dell’immagine, intesa in questo caso soprattutto come apparenza. E in ciò testimoniano dei nuovi idoli o miti, in cui le masse popolari tendono ad identificarsi. Miti ovviamente creati dalla pubblicità e da mass-media che proiettano sulle masse bisogni indotti e non primari, per trasformarle in consumatori sempre più avidi di beni materiali.
In sostanza un quadro di Warhol, che ripete l’ossessiva immagine di una bottiglia di Coca Cola, ci testimonia come quell’oggetto sia oramai divenuto un referente più importante rispetto ad altri valori interiori o spirituali, per giungere a quella condizione esistenziale che i mass-media propagandano come vincente nella società contemporanea.

X.13. Il Concettuale
Il termine “concettuale” ha assunto in campo artistico un significato polivalente, per cui è necessario fare una premessa sul suo utilizzo. Il primo artista ad aver usato programmaticamente la definizione concettuale è stato Joseph Kosuth intorno alla metà degli anni '60. Il suo intento era di proporre opere il cui fine non era il godimento estetico bensì l’attività di pensiero. Del 1965 è una delle sue opere più famose, Una e tre sedie, in cui egli espone una sedia vera, un’immagine fotografica e la definizione scritta della parola sedia. Ciò, a cui tende, è avviare nello spettatore la riflessione sul rapporto, problematico e conflittuale, che esiste tra realtà, rappresentazione iconica (immagine) e rappresentazione logica (parola).
Si comprende come un’arte di questo tipo tende ad eliminare qualsiasi significato emozionale per proporsi con razionalità lucida e fredda. Nell’opera di Kosuth ciò avviene ancora attraverso la proposizione di opere concrete, ma ben presto si comincia a comprendere come si può giungere all’obiettivo concettuale anche facendo a meno di opere materiali o durature. Arte diviene anche il parlare dell’arte, il comportamento, la riflessione e così via. E da questo punto comincia il significato più pregnante del termine concettuale: un’arte che riesce a fare a meno delle opere d’arte.
Se guardiamo all’arte del XX secolo da un'ottica particolare, ci accorgiamo che l’evoluzione artistica ha seguito una linea di progressive riduzioni, di privamenti. Gli artisti si sono aperti nuovi territori di ricerca, privandosi di qualcosa che sembrava appartenere indissolubilmente al significato stesso di arte (così come storicamente si era costruito in Occidente). Si inizia con il fare a meno del naturalismo e della mimesi (Postimpressionismo, Espressionismo, eccetera), si procede facendo a meno della prospettiva (Cubismo), del passato (Futurismo), del valore venale dell’opera (Dadaismo), della realtà (Astrattismo), della forma (Informale), fino a giungere a fare a meno dell'opera d’arte.
Si è rotto così l’ultimo tabù, in quanto un’arte che si manifesti senza opere, era decisamente l’ultima frontiera che restava da conquistare.
Torniamo al problema iniziale. Il termine concettuale può essere utilizzato in una accezione ristretta, riferendoci ad un gruppo limitato di esperienze, o in una accezione più ampia, guardando a tutte le esperienze in cui la mancanza dell’opera tradizionalmente intesa appare il dato caratterizzante. Come abbiamo già fatto con l’Informale, noi utilizzeremo l’accezione più ampia, comprendendo in questo termine molteplici esperienze anche molto diverse tra loro ma che si accomunano per una intenzionalità di fondo, che appare molto evidente.
Cominciamo a delimitare i termini cronologici: il Concettuale inizia alla metà degli anni '60 e si esaurisce alla fine degli anni '70. Dura appena una quindicina d’anni e tuttavia rimane una delle fasi più salienti dell’arte contemporanea. In questo periodo troviamo una serie di movimenti e di artisti che con maggiore o minore consapevolezza propongono un’arte il cui approccio è effettivamente concettuale: l’Environment, la Land Art, l’Arte Povera, la Body Art, la Narrative Art eccetera.
Giusto per comodità di classificazione possiamo dividere le esperienze concettuali in due gruppi principali: quelle legate al pensiero e quelle legate all’evento. Nel primo caso abbiamo artisti la cui attività, pur legata alla produzione di opere concrete, si pone come messaggio prettamente intellettuale. Nel secondo caso rientrano quelle esperienze artistiche, che non producono opere ma eventi temporalmente limitati e la cui traccia rimane solo nella testimonianza dell’evento stesso (fotografica, filmica o altro).
Il pensiero concettuale. Le premesse più dirette dell’atteggiamento concettuale vanno individuate soprattutto in alcuni movimenti che vengono a definirsi già negli anni '50 e agli inizi degli anni '60. Ci riferiamo soprattutto al New Dada e alla Minimal Art.
Con New Dada si intende un movimento nato inizialmente negli Stati Uniti e i cui protagonisti americani coinfluiranno in seguito nella Pop Art (Rauschenberg e Jasper Johns). Caratteristica di questo movimento fu soprattutto il recupero in chiave dadaista dell’oggetto d’uso quotidiano, da inserire nelle opere d’arte. Atteggiamento che finirà per coinvolgere trasversalmente molti fenomeni artistici del Dopoguerra: l’uso e la manipolazione di oggetti presi dalla realtà è tratto comune a molti movimenti ed artisti. In Italia il fenomeno del New Dada arriva agli inizi degli anni ’60 con il gruppo dei Nouveaux Réalistes e con l’attività di alcuni artisti, tra cui il più emblematico rimane Piero Manzoni. Di Manzoni sono celebri alcune provocazioni, come le famose scatolette con i suoi escrementi, il cui significato non può che essere concettuale.
Con il termine Minimal Art si intende invece un movimento nato anch’esso negli Stati Uniti negli anni ’60, la cui produzione si caratterizza per grandi strutture tridimensionali realizzate in forma di geometria assoluta, spesso metalliche monocrome, unite secondo criteri di composizione asettica. Le strutture minimaliste si pongono quindi a una fruizione da cui è del tutto escluso il piacere estetico, ma in cui prevale l’atteggiamento di razionalismo freddo.
Nel corso degli anni '60 e '70, i movimenti che più si pongono in linea con queste premesse sono soprattutto tre: l’Arte Concettuale intesa in senso proprio, l’Arte Povera e la Narrative Art.
Nel primo gruppo oltre al già citato Joseph Kosuth possono essere inclusi gli americani Bruce Nauman e Lawrence Weiner, il tedesco Joseph Beyus, l’italiano Giulio Paolini. Con il termine Arte Povera si fa invece riferimento ad un gruppo di artisti italiani (Mario Merz, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Luciano Fabro, Michelangelo Pistoletto, e altri), presentati per la prima volta nel 1967 dal critico Germano Celant. Il termine nacque a designare un’arte fatta di elementi primari (acqua, terra, luce, eccetera), che non disdegnava l’uso alla maniera New Dada degli oggetti presi dalla realtà più umile: stracci, giornali vecchi e così via. Infine nella Narrative Art ritroviamo una serie di artisti che lavorano utilizzando testi scritti e immagini fotografiche, spesso a sfondo autobiografico, per costruire percorsi narrativi indipendenti, dove i testi narrano una storia mentre le foto ne illustrano un’altra. Anche qui la derivazione dall’approccio già sperimentato da Joseph Kosuth appare evidente.
L’evento concettuale. In questa categoria possiamo includere quegli artisti e quei movimenti la cui attività si esprime soprattutto attraverso happening e performance. Ricordiamo che, benché i due termini siano quasi equivalenti nel significato di fondo di esibizione, la differenza solitamente consiste nel fatto che l’happening è un’azione in cui l’improvvisazione e il caso giocano un ruolo determinante e spesso prevede anche il coinvolgimento del pubblico, mentre la performance è un’azione o un evento pianificato, il cui esito non è casuale ma è quello che l’artista vuole ottenere. In senso più generale, oggi è maggiormente usato il termine performance, per indicare qualsiasi operazione artistica basata sull’esibizione di tipo teatrale.
Il precedente più diretto è da individuare senz’altro nell’opera di Jackson Pollock, la cui pittura avveniva con una gestualità che, indipendentemente dal prodotto finito, aveva già valenze spettacolari ed estetiche. Ma sono da ricordare anche le Avanguardie storiche, in quanto i primi a pensare all’arte come spettacolo sono stati senz’altro i Futuristi con le loro Serate futuriste, subito seguiti dai Dadaisti del Cabaret Voltaire.
Negli anni '60 la tendenza all’uso dell’azione teatrale e spettacolare trova sbocco in due direzioni principali: la Body Art e la Land Art. Con il primo termine si indicano quegli artisti che tendono ad utilizzare se stessi in prima persona nell’evento proposto. Spesso, soprattutto negli anni '70, queste performance avevano un effetto-choc ai limiti dell’irrazionale, come il prodursi ferite o infliggersi dolore per produrre negli spettatori livelli di emozione sicuramente inediti. In altri casi la performance aveva effetti meno cruenti, mettendo in gioco meccanismi quali il travestimento o l’azione collettiva.
Con il termine Land Art si indicano invece quelle operazioni, spesso condotte a scala territoriale, di durata limitata e che come le performance lasciano solo una traccia documentaria alla fine del loro accadere. Il caso più emblematico è quello dell’artista bulgaro Christo, divenuto famoso per avere completamente impacchettato monumenti di grande dimensione, come il Pont-Neuf a Parigi e il Palazzo del Parlamento di Berlino, o ambienti naturali quali un tratto di scogliera in Australia e un’intera isola in Florida. Ovviamente l’effetto spettacolare di un simile impacchettamento è indubbio, proponendo una diversa percezione della scala di rapporti tra uomo e spazio ma ovviamente non può che essere contenuta in tempi molto ristretti, qualche ora o al massimo qualche giorno. Altro caso tipico della Land Art è l’operazione Lightning Field dell’artista americano Walter De Maria, consistente in 400 pali d’acciaio infissi a distanze costanti in un tratto inaccessibile del deserto del New Mexico. Questa imponente installazione è nota soprattutto attraverso le foto, e alla fine, come altre operazioni concettuali, funziona soprattutto per ciò che offre alla definizione di pensieri e concetti nuovi in campo artistico.

X.14. Postmoderno
In contemporanea con l’affermarsi della Pop Art altre esperienze artistiche iniziarono a sorgere a metà degli anni ’60. La maggior parte di queste sono confluite in quell’etichetta dai confini imprecisati che è l’Arte Concettuale. Con tale termine si intese definire una serie di esperienze in cui il piano dei valori estetici e dei significati artistici veniva spostato prevalentemente sul piano delle idee, dei comportamenti, delle provocazioni, dei concetti. Non era più l’opera d’arte (intesa come oggetto) a stabilire un contatto tra artista e fruitore, ma il significato concettuale dell’operazione che egli andava a proporre.
In tal modo si ruppe l’ultima frontiera: si arrivò a proporre un’arte fatta senza opere d’arte. Ciò è evidente soprattutto nelle ricerche legate alle Perfomance e alla Body Art, ma anche a quelle nuove come la Narrative Art o la Poesia Visiva, dove la creazione artistica si risolveva in fogli con sopra scritte delle frasi, o la Land Art con operazioni condotte su scala territoriale. Altre ricerche accomunabili al Concettuale conservarono un rapporto con il fruitore mediato dalle opere, come l’Arte Povera o l’Enviroment, ma anche qui il significato andava ricercato maggiormente nella concettualità dell’operazione che non nel significato estetico delle realizzazioni.
Da questo panorama emerse una situazione in cui l’arte stessa sembrò priva di un identità certa e definita. Mischiate le tradizionali categorie di pittura e scultura, modificato totalmente il significato di creatività artistica, non più legata ad un fattività manuale ma solo alle idee da consumarsi sul piano della comunicazione, l’arte figurativa si trovò ad un nuovo grado zero. E da questo momento iniziano le nuove tendenze, poi definite Postmoderno, accomunate dal desiderio di recupero di visioni più tradizionali dell’arte figurativa in cui ritornare all’antica divisione tra quadri e sculture.
Con il termine “postmoderno” inizialmente venne individuato un fenomeno stilistico specifico dell’architettura, che iniziò a manifestarsi negli anni ’70. In seguito la fortuna di questa etichetta ha finito per identificare un'intera epoca: l’ultimo scorcio del XX secolo.
La dizione postmoderno indica la coscienza, che un certo tipo di modernità nella società contemporanea è oramai finito. Ossia quella modernità che si basava sul concetto di progresso continuo ed ascendente, quasi condizione perenne di un futuro che si presentava sempre migliore delle epoche che lo precedevano. Questo ottimismo nel futuro inizia ad impoverirsi, fino a negare la fiducia in un mondo che vada nella direzione di uno sviluppo continuo. Epoca di crisi, quindi, in cui appare indispensabile rimeditare sul concetto di storia, inteso non più come eterna fuga in avanti ma anche come stasi o ritorno.
Ma il Postmoderno, soprattutto nel campo delle arti e della cultura, esprime anche uno spirito diverso: ciò che era possibile dire o esprimere, era già stato detto. All’artista postmoderno non rimane quasi possibilità di inventare altro di nuovo ma, visto che è stato già espresso tutto, ha solo la possibilità di citare. E così la citazione diviene uno dei procedimenti tipici e più riconoscibili delle varie tendenze artistiche accomunabili sotto l’etichetta di Postmoderno.
Altra componente fondamentale del Postmoderno è la memoria. La storia del passato, anche la più recente, è il deposito del tutto già detto ed è da qui che bisogna scegliere la citazione per esprimersi. Ma la storia, che l’artista postmoderno sceglie per le sue citazioni, è solo quella filtrata dalla memoria. In tal modo si evita di ripetere il passato in formule di falsificazione storica (come faceva ad esempio l’eclettismo storicistico ottocentesco), ma si fa rivivere solo quel frammento che più interessa, o che più colpisce e si incide nella memoria. E così l’utilizzo di più frammenti (o citazioni), che l’artista può scegliere anche da culture e storie diverse, può consentirgli il nuovo della sua arte: la composizione.
Nell’ambito delle arti figurative, benché non si possa parlare di un vero e proprio stile postmoderno, al suo spirito possono accomunarsi una serie di esperienze degli ultimi anni: in particolare la Transavanguardia, il Citazionismo, la Pittura Colta, i Nuovi nuovi. Sono tutte tendenze che, maturatesi negli anni ’70, emergono agli inizi degli anni ’80. In particolare è proprio il 1980 che può essere definito l’anno del Postmoderno. In quell’anno, infatti, le nuove tendenze apparvero finalmente tutte insieme.
La Biennale di Venezia del 1980 presentò due interessanti mostre: alla Corderia dell’Arsenale fu allestita la Via Novissima, che rimane la prima e più completa mostra ad illustrare la nuova architettura postmoderna, e ai Magazzini alle Zattere nell’ambito di Aperto ’80 si ebbe la prima mostra della Transavanguardia, curata da Achille Bonito Oliva. Sempre nel 1980 una mostra a Roma curata da Maurizio Calvesi presentò in maniera organica la tendenza definita Pittura Colta, o Anacronismo, o anche Nuova Maniera. Ed infine nel 1980 il critico Renato Barilli raggruppò una serie di artisti, sempre di spirito postmoderno, nell’etichetta di Nuovi nuovi.
Le diversità tra queste correnti sono notevolissime e riguardano, oltre che lo stile, il diverso ricorso alla memoria. Nel caso della Transavanguardia la memoria è quella delle esperienze avanguardistiche di inizio secolo, con particolare predilizione per l’Espressionismo. Gli artisti della Pittura Colta guardano invece alla storia dell’arte neoclassica o barocca, traendo di lì la loro diversa poetica e stile. I Nuovi nuovi praticano invece un citazionismo disimpegnato, talora ironico, fatto non solo di motivi iconici ma anche di motivi aniconici e decorativi.
In tutti prevale comunque l’atteggiamento di chi non è più obbligato a guardare affannosamente avanti alla ricerca continua del nuovo ma può guardarsi alle spalle tranquillamente e senza inibizioni e rimeditare sul proprio passato e sulla propria memoria.

Fonti e approfondimenti: www.francescomorante.it

Fonte: https://www.lsgalilei.org/attachments/article/176/I.%20Storia%20dell'Arte.doc

Sito web da visitare: https://www.lsgalilei.org/

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