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Paul Cézanne
Paul Cézanne nasce ad Aix en Provence, nel 1839. Figlio di un banchiere, vive quindi in una famiglia borghese agiata economicamente. Compì gli studi classici, dove ebbe modo di stringere una profonda amicizia con Emile Zola, poi quelli di diritto, per non contrariare eccessivamente il padre, contrario alle sue aspirazioni artistiche.
Attraverso il suo primo viaggio a Parigi, ebbe modo di fare esperienze sul piano artistico, infatti, incontrò Pissarro e i futuri impressionisti, ed ebbe modo di studiare attentamente Caravaggio e i pittori veneti e spagnoli, da qui fu profondamente influenzato nella prima parte della sua ascesa artistica. Nei vari viaggi, anche futuri, nella capitale, ebbe modo di vedere il Salon des Refusés, di conoscere la pittura di Delacroix o Courbet, sempre insieme al suo ormai amico Pissarro. Cézanne manifestò fin dall’inizio il suo dissenso contro la cultura artistica ufficiale e le sue strutture. Sappiamo, infatti, che più di una volta Cézanne tentò di esporre i suoi quadri, ma sempre gli furono rifiutati causa il troppo distacco dalla pittura ufficiale del momento.
Nel 1877 abbiamo la prima vera esposizione di quadri da parte di Cézanne in una mostra impressionista, grazie al supporto di Pissarro, ma era stato un assoluto insuccesso, sia in ambito critico che commerciale. Questo segnò l’inizio di una fase di lavoro che lo avrebbe portato sempre più lontano dai modi di Monet e dei suoi amici impressionisti. Dopo aver rotto ogni legame con Zola, in seguito alla pubblicazione di un libro che narrava la vita e il completo fallimento di un pittore, cominciò a riscuotere sempre maggior successo, con l’esposizione nei saloni. Purtroppo nel 1906 fu sorpreso da un temporale mentre dipingeva all’aperto, e la sua salute peggiorò a tal punto da portarlo alla morte quello stesso anno.
Cézanne si può definire l’ultimo tra i pittori ricollegabili, anche per l’età, alla generazione impressionista, nella sua opera, infatti, non sono presenti tematiche o strutture solo di questa corrente, ma anche di alcune a venire. Dalla sua stessa biografia, notiamo un’anima irrequieta, in continuo viaggio tra Parigi, visto come il luogo delle scoperte, e Aix, il suo porto sicuro.
Nonostante la cronologia dei quadri non sia perfetta, Cézanne aveva datato solo alcune delle ottocento e più opere che gli sono state attribuite, possiamo scandire esattamente quattro fasi artistiche nella vita di Cézanne.
Le sue opere degli anni 1865-70 formano quello che si usa definire come periodo “romantico”. Infatti, ritroviamo un estremo carattere personale, unito a tematiche ritenute bizzarre all’epoca, vediamo ad esempio l’erotismo e la violenza (vediamo ad esempio il quadro intitolato “Lo stupro”), e ad un uso dei colori forti, scuri, spatolati in grandi quantità sulla tela.
Questo periodo va dalla formazione, avvenuta sotto il segno della cultura romantica, all’incontro con gli impressionisti cui viene presentato da Pissarro.
Fino agli anni settanta, queste due correnti convivono in lui. Ad esempio nel 1872 presentò ad una mostra a Nadar due opere, Una moderna Olimpia (1872) e la Casa dell’impiccato, che addirittura sembrano uscite da mani di artisti diversi.
Entrambe susciteranno la completa disapprovazione dei benpensanti dell’epoca, ma la prima lascerà sconcertati gli stessi impressionisti, anche i profondi contorni delle forme, rimandanti a Delacroix più che allo stile impressionista, sconvolgono, ma non tanto quanto il richiamo stesso, per la corporeità del colore, all’Olimpia di Manet.
Tipico di questo periodo è l’utilizzo di un colore scuro, lavorato di spatola e pieno di contrasti e per quanto riguarda le tematiche, come è riscontrabile nell’Olimpia, quella erotica è spesso rappresentata. Nel periodo immediatamente successivo, Cézanne rifiutò quel tipo d’approccio verso l’arte e incominciò a formarsi per quell’artista multiforme che riuscì a diventare famoso.
Nei primi anni Settanta, vediamo il formarsi della seconda fase del nostro artista, il cosiddetto periodo impressionista, quello che lo vede più legato a Pissarro con cui dipinse i quadri più belli, fuori da Parigi, ad Auvers. Qui Cézanne assimilò i principali caratteri dell’impressionismo, sotto l’influsso anche di Chardin e di Manet, che lo induce a privilegiare la natura morta. La Casa dell’impiccato (1873), è l’opera che appare la più impressionista, sia per la rappresentazione di un plein air, sia per lo stile, ma che allo stesso tempo, per l’ipnotismo con cui lascia guardare i suoi muri scalcinati e i tronchi degli alberi, così rugosi, sembra letteralmente, anti-impressionista. Cézanne riesce a trasformare questo quadro in una cosa a se stante, e già possiamo intravedere la vera natura dell’artista, al di fuori d’ogni corrente, ma anche partecipe a tutte. Vediamo come il suo studio sul colore, gli fosse stato utile per esaltare la forma in ciò che ha di volumetrico, ovvero, Cézanne tramite i colori, riusciva a dare al dipinto una sua vibrazione interna
In questi anni Cézanne raggiunge una semplicità monumentale, che può sembrare quasi un arretramento rispetto alla raffinata sensibilità dell’impressionismo, ma in realtà qui l’artista cerca di scoprire la forza espressiva che scaturisce dall’opera stessa. Un’opera di questo periodo è “ I giocatori di carte” (1890); tra le cinque opere raffiguranti sempre dei giocatori di carte, prendiamo in considerazione una della tre, la più famosa, avente come protagonisti solo due personaggi. Qui Cézanne non ci vuole descrivere un semplice episodio, ma una forma. Le figure, costruite con complessi accordi di colore, hanno per dominanti colori tendenti al giallo-bruno nel giocatore di destra, e blu-violetto in quello di sinistra, toni ripresi anche nel paesaggio di sfondo. Oltre a questo, notiamo anche lo stacco costruito dalla tovaglia rossa, che da un lato divide i due giocatori, mentre dall’altro li unisce come volumi. Il tavolo, inoltre, come perno della composizione, è instabile, i giocatori non sembrano vivi, ma dei semplici manichini, e il paesaggio è estremamente confuso, tutto sembra per cadere a pezzi. Ma nell’unione, nella visione d’insieme, c’è una perfezione, dovuta proprio a una serie di equilibri tra frammenti in atto di rompersi. Il tavolo al centro e la bottiglia, sembrano dividere la scena in due parti ben distinte, occupate dai giocatori, diversi non solo nel fisico, ma anche nell’atteggiamento. Nel suo complesso il dipinto è organizzato simmetricamente per diagonali incrociate, il cui punto d’incontro coincide con la bottiglia. La luce è distribuita in maniera completamente disomogenea, atta a mostrare l’ambiente interno. Già in quest’opera si intravede l’arrivo della terza fase di Cézanne.
Quarto periodo: “Sintetico”
Nell’ultimo periodo della sua vita, Cézanne conduce una vita di solitudine ad Aix, quasi volesse rimeditare da solo tutto il patrimonio di conoscenze accumulate negli anni precedenti.
La sua tecnica forse perde la solennità, la pennellata si fa più leggera e scorrevole.
La “Montagna Sainte-Victorie” (1904-06), assieme ai soggetti delle Bagnanti, diventa uno dei soggetti su cui l’artista più si esercita. Cézanne non ci propone il paesaggio qual è esattamente nella realtà, ma con una gran maestria, riesce a raffigurare i suoi processi percettivi, infatti, osservando il quadro, sembra che il nostro sguardo sia pilotato attraverso la pianura, segue le case e s’innalza fino alla vetta della montagna dalle rocce così spigolose e delineate.
I paesaggi degli ultimi anni sono così, data l’influenza dell’uso dell’acquerello, a vedersi, trasparenti e come infiniti, sono gli elementi astratti del colore, della forma e del segno a conferire al quadro una sua propria logica interna, indifferente alla realtà naturale.
È questo il periodo più vicino al classico, in cui Cézanne si pone come obiettivo un’arte monumentale, eterna, da museo, contrapposta a quella veloce e fondata sull’osservazione diretta.
Il ciclo delle bagnanti.
La prima serie di bagnanti viene realizzata tra il 1873 e il 1877, quindi nel periodo impressionista. Qui le figure umane appaiono fuse nel paesaggio e sono parte integrante degli altri elementi naturali, come le piante e l’acqua. Come nella Moderna Olimpia, anche qui il tema dominante è quello dell’erotismo.
Nella seconda serie, tra il 1879 e il 1887, quindi nel periodo costruttivo, il colore assume cadenze ritmiche più accentuate e sopravanza del tutto il disegno sottostante. Qui mostra in pieno tutta l’eredità classica, che in quel periodo Cézanne stava riscoprendo.
Nella terza e ultima serie di tre dipinti, realizzata tra il 1895 e il 1905, Cézanne raggiunge la sintesi finale, il vertice assoluto della sua ricerca estetica. Una lunga e meticolosa preparazione porta alla realizzazione delle Grandi Bagnanti, il suo testamento spirituale, il cui colore diventa un fattore dinamico di emozioni e le linee mostrano una grande energia. La prima di queste tre opere, ed anche la più famosa, viene chiamata tela Barnes, fu questa cui Cézanne lavorò per il periodo più lungo.
La scena si svolge in una radura, dove un gruppo di donne, delimitato a destra e a sinistra da tronchi d’alberi, si concedono un attimo di svago dopo il bagno. Al centro della composizione appaiono il cielo nuvoloso e il paesaggio in lontananza. In primissimo piano troviamo un cesto di frutta e un cane nero. Le figure sono disposte in due gruppi, che formano, nella parte bassa un’apertura simmetrica a quella delineata nella parte alta dai due rami convergenti. Le figure sedute sono, infatti, inclinate in direzioni opposte, mentre i due nudi in piedi ai lati, con un drappeggio in mano uno e l’altro appoggiato all’albero, racchiudono e delimitano maggiormente la scena. Le successive stesure di questa tela rendono l’esecuzione ancor più densa e materica: la luminosità è data dalle incrostazioni di colore sovrapposto a strati. Le figure sono più complesse che nelle altre due versioni: la gamma cromatica varia dal rosa al rosso, al verde e al blu scuro. Linee nere disegnano nettamente i contorni, facendo risaltare i corpi in modo quasi scultoreo. I tratti del volto sono solo accennati, il verde cupo della vegetazione, il blu intenso del cielo, il bianco brillante delle nuvole e dei drappi aggiungono intensità ed energia alla scena. Alcuni critici hanno saputo cogliere delle cariche emotive enormi da ogni personaggio raffigurato nel dipinto, con una gamma di sentimenti quali la drammaticità, la soggezione, la riverenza, la provocazione e l’erotismo.
In quest’opera i riferimenti all’arte del passato sono enormi, il nudo centrale ad esempio è ripreso da una Venere classica copiata da Cézanne al Louvre, così come la figura di sinistra, mentre quella di destra rimanda alle Andromede incatenate di Tiziano. Anche l’atmosfera collettiva di mistero prima dello svelamento rimanda a temi classici delle vergini, che Cézanne aveva potuto anche studiare nelle Metamorfosi di Ovidio.
Fonte: http://digilander.libero.it/ricerchescolastiche/storiadellarte/rc/Cezanne.doc
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Il post-impressionismo è un termine convenzionale, usato per individuare le molteplici esperienze figurative sorte dopo l’impressionismo. Il denominatore comune di queste esperienze è proprio l’eredità che esse assorbono dallo stile precedente. Il post-impressionismo, tuttavia, non può essere giudicato uno stile in quanto non è assolutamente accomunato da caratteri stilistici unici. Esso è solo un’etichetta per individuare un periodo cronologico che va all’incirca dal 1880 agli inizi del 1900.
La grande novità dell’impressionismo è stata la rivendicazione di una specificità del linguaggio pittorico che ponesse la pittura su di un piano totalmente diverso dalla produzione di altre immagini. Da ricordare che, in questi anni, la nascita della fotografia aveva messo a disposizione uno strumento di riproduzione della realtà totalmente naturalistico. La fotografia registra la visione ottica con una fedeltà e velocità a cui nessun pittore potrà mai giungere. La fotografia, pertanto, ha occupato di prepotenza uno dei campi specifici per cui era nata la pittura: quello di riprodurre la realtà.
Che l’arte avesse per mezzo espressivo la riproduzione della realtà visibile era un dato implicito e costante di tutta l’esperienza artistica occidentale. Solo nell’alto medioevo, dal VII al IX secolo, si era assistito ad una fase artistica aniconica. Ma, da ricordare, che l’alto medioevo fu il periodo di maggior decadenza della cultura occidentale in genere, periodo che vide l’affermazione della iconoclastia dei bizantini e dell’aniconismo delle culture arabe e barbariche.
In sostanza, tutta la cultura occidentale ha sempre inteso l’arte quale riproduzione del reale, avendo come obiettivo qualitativo finale il perfetto naturalismo. Questo atteggiamento culturale di fondo si rompe proprio nel corso del XIX secolo, quando le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche portano alla nascita della fotografia e del cinema, perfezionando allo stesso tempo le tecniche della riproduzione a stampa. La civiltà occidentale diviene sempre più una civiltà delle immagini ma, paradossalmente, la pittura in questo processo si trova a svolgere un ruolo sempre più marginale.
Competere con la fotografia sul piano del naturalismo sarebbe stato perdente e perfettamente inutile. Alla pittura bisognava trovare un’altra specificità che non fosse quella della riproduzione naturalistica. È quanto, sul piano tecnico, fanno i pittori dell’impressionismo ed è quanto, sul piano dei contenuti, faranno i pittori della fase successiva. Agli inizi del Novecento, l’arte, ed in particolare la pittura, hanno completamento cambiando funzione: non riproducono, ma comunicano.
Ovviamente anche l’arte precedente, da sempre, comunicava. Tutto ciò che rientra nell’ambito della creatività umana è anche comunicazione. Solo che nell’arte precedente questa comunicazione avveniva sempre per il tramite della riproduzione del visibile. Ora, dal post-impressionismo in poi, l’arte si pone solo ed unicamente l’obiettivo della comunicazione senza più porsi il problema della riproduzione. Ovvero, l’arte serve a mettere in comunicazione due soggetti, l’artista e lo spettatore, utilizzando la forma che è, essa stessa, realtà, senza riprodurre la realtà visibile.
Nel breve volgere di pochi decenni, le premesse di questo nuovo atteggiamento porteranno a rivoluzioni totali nel campo dell’arte dove, la nascita dell’astrattismo, intorno al 1910, sancisce definitivamente la rottura tra arte e rappresentazione del reale.
Nella fase del postimpressionismo l’attività di alcuni pittori crea le premesse di uno degli stili fondamentali del Novecento: l’espressionismo. Il termine «espressionismo» nacque proprio in opposizione a quello di «impressionismo». I pittori impressionisti esprimono le proprie sensazioni visive. Esprimono, in sostanza, le emozioni del proprio occhio. I pittori espressionisti vogliono esprimere molto di più. Vogliono esprimere tutta le proprie emozioni interiori e psicologiche, non solo quelle sensoriali ottiche.
Quello che storicamente viene definito «espressionismo», nasce intorno al 1905 contemporaneamente in Francia ed in Germania con due gruppi artistici: i «Fauves» e «Die Brucke». Le loro novità artistiche e stilistiche vengono preparate, dal 1880 in poi, dalla attività di tre principali pittori postimpressionisti: Van Gogh, Gauguin e Munch. In questi tre pittori la pittura non riproduce realtà visibili dall’occhio, ma riproduce il riflesso interiore della realtà esterna.
Le motivazioni all’origine dell’opera di questi tre pittori sono molto diverse, così come sono diversi i risultati ai quali giungono. Tuttavia, sia Van Gogh, sia Gauguin, sia Munch, esprimono una forte carica di drammaticità che li pone su un piano opposto rispetto all’impressionismo. L’impressionismo è stato connotato da una gioiosità di fondo. Al contrario l’espressionismo, e tutto ciò che è venuto prima e dopo, a cominciare da Van Gogh, esprime sentimenti e sensazioni più intense e dolorose che toccano alcuni dei centri nervosi più profondi della natura umana.
Su un versante opposto si svolge, negli stessi anni, l’attività pittorica di altri pittori definiti postimpressionisti. Tra essi troviamo pittori quali Cezanne, Seurat, Toulouse-Lautrec, che superano l’impressionismo soprattutto sul piano della tecnica di rappresentazione.
Tra queste personalità la più complessa risulta quella di Cezanne, la cui pittura rimane una delle più difficili da decodificare. Egli aveva partecipato a tutta la vicenda artistica della seconda metà dell’Ottocento. Aveva esposto nella prima mostra di pittori impressionisti, nello studio di Nadar, proponendo quadri che già mostravano una certa originalità rispetto a quelli degli altri pittori del gruppo. La sua differenza appare più evidente dopo il 1880, divenendo egli uno dei protagonisti del superamento della pittura impressionista.
L’impressionismo si era caratterizzato per due punti fondamentali: le inquadrature di tipo fotografico e la forma evanescente della rappresentazione. Tutto era risolto con il colore, ma per cercare la sensazione di un solo istante. Anche Cezanne risolveva la sua pittura solo con il colore. Ma egli cercava di ottenere una immagine più ferma ed equilibrata. Egli tendeva a cogliere l’equilibrio delle forme per esprimere una sensazione di serenità senza tempo. La sua pittura fu importante soprattutto per le influenze che produsse su un pittore come Picasso, dando vita ad un altro grande movimento avanguardistico del Novecento: il cubismo.
La ricerca dell’impressionismo si era basata su un principio tecnico che era già alla base della pittura di Manet: quello di usare solo colori puri, evitandone la sovrapposizione. In tal modo i quadri acquistavano una maggiore luminosità. Questo procedimento fu portato alle estreme conseguenze da George Seurat che fu il fondatore di uno stile definito «pointillisme». La sua pittura, infatti, si componeva di tanti minuscoli punti di colori primari, accostati sulla tela a formare una specie di mosaico. Questo stile, che più correttamente va definito «divisionismo», si basava su un principio ottico fondamentale: il «melange optique», ossia la mescolanza ottica. L’occhio umano, ad una certa distanza, non riesce più a distinguere due puntini accostati tra loro ma vede una sola macchia. Se i due puntini sono blu e giallo l’occhio vede invece una macchia verde. Se i puntini blu e giallo sono puri l’occhio vede un verde molto brillante, più brillante di quanto possa fare un pittore mescolando dei pigmenti per ottenere sulla sua tavolozza un verde da utilizzare sulla tela. La pittura divisionista produsse una influenza notevolissima su tutti i pittori della generazione successiva, molti dei quali saranno protagonisti delle avanguardie storiche del Novecento.
Toulouse-Lautrec rappresenta un caso particolare nella vicenda della pittura di fine secolo. Egli potrebbe essere considerato l’ultimo degli impressionisti ma anche un precursore dell’espressionismo per il suo tratto molto inciso e nervoso che lo accomuna alla pittura espressionista. Tuttavia, anche per la sua produzione di manifesti, egli fornì molti stimoli al sorgere di quello stile decorativo, definito Liberty, che contraddistinse la produzione di arte applicata tra fine Ottocento e inizi Novecento.
Vincent Van Gogh (1853-1890), pittore olandese, rappresenta il prototipo più famoso di artista maledetto; di artista che vive la sua breve vita tormentato da enormi angoscie ed ansie esistenziali, al punto di concludere tragicamente la sua vita suicidandosi. Ed è un periodo, la fine dell’Ottocento, che vede la maggior parte degli artisti vivere una simile condizione di emarginazione ed angoscia: pittori come Toulouse-Lautrec o poeti come Rimbaud finiscono la loro vita dopo i trent’anni, corrosi dall’alcol e da una vita dissipata. E, come loro, molti altri. Il prototipo di artista maledetto era iniziato già con il romanticismo. In questo periodo, però, la trasgressione era solo sociale: l’artista romantico era essenzialmente un ribelle antiborghese. Viceversa, alla fine del secolo, gli artisti vivono una condizione di profonda ed intensa drammaticità nei confronti non della società ma della vita stessa.
Il caso di Van Gogh è uno dei più emblematici. Figlio di un pastore protestante, provò a svolgere diversi lavori fino a quando decise per la vocazione teologica. Divenne predicatore, vivendo in villaggi di minatori. Qui, prese talmente a cuore le sorti dei lavoratori, anche in occasione di scioperi, da essere considerato dalle gerarchie ecclesiastiche socialmente pericoloso. Fu quindi licenziato. Crebbe la sua crisi interiore che lo portò a vivere una vita sempre più tormentata. In questo periodo, era il 1880 e Van Gogh aveva solo 27 anni, iniziò a dipingere. La sua attività di pittore è durata solo dieci anni, essendo egli morto a 37 anni nel 1890.
Sono stati dieci anni segnati da profondi tormenti, con crisi intense intervallate da momenti di serena euforia. Si innamorò di una prostituta, Sien, e nel 1882 andò a vivere con lei. L’anno dopo, convinto dal fratello, lasciò Sien e si trasferì nel nord dell’Olanda. Intanto sviluppava un intenso legame con il fratello Theo, che molto lo sostenne nella sua attività artistica anche da un punto di vista economico. Nei dieci anni che ha fatto il pittore Van Gogh è riuscito solo una volta a vendere un suo quadro.
Il periodo iniziale della sua pittura culmina nella tela «I mangiatori di patate», dipinta nel 1885. L’anno successivo si trasferì a Parigi, dove il fratello si era recato per lavoro. Qui conobbe la grande pittura degli impressionisti, ricavandone notevoli stimoli. Rinnovò infatti il suo stile, acquisendo maggior sensibilità per i colori e per la stesura a tratteggio. Rimase due anni a Parigi, fino al 1888. Si trasferì ad Arles, nel sud della Francia. Dopo qualche mese lo raggiunse Paul Gauguin ed insieme i due iniziarono un sodalizio artistico intenso che però si interruppe poco dopo per la partenza di Gauguin. La partenza di Gauguin procurò una nuova crisi a Van Gogh che si tagliò il lobo di un orecchio. Iniziarono i suoi ricoveri in ospedale, sempre più in bilico tra depressione e brevi momenti di felicità. Il 27 luglio del 1890 si tirò un colpo di pistola al cuore. Dopo due giorni morì.
L’attività di Van Gogh è stata breve ed intensa. I suoi quadri più famosi furono realizzati nel breve giro di quattro o cinque anni. Egli, tuttavia, in vita non ebbe alcun riconoscimento o apprezzamento per la sua attività di pittore. Solo una volta era apparso un articolo su di lui. Dopo la sua morte, iniziò la sua riscoperta, fino a farne uno degli artisti più famosi di tutti i tempi.
Van Gogh nell’immaginario collettivo rappresenta l’artista moderno per eccellenza. Il pittore maledetto che identifica completamente la sua arte con la sua vita, vivendo l’una e l’altra con profonda drammaticità. L’artista che muore solo e disperato, per essere glorificato solo dopo la morte. Per giungere a quella fama a cui, i grandi, arrivano solo nella riscoperta postuma
Questo quadro, dipinto nel 1885, rappresenta il punto di arrivo della prima fase pittorica di Van Gogh.
È il periodo che coincide con la sua vocazione religiosa.
Aveva iniziato in Inghilterra, predicando accanto ad un pastore metodista di nome Jones.
Nel 1877 ritornò a Etten, il villaggio in cui abitavano i genitori.
Il padre, anch’egli pastore, volle favorire la sua vocazione e lo mandò ad Amsterdam per iscriversi alla facoltà di teologia, ma Van Gogh non superò gli esami di ammissione.
Iniziò così a predicare, pur non avendone titoli ufficiali. L’anno dopo si recò a Borinage, centro minerario belga, dove visse a stretto contatto con i minatori. Matura in questo periodo il suo amore per i poveri, i derelitti, le persone sfortunate. Questo suo legame affettivo con i poveri lo ritroviamo soprattutto in questo quadro, che egli dipinse a Nuenen, dopo altri burrascosi anni in cui egli viaggiò in Francia, in Belgio, e dopo la sua convivenza a L’Aja con Sien. Quando lasciò la donna decise di andare in campagna. Iniziò così ad interessarsi ai contadini. In difficoltà finanziarie, si recò a Nuenen dove il padre si era trasferito per i suoi impegni di pastore. Qui, Van Gogh, invece di andare a vivere con la famiglia, prese in affitto due stanze: in una abitava, nell’altra dipingeva.
A «I mangiatori di patate» lavorò molti mesi, eseguendone più versioni. In questo quadro sono già evidenti i caratteri stilistici che rendono immediatamente riconoscibile la sua pittura. Vi è soprattutto il tratto di pennello doppio che plasma le figure dando loro un aspetto di deformazione molle.
In questo quadro sono più evidenti le influenze della grande pittura fiamminga del Seicento. Sia per la scelta di rappresentare la scena in un interno, sia per la luce debole che illumina solo parzialmente la stanza e il gruppo di persone sedute intorno al tavolo.
Il soggetto del quadro è di immediata evidenza. In una povera casa, un gruppo di contadini sta consumando un misero pasto a base di patate. Sono cinque persone: una bambina di spalle, un uomo di profilo, di fronte una giovane donna e un altro uomo con una tazzina in mano, e una donna anziana che sta versando del caffè in alcune tazze. Hanno pose ed espressioni serie e composte. Esprimono una dignità che li riscatta dalla condizione di miseria in cui vivono.
Nel quadro predominano i colori scuri e brunastri. Tra di essi Van Gogh inserisce delle pennellate gialle e bianco-azzurrine, quali riflessi della poca luce che rende possibile la visione. Da notare l’alone biancastro che avvolge la figura della ragazzina di spalle e che crea un suggestivo effetto di controluce.
In questo quadro c’è una evidente partecipazione affettiva di Van Gogh alle condizioni di vita delle persone raffigurate. La serietà con cui stanno consumando il pasto dà una nota quasi religiosa alla scena. È un rito, che essi stanno svolgendo, che attinge ai più profondi valori umani. I valori del lavoro, della famiglia, delle cose semplici ma vere.
Non è un’opera di denuncia sociale (come potevano essere i quadri di Courbet), o di esaltazione della nobiltà del lavoro dei campi (come era nei quadri di Millet). Questo quadro di Van Gogh esprime solo la sua profonda solidarietà con i lavoratori dei campi che consumano i cibi che essi stessi hanno ottenuto dalla terra.
Questa è stata, con molta probabilità, l’ultima tela dipinta da Van Gogh. Dopo pochi giorni, in un campo di grano come quello raffigurato sul quadro, si sparò un colpo di pistola al cuore.
È un artista oramai giunto alla soglia della disperazione interiore quello che dipinge questo quadro.
Ed è una disperazione talmente forte che riesce a trasfigurare la visione che il pittore ha innanzi: un campo di grano diviene una immagine di massima intensità drammatica. Egli stesso, nello scrivere al fratello, aveva detto: «non ho avuto difficoltà nel cercare di esprimere la tristezza, la solitudine spinta all’eccesso».
Dopo aver dipinto «I mangiatori di patate», Van Gogh, nel 1886, si recò in Francia senza più far ritorno in Olanda. A Parigi si era trasferito il fratello Theo per dirigervi una galleria d’arte ed egli lo raggiunse. Si fermò nella capitale francese per due anni. Qui conobbe i maggiori pittori del periodo: Seurat, Gauguin, Toulouse-Lautrec, Pissarro, Bernard. Da loro egli apprese il piacere dei colori brillanti che costituiscono uno dei tratti fondamentali della pittura francese sia impressionista che postimpressionista.
Intanto perfezionava sempre più il suo stile personale. Nelle sue tele compaiono i tipici soggetti impressionisti. Vedute cittadine, come i Caffé visti di notte, o di soggetto naturalistico, come i vasi con fiori. Sono anni di relativa serenità. Dopo due anni di permanenza a Parigi decise di trasferirsi in Provenza, per conoscere la campagna francese. Si stabilì ad Arles. Qui, dopo la rottura con Gauguin, Van Gogh ebbe la prima seria crisi depressiva. Dopo il taglio dell’orecchio fu convinto dal dottor Rey a ricoverarsi in una casa di cura di Saint-Rémy-de-Provence. Qui produsse numerosi capolavori, quali «La ronda dei prigionieri», o la bellissima serie dei cipressi, che, come lingue di fuoco si alzano dalla terra verso cieli carichi di elettricità. Uscito dalla casa di cura nel 1890 si recò nuovamente a Parigi dal fratello. Vi restò solo pochi giorni. Si diresse a Auvers-sur-Oise dove lo ebbe in cura il dottor Gachet, di cui Van Gogh ci ha lasciato un famosissimo ritratto.
Qui, Van Gogh dipinse, nel luglio del 1890, tre tele raffiguranti i campi di grano intorno al paese. Domenica 27 luglio, si diresse verso quegli stessi campi di grano. Aveva con se una pistola con la quale iniziò a sparare ai corvi che si aggiravano sui campi. E in un momento di disperazione, si diresse la pistola al petto sparandosi un colpo al cuore.
Non morì. Riuscì a trascinarsi fino al Café Revoux dove era a pensione. Il dottor Gachet, dopo averlo visitato, si rese conto della impossibilità di estrargli la pallottola dal cuore. Mandò a chiamare il fratello che giunse nel paese il giorno dopo. Vincent trascorse la giornata tranquillo, fumando la pipa e parlando con il fratello Theo. La sera Theo si stese di fianco al fratello. All’una e mezzo del mattino Vincent morì. Aveva trentasette anni.
«Il campo di grano con volo di corvi» è un paesaggio interiore. Un paesaggio fatto di solitudine e disperazione. In questa tela vi è racchiusa non solo la tragica esistenza del pittore ma tutta la sua vibrante tecnica esecutiva. Il quadro è realizzato con pochi colori fondamentali. Su una preparazione rossa, traccia dei segni gialli per indicare il grano, altri segni verdi e rossi per indicare le strade che attraversano i campi. Il cielo è di un blu cobalto cupo ed innaturale. Un cielo pesante ed oppressivo. Pochi tratteggi neri raffigurano un volo di corvi.
La loro è una presenza inquietante. Il tutto è realizzato con una mirabile sintesi di colore, materia, gesto, segno, portati ad un livello massimo di esplosione drammatica. «Il campo di grano con volo di corvi» è la più grande sinfonia coloristica mai realizzata sul dolore di vivere.
Il tema dell’autoritratto occupa un posto notevole nella produzione di Van Gogh. Non è un fenomeno inconsueto che un artista dedichi opere alla sua immagine (si veda soprattutto i casi di Picasso o di De Chirico), ma nel caso di Van Gogh questo suo esercitarsi sul proprio ritratto indica non tanto spirito di narcisismo ma quanto di profonda solitudine.
Quasi che non abbia possibilità di trovare altri modelli se non se stesso. Alcuni suoi ritratti, quali quello dove compare con una benda a ricoprire l’orecchio tagliato, sono divenuti celeberrimi anche per il senso di travaglio esistenziale che comunicano. In questo autoritratto, precedente alla ferita che si fece, appare straordinaria la capacità di comunicare energia. I suoi occhi sono gli unici punti fermi del quadro.
Da essi, una serie di studiati tratteggi riesce non solo a costruire i volumi ma anche a trasmettere flusso di energia dagli occhi a tutto lo spazio circostante. I colori sono sempre molto intensi e si noti soprattutto nel volto l’audace accostamento di tinte diverse. L’effetto è decisamente inedito. L’occhio dello spettatore ha difficoltà a cogliere i particolari della sua figura, che a distanza ravvicinata scompaiono in tocchi di colore che non rappresentano nulla, ma nel suo insieme questa inafferrabile figura trasmette un profondo senso di vitalità psichica, segno di un carattere quanto mai energico e prorompente.
A questa stanza, la camera da letto della casa dove risiedeva ad Arles, Van Gogh, nel periodo in cui era ricoverato a Saint-Rémy, dedicò due tele (questa in figura è la prima). L’immagine ha un vago senso di deformazione prospettica che anticipa le più ardite deformazioni degli artisti espressionisti. Ma qui, tutto sommato, domina il senso di tranquillità e anche le pennallate si dispongono con calma, senza eccessivo nervosismo o concitazione.
Sembra come se Van Gogh ripeschi nella memoria la sua vecchia camera da letto come approdo di serenità e di equilibrio, in un momento in cui il suo travaglio psicologico era sicuramente notevole.
Il quadro risale al 1889, nel periodo immediatamente successivo al suo ricovero nell'ospedale Saint Paul di Saint-Rémy. I cipressi attraggono l'interesse di Van Gogh per la loro forma perfetta che si staglia diritta nel paesaggio circostante. Ebbe a dire l'artista che il cipresso «è bello di linea e proporzioni come un obelisco egizio».
Lo stile è quello tipico dell'ultimo periodo di Van Gogh: pennellate molto nette di colore saturo stese in maniera sinuosa e curva. In questi quadri Van Gogh riesce a trasmettere una profonda carica di energia rendendo vitale ogni singola pennellata che pone sulla tela. L'impressione che ne deriva è di una sorta di corrente elettrica che percorre l'intera immagine, con i cipressi che diventano elettrodi che trasmettono energia dalla terra al cielo e viceversa.
Quadro tra i più famosi di Van Gogh, «Notte stellata» è pervasa da un senso di poesia molto evidente e di immediata presa.
La tela è stata realizzata durante il suo soggiorno all’ospedale Saint-Rémy. Van Gogh rimase sveglio tre notti ad osservare la campagna che vedeva dalla sua finestra, affascinato soprattutto dal pulsare di Venere, che appare, soprattutto all’alba, come una stella più grande delle altre.
Il quadro che realizza non è tuttavia una fedele riproduzione del paesaggio che egli vedeva, ma una immaginaria visione in cui affiorano anche elementi, quali il quieto paesino, presi dai suoi ricordi olandesi. Dei cipressi fanno da immaginario ponte tra la terra e il cielo, diversi luoghi trattati con evidente dualismo: calma e tranquilla la terra assopita nel buio e nel sonno, pulsante di energia e di vitalità il cielo notturno solcato dalla luce vibrante delle stelle.
Questo quadro è una delle ultime tele realizzate da Van Gogh. Siamo nel periodo del suo soggiorno a Auvers-sur-Oise, il luogo dove si è suicidato. Ad essere rappresentata è la zona absidale della chiesa del paese, con in primo piano una stradina che si biforca e una contadina vista di spalle. La grande massa architettonica si staglia contro un cielo color cobalto, tipico della produzione di questo periodo. Il quadro è forse un tentativo di ricreare suggestioni già presenti nell’opera sintetista di Gauguin, fatta di rapporti tra religione e mondo contadino. Ma qui la vitalità della pennellata di Van Gogh rende l’immagine visionaria e quasi inquietante. L’edificio prende in effetti un aspetto "molle" e sembra quasi animarsi di vita propria. La sensazione è di trovarsi al cospetto di un artista talmente ipersensibile da vedere con occhi sovraeccitati tutta la realtà che lo circonda.
Paul Gauguin (1848-1903), pittore francese, è stato uno dei protagonisti della fase artistica che definiamo post-impressionismo. Egli incarna un altro archetipo di artista: l’artista che vuole evadere dalla società e dai suoi problemi per ritrovare un mondo più puro ed incontaminato. Egli, al pari di tutti gli altri artisti e poeti francesi di fine secolo, vive sullo stesso piano la sua vita privata e la sua attività artistica. E le vive con quello spirito di continua insoddisfazione e di continua ricerca di qualcosa d’altro che lo portò a girovagare per mezzo mondo, attratto soprattutto dalle isole del Pacifico del Sud.
Egli, benché nato a Parigi, trascorse la sua prima infanzia a Lima, in Perù. Tornato in Francia, a diciassette anni, si arruolò come cadetto in Marina, restando in mare per cinque anni. Nel 1871 ritornò a Parigi e si impiegò presso un agente di cambio. Iniziò così il periodo più sereno e borghese della sua vita. Si sposò con una ragazza danese, ebbe cinque figli, condusse una vita contraddistinta da un discreto benessere economico. Intanto iniziava a collezionare quadri e a dipingere.
Espose sue opere nelle mostre che gli impressionisti tennero dal 1879 al 1886. Ma la situazione della ditta presso la quale lavorava si fece critica e nel 1883 fu licenziato. Venuta meno l’agiatezza economica si aggravarono anche i suoi problemi familiari.
La moglie ritornò presso la sua famiglia d’origine in Danimarca. Gauguin la seguì cercando di lavorare in Danimarca ma, seguendo la sua vocazione artistica, abbandonò il lavoro per dedicarsi solo alla pittura. Ritornò in Francia e i rapporti con la moglie divennero solo epistolari. Si trasferì in Bretagna, a Pont-Aven, nel 1885, dove divenne capofila di una nuova corrente artistica chiamata «scuola di Pont-Aven» e che egli definì «sintetista». Nel 1887 andò a Panama e in Martinica. L’anno dopo era di nuovo a Pont-Aven. Nel 1888 trascorse un periodo anche ad Arles dove dipinse insieme a Vincent Van Gogh. Ruppe con il pittore olandese per ritornare a Pont-Aven. Nel 1891 andò per la prima volta a Tahiti, trannendosi tre anni. Fece ritorno a Pont-Aven, ma per poco. Nel 1895 si trasferì nuovamente nei mari del Sud e non fece più ritorno in Francia. Morì nel 1903 nelle Isole Marchesi.
La pittura di Gauguin è una sintesi delle principali correnti che attraversano il variegato e complesso panorama della pittura francese di fine secolo. Egli partì dalle stesse posizioni impressioniste, comuni a tutti i protagonisti delle nuove ricerche pittoriche di quegli anni. Superò l’impressionismo per ricercare una pittura più intensa sul piano espressivo. Fornì, dunque, soprattutto per i suoi colori forti ed intensi, stesi a campiture piatte, notevoli suggestioni agli espressionisti francesi del gruppo dei «Fauves». Ma, soprattutto per l’intensa spiritualità delle sue immagini, diede un importante contributo a quella pittura «simbolista», che si sviluppò in Francia ed oltre, in polemica con il naturalismo letterario di Zola e Flaubert e con il realismo pittorico di Courbet, Manet e degli impressionisti.
Il suo contributo al «simbolismo» avvenne attraverso la formazione del gruppo detto «scuola di Pont-Aven». Fonte di ispirazione per questa pittura erano le vertate gotiche e gli smalti cloisonne medievali. Prendendo spunto da essi i pittori di Pont-Aven stendevano colori puri e uniformi, contornati da un netto segno nero. Ne derivò una pittura dai toni intimistici che rifiutava la copia dal vero e l’imitazione della visione naturalistica.
Il quadro «La visione dopo il sermone», appartiene alla fase simbolista e sintetista dell’arte di Paul Gauguin. Il quadro è idealmente diviso in due parti dalla diagonale del tronco d’albero. Nella parte in alto a destra compaiono Giacobbe che combatte con un angelo. Nella metà inferiore sinistra vi sono le donne che assistono alla scena. Il quadro è costruito con la stessa tecnica di scorcio che utilizzava Degas per rappresentare il palco di un teatro visto dai palchetti degli spettatori. Solo che, in Degas, le immagini conservano un preciso naturalismo. Qui non vi è assolutamente naturalismo.
Il rapporto prospettico tra le figure è molto equivoco e dubbio. Il quadro si presenta con una evidente bidimensionalità che nega qualsiasi costruzione naturalistica e prospettica. Ciò viene ulteriormente confermato dal colore rosso steso con tale uniformità da non far capire se rappresenta un piano orizzontale, verticale, o di altra inclinazione.
Già il soggetto, di per sé, non può essere considerato naturalistico. Non appartiene alla normale esperienza visiva vedere un angelo e Giacobbe che lottano. Se si ha una tale visione, essa proviene di certo dalla propria interiorità psichica. Interiorità che, come il titolo ci suggerisce, è stata eccitata dall’ascolto di un sermone.
Il contenuto dell’opera è quindi un’allegoria dell’eterna lotta tra il bene e il male che è uno dei fondamenti su cui si basano tutte le religioni. In questo senso il simbolismo dell’opera è evidente. Il quadro cerca una significato che va al di là di un semplice episodio: vuole proporre invece una riflessione più universale sulla capacità di penetrazione, anche delle persone semplici come le donne raffigurate sul quadro, di quei misteri invisibili e insondabili quali la lotta tra il bene e il male che governano la reale dinamica della vita e dell’universo. Il quadro è pertanto pervaso da una religiosità mistica molto evidente.
Linee e colori cercano equilibri solo sul piano del quadro, equilibri che volutamente ignorano il naturalismo per tendere al puro e semplice decorativismo. Esso, infatti, ha una evidente bidimensionalità che sarà una delle costanti di tutta la pittura di Gauguin.
Il quadro si costruisce solo di simboli. Anche il colore diviene un simbolo acquistando una capacità di significazione che ignora ogni imitazione naturalistica. Il colore viene steso con campiture piatte ed uniforme, prendendo in ciò spunto dall’arte francese gotica che si poteva ritrovare nelle vetrate delle cattedrali realizzate con colori puri e non sfumati.
Questo colore puro, steso senza passaggi chiaroscurali e senza alcuna ricerca di profondità prospettica, sarà una delle maggiori eredità che Gauguin lascerà ai pittori successivi, soprattutto ai «Fauves».
Questo dipinto appartiene alla fase tahitiana di Gauguin. Il pittore, trasferitosi nei mari del Sud, aveva iniziato la produzione di quadri dall’evidente contenuto esotico.
Vi compaiono soprattutto donne che vengono ritratte in una nudità molta casta e pura. L’intento è quello di mostrare le isole dell’oceano Pacifico come piccoli angoli di paradiso terrestre dove si vive una armonia molto pacifica tra uomini e natura. Quanto sia reale tale concetto rimane un mistero.
Tuttavia, Gauguin proveniva da un mondo, quello occidentale, molto più complesso e pervaso da egoistici interessi economici, sociali e politici. Per lui, con gli occhi dell’occidentale, ritrovarsi in questo mondo significa davvero riscoprire una vita diversa. Una vita più semplice e pura, fatta di cose genuine, pervase da una spiritualità molto semplice ma molto evidente.
In questo quadro sono raffigurate due donne. Una accovacciata, l’altra distesa. Della seconda si intravede solo la testa e la parte superiore del busto. Il soggetto è tratto da un fatto a cui il pittore aveva assistito e che così descrive nel suo libro «Noa Noa»:
sulla spiaggia due sorelle che avevano appena fatto il bagno, distese in voluttuosi atteggiamenti casuali, parlano di amori di ieri e di progetti d’amore di domani. Un ricordo le divide: «Come! Sei gelosa?»
Come spesso capita nei dipinti di Gauguin, il titolo dell’opera viene scritto sulla tela, in questo caso in basso a sinistra. È scritto in tahitiano e il suo esotico suono serve a dare più suggestione al quadro. Ed è proprio la scritta che non è solo un titolo, ma è anche una frase realmente pronunciata dalle due donne, a dare il contenuto più specifico al quadro.
Se non fosse per questa frase riportata sul quadro il contenuto del quadro potrebbe essere scambiato per una pura sinfonia decorativa. Del resto, l’aspetto muto e silenzioso delle donne e la loro posa estremamente plastica e affascinante potevano essere scambiata per una ricerca solo sulla bellezza formale dei loro corpi. Invece Gauguin vuole cogliere un diverso significato: la complicità tutta femminile nel dialogare del più profondo arcano della vita: l’amore. E c’è in questo quadro una tale carica di intensa primitività che sembra riportare il momento del dialogo ad una ritualità senza tempo. L’eterno ritorno dei sentimenti e dell’amore e il continuo interrogarsi sul loro significato.
Il quadro, come la precedente produzione di Gauguin, è tutta giocata sulla risoluzione bidimensionale dell’immagine. Nella sua pittura il problema della rappresentazione tridimensionale è del tutto assente. Egli accosta forme, senza preoccuparsi della loro plausibile collocazione in uno spazio virtuale che vada oltre il piano della rappresentazione. Ciò è ancora più evidente in questo quadro dove la donna distesa, e arditamente vista in uno scorcio dalla testa in giù, scompare completamente nella metà inferiore. Le due donne formano quasi un corpo solo, divise solo dalla diversa tonalità dei loro corpi. Sono distese su una spiaggia di sabbia rosa che nella parte sinistra perde qualsiasi apparenza orizzontale per divenire un piano indefinito. Nella parte superiore, colori vari vengono stesi in campiture piane senza alcuna preoccupazione naturalistica o mimetica. Servono solo a rendere più evidente la bidimensionalità dell’immagine e, nel contempo, ad accentuarne il carattere decorativo.
Gauguin era molto affezionato a questo quadro, tanto che in una lettera ad un amico scriveva: «Ho fatto ultimamente un nudo a memoria, due donne sulla spiaggia, credo che sia anche la mia cosa migliore fino ad oggi».
Il dipinto fu in seguito acquistato dal collezionista russo Sukin e come tutto il resto della sua collezione fu nazionalizzato dallo stato sovietico subito dopo la rivoluzione d’ottobre. Oggi il quadro è esposto nel museo Puskin di Mosca. È ritornato in Occidente in occasione della mostra «Da Monet a Picasso», tenuta a Milano dal marzo al giugno del 1996.
«Il Cristo giallo», al pari della «Visione dopo il Sermone», è una tela di intenso valore mistico. La scena è dominata da un grande crocefisso, come spesso compaiono nella campagna, sotto il quale tre donne, nei tradizionali costumi bretoni, sono inginocchiate a pregare. Fa da sfondo un paesaggio rurale che trasmette un sentimento di calma e di serenità. La composizione riprende quello della «Crocifissione» comune a tante immagini medievali, dove però al posto del Cristo vi è un Crocefisso e al posto della Madonna, la Maddalena e gli apostoli, vi sono delle contadine moderne. Il significato è ben chiaro: rivivere nell'esperienza quotidiana il mistero del sacrificio come dimensione sacra della rinascita della vita. Da questa visione proviene anche il colore giallo che domina nel quadro, assumendo il valore di unione simbolica tra le messi di grano e il Messia. Stilisticamente l'opera deve molto al "cloissonisme", ovvero ad uno stile che, prendendo ispirazione dalle vetrate gotiche, tende a delimitare le figure con spessi tratti neri, quali le piombature che circondano le figure delle vetrate, e a campirle con colori uniformi e saturi.
Il quadro è stato realizzato durante il primo soggiorno di Gauguin a Tahiti. È anch’esso un quadro di soggetto religioso, che riprende il tema dell'Annunciazione ma lo ambienta nel contesto tahitiano. Sulla sinistra, tra i rami di un arbusto, appare un angelo dalle ali bianche che indica a due donne tahitiane la Madonna con il Bambino posti a destra in primo piano. Sulla sinistra, sempre in primo piano, Gauguin pone una natura morta di frutta esotica e la scritta «Ia orana Maria» che in tahitiano significa «Ti saluto, Maria». Il quadro testimonia, come le analoghe tele di soggetto religioso realizzate nel periodo bretone, l'interesse suscitato in Gauguin dalle visioni mistiche. È il suo modo per andare oltre le apparenze del reale e ritrovare una dimensione spirituale nella vita di tutti i giorni.
La grande tela, realizzata da Gauguin negli ultimi anni della sua attività, costituisce quasi un testamento spirituale della sua arte. La sua pittura, pur di grande qualità decorativa, non si limita all’apparenza delle cose, ma cerca di scavare nel profondo, soprattutto della dimensione umana, per cercare il confronto con i grandi interrogativi esistenziali citati dal titolo.
La tela si presenta a sviluppo orizzontale con un percorso di lettura che va destra a sinistra. Lungo questa direzione, Gauguin dispone una serie di figure che ripropongono in sostanza le "Allegorie delle età della vita". Dal neonato nell’angolo a destra si giunge alla donna scura a sinistra passando attraverso le varie stagioni della vita. La donna al centro, che quasi divide il quadro in due, simboleggia il momento dela vita in cui si raccolgono i frutti, ovvia allegoria del momento della procreazione. La vecchia in fondo a sinistra, già presente in altre composizione di Gauguin, nella sua posizione fetale con le mani accanto al volto, in realtà non simboleggia solo la vecchiaia ma soprattutto la paura della morte.
Ma straordinaria in questo quadro è soprattutto l’ambientazione. Il percorso della vita si svolge in un giardino che sa proprio di Eden. Come dire che, secondo Gauguin, in fondo la vita e la realtà non sono poi male, se non fosse per l’angoscia di non sapere con certezza a cosa serve tutto ciò.
Con questo quadro il senso di inquietudine e di instabilità, tipico dell’artista e uomo Gauguin, ci appare alla fine come un percorso senza fine, perché volto a traguardi che non sono di questo mondo. E così il suo fuggire dall’Occidente verso i paradisi dei mari del Sud, in fondo, altro non è che la metafora, non figurata ma reale, della ricerca perenne ma inesauribile dell’approdo ultimo della nostra serenità.
Paul Cezanne (1839-1906) è il pittore francese più singolare ed enigmatico di tutta la pittura francese post-impressionista. Nato ad Aix-en-Provence, nel meridione della Francia, proviene da una famiglia benestante (il padre era proprietario della banca locale). Egli quindi ebbe modo di condurre una vita agiata, a differenza degli altri pittori impressionisti, e di svolgere una ricerca solitaria e del tutto indifferente ai problemi della critica e del mercato. Egli, infatti, nella sua vita, al pari di Van Gogh, vendette una sola tela, solo qualche anno prima di morire.
Pur vivendo quasi sempre a Aix-en-Provence, trascorse diversi periodi a Parigi dove ebbe modo di venire a contatto con i pittori impressionisti della prima ora quali Pissarro, Degas, Renoir, Monet e gli altri. Egli, come gli altri impressionisti, si vedeva rifiutato le sue opere dalla giuria del Salon. E così anche egli partecipò alla prima mostra che gli impressionisti tennero nello studio del pittore Nadar nel 1874. A questa mostra egli espose la sua famosissima opera «La casa dell’impiccato a Auvers».
La sua aderenza al movimento fu però sempre distaccata. La sua pittura seguiva già agli inizi un diverso cammino che la differenziava nettamente da quella di un Monet o di un Renoir. Mentre questi ultimi erano interessati solo ai fenomeni percettivi della luce e del colore, Cezanne cerca di sintettizzare nella sua pittura anche i fenomeni della interpretazione razionale che portano a riconoscere le forme e lo spazio. Ma per far ciò, egli non ricorse mai agli strumenti tradizionali del disegno, del chiaroscuro e della prospettiva, ma solo al colore. La sua grande ambizione era di risolvere tutto solo con il colore, arrivando lì dove nessun pittore era mai arrivato: sintetizzare nel colore la visione ottica e la coscienza delle cose.
Egli disse infatti che «nella pittura ci sono due cose: l’occhio e il cervello, ed entrambe devono aiutarsi tra loro».
Da questa sua ricerca parte proprio la più grande rivoluzione del ventesimo secolo: la pittura cubista di Picasso. Con il cubismo si perde completamente il primo termine della sintesi di Cezanne (visione-coscienza), per ricercare solo quella rappresentazione che ha la coscienza delle cose. Perdendosi il primo termine il cubismo romperà definitivamente con il naturalismo e la rappresentazione mimetica della realtà per introdurre sempre più l’arte nei territori dell’astrazione e del non figurativo.
In Cezanne tutto ciò è però ancora assente. Egli non perde mai di vista la realtà e il suo aspetto visivo. Come per i pittori impressionisti, egli è del tutto indifferente ai soggetti. Li utilizza solo per condurre i suoi esperimenti sul colore. Ed i suoi soggetti sono in realtà riducibili a poche tipologie: i paesaggi, le nature morte, i ritratti a figura intera.
I paesaggi sono, tra la produzione di Cezanne, quella più emozionante e poetica. Vi dominano i colori verdi, distesi in infinite tonalità diverse, tra cui si inseriscono tenue tinte di colore diverso. Sono paesaggi che nascono da una grande sensibilità d’animo e che cercano nella natura la serenità e l’equilibrio senza tempo.
Le nature morte di Cezanne sono quasi sempre dominate dalla frutta. Inconfondibili sono le sue mele che, come perfette sfere rosse, compaiono un po’ ovunque. In questi quadri gli elementi si pongono con grande libertà, cominciando già a mostrare le prime volute rotture con la visione prospettiva. Cezanne è interessato solo ai volumi non allo spazio. Tanto che egli affermò che tutta la realtà può essere sempre riconducibile a tre solidi geometrici fondamentali: il cono, il cilindro e la sfera.
Questa sua attenzione alla geometria solida ritorna anche nei suoi ritratti a figura intera, tra cui spiccano le composizioni delle Grandi Bagnanti.
La sua tecnica pittorica è decisamente originale ed inconfondibile. Egli sovrapponeva i colori con spalmature successive, senza mai mischiarle. Per far ciò, aspettava che il primo strato di colore si asciugasse per poi intersecarlo con nuove spalmature di colore. Era un metodo molto lento e meticolo, per certi versi simile a quello di Seurat e dei neoimpressionisti che accostavano infiniti e minuscoli puntini. Cezanne è, tuttavia, molto lontano dai risultati e dagli intenti dei puntinisti. Egli non ricercava una pittura scientifica, bensì poetica. La sua rimane però una pittura molto difficile da decifrare e spiegare. Ma basti il giudizio di Renoir che di lui disse: «Ma come fa? Non mette neanche due macchie di colore su una tela, senza fare una cosa eccezionale!»
La sua ricerca fu estremamente solitaria e scevra di clamori. Anche per il suo carattere schivo e introverso condusse una vita molto ritirata nella sua Aix-en-Provence. La sua attività di pittore è del resto contraddistinta da una insoddisfazione perenne. Egli si sentiva sempre alla ricerca di qualcosa che non riusciva mai pienamente a raggiungere. La sua riscoperta e rivalutazione avvenne solo negli ultimi anni della sua vita. Nel 1904, due anni prima della morte, il Salon d’Automne espose le sue opere dedicandogli una intera sala. Dal 1906, anno della sua morte, la sua eredità venne ripresa soprattutto dai cubisti che in Cezanne videro il loro precursore.
Numerose sono le tele che Cezanne ha dedicato alla montagna Saint-Victorie, soprattutto negli ultimi anni della sua vita. Si può quindi ritenere che, in questi quadri, si sintetizzi molto della sua ricerca pittorica.
L’immagine è ottenuta solo con il colore che viene steso a piccole pezzature con direzioni e orientamenti diversi. Prevalgono nel basso i toni arancio e verde, mentre il profilo della montagna è della stessa tonalità azzurrina del cielo in cui si staglia. Ma il verde ritorna anche nel cielo, come riflesso capovolto della terra verso l’alto.
Il quadro ha un’idea compositiva molto semplice. Una linea orizzontale, a due terzi dalla base, definisce l’orizzonte dividendo il quadro in due parti distinte e separate. Nella parte inferiore il colore definisce la multiforme varietà dei campi coltivati, degli alberi e delle case inserite tra essi. Nella parte superiore domina, quasi come un simbolo totemico, l’inconfondibile profilo della montagna.
Di per sé, il soggetto non ha una forma precisa. Non può essere trattato volumetricamente ma solo spazialmente. Sono quindi elementi imprescindibili della rappresentazione la luce e l’aria. E qui il colore che stende Cezanne sembra compiere il miracolo: socchiudendo gli occhi, ed allontandosi dal quadro, l’immagine si forma nella nostra percezione come dotato di vera luce e di vera aria.
Ma la visione è ferma, immobile, dotata di una sua precisa staticità che rende questo quadro del tutto diverso dai quadri impressionisti. Non c’è la ricerca dell’attimo fuggente né la rappresentazione della mobilità della luce. Gli oggetti non vibrano né si sfaldano. Ogni cosa è al suo posto con un ordine ed un equilibrio ben precisi. Eppure il quadro tende ad una rappresentazione quasi astratta. Le macchie sono colori puri che non permettono la riconoscibilità di un oggetto preciso. Le macchie di colore hanno valore solo nel loro mutuo rapporto. Da qui all’arte astratta il passo è molto breve. Un percorso simile lo svolgeranno molti astrattisti del XX secolo: dalla forma alla stilizzazione segnica. Cezanne cercava invece un diversa costruzione dell’immagine: dalla forma al colore-luce, senza però perdere la forma. E per questo, egli non divenne mai un pittore astratto pur anticipando anche questo sviluppo dell’arte del Novecento.
Il tema dei bagnanti (sia maschili sia femminili) occupa una parte cospicua nella produzione di Cezanne. A conclusione di un percorso di ricerca svolto attraverso numerosissime tele, vi sono le tre composizioni chiamate le «Grandi Bagnanti» I, II e III, realizzate negli ultimi anni di attività.
Questa in esame è la prima delle tre composizioni, e quella probabilmente più nota. Il tema è abbastanza semplice: l’inserimento del nudo nel paesaggio. Vi si possono leggere significati di un ecologismo ante litteram che, in seguito, ritroveremo soprattutto nell’espressionismo tedesco: la ricerca di una nuova armonia tra l’uomo e la natura.
In realtà, nell’ottica di Cezanne, il problema del significato può anche essere secondario. Prevalente è il problema della pittura e del nuovo linguaggio che egli sperimenta. La pittura di Cezanne, qui più che altrove, si mostra come ricerca di insieme e non di particolari: la donna accovacciata a sinistra non ha neppure il volto. Ma ciò che l’artista cerca è rendere l’emozione della visione solo attraverso la stesura di colori su una superficie, senza altra preoccupazione relativa alla verosimiglianza.
Questa visione così sintetica del rappresentare influenzerà molti artisti dopo Cezanne. Soprattutto Picasso e Matisse, e tramite loro gran parte dei pittori del Novecento, pur attraverso percorsi diversi, gli saranno debitori di nuove possibilità espressive del linguaggio pittorico.
Il quadro, conservato nel Metropolitan Museum di New York, è uno degli esempi più noti di natura morta con mele realizzati da Cezanne. La mela è infatti un frutto che appare molto di frequente nelle nature morte dell'artista, divenendo quasi un suo marchio di fabbrica.
E a tal proposito è sorta la leggenda che l'intento di Cezanne era di «stupire Parigi con una sola mela». Vale a dire che l'artista voleva ottenere la perfezione nella forma più semplice possibile: quella di una sfera pura.
In realtà, dato lo stile che il pittore adotta, fatto di pennellate che tirano il colore stendendolo in maniera uniforme, riuscire nella costruzione tridimensionale di una sfera non era semplice, ma rappresentava un notevole traguardo non solo tecnico ma di grande sensibilità percettiva.
In realtà Cezanne, finché è stato in vita, non ha mai visto apprezzati i suoi sforzi, e le sue mele sono divenute un mito della pittura solo molti decenni dopo la sua morte.
Edvard Munch (1863-1944) è senz’altro il pittore che più di ogni altro anticipa l’espressionismo, soprattutto in ambito tedesco e nord-europeo. Egli nacque in Norvegia e svolse la sua attività soprattutto ad Oslo. In una città che, in realtà, era estranea ai grandi circuiti artistici che, in quegli anni, gravitavano soprattutto su Parigi e sulle altre capitali del centro Europa.
Nella pittura di Munch troviamo anticipati tutti i grandi temi del successivo espressionismo: dall’angoscia esistenziale alla crisi dei valori etici e religiosi, dalla solitudine umana all’incombere della morte, dalla incertezza del futuro alla disumanizzazione di una società borghese e militarista.
Del resto tutta la vita di Munch è stata segnata dal dolore e dalle sofferenze sia per le malattie che per problemi familiari.
Iniziò a studiare pittura a diciasette anni, nel 1880. Dopo un soggiorno a Parigi, dove ebbe modo di conoscere la pittura impressionista, nel 1892 espose a Berlino una cinquantina di suoi dipinti.
Ma la mostra fu duramente stroncata dalla critica. Egli, tuttavia, divenne molto seguito ed apprezzato dai giovani pittori delle avanguardie. Espose nelle loro mostre, compresa la celebre Secessione di Vienna del 1899. Il sorgere dell’espressionismo rese sempre più comprensibile la sua opera. E al pari degli altri pittori espressionisti fu anche egli perseguitato dal regime nazista che dichiarò la sua opera «arte degenerata». 82 sue opere presenti nei musei tedeschi vennero vendute. Egli morì in piena guerra, nel 1944, presso Oslo, lasciando tutte le sue opere al municipio della città.
Nell’opera di Munch sono rintracciabili molti elementi della cultura nordica di quegli anni, soprattutto letteraria e filosofica: dai drammi di Ibsen e Strindberg, alla filosofia esistenzialista di Kierkegaard e alla psicanali di Sigmund Freud. Da tutto ciò egli ricava una visione della vita permeata dall’attesa angosciosa della morte. Nei suoi quadri vi è sempre un elemento di inquietudine che rimanda all’incubo.
Ma gli incubi di Munch sono di una persona comune, non di uno spirito esaltato come quello di Van Gogh. E così, nei quadri di Munch il tormento affonda le sue radici in una dimensione psichica molto più profonda e per certi versi più angosciante.
Una dimensione di pura disperazione che non ha il conforto di nessuna azione salvifica, neppure il suicidio.
Questo è senz’altro il quadro più celebre di Munch ed, in assoluto, uno dei più famosi dell’espressionismo nordico. In esso è condensato tutto il rapporto angoscioso che l’artista avverte nei confronti della vita.
Lo spunto del quadro lo troviamo descritto nel suo diario:
Camminavo lungo la strada
con due amici
quando il sole tramontò
il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue
mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto
sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco
i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura
e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.
Lo spunto è quindi decisamente autobiografico. L’uomo in primo piano che urla è l’artista stesso. Tuttavia, al di là della sua relativa occasionalità, il quadro ha una indubbia capacità di trasmettere sensazioni universali. E ciò soprattutto per il suo crudo stile pittorico.
Il quadro presenta, in primo piano, l’uomo che urla. Lo taglia in diagonale il parapetto del ponte visto in fuga verso sinistra. Sulla destra vi è invece un innaturale paesaggio, desolato e poco accogliente. In alto il cielo è striato di un rosso molto drammatico.
L’uomo è rappresentato in maniera molto visionaria. Ha un aspetto sinuoso e molle. Più che ad un corpo, fa pensare ad uno spirito. La testa è completamente calva come un teschio ricoperto da una pelle mummificata. Gli occhi hanno uno sguardo allucinato e terrorizzato. Il naso è quasi assente, mentre la bocca si apre in uno spasmo innaturale.
L’ovale della bocca è il vero centro compositivo del quadro. Da esso le onde sonore del grido mettono in movimento tutto il quadro: agitano sia il corpo dell’uomo sia le onde che definiscono il paesaggio e il cielo.
Restano diritti solo il ponte e le sagome dei due uomini sullo sfondo. Sono sordi ed impassibili all’urlo che proviene dall’anima dell’uomo. Sono gli amici del pittore, incuranti della sua angoscia, a testimonianza della falsità dei rapporti umani.
L’urlo di questo quadro è una intesa esplosione di energia psichica. È tutta l’angoscia che si racchiude in uno spirito tormentato che vuole esplodere in un grido liberatorio. Ma nel quadro non c’è alcun elemento che induca a credere alla liberazione consolatoria.
L’urlo rimane solo un grido sordo che non può essere avvertito dagli altri ma rappresenta tutto il dolore che vorrebbe uscire da noi, senza mai riuscirci. E così l’urlo diviene solo un modo per guardare dentro di sé, ritrovandovi angoscia e disperazione.
La figura della ragazza nuda, seduta sul bordo del letto, è una delle più famose della produzione di Munch. Non vi è alcun compiacimento sensuale in questo nudo, anzi, l’immagine trasmette, ad uno sguardo più attento, un intenso sentimento di angoscia.
Il nudo, in questo caso, è allegoria di condizione indifesa, soprattutto da parte di chi è ancora giovane ed acerbo, nei confronti dei destini della vita.
E che ognuno ha un destino che lo aspetta, in questo quadro è simboleggiato dall’ombra che la ragazza proietta sulla parete. Non è un’ombra naturale, ma un grumo nero come un fantasma che si materializza dietro di noi, senza che possiamo evitarlo: è un po’ il simbolo di tutti i dolori che attendono chi vive.
Il tema della sensualità ha in Munch un carattere mai allegro. In questa immagine, la donna ispira un qualcosa di torbido e peccaminoso. Nella sua dimensione misogina, Munch lega la sessualità al peccato non per motivi etici, ma perché, per lui, eros e morte sono la stessa cosa. Come dire che non può esistere piacere senza dolore, e tutto ciò che sembra farci felice, in realtà ci porta sempre sofferenza. Questa visione pessimistica viene accentuata nella prima versione del quadro, dove sulla cornice egli disegna degli spermatozoi e un feto. Il peccato legato al piacere giunge quindi a minare l’atto stesso del ricreare la vita.
Prima versione del quadro «Madonna» realizzato da Munch. Rispetto alla versione successiva sono intensificati gli elementi allegorici, quali la presenza degli spermatozoi e del feto, ma la figura della donna appare più graficamente stilizzata e meno espressiva della successiva versione.
La passeggiata lungo un viale cittadino di Oslo è occasione per Munch di mostrare cosa egli pensa dei cittadini borghesi in genere: un’umanità spiritualmente vuota che come zombi vive senza realmente vivere. Il quadro ha un’atmosfera anche gradevole, con i suoi toni saturi che rendono efficacemente la suggestione dell’ora serale, e ciò crea un contrasto ancora più stridente con l’immagine cadaverica dei passanti che, più che passeggiare, sembra stiano seguendo un funerale.
Il termine espressionismo indica, in senso molto generale, un’arte dove prevale la deformazione di alcuni aspetti della realtà, così da accentuarne i valori emozionali ed espressivi. In tal senso, il termine espressionismo prende una valenza molto universale. Al pari del termine «classico», che esprime sempre il concetto di misura ed armonia, o di «barocco», che caratterizza ogni manifestazione legata al fantasioso o all’irregolare, il termine «espressionismo» è sinonimo di deformazione.
Nell’ambito delle avanguardie storiche con il termine espressionismo indichiamo una serie di esperienze sorte soprattutto in Germania, che divenne la nazione che più si identificò, in senso non solo artistico, con questo fenomeno culturale.
Alla nascita dell’espressionismo contribuirono diversi artisti operanti negli ultimi decenni dell’Ottocento. In particolare possono essere considerati dei pre-espressionisti Van Gogh, Gauguin, Munch ed Ensor. In questi pittori sono già presenti molti degli elementi che costituiscono le caratteristiche più tipiche dell’espressionismo: l’accentuazione cromatica, il tratto forte ed inciso, la drammaticità dei contenuti.
Il primo movimento che può essere considerato espressionistico nacque in Francia nel 1905: i Fauves. Con questo termine vennero dispregiativamente indicati alcuni pittori che esposero presso il Salon d’Automne quadri dall’impatto cromatico molto violento. Fauves, in francese, significa «belve». Di questo gruppo facevano parte Matisse, Vlaminck, Derain, Marquet ed altri. La loro caratteristica era il colore steso in tonalità pure. Le immagini che loro ottenevano erano sempre autonome rispetto alla realtà. Il dato visibile veniva reinterpretato con molta libertà, traducendo il tutto in segni colorati che creavano una pittura molto decorativa.
Alla definizione dello stile concorsero soprattutto la conoscenza della pittura di Van Gogh e Gauguin. Da questi due pittori i fauves presero la sensibilità per il colore acceso e la risoluzione dell’immagine solo sul piano bidimensionale.
Nello stesso 1905 che comparvero i Fauves si costituì a Dresda, in Germania, un gruppo di artisti che si diede il nome «Die Brücke» (il Ponte). I principali protagonisti di questo gruppo furono Ernest Ludwig Kirchner e Emil Nolde. In essi sono presenti i tratti tipici dell’espressionismo: la violenza cromatica e la deformazione caricaturale, ma in più vi è una forte carica di drammaticità che, ad esempio, nei Fauves non era presente. Nell’espressionismo nordico, infatti, prevalgono sempre temi quali il disagio esistenziale, l’angoscia psicologica, la critica ad una società borghese ipocrita e ad uno stato militarista e violento.
Alla definizione dell’espressionismo nordico fu determinante il contributo di pittori quali Munch ed Ensor. E, proprio da Munch, i pittori espressionisti presero la suggestione del fare pittura come esplosione di un grido interiore.
Un grido che portasse in superficie tutti i dolori e le sofferenze umane ed intellettuali degli artisti del tempo.
Un secondo gruppo espressionistico si costituì a Monaco nel 1911: «Der Blaue Reiter» (Il Cavaliere Azzurro). Principali ispiratori del movimento furono Wassilj Kandinskij e Franz Marc. Con questo movimento l’espressionismo prese una svolta decisiva. Nella pittura fauvista, o dei pittori del gruppo Die Brücke, la tecnica era di rendere «espressiva» la realtà esterna così da farla coincidere con le risonanze interiori dell’artista.
Der Blaue Reiter propose invece un’arte dove la componente principale era l’espressione interiore dell’artista che, al limite, poteva anche ignorare totalmente la realtà esterna a se stesso. Da qui, ad una pittura totalmente astratta, il passo era breve. Ed infatti fu proprio Wassilj Kandiskij il primo pittore a scegliere la strada dell’astrattismo totale.
Il gruppo Der Blaue Reiter si disciolse in breve tempo. La loro ultima mostra avvenne nel 1914. In quell’anno scoppiò la guerra e Franz Marc, partito per il fronte, morì nel 1916. Alle attività del gruppo partecipò anche il pittore svizzero Paul Klee, che si sarebbe reincontrato con Wassilj Kandiskij nell’ambito della Bauhaus, la scuola d’arte applicata fondata nel 1919 dall’architetto Walter Gropius. All’interno di questa scuola, l’attività didattica di Kandiskij e Klee contribuì in maniera determinante a fondare i principi di una estetica moderna, trasformando l’espressionismo e l’astrattismo da un movimento di intonazione lirica ad un metodo di progettazione razionale di una nuova sensibilità estetica.
Il termine espressionismo nacque come alternativa alla definizione di impressionismo. Le differenze tra i due movimenti sono sostanziali e profonde. L’impressionismo rimase sempre legato alla realtà esteriore. L’artista impressionista limitava la sua sfera di azione all’interazione che c’è tra la luce e l’occhio. In tal modo cercava di rappresentare la realtà con una nuova sensibilità, cogliendo solo quegli effetti luministici e coloristici che rendono piacevole ed interessante uno sguardo sul mondo esterno.
L’espressionismo, invece, rifiutava il concetto di una pittura sensuale (ossia di una pittura tesa al piacere del senso della vista), spostando la visione dall’occhio all’interiorità più profonda dell’animo umano. L’occhio, secondo l’espressionismo, è solo un mezzo per giungere all’interno, dove la visione interagisce con la nostra sensibilità psicologica. E la pittura che nasce in questo modo, non deve fermarsi all’occhio dell’osservatore, ma deve giungere al suo interno.
Un’altra profonda differenza divide i due movimenti. L’impressionismo è stato sempre connotato da un atteggiamento positivo nei confronti della vita. Era alla ricerca del bello, e proponeva immagini di indubbia gradevolezza. I soggetti erano scelti con l’intento di illustrare la gioia di vivere. Di una vita connotata da ritmi piacevoli e vissuta quasi con spensieratezza.
Totalmente opposto è l’atteggiamento dell’espressionismo. La sua matrice di fondo rimane sempre profondamente drammatica. Quando l’artista espressionista vuol guardare dentro di sé, o dentro gli altri, trova sempre toni foschi e cupi. Al suo interno trova l’angoscia, dentro gli altri trova la bruttura mascherata dall’ipocrisia borghese. E per rappresentare tutto ciò, l’artista espressionista non esita a ricorre ad immagini «brutte» e sgradevoli. Anzi, con l’espressionismo il «brutto» diviene una vera e propria categoria estetica, cosa mai prima avvenuta con tanta enfasi nella storia dell’arte occidentale.
Da un punto di vista stilistico la pittura espressionista muove soprattutto da Van Gogh e da Gauguin. Dal primo prende il segno profondo e gestuale, dal secondo il colore come simbolo interiore. La pittura espressionistica risulta quindi totalmente antinaturalistica, lì dove l’aderenza alla realtà dell’impressionismo collocava quest’ultimo movimento ancora nei limiti di un naturalismo seppure inteso solo come percezione della realtà.
Henri Matisse (1869-1954), pittore francese, è il rappresentante più noto del fauvismo. Il movimento dei Fauves è il contributo francese alla nascita dell’espressionismo. Ma, rispetto agli analoghi movimenti tedeschi, connotati da atmosfere fosche e contenuti drammatici, il fauvismo rappresenta una variante «mediterranea» e solare dell’espressionismo. La vivezza coloristica, che è il vero tratto caratteristico di questo movimento, esprime un’autentica «gioia di vivere» che resterà costante in tutta la produzione di Matisse.
Il gruppo dei Fauves, pur non essendo un movimento organico, si riconosceva in alcune comuni convinzioni: soprattutto, il dipinto deve comporsi unicamente di colore. Senza ricercare la verosimiglianza con la natura, il colore deve nascere dal proprio sentire interiore. Il colore viene quindi svincolato dalla realtà che rappresenta ma esprime le sensazioni che l’artista prova di fronte all’oggetto che riproduce.
Il fauvismo rappresenta la prima vera rottura con l’impressionismo ed è la prima esperienza moderna che svincola il rapporto tra colore reale delle cose e colore impiegato per la loro rappresentazione pittorica. I presupposti per queste scelte derivarono dalla conoscenza della pittura di Cezanne, Van Gogh e Gauguin. Da Cezanne presero l’idea della scomposizione e ricomposizione non prospettica delle forme, e da Van Gogh e Gauguin l’uso del colore come autonoma espressione interiore.
Henri Matisse iniziò la sua attività di pittore a Parigi intorno al 1890. Studiò presso il pittore simbolista Gustave Moreau e presso l’École des Beaux-arts di Parigi. In questi anni conobbe Albert Marquet, André Derain e Maurice de Vlaminck. Dalla loro amicizia nacque il gruppo dei Fauves. La loro prima comparsa pubblica avvenne nel 1905 al Salon d’Automne.
Lo stile di Matisse già si definisce in questa fase della sua attività. I suoi quadri sono tutti risolti sul piano della bidimensionalità, sacrificando al colore sia la tridimensionalità, sia la definizione dei dettagli. L’uso del colore in Matisse è quanto di più intenso è vivace si sia mai visto in pittura. Usa colori primari stesi con forza e senza alcuna stemperatura tonale. Ad essi accosta i colori complementari con l’evidente intento di rafforzarne il contrasto timbrico. Ne risulta un insieme molto vivace con un evidente gusto per la decoratività.
La sua attività pittorica si svolse per decenni, nel suo quieto ambiente familiare, lontano dai clamori della vita mondana. Svolse la sua ricerca portando il suo stile ad un affinamento progressivo fino a farlo giungere, in tarda età, alle soglie dell’astrattismo. Ma senza mai perdere il gusto per la forza espressiva del colore.
Questo quadro di Matisse, tra i più famosi della sua produzione espressionistica, sintetizza in maniera esemplare la sua poetica e il suo stile. Il quadro trasmette una suggestione immediata. Il senso della danza, che unisce in girotondo cinque persone, è qui sintetizzato con pochi tratti e con appena tre colori. Ne risulta una immagine quasi simbolica che può essere suscettibile di più letture ed interpretazioni.
Il verde che occupa la parte inferiore del quadro simboleggia la Terra. Segue la curvatura del nostro mondo e sembra fatto di materiale elastico: il piede di uno dei danzatori imprime alla curvatura una deformazione dovuta al suo peso. Il blu nella parte superiore è ovviamente il cielo. Ma si tratta di un blu così denso e carico che non rappresenta la nostra atmosfera terrestre bensì uno spazio siderale più ampio e vasto da contenere tutto l’universo. E sul confine tra terra e cielo, o tra mondo ed universo, stanno compiendo la loro danza le cinque figure.
Le loro braccia sono tese nello slancio di tenere chiuso un cerchio che sta per aprirsi tra le due figure poste in basso a sinistra. Una delle figure è infatti tutta protesa in avanti per afferrare la mano dell’uomo, mentre quest’ultimo ha una torsione del busto per allungare la propria mano alla donna.
La loro danza può essere vista come allegoria della vita umana, fatta di un movimento continuo in cui la tensione è sempre tesa all’unione con gli altri. E tutto ciò avviene sul confine del mondo, in quello spazio precario tra l’essere e il non essere.
Il vortice circolare in cui sono trascinati ha sia i caratteri gioiosi della vita in movimento, sia il senso angoscioso della necessità di dovere per forza danzare senza sosta.
In questo quadro Matisse giunge ad una sintesi totale tra contenuto e forma, riuscendo ad esprimere alcune delle profonde verità che regolano, non solo la vita dell’uomo, ma dell’intero universo.
In questo quadro del 1904, Matisse mostra le influenze subite dal "pointillisme" di Seurat. Del resto non è l’unico pittore, agli inizi del Novecento, a guardare alla separazione dei colori come linguaggio nuovo dell’espressione pittorica. In seguito il suo stile prenderà una piega molto diversa, trovando nella linea e nella pennellata continua il suo linguaggio più noto. In questa tela sono già presenti, tuttavia, molti degli elementi della sua poetica.
In particolare, l’atteggiamento di armonia con una natura avvertita in modo simbolico, caratterizzerà anche la sua produzione posteriore.
Il quadro è stato realizzato solo un anno dopo «Lusso, calma e voluttà», ma si avverte una svolta stilistica quasi radicale. Siamo nel periodo della famosa esposizione al Salon del 1905, quando anche Matisse fu definito «fauve», e il suo stile prende una decisa piega espressionista. I colori sono posti sulla tela in maniera violenta, e quasi sporca.
Non vi è alcuna preoccupazione estetica per l’effetto di poca raffinatezza della stesura a pennellate grosse e sovrapposte, e ciò ovviamente suscitò critiche non benevole. Ma l’energia che il quadro trasmette è sicuramente inedita. L’immagine ha una forza espressiva che si può ritrovare solo nelle opere di Van Gogh o Gauguin, due artisti che sono all’origine dell’arte di Matisse.
Da notare le pennellate verdi sul volto della donna: sono colori decisamente antinaturalistici, ma che danno forza al volume del volto senza ricorrere a costruzioni chiaroscurali. In pratica la lezione della pittura post-impressionista sull’autonomia del colore, rispetto alla realtà rappresentata, trova ulteriore conferma proprio nella pittura di Matisse.
Quadro tra i più famosi di Matisse, «La stanza rossa» è un’immagine vivace ed intensa che porta alle estreme conseguenze la forza del colore dipinto. La quantità di rosso nella scena, presente oltre che sulla tovaglia anche sulle pareti della stanza, crea la sensazione di interno in maniera astratta ma molto suggestiva. Il rosso, infatti, è disposto in maniera talmente piatta ed uniforme da non consentire una facile identificazione dei piani orizzontali e dei piani verticali.
Tuttavia crea una sensazione di luce interna molto diffusa e serena. Così come sereno appare l’unico rettangolo non rosso di questa tela: la finestra che si apre su uno scorcio di paesaggio consente la vista di verdi, bianchi, azzurri e gialli che danno la sensazione di una natura calma e tranquilla. Anche l’azione raccontata all’interno della stanza, una cameriera che sta tranquillamente disponendo su una tavola frutta, pane e bevande, trasmette un senso di grande pace e serenità. L’immagine, nel suo complesso, appare quindi come una rappresentazione astratta e simbolica nello stile ma perfettamente aderente alle sensazioni che la situazione in essere universalmente trasmette.
Oskar Kokoschka (1886-1980), pittore austriaco, iniziò la sua attività pittorica nel clima della secessione viennese che in quegli anni aveva come suo maggior protagonista Gustav Klimt. E l’attività giovanile di Kokoschka è influenzata soprattutto dal diretto contatto che egli aveva con il maestro della secessione. In seguito venne a contatto con il gruppo espressionista tedesco «Die Brücke» ed espose alcune sue opere nelle mostre organizzate dal gruppo «Der Blaue Reiter». Egli non aderì mai ufficialmente all’espressionismo, tuttavia le sue opere di quegli anni rappresentano alcuni dei massimi vertici dell’espressionismo storico.
Nel 1917 venne a contatto con il gruppo Dada, e a partire dal 1920 la sua pittura cominciò a distaccarsi dall’espressionismo, per dedicarsi ad una autonoma ricerca che lo portò a reinterpretare l’impressionismo in una nuova chiave moderna.
Dopo la guerra insegnò presso l’Accademia di Dresda e cominciò una serie di viaggi che lo portarono in varie parti del mondo, tra cui l’Italia, alla quale fu legato da intenso rapporto affettivo. Nel 1934, dopo che i nazisti avevano giudicato anche la sua pittura «arte degenerata», si trasferì a Praga per poi portarsi a Londra.
Ottenuta la cittadinanza britannica, nel 1953 si stabilì definitivamente a Villeneuve, sul lago di Ginevra. È morto nel 1980 all’età di novantaquattro anni.
Il quadro, che è noto anche con il titolo «La tempesta», è sicuramente l’opera pittorica più famosa di Oskar Kokoschka.
La tela fu realizzata a Vienna nel 1914 alla vigilia della prima guerra mondiale. L’evento bellico avrebbe dissolto l’impero asburgico di cui Vienna era la capitale, incidendo anche sul ruolo che la città viveva come grande centro europeo della cultura.
La Vienna di quegli anni viveva tuttavia la sua dimensione culturale con un senso di cosciente "decadenza", quasi lucida consapevolezza che quel mondo dorato sarebbe prima o poi svanito. E tutto ciò è rappresentato soprattutto dalle atmosfere ultra raffinate ed eleganti presenti nelle tele di Gustav Klimt. Ma la nuova cultura artistica mitteleuropea, che si andava formando in quegli anni intorno ai nuovi movimenti espressionisti, imponeva nuove visioni. L’eleganza di Klimt, con le sue fughe interiori, era troppo consolatoria rispetto ad una realtà che si evolveva in maniera sempre più drammatica. Era urgente ribaltare il registro estetico per passare dal "bello" al "brutto" se quest’ultimo risultava più funzionale a rappresentare la drammaticità della realtà del tempo. Ed è quanto fece coscientemente l’espressionismo che a Vienna trovò due grandi interpreti: Egon Schiele e Oskar Kokoschka.
I due artisti, entrambi allievi di Klimt, conservano un indubbio legame con l’artista della secessione, soprattutto per una eleganza di segno ed una voluta liricità della concezione estetica che li differenzia dalle dure rappresentazioni degli altri espressionisti che operavano in Germania. Ma i due operano comunque su un piano del tutto diverso dall’arte di Klimt. E la differenza appare inequivocabile confrontando il quadro più famoso di Klimt, «Il bacio», con le due tele «Cardinale e suora» di Schiele e «La sposa del vento» di Kokoschka. Il primo quadro, realizzato nel 1912, è una ripresa fortemente caricaturale del quadro di Klimt: l’uomo e la donna abbracciati qui diventano un cardinale ed una suora, e l’intento di Schiele è certo quello della critica sociale e di costume. Il quadro di Kokoschka, realizzato due anni dopo, anche se non mostra una diretta derivazione figurativa dal quadro di Klimt, può essere utilmente paragonato a quest’ultimo proprio per l’opposta interpretazione che Kokoschka dà all’abbraccio di un uomo e di una donna.
Nella tela di Klimt protagonista è la donna, con tutta la sua carica di profonda estasi interiore. Nella tela di Kokoschka il protagonista è invece l’uomo. L’uomo è essere dubbioso per eccellenza che, nella dimensione notturna, veglia alla ricerca di un equilibrio impossibile tra ragione e sentimento; la donna ha invece l’abbandono sereno di chi vive il rapporto con la vita senza le ansie esistenziali create dai fantasmi notturni della propria psiche. E tutto ciò viene abilmente rappresentato da Kokoschka. La donna ha un aspetto sereno dove sia l’espressione del volto sia l’adagiarsi del suo corpo esprimono un appagamento fisico e psicologico. L’uomo ha invece gli occhi aperti segno di una inestinguibile nevrosi interiore che non solo gli impedisce di rilassarsi nel sonno ma gli deforma visibilmente il corpo in spigolosità e annodamenti nervosi.
Diverso è ovviamente anche lo stile di Kokoschka da quello di Klimt. In quest’ultimo protagonista dell’immagine è soprattutto l’elegante disegno di contorno, mentre il colore svolge una funzione prevalentemente decorativa. In Kokoschka è il colore che costruisce l’immagine in un rapporto diretto con la gestualità del pittore. Il colore non solo prende una fisicità più materica ma ha quel tanto di astrazione dal reale che gli consente di "evocare" atmosfere con grande forza comunicativa.
Una delle grandi suggestioni del quadro è l’unione di un paesaggio notturno (fatto di monti, nubi, luna, vento) con le figure nude dei due protagonisti. Questa proiezione delle passioni umane nell’ambito di una natura che sembra partecipare al dramma esistenziale dell’uomo, carica il quadro di un simbolismo allegorico molto universale. Così come universale è anche la percezione della differenza sostanziale, come abbiamo sopra detto, tra l’uomo e la donna.
Nel quadro vanno anche rintracciati elementi autobiografici dell’artista. In questo periodo la sua vita sentimentale fu caratterizzata da un legame molto intenso con Alma Mahler, vedova del grande compositore e musicista viennese. E da questa sua relazione affettiva l’artista prese sicuramente ispirazione per l’opera. Ed è indubbio il suo intento di dare del rapporto uomo-donna una rappresentazione più vicina al reale dove tale relazione si colora anche delle contraddizioni insite in tutti i rapporti. Se in Klimt l’eros è visto soprattutto nella figura femminile – come mito universale –, capace di scatenare il desiderio e la passione, in Kokoschka diviene la passione reale che dopo essersi alimentata di sé si esaurisce nel prevalere nuovamente della ragione sul sentimento. E così il quadro diviene simbolo talmente universale, in cui ognuno può riconoscersi, e ritrovare l’immagine di una esperienza da tutti vissuta.
Il percorso dell’arte contemporanea è costituito di tappe che hanno segnato il progressivo annullamento dei canoni fondamentali della pittura tradizionale. Nella storia artistica occidentale l’immagine pittorica per eccellenza è stata sempre considerata di tipo naturalistico. Ossia, le immagini della pittura devono riprodurre fedelmente la realtà, rispettando gli stessi meccanismi della visione ottica umana. Questo obiettivo era stato raggiunto con il Rinascimento italiano che aveva fornito gli strumenti razionali e tecnici del controllo dell’immagine naturalistica: il chiaroscuro per i volumi, la prospettiva per lo spazio. Il tutto era finalizzato a rispettare il principio della verosimiglianza, attraverso la fedeltà plastica e coloristica.
Questi principi, dal Rinascimento in poi, sono divenuti legge fondamentale del fare pittorico, istituendo quella prassi che, con termine corrente, viene definita «accademica».
Dall’impressionismo in poi, la storia dell’arte ha progressivamente rinnegato questi principi, portando la ricerca pittorica ad esplorare territori che, fino a quel momento, sembravano posti al di fuori delle regole. Già Manet aveva totalmente abolito il chiaroscuro, risolvendo l’immagine, sia plastica che spaziale, in soli termini coloristici.
Le ricerche condotte dal post-impressionismo avevano smontato un altro pilastro della pittura accademica: la fedeltà coloristica. Il colore, in questi movimenti, ha una sua autonomia di espressione che va al di là della imitazione della natura. Ciò consentiva, ad esempio, di rappresentare dei cavalli di colore blu se ciò era più vicino alla sensibilità del pittore e ai suoi obiettivi di comunicazione, anche se nella realtà i cavalli non hanno quella colorazione. Questo principio divenne, poi, uno dei fondamenti dell’espressionismo.
Era rimasto da smontare l’ultimo pilastro su cui era costruita la pittura accademica: la prospettiva. Ed è quando fece Picasso nel suo periodo di attività che viene definito «cubista».
Già nel periodo post-impressionista gli artisti cominciarono a svincolarsi dalle ferree leggi della costruzione prospettica. La pittura di Gauguin ha una risoluzione bidimensionale che già la rende antiprospettica. Ma colui che volutamente deforma la prospettiva è Paul Cezanne. Le diverse parti che compongono i suoi quadri sono quasi tutte messe in prospettiva, ma da angoli visivi diversi. Gli spostamenti del punto di vista sono a volte minimi, e neppure percepibili ad un primo sguardo, ma di fatto demoliscono il principio fondamentale della prospettiva: l’unicità del punto di vista.
Picasso, meditando la lezione di Cezanne, portò lo spostamento e la molteplicità dei punti di vista alle estreme conseguenze. Nei suoi quadri le immagini si compongono di frammenti di realtà, visti tutti da angolazioni diverse e miscelati in una sintesi del tutto originale. Nella prospettiva tradizionale la scelta di un unico punto di vista, imponeva al pittore di guardare solo ad alcune facce della realtà. Nei quadri di Picasso l’oggetto viene rappresentato da una molteplicità di punti di vista così da ottenere una rappresentazione «totale» dell’oggetto. Tuttavia, questa sua particolare tecnica lo portava ad ottenere immagini dalla apparente incomprensibilità, in quanto risultavano del tutto diverse da come la nostra esperienza è abituata a vedere le cose.
E da ciò nacque anche il termine «Cubismo», dato a questo movimento, con intento denigratorio, in quanto i quadri di Picasso sembravano comporsi solo di sfaccettature di cubi.
Il Cubismo, a differenza degli altri movimenti avanguardistici, non nacque in un momento preciso né con un intento preventivamente dichiarato. Il Cubismo non fu cercato, ma fu semplicemente trovato da Picasso, grazie al suo particolare atteggiamento di non darsi alcun limite, ma di sperimentare tutto ciò che era nelle sue possibilità.
Il quadro che, convenzionalmente, viene indicato come l’inizio del Cubismo è «Les demoiselles d’Avignon», realizzato da Picasso tra il 1906 e il 1907. Subito dopo, nella ricerca sul Cubismo si inserì anche George Braque che rappresenta l’altro grande protagonista di questo movimento che negli anni antecedenti la prima guerra mondiale vide la partecipazione di altri artisti quali Juan Gris, Fernand Léger e Robert Delaunay. I confini del Cubismo rimangono però incerti, proprio per questa sua particolarità di non essersi mai costituito come un vero e proprio movimento.
Avendo soprattutto a riferimento la ricerca pittorica di Picasso e Braque, il cubismo viene solitamente diviso in due fasi principali: una prima definita «cubismo analitico» ed una seconda definita «cubismo sintetico».
Il cubismo analitico è caratterizzato da un procedimento di numerose scomposizioni e ricomposizioni che danno ai quadri di questo periodo la loro inconfondibile trama di angoli variamente incrociati. Il cubismo sintetico, invece, si caratterizza per una rappresentazione più diretta ed immediata della realtà che vuole evocare, annullando del tutto il rapporto tra figurazione e spazio. In questa fase, compaiono nei quadri cubisti dei caratteri e delle scritte, e infine anche i «papier collés»: ossia frammenti, incollati sulla tela, di giornali, carte da parati, carte da gioco e frammenti di legno. Il cubismo sintetico, più di ogni altro movimento pittorico, rivoluziona il concetto stesso di quadro portandolo ad essere esso stesso «realtà» e non «rappresentazione della realtà».
L’immagine naturalistica ha un limite ben preciso: può rappresentare solo un istante della percezione. Avviene da un solo punto di vista e coglie solo un momento. Quando il cubismo rompe la convenzione sull’unicità del punto di vista di fatto introduce nella rappresentazione pittorica un nuovo elemento: il tempo.
Per poter vedere un oggetto da più punti di vista è necessario che la percezione avvenga in un tempo prolungato che non si limita ad un solo istante. È necessario che l’artista abbia il tempo di vedere l’oggetto, e quando passa alla rappresentazione porta nel quadro tutta la conoscenza che egli ha acquisito dell’oggetto. La percezione, pertanto, non si limita al solo sguardo ma implica l’indagine sulla struttura delle cose e sul loro funzionamento.
I quadri cubisti sconvolgono la visione perché vi introducono quella che viene definita la «quarta dimensione»: il tempo. Negli stessi anni, la definizione di tempo, come quarta dimensione della realtà, veniva postulata in fisica dalla Teoria della Relatività di Albert Einstein. La contemporaneità dei due fenomeni rimane tuttavia casuale, senza un reale nesso di dipendenza reciproca.
Appare tuttavia singolare come, in due campi diversissimi tra loro, si avverta la medesima necessità di andare oltre la conoscenza empirica della realtà per giungere a nuovi modelli di descrizione e rappresentazione del reale.
L’introduzione di questa nuova variabile, il tempo, è un dato che non riguarda solo la costruzione del quadro ma anche la sua lettura. Un quadro cubista, così come tantissimi quadri di altri movimenti del Novecento, non può essere letto e compreso con uno sguardo istantaneo. Deve, invece, essere percepito con un tempo preciso di lettura. Il tempo, cioè, di analizzarne le singole parti, e ricostruirle mentalmente, per giungere con gradualità dall’immagine al suo significato.
Pablo Picasso (1881-1973) nacque a Malaga, in Spagna, da un padre, insegnante nella locale scuola d’arte, che lo avviò precocemente all’apprendistato artistico. A soli quattordici anni venne ammesso all’Accademia di Belle Arti di Barcellona. Due anni dopo si trasferì all’Accademia di Madrid. Dopo un ritorno a Barcellona, effettuò il suo primo viaggio a Parigi nel 1900. Vi ritornò più volte, fino a stabilirvisi definitivamente.
Dal 1901 lo stile di Picasso iniziò a mostrare dei tratti originali. Ebbe inizio il cosiddetto «periodo blu» che si protrasse fino al 1904. Il nome a questo periodo deriva dal fatto che Picasso usava dipingere in maniera monocromatica, utilizzando prevalentemente il blu in tutte le tonalità e sfumature possibili. I soggetti erano soprattutto poveri ed emarginati. Picasso li ritraeva preferibilmente a figura intera, in posizioni isolate e con aria mesta e triste. Ne risultavano immagini cariche di tristezza, accentuata dai toni freddi (blu, turchino, grigio) con cui i quadri erano realizzati.
Dal 1905 alla fine del 1906, Picasso schiarì la sua tavolozza, utilizzando le gradazioni del rosa che risultano più calde rispetto al blu. Iniziò quello che, infatti, viene definito il «periodo rosa». Oltre a cambiare il colore nei quadri di questo periodo cambiarono anche i soggetti. Ad essere raffigurati sono personaggi presi dal circo, saltimbanchi e maschere della commedia dell’arte, quali Arlecchino.
La svolta cubista avvenne tra il 1906 e il 1907. In quegli anni vi fu la grande retrospettiva sulla pittura di Cezanne, da poco scomparso, che molto influenza ebbe su Picasso. E, nello stesso periodo, come molti altri artisti del tempo, anche Picasso si interessò alla scultura africana, sulla scorta di quella riscoperta quell’esotico primitivo che aveva suggestionato molta cultura artistica europea da Gauguin in poi. Da questi incontri, e dalla volontà di continua sperimentazione che ha sempre caratterizzato l’indole del pittore, nacque nel 1907 il quadro «Les demoiselles de Avignon» che segnò l’avvio della stagione cubista di Picasso.
In quegli anni fu legato da un intenso sodalizio artistico con George Braque. I due artisti lavorarono a stretto contatto di gomito, producendo opere che sono spesso indistinguibili tra loro. In questo periodo avvenne la definitiva consacrazione dell’artista che raggiunse livelli di notorietà mai raggiunti da altro pittore in questo secolo.
La fase cubista fu un periodo di grande sperimentazione, in cui Picasso rimise in discussione il concetto stesso di rappresentazione artistica. Il passaggio dal cubismo analitico al cubismo sintetico rappresentò un momento fondamentale della sua evoluzione artistica. Il pittore appariva sempre più interessato alla semplificazione della forma, per giungere al segno puro che contenesse in sé la struttura della cosa e la sua riconoscibilità concettuale.
La fase cubista di Picasso durò circa dieci anni. Nel 1917, anche a seguito di un suo viaggio in Italia, vi fu una inversione totale nel suo stile. Abbandonò la sperimentazione per passare ad una pittura più tradizionale. Le figure divennero solide e quasi monumentali. Questo suo ritorno alla figuratività anticipò di qualche anno un analogo fenomeno che, dalla metà degli anni ’20 in poi, si diffuse in tutta Europa segnando la fine delle Avanguardie Storiche.
Ma la vitalità di Picasso non si arrestò lì. La sua capacità di sperimentazione continua lo portarono ad avvicinarsi ai linguaggi dell’espressionismo e del surrealismo, specie nella scultura, che in questo periodo lo vide particolarmente impegnato. Nel 1937 partecipò all’Esposizione Mondiale di Parigi, esponendo nel Padiglione della Spagna il quadro «Guernica» che rimane probabilmente la sua opera più celebre ed una delle più simboliche di tutto il Novecento.
Negli anni immediatamente successivi la seconda guerra mondiale si dedicò con impegno alla ceramica, mentre la sua opera pittorica fu caratterizzata da lavori «d’après»: ossia rivisitazioni, in chiave del tutto personale, di famosi quadri del passato quali «Les meninas» di Velazquez, «La colazione sull’erba» di Manet o «Le signorine in riva alla Senna» di Courbet.
Picasso è morto nel 1973 all’età di novantadue anni.
L’opera che inaugura la stagione cubista di Picasso è il quadro «Les demoiselles d’Avignon». Il quadro è stato realizzato tra il 1906 e il 1907.
Le numerose rielaborazioni e ridipinture ne fanno quasi un gigantesco «foglio da schizzo» sul quale Picasso ha lavorato per provare le nuove idee che stava elaborando.
Il quadro non rappresenta un risultato definitivo: semplicemente ad un certo punto Picasso ha smesso di lavorarci.
Lo abbandona nel suo studio, e quasi per caso suscita la curiosità e l’interesse dei suoi amici.
Segno che forse neppure l’artista era sicuro del risultato a cui quell’opera era giunta. Anche il titolo in realtà è posticcio, avendolo attribuito il suo amico André Salmon
Il soggetto del quadro è la visione di una casa d’appuntamento in cui figurano cinque donne. In origine doveva contenere anche due uomini, poi scomparsi nelle successive modifiche apportate al quadro da Picasso. L’analogia più evidente è con i quadri di Cézanne del ciclo «Le grandi bagnanti». Ed è praticamente certo che Picasso modifiche continuamente questo quadro proprio per le sollecitazioni che gli vengono dalla conoscenza delle opere di Cézanne.
Il risultato a cui giunge è in realtà disomogeneo. Le due figure centrali hanno un aspetto molto diverso dalle figure ai lati. In queste ultime, specie le due di destra, la modellazione dei volti ricorda le sculture africane che in quel periodo conoscevano un momento di grande popolarità tra gli artisti europei.
Ciò che costituisce la grande novità dell’opera è l’annullamento di differenza tra pieni e vuoti. L’immagine si compone di una serie di piani solidi che si intersecano secondo angolazioni diverse. Ogni angolazione è il frutto di una visione parziale per cui lo spazio si satura di materia annullando la separazione tra un corpo ed un altro.
Le singole figure, costruite secondo il criterio della visione simultanea da più lati, si presentano con un aspetto decisamente inconsueto che sembra ignorare qualsiasi legge anatomica. Vediamo così apparire su un volto frontale un naso di profilo, oppure, come nella figura in basso a destra, la testa appare ruotata sulle spalle di un angolo innaturale.
Tutto ciò è comunque la premessa di quella grande svolta, che Picasso compie con il cubismo, per cui la rappresentazione tiene conto non solo di ciò che si vede in un solo istante, ma di tutta la percezione e conoscenza che l’artista ha del soggetto che rappresenta.
Guernica è il nome di una cittadina spagnola che ha un triste primato. È stata la prima città in assoluto ad aver subito un bombardamento aereo. Ciò avvenne la sera del 26 aprile del 1937 ad opera dell’aviazione militare tedesca. L’operazione fu decisa con freddo cinismo dai comandi militari nazisti semplicemente come esperimento. In quegli anni era in corso la guerra civile in Spagna, con la quale il generale Franco cercava di attuare un colpo di stato per sostituirsi alla legittima monarchia.
In questa guerra aveva come alleati gli italiani e i tedeschi. Tuttavia la cittadina di Guernica non era teatro di azioni belliche, così che la furia distruttrice del primo bombardamento aereo della storia si abbatté sulla popolazione civile uccidendo soprattutto donne e bambini.
Quando la notizia di un tale efferato crimine contro l’umanità si diffuse tra l’opinione pubblica, Picasso era impegnato alla realizzazione di un’opera che rappresentasse la Spagna all’Esposizione Universale di Parigi del 1937. Decide così di realizzare questo pannello che denunciasse l’atrocità del bombardamento su Guernica.
L’opera di notevoli dimensioni (metri 3,5 x 8) fu realizzata in appena due mesi, ma fu preceduta da un’intensa fase di studio, testimoniata da ben 45 schizzi preparatori che Picasso ci ha lasciato.
Il quadro è realizzato secondo gli stilemi del cubismo: lo spazio è annullato per consentire la visione simultanea dei vari frammenti che Picasso intende rappresentare. Il colore è del tutto assente per accentuare la carica drammatica di quanto è rappresentato. Il posto centrale è occupato dalla figura di un cavallo.
Ha un aspetto allucinato da animale impazzito. Nella bocca ha una sagoma che ricorda quella di una bomba. È lui la figura che simboleggia la violenza della furia omicida, la cui irruzione sconvolge gli spazi della vita quotidiana della cittadina basca. Sopra di lui è posta un lampadario con una banalissima lampadina a filamento.
È questo il primo elemento di contrasto che rende intensamente drammatica la presenza di un cavallo così imbizzarrito in uno spazio che era fatto di affetti semplici e quotidiani. Il lampadario, unito al lume che gli è di fianco sostenuto dalla mano di un uomo, ha evidenti analogie formali con il lampadario posto al centro in alto nel quadro di Van Gogh «I mangiatori di patate». Di questo quadro è l’unica cosa che Picasso cita, quasi a rendere più esplicito come il resto dell’atmosfera del quadro di Van Gogh – la serenità carica di valori umani di un pasto serale consumato da persone semplici – è stata drammaticamente spazzata via.
Al cavallo Picasso contrappone sulla sinistra la figura di un toro. È esso il simbolo della Spagna offesa. Di una Spagna che concepiva la lotta come scontro leale e ad armi pari. Uno scontro leale come quello della corrida dove un uomo ingaggia la lotta con un animale più forte di lui rischiando la propria vita.
Invece il bombardamento aereo rappresenta quanto di più vile l’uomo possa attuare, perché la distruzione piove dal cielo senza che gli si possa opporre resistenza.
La fine di un modo di concepire la guerra viene rappresentato, anche in basso, da un braccio che ha in mano una spada spezzata: la spada, come simbolo dell’arma bianca, ricorda la lealtà di uno scontro che vede affrontarsi degli uomini ad armi pari.
Il pannello si compone quindi di una serie di figure che, senza alcun riferimento allegorico, raccontano tutta la drammaticità di quanto è avvenuto. Le figure hanno tratti deformati per accentuare espressionisticamente la brutalità dell’evento. Sulla sinistra una donna si dispera con in braccio il figlio morto. In basso è la testa mutilata di un uomo. Sulla sinistra, tra case e finestre, appaiono altre figure. Alcune hanno il volto incerto di chi si interroga cercando di capire cosa sta succedendo. Un’ultima figura sulla destra mostra il terrore di chi cerca di fuggire da case che si sono improvvisamente incendiate.
Guernica è l’opera che emblematicamente rappresenta l’impegno morale di Picasso nelle scelte democratiche e civili. E quest’opera è stata di riferimento per più artisti europei, soprattutto nel periodo post-bellico, quale monito a non esentarsi da un impegno diretto nella vita civile e politica.
Se la produzione cubista è stata sicuramente quella che più ha portato Picasso alla ribalta internazionale, grande fortuna critica hanno ricevuto anche i periodi iniziali della sua attività.
Quei periodi che normalmente sono definiti «blu» e «rosa». Questo quadro appartiene al periodo «blu», come facilmente si può vedere dalla tonalità dominante nel quadro.
Una famiglia povera, padre madre e figlio, sono su una spiaggia solitaria, a piedi nudi e con il capo chino. È un’immagine di grande mestizia, ed è questo il sentimento che prevale in tutta la produzione del periodo «blu».
Da notare, ovviamente, la grande padronanza dei mezzi tecnici di Picasso e la sua grande capacità di essere, già a 22 anni, padrone del linguaggio pittorico.
A partire dal 1905 la tavolozza di Picasso acquista maggior vivacità, ed i suoi quadri perdono quella dominante «blu», simbolo di tristezza, del periodo precedente.
I soggetti rimangono quasi analoghi, ma ad essere preferiti, rispetto ai poveri, sono gli artisti di circo e gli acrobati. Nei quadri di questo periodo si avverte inoltre una semplificazione maggiore del disegno, ma una nuova ed inedita composizione dei piani di vista e di giacitura, che, per certi versi, già preannunciano il cubismo.
Si noti, ad esempio, in questa tela, il bambino in braccio alla donna: la sua posizione ha rotazioni impossibili da un punto di vista anatomico. La sua immagine si giustifica solo con un movimento del bambino, che quindi già introduce la componente temporale nella rappresentazione figurativa
Ambroise Vollard è stato uno dei maggiori galleristi e mercanti d’arte parigini nel periodo tra fine Ottocento e inizi Novecento. La sua attività è stata molto importante per consentire la conoscenza e la diffusione di molti artisti del periodo postimpressionista e delle avanguardie storiche. In contatto quindi con grandi talenti, di lui ci rimangono numerosi ritratti, tra cui uno eseguito da Paul Cezanne.
Tuttavia questo di Picasso, se confrontato con le foto di Vollard, appare straordinariamente somigliante, pur con una tecnica realizzativa molto poco ortodossa per un ritratto. Siamo, ovviamente, nel periodo del cubismo analitico, e lo stile di Picasso si riconosce soprattutto per queste numerose sfaccettature.
I suoi quadri appaiono un po’ come un’immagine riflessa in uno specchio rotto, i cui frammenti riflettono porzioni dell’immagine da diverse angolazioni, ma che riescono a comporsi lo stesso nel nostro occhio per farci capire qual è la cosa riflessa dallo specchio in frantumi.
Opera del periodo sintetico, questa natura morta, come altre dello stesso periodo, rappresenta un momento di sperimentazione artistica molto importante. In pratica, ricorrendo al collage di frammenti veri quali un giornale e un pezzo di carta da parati, per la prima volta, un pittore non si preoccupa di rappresentare aspetti o frammenti della realtà, un giornale e un pezzo di carta da parati, per la prima volta, un pittore non si preoccupa di rappresentare aspetti o frammenti della realtà, ma inserisce la realtà stessa nella sua rappresentazione.
Dopo che per secoli e millenni la linea di confine tra realtà e rappresentazione era stata sempre rispettata, improvvisamente l’artista varca questa linea, e l’arte cambia improvvisamente di significato. Non è più lo specchio in cui la realtà si riflette, ma l’arte tende a confondersi con la realtà stessa. L’evento, quindi, ha significati e valori ben più profondi che non la semplice invenzione del nuovo mezzo espressivo del "collage".
Negli anni del secondo dopoguerra, Picasso, oramai divenuto il pittore vivente più noto e celebrato, non mancò di praticare un’arte dal forte impatto visivo, senza mai nulla concedere al facile apprezzamento del pubblico. Volutamente complesse sono soprattutto le numerosissime tele che egli produce come opere «d’apres» di famosi capolavori del passato. Ridipinge, interpretandoli in chiave cubista-espressionista, pittori a lui cari quali Velazquez, Goya, Delacroix, Manet ed altri. Molto studiata fu soprattutto la «Colazione sull’erba» di Manet, al quale Picasso dedicò una quarantina circa di tele, di cui quella qui rappresentata è un esempio.
Fonte: http://www.russell-newton.it/dentro_scuola/mat_didattici/files/ricerca_POST_IMPRESS_CUBISMO_ESPRESSIONISMO.doc
Sito web da visitare: http://www.russell-newton.it/
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