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La civiltà dell’antico Egitto pone un altro problema interessante sull’uso e sul significato delle arti visive: il rapporto con il potere. Lo stato egiziano era impostato su una monarchia fortemente autoritaria. Anche la religione era detenuta da caste sacerdotali aristocratiche e dogmatiche. La produzione artistica in questa società era espressione di un potere forte. E come tale non ebbe, e non poteva avere, caratteri di creatività individuale, ma doveva attenersi alle formule stereotipe della tradizione, necessarie a perpetuare l’immagine di potenza del faraone e del suo impero.
Anche questa è una costante che si ritroverà nelle culture successive: ogni qualvolta l’arte viene prodotta in un regime di tipo dittatoriale, non ha mai caratteri creativi. Anzi, la creatività diviene elemento considerato negativo, da eliminare perché non funzionale al controllo delle coscienze e delle libertà individuale che il potere dittatoriale persegue.
L’arte egiziana rimane, per quanto detto, un fenomeno abbastanza singolare. Per tremila anni, dal suo sorgere al suo tramontare, ebbe caratteristiche sempre uguali. La figura umana venne disegnata sempre alla stessa maniera. Maniera decisamente caratteristica, basata su una contemporanea visione di profilo (per gambe, braccia e viso) e frontale (per il busto e l’occhio). Questo modello, che denuncia palesemente il suo antinaturalismo, nella sua immutabilità finisce per funzionare al pari di un segno: cioè è un significante, che con la sua forma immodificabile esprime sempre il medesimo significato.
In sintesi, considerando che la scrittura geroglifica egiziana al pari di tutte le scritture ideogrammatiche conserva ancora un legame con la significazione visiva (e non fonetica, come nelle nostre lingue), si può dire che nella cultura egiziana la differenza tra scrittura ed immagini non fosse molto evidente. Segni e disegni hanno la medesima radice e il medesimo fine: la comunicazione.
Nell’antico Egitto probabilmente non tutta la produzione artistica era diretta alla rappresentazione del potere. L’attività degli artisti era rivolta anche ad un mercato più ampio, quello dei dignitari e dei notabili, ed alla esportazione. Qui, pur nelle poche testimonianze ritrovate, è possibile notare una espressione più immediata e popolare. In pratica, già nell’antico Egitto l’arte veniva considerata diversamente se aveva un fine aulico o un fine popolare. Nel primo caso le esigenze dell’ufficialità venivano espresse nella grandezza monumentale, nella fissità della tradizione, nelle simmetrie rigide. Nel secondo l’arte acquistava maggiore libertà ed un intento narrativo superiore. Gli oggetti e le rappresentazioni hanno un carattere più intimo e raccontano i fatti eroici o grotteschi della vita.
Nei confronti della narrazione l’arte aulica ha un atteggiamento duplice. Può accettare ed utilizzare la narrazione se crede nella storia (ed è quanto avviene nell’arte romana e in quella occidentale in genere); non utilizza la narrazione se il potere non si legittima sulla storia: cioè sulla grandezza dei fatti del passato. Ed è quanto avviene in genere nelle mentalità politiche orientali. In questo caso la storia viene vista anzi come qualcosa di negativo. La storia sono le modificazioni nel tempo. Un potere come quello egiziano si fondava invece sul concetto di immodificabilità nel tempo. La storia è un pensiero dinamico: si basa sull’evoluzione e sul cambiamento. Chi detiene il potere, per le esigenze della sua conservazione tende a negare la storia come evoluzione e cambiamento. E così anche l’arte doveva affermare il principio che il tempo era immutabile. Il futuro non era suscettibile di potenzialità diverse perché l’arte del passato e del presente rappresentavano l’immagine di un potere senza modificazioni. Sempre uguale a se stesso.
Fonte: https://www.lsgalilei.org/attachments/article/176/I.%20Storia%20dell'Arte.doc
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Autore del testo: F.Morante
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