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Considerato il padre della nuova pittura dopo il conservatorismo bizantino, Giotto nacque da Bondone, poverissimo «lavoratore di terra». Vasari, primo scrittore di biografie di artisti, nelle sue Vite, (1555, 1568), racconta che all'età di dieci anni gli furono affidate in custodia dal padre alcune pecore ed egli, spinto da una naturale inclinazione, andava tracciando vari disegni sulle pietre o in terra. Un giorno passò dalle sue parti Cimabue che lo vide intento a ritrarre una pecora; stupito dalla sua bravura chiese al padre di poterlo condurre con sé a Firenze nella sua bottega. Questo racconto, preso dai Commentari, (1447-55) di Ghiberti, sembra una favola, tale da confermare e sottolineare la fama di un artista che da umili origini salì per merito del proprio ingegno a grandi altezze. In un Commento anonimo della Divina Commedia scritto alla fine del XIV secolo, pubblicato a Bologna (1866-74), si legge invece che il padre di Giotto l'aveva messo a bottega per apprendere l'Arte della lana. Egli, invece di recarsi al lavoro, andava nella bottega di Cimabue dove infine rimase per le pressioni del maestro e con il consenso paterno. L'anonimo ne sottolinea anche l'eloquenza con un altro episodio. Mentre Giotto dipingeva a Bologna, un cardinale lo andava a trovare spesso intrattenendosi con lui. Un giorno gli domandò come mai si ritrassero i vescovi con la mitra. Giotto rispose che le due corna dimostravano che i vescovi dovevano conoscere il Vecchio e il Nuovo Testamento. Il cardinale compiaciuto gli domandò allora il significato delle due bende che pendevano dietro il copricapo liturgico; e Giotto, accortosi della trappola, rispose che esse significavano l'ignoranza che a quel tempo dimostravano i pastori della chiesa e del Nuovo e del Vecchio Testamento. Questi aneddoti sul suo ingegno e sulla sua abilità rientrano nelle leggende che Firenze stessa diffuse sulla fama di Giotto manifestando l'orgoglio comunale per la grandezza di questo suo cittadino.
Consapevolezza di un'arte nuova
I contemporanei si convinsero immediatamente dell'importanza della sua pittura. Dante nella Divina Commedia celebra l'amico con la nota terzina: «Credette Cimabue nella pittura/ tener lo campo, e ora ha Giotto il grido/ si che la fame di colui oscura» (Purgatorio, XI, 94-96). Boccaccio nel Decameron (1349-53) dice che per merito di Giotto «quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni, che più a dilettar gli occhi degli ignoranti che a compiacere allo 'ntelletto de' savj dipingendo, era stata sepulta» (Novella V, giornata VI). È questo un esplicito riconoscimento della lucida coscienza di una nuova era, opposta al mosaico bizantino, tutto luce e oro, che affascinava chi non si lasciava guidare dalla ragione ma solo dal piacere della vista. Nella Lettera ai posteri (1370-71) Petrarca afferma che la bellezza dell'arte di Giotto si comprende più con l'intelletto che con gli occhi. Cennino Cennini con chiaro senso critico scrive che «Giotto rimutò l'arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno; ed ebbe l'arte più compiuta che avesse mai più nessuno» (Il libro dell'arte 1370), rifiutando quindi la tradizione bizantina (greco) per adottare un linguaggio moderno fondato sulla cultura latina Per Filippo Villani, nel libro che scrisse in lode di Firenze (1381-82), Giotto è diventato uguale per fama ai pittori antichi e anche superiore, affermandone il valore assoluto e determinandone il carattere, che è significato dalla sua cultura storica e dal suo desiderio di gloria: segni evidenti della sua modernità. È da tutti accettato che Giotto fu discepolo di Cimabue e in poco tempo non solo eguagliò lo stile del maestro, ma lo superò allontanandosi dai modi ieratici e statici della pittura precedente per ritrarre le figure con più naturalezza e gentilezza. Fu Lorenzo Ghiberti nel Commentario secondo a scrivere infatti che egli «lasciò la rozzezza de' Greci... arrecò l'arte naturale e la gentilezza con essa, non uscendo dalle misure». Abbandonò quindi la rigidità d'espressione dell'arte bizantina proponendo una novità che non esce però da un senso di misura morale, che non lascia cioè esasperare i sentimenti. La sua naturalezza non significa osservazione diretta del vero; essa «è recuperata dall'antico attraverso il processo intellettuale del pensiero storico» (G. C. Argan). La lezione non propone quindi modelli da seguire, ma è esperienza storica da rivivere nel presente. Nonostante la coscienza di un'arte nuova, E. H. Gombrich fa rilevare che Giotto nei suoi metodi è molto debitore dei maestri bizantini, e nelle finalità e negli orientamenti della sua arte deve molto anche agli scultori delle cattedrali del Nord, cioè la sua novità è pur sempre inserita in un divenire storico.
Gli affreschi della cattedrale di Assisi
Non si hanno notizie certe sulle prime attività di Giotto. Negli affreschi della basilica superiore di San Francesco ad Assisi per esempio, nella parte alta della navata, le storie dell'Antico e del Nuovo Testamento mostrano una qualità pittorica così diversa, una sintesi tra l'esperienza lineare di Cimabue e il colore plastico di Pietro Cavallini, che la critica ha creduto di riconoscervi il giovane Giotto. Subito dopo il 1296 il nuovo ministro generale dei Francescani, fra' Giovanni di Muro, lo chiamò a dipingere nella chiesa superiore affidandogli l'incarico del ciclo delle Storie di San Francesco (1296-1300) nella parte inferiore della navata. Sono 28 riquadri sottostanti le finestre che si rifanno alla Leggenda maior di san Bonaventura come tema e come ispirazione. L'episodio di L'omaggio dell'uomo semplice che «ispirato da Dio», ogni volta che incontrava Francesco subito stendeva ai suoi piedi il mantello, proclamando che sarebbe diventato un giorno degno di ogni riverenza», mostra sullo sfondo la Torre del popolo di Assisi incompiuta, particolare prezioso per la datazione di questo ciclo di affreschi poiché essa fu terminata nel 1305. Giotto narra gli episodi più popolari della vita di Francesco, come Il dono del mantello al povero: «Or avvenne che si incontrò con un cavaliere nobile, ma povero e malvestito; mosso a compassione, spogliatosi lo rivestì»; Il miracolo della fonte: «Trovandosi il Santo su un arido monte con un povero stremato dalla sete, mosso a compassione, implorò e ottenne dell'acqua fresca e zampillante da una roccia; La predica agli uccelli: «Un'altra volta incontrando una moltitudine di uccelli, salutandoli li esortò: «Fratelli miei uccelli, lodate grandemente il vostro creatore che vi diede penne per volare e vi concesse di dimorare nella limpidezza dell'aria e nei cieli»». Ma il pittore trasferisce con una nuova dimensione lo spazio e l'umanità dei personaggi nella concretezza della vita quotidiana dando spazio reale al leggendario. L'azione non si esprime in gesti concitati, ma in un equilibrio che riporta alla classicità. Lo spazio è costruito e disposto in tutto il riquadro e l'azzurro del cielo ne è suggello. Non c'è tra le varie storie una continuità di narrazione: ogni rapporto consiste tra lo spazio del dipinto e quello architettonico della navata. Le città medievali con gli edifici e i personaggi reali negli abiti del tempo di Giotto, appaiono in La rinuncia ai beni paterni: «L'amante vero della povertà non indugiò un minuto. Eccolo dinanzi al Vescovo. In un baleno, alla presenza di tutti si spoglia e ridona le vesti a suo padre»; in La cacciata dei demoni da Arezzo: «Trovandosi ad Arezzo quando la città era tutta sconvolta da lotte, vide demoni esultanti che incitavano i cittadini all'odio. Mandò allora frate Silvestro alla porta della città perché li cacciasse. Questi cominciò a gridare: «In nome di Dio, via di qui demoni tutti»; in La predica dinanzi a Papa Onorio III: «una volta, indotto dal Signore di Ostia, il Santo aveva imparato a memoria un discorso con tutti gli artifici della retorica da recitare al cospetto del Papa e dei cardinali. Quando però si trovò in loro presenza, dimenticò tutto. Allora sorridendo, confessato pubblicamente com'erano andate le cose, invocò lo Spirito Santo, ed eccolo pronunziava parole così efficaci da commuovere i presenti»; in L'improvvisa morte del cavaliere di Celano: «Un giorno il Santo fu invitato a pranzo da un cavaliere. Entrato nella casa, prima di prender cibo Francesco compì la preghiera e rimase un po' con gli occhi al cielo. Tornato in sé, chiamò in disparte l'ospite dicendogli:«Ecco, fratello, ascolta prontamente i miei consigli, giacché non è qui che mangerai. Confessa i peccati pentendoti». Il cavaliere obbedì, mise in ordine la sua casa e si preparò. Sedutisi a tavola d'improvviso spirò; secondo la parola del Santo». I vari episodi della vita di Francesco sono descritti in modo tale che rivelino la storia: la realtà borghese e mercantile della Firenze dell'Arte della lana e dei banchieri; la Chiesa che, travagliata da crisi interne, aveva bisogno di un nuovo spirito evangelico: Francesco ripara la mia casa, sono le parole del Crocifisso a Francesco: «mentre era presso la chiesa di San Damiano che decrepita minacciava di crollare». Tuttavia non è quell'edificio ma la Chiesa di Roma ad aver bisogno di lui, così come in Il sogno di Papa Innocenzo III: « papa Innocenzo III vide in sogno la basilica del Laterano sul punto di crollare, e un tale, un poverello che la sosteneva con le sue spalle perché non cadesse». L'apparizione al capitolo di Arles: «Ai capitoli provinciali Francesco non poteva essere presente di persona, ma inviava sollecite direttive. Qualche volta vi compariva però in forma visibile», rivela ormai la stabilità dell'Ordine fondato dal Santo che preferì invece l'umiltà di una vita vissuta secondo il Vangelo preso alla lettera. Il presepe di Greccio: «Onde però non esser tacciato di stranezze, chiesta licenza al Papa, fece allestire un presepe con fieno e accanto un bue e un asino. Un cavaliere affermò di aver veduto nella greppia un fanciullo addormentato e Francesco che lo spingeva fra le braccia»; La prova di fuoco davanti al Sultano: «Meravigliato di tanto ardire, chiese da chi fosse stato mandato. Il Poverello rispose che non un uomo, ma Dio stesso lo inviava»; Francesco riceve le stigmate: «Pregando lassù al monte della Verna, vide Francesco il Cristo in aspetto di Serafino crocefisso il quale gl'impresse nel corpo le stigmate della passione. Queste scene vogliono rappresentare dei fatti storici di un Santo che ebbe un ruolo storico ben stabilito in una realtà precisa e individuabile. A questo stesso periodo appartiene il dipinto su tavola con il Cristo crocifisso (1296-1300) per la chiesa di Santa Maria Novella a Firenze ormai lontano dagli schemi iconografici bizantini del maestro Cimabue e più teso invece alla rappresentazione naturale del dolore fisico.
L'attività' nella capitale e a Padova
Nel 1300 Giotto si recò a Roma chiamato dal papa Bonifacio VIII in occasione del giubileo. Vi dipinse un affresco nella basilica di San Giovanni in Laterano con la scena del papa che indice l'anno giubilare; compose un mosaico per la facciata di San Pietro con la Navicella degli Apostoli, opere che purtroppo sono entrambe pervenute in maniera frammentaria e in pessime condizioni per i vari rifacimenti delle due chiese. A Roma Giotto tornò più volte; nel frattempo la sua fama gli procurava importanti commissioni. Enrico degli Scrovegni lo chiamò a Padova per decorare le pareti della cappella (1303-10), che egli aveva fatto costruire sui ruderi della arena romana, dedicandola alla Madonna della Carità in espiazione delle colpe del padre che era stato finanziere e usuraio, tanto famoso da essere ricordato da Dante nel canto XVII dell'Inferno. I muri nudi della cappella, privi di membrature architettoniche, presenti invece nella basilica di Assisi, furono ricoperti interamente da dipinti: sulle pareti, le Storie della Vergine e di Cristo con i vari episodi dalla Cacciata di Gioacchino dal tempio fino alla Pentecoste, sono disposte su tre ordini sovrapposti, incorniciate da fasce dipinte con medaglioni di santi e profeti, al di sopra di uno zoccolo con riquadri di finto marmo, alternati a figure allegoriche di Virtù e Vizi. La volta a botte, azzurra e stellata, accoglie altri tondi; nella controfacciata la scena del Giudizio finale con il ritratto di Enrico Scrovegni che offre alla Madonna il modello della cappella. Fra gli affreschi dell'arco trionfale, disposti simmetricamente, vi sono dipinti due spazi senza figure, detti coretti o cappelle segrete che nella finzione di due vani coperti a crociera danno l'illusione della profondità spaziale. Una conquista senza paragoni che era già stata tentata negli affreschi di Assisi: Il presepe di Greccio infatti, con i vari elementi del ciborio e del leggio da una parte e l'ambone e il crocifisso dall'altra, vogliono appunto suggerire la profondità dello spazio. La ricerca giottesca a Padova si approfondisce in valori spaziali e plastici: le figure dipinte ricordano le sculture gotiche poiché su una superficie piatta egli crea con i colori graduati dalla luce l'illusione della profondità. Nel Compianto su Cristo morto la scena è descritta in modo tale che allo spettatore sembra di essere testimone di un fatto vero i cui personaggi rivelano l'intensità drammatica e si muovono in uno spazio libero e reale, pur senza trascendere il senso di misura. La continuità fra Antico e Nuovo Testamento trova il suo punto espressivo nel rapporto tra la Madonna e il Cristo; ma per Giotto è anche il punto culminante della storia dell'umanità cui la presenza reale di Cristo pone l'alternativa morale del bene e del male, come sottolinea Argan. Per far fronte ai numerosi lavori Giotto si avvaleva di aiuti ai quali talvolta affidava la stesura pittorica, riservandosi però le parti più importanti e difficili. Così l'invenzione resta sua e la novità è immediatamente rivelabile come nella Maestà degli Uffizi (1305-10), proveniente dalla chiesa Ognissanti. Non c'è più il tono distaccato, ieratico delle Madonne bizantine, ma l'umanità e la realtà fisica della Vergine.
Le ultime opere di Giotto
Firenze rimase pur sempre il centro dell'attività di Giotto nonostante le sue permanenze a Roma, Assisi, Rimini e Padova. Nel 1328 si recò anche a Napoli e quindi a Milano (1335-36), ma non resta più traccia della sua opera anche se gli furono attribuiti molti lavori data la fama e la sequela di vari artisti che si rifecero al suo stile. Molti dipinti su tavola riportano anche il suo nome ma sono completamente o in parte opere di bottega. Le fonti, fra cui quella di Vasari, riportano la notizia di affreschi per quattro cappelle nella Chiesa di Santa Croce a Firenze. La decorazione di due di esse è andata completamente distrutta, mentre, nonostante i vari restauri, restano in condizioni non certo ottimali gli affreschi della cappella Peruzzi con le Storie di san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista (1315-20) e quelli della cappella Bardi con Storie di san Francesco (1325). Anche questa volta i committenti, i Bardi e i Peruzzi, ricchi banchieri fiorentini, sono rappresentanti altolocati della società del tempo e le opere sono senz'altro di alta qualità. La lezione di colore appresa nel Veneto ormai è una sicura acquisizione che Giotto approfondisce fondendola con la visione spaziale che conferisce un senso di serenità e coralità al tempo stesso. Negli affreschi della cappella Bardi egli riprende il tema di Assisi con maggiore commozione umana comunicandolo in un linguaggio pittorico che da poesia si fa prosa.
Il campanile di Santa Maria del Fiore
Nel 1334 Giotto, che aveva già dimostrato interesse e una certa competenza in campo architettonico, avvertibile anche in alcuni affreschi, fu nominato magister et gubernator dell'Opera del duomo e il suo interesse si appuntò sulla costruzione del campanile accanto alla cattedrale. Egli progettò il modello, «che fu di quella maniera tedesca che in quel tempo s'usava, disegnò tutte le storie che andavano nell'ornamento, e scompartì di colori bianchi, neri e rossi il modello in tutti que' luoghi, dove avevano a andare le pietre e i fregi, con molta diligenza» (G. Vasari, Vite). L'idea fu completamente nuova rispetto ai modelli tradizionali e, nonostante la morte di Giotto che ne diresse personalmente la costruzione fino alla prima cornice, la torre con gli spigoli sottolineati dai torrioncini poligonali e l'apertura progressiva e finale verso l'alto delle bifore fu compiuta successivamente da Francesco Talenti. Al riguardo di quest'opera è interessante l'annotazione dell'anonimo del XIV secolo, secondo il quale Giotto vi commise due errori: «L'uno che non ebbe ceppo da piè, l'altro che fu stretto»; perciò si afflisse tanto che si ammalò e morì. Villani ne registra la morte di ritorno dal suo viaggio a Milano, presso Azzone Visconti, dove era stato inviato dal Comune di Firenze.
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