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Marcel Duchamp
Marcel Duchamp (1887-1968), post moderno ante litteram, è oggi considerato l’artista più influente del Novecento, un ruolo che solo pochi anni fa si sarebbe assegnato a Picasso: e lo spostamento dall’uno all’altro segnala un cambiamento completo di paradigma artistico, da un’arte fondata sul valore estetico a un’arte di segno mentale e concettuale.
Eppure la fama di Duchamp è recente. Nel 1913 era già molto noto come pittore, ma, dopo la sua (presunta, come vedremo) rinuncia a produrre arte nel 1923, lo si è riscoperto solo a partire dagli anni Cinquanta: nel 1954 apriva al pubblico la collezione Arensberg a Filadelfia, dove la maggior parte delle sue opere sono conservate; del 1959 è la prima monografia su di lui di Robert Lebel, del 1963 la prima retrospettiva al Pasadena Museum of Art. Questa attenzione nasce in coincidenza col sorgere di una nuova generazione artistica interessata al suo lavoro.
In effetti ci sono tanti Duchamp quanti interpreti della sua opera: l’alchimista di Arturo Schwartz, il maestro dell’occulto di Jack Bunham, l’astuto manipolatore della propria immagine di Gianfranco Baruchello, il razionalista critico di Pierre Cabanne, il nevrotico fallito di Alice Goldfarb Marquis, l’impostore psicotico di Donald Kuspit, lo scettico pirroniano di Thomas McEvilley.
Per tutti questi studiosi, gli anni 1912-13 della carriera di Duchamp rivestono un’importanza centrale.
Fino al 1912 era un pittore modernista, come rivela il
Nu descendant un escalier n. 2, 1912
Gli incontri tra intellettuali e artisti tenuti a Puteaux, nella casa estiva del fratello Raymond, lo avevano messo in contatto con la cerchia cubista di Gleizes, Metzinger, Léger, Picabia; il quadro unisce infatti un vocabolario cubista a uno spunto futurista (anche se Duchamp negava ogni debito verso i futuristi). Dunque, fino a questo momento è legato a concetti come abilità manuale, perfezione formale, ispirazione soggettiva. Improvvisamente, abbandona tutte queste idee e con esse la pittura, attività “retinica” di limitato orizzonte (“stupido come un pittore”, soleva dire; riprenderà i pennelli un’ultima volta con Tu m’…, nel 1918). A partire da questo momento, mette in primo piano il caso:
Trois stoppages étalon, 1913
In cui tre spaghi di 3 metri vengono fatti cadere dall’altezza di 1 m su una superficie su cui poi le loro configurazioni casuali vengono fissate, e quindi usate per ritagliare sagome che sono “campioni” molto strani visto che cambiano forma e misura dall’uno all’altro.
Il caso è per lui un mezzo per mettere in crisi l’autografia dell’opera; a questo scopo risponde l’invenzione del ready made:
Ruota di bicicletta, 1913
(il nome ready made è del 1915, dopo che D in America scopre gli abiti in serie)
Fountain 1917
R. Mutt = Richard, slang francese per “ricco”, più Mott (la fabbrica di sanitari), più Mutt (un personaggio dei cartoon dell’epoca). Differenza rispetto all’objet trouvé, oggetto recuperato dall’artista per le sue qualità sentimentali o allusive. Per D alla base della scelta sta l’indifferenza visiva. Non intende nobilitare l’orinatoio o mostrarne la bellezza (anche se ci fu, tra i difensori, chi vide nelle sue linee curve la grazia di un Buddha) ma sottoporre a test il contesto istituzionale in cui veniva esposto, quello della mostra della Society of Independent Artists di New York, in cui lo stesso artista –giunto negli USA preceduto dalla fama di ardito innovatore creatagli dal Nu descendant un escalier (che dopo il ritiro dal Salon d’Automne parigino del 1912 era stato esposto con trionfale successo all’Armory Show, la prima esposizione d’avanguardia tenuta a New York nel 1913) - era presidente del comitato di allestimento. La mostra si svolgeva all’insegna del motto “niente giuria, niente premi”, a sua volta mutuato dalla Società des Artistes Indépendants di Parigi, fondata nel 1884 dai Neoimpressionisti con l’intento di rompere l’egemonia degli accademici sui Salon ufficiali. Nella mostra di NY come in quella di Parigi, chiunque poteva esporre, dietro pagamento di una modesta tassa d’iscrizione; e difatti a New York esposero bambini (il foglio dell’illustratore Rockwell Kent, anni 9), signorine e dilettanti. In altre parole, si legittimava qualsiasi cosa, indipendentemente da ogni criterio di qualità.
Duchamp prese gli Independent Artists in parola: presentando anonimamente Fountain, mise alla prova l’associazione. Questa non passò il test (l’opera fu rifiutata), ma Fountain lo passò, nel senso che è rimasto nella storia come un’opera d’arte, e come un’opera d’arte decisiva per la vicenda dell’arte contemporanea, in quanto ridisegnava i confini di cosa poteva essere inteso come arte. Non era pittura, non era scultura, né disegno, né incisione; non rientrava in nessuna categoria nota, ma era “arte” in un senso del tutto nuovo. Duchamp era riuscito a spostare il discorso da questioni estetiche o di gusto (“è buona o cattiva pittura?”) a questioni ontologiche (“cos’è l’arte?”), epistemologiche (“come la conosciamo?”) e istituzionali (“chi la determina?”). Con Fountain nasce quella che Thierry de Duve, un critico e teorico francese, ha definito nel suo libro Kant after Duchamp (1996) come “arte in generale”, senza specificazioni tecniche ma con un preciso retroterra filosofico.
Divide i ready made in quelli semplici e quelli “rettificati”, come appunto Fountain e la Ruota di Bicicletta. Semplice è invece lo
Scolabottiglie 1914
Acquistato così com’era da un vinaio e semplicemente cambiato di contesto.
Ancora: lascia l’abilità pittorica per uno stile da disegno tecnico
Macinatrice di cioccolato, 1914
rifiutando il segno espressivo, traccia della presenza forte dell’autore.
Inizia a utilizzare elementi verbali, giochi di parole; introduce l’ironia e lo scherzo:
L.H.O.O.Q., 1919
Atto dissacrante nei confronti di un’opera celebratissima, e con essa dell’”aura” dell’opera d’arte, ma anche ironica riflessione sull’androgino.
Cos’è che ha trasformato un pittore cubista come tanti altri in un eccentrico dissacratore e sperimentatore?
Per Jack Bunham (art. primi anni 70) fa un viaggio a Monaco nel 1912 in cerca di oscuri testi alchemici che ne determinano la svolta. Per Marquis ed altri, questa si deve al rifiuto del Nu descendant un escalier n. 2 al Salon des Indépendants del 1912, fallimento che lo costringe a fare i conti con la sua inadeguatezza pittorica e a cercarsi una carriera che lo liberi dallo sgradevole confronto con i più dotati fratelli Jacques Villon e Raymond Duchamp Villon.
Un altro approccio al tema è quello psicoanalitico introdotto da Jean Reboul nel 1954, che vede un Duchamp “schizofrenico”; interpretazione che Arturo Schwartz coniuga con quella alchemica. Secondo Schwartz, Duchamp era ossessionato a livello inconscio dal desiderio incestuoso per la sorella Suzanne; alle nozze di questa nel 1911, la sua vita e la sua arte ne furono sconvolte. Per reprimere questo sentimento angoscioso abbandona la pittura, troppo coinvolgente emotivamente, per un’arte spersonalizzata. Il desiderio inappagato per Suzanne si identifica con l’eterno inseguimento dell’unione alchemica, il cui sempre rinviato adempimento è la forza che muove il mondo.
Questo è il tema del
Grande Vetro (La Mariée mise à nu par ses célibataires, même ; 1915-lasciato volontariamente incompiuto nel 1923)
Metafora dell’attività autoreferenziale in un mondo mosso dal desiderio inappagato.
Oggetto inclassificabile, con elementi della vetrata, della pittura, scultura, ebanisteria, la cui visione è un’esperienza comunitaria, dato che attraverso di esso si vedono gli altri spettatori. La divisione in 2 parti è stata messa in rapporto con quella delle pale d’altare (sfera celeste e terrena, la prima frontale, la seconda in prospettiva), la mariée con la Madonna, la forma quadrangolare in b a s con il sarcofago da cui la Madonna si leva nell’Assunzione della Vergine, ecc.
Nella parte superiore, la Sposa è un insetto stile cubista (definita da D impiccato femmina, scheletro, vergine, macchina per arare). In basso, i 9 scapoli simboleggiati da divise vuote (corazziere, domestico, barista, prete, ecc.) ruotano su se stessi spinti dalle pale di un mulino, andando avanti e indietro come in un coito; i bastoni sopra di loro si aprono e chiudono a forbice, muovendo il carrello su cui poggia la giostra. Il movimento è azionato dalla macinatrice di cioccolato (simbolo di desiderio e prefigurazione del piacere). Al di sopra, i coni-setacci destinati a purificare il desiderio, da cui dovrebbero uscire gli schizzi della “benzina d’amore” degli scapoli, per fecondare la sposa. Ma gli schizzi sbagliano mira, come indicano i fori (spari lanciati da un cannone giocattolo) nella parte destra del pannello superiore.
Temi cari a Duchamp ricorrono nell’opera: il caso (la polvere lasciata depositarsi e fissata sui coni-setacci; il fatto stesso che il supporto sia vetro, e quindi rifletta immagini sempre diverse; la decisione, dopo la rottura dell’opera nel 1926, di integrare la rottura nel lavoro, attraverso una piombatura dei pezzi); l’indice, ossia quel tipo di segno che, a differenza del simbolo (convenzionale: la parola) o dell’icona (rappresentativa: l’immagine) è prodotta dalla traccia dal proprio referente, ed è perciò un messaggio senza codice. La polvere è anche una traccia; gli spari-schizzi idem, e così nella parte alta i cosiddetti “pistoni di corrente d’aria” (i quadrati nella “via lattea” che emana dalla sposa, ottenuti sospendendo di fronte a una finestra aperta uno strofinaccio e fotografando per tre volte le sue deformazioni prodotte dal vento, quindi usando le sagome registrate sulla foto come stampi da cui trasferire le forme sul vetro; o secondo altri facendo cadere uno strofinaccio e riproducendone la forma. Comunque secondo una procedura analoga a quella dei Stoppages étalon.
Seguendo Thierry de Duve, potremmo interpretare questa complessa allegoria come un commento sul destino del pittore, trasformato dall’industrializzazione in un “macinatore di cioccolata” (masturbatore), e del suo desiderio inappagato per la sposa (la Pittura). Il pittore è diventato inutile e disoccupato, visto che la produzione industriale del colore – lo strumento base del suo mestiere – è passata all’industria, distruggendone il fondamento materiale
Quando il vetro del Grande vetro si rompe, Duchamp non lo sostituisce perché sente che le rotture “riportano il lavoro nel mondo reale”: cioè dà a D dell’altro lavoro da fare e suscita nello spettatore l’idea che sia da riparare, spingendolo a completarlo/ripararlo con l’immaginazione.
In effetti per Duchamp l’interpretazione dello spettatore completava l’opera: l’arte diviene tale quando viene esperita. Così il ready made è definito “una sorta di rendez-vous”. La scelta dell’oggetto non è un atto aggressivo da parte dell’artista ma un incontro basato sul caso (a chi gli chiedeva come scegliesse i readymade, rispose che erano loro a sceglierlo), o tutt’al più un impegno formalizzato tra due parti consensuali.
Sul tema dell’indice si incentra un’altra opera eseguita da D. durante il periodo in cui lavorava al Grande vetro,
Tu m’, 1918
Si tratta dell’ultimo quadro da lui dipinto. Il titolo viene da “tu m’emmerdes”, tu mi scocci. (Chi? La pittura, probabilmente.) Nel quadro campeggiano una serie di indici e di tracce, costituite dalle ombre di altrettanti readymade: riconosciamo la ruota di bicicletta. A sin. sono riprodotti i Trois stoppages étalon, utilizzati anche come sagome per realizzare le linee colorate a d. che ne ripetono la forma. Al centro, una mano che indica, dipinta da un pittore di insegne su commissione di D. L’indice, appunto. Ma un indice è lo stesso titolo. Nella lingua, parole che “indicano” sono questo, quello, oggi, ora, qui; e anche io e tu. Tecnicamente sono definiti come “sincategoremi”, una sottoclasse di indici il cui referente cambia da un momento linguistico all’altro (perciò li si chiama anche shifters, commutatori). La presenza dei pronomi introduce un “punto di vista” nel discorso, localizza il soggetto nello spazio altrimenti impersonale del discorso. In Tu m’ D. però non dice “io”, dice “tu, a me”: il posto del soggetto non è chiaro, è per così dire laterale; come “laterale” è la rappresentazione degli oggetti nel quadro, distorti e dilatati come per effetto di anamorfosi. (L’anamorfosi è una specie di prospettiva doppia derivata dall’intervento di due punti di vista concorrenziali, uno frontale l’altro laterale). Il quadro, che sintetizza una serie di opere di D., è allora una specie di autobiografia, ma un’autobiografia che mette in discussione la centralità e l’univocità dell’io. In questo è un’opera molto vicina al Grande Vetro, anch’esso autobiografico nello stesso senso.
In uno degli schizzi per il Grande Vetro D ha scritto nella parte alta MAR (iée) e nella bassa CEL (ibataires) che insieme danno ‘Marcel’: l’opera è quindi un autoritratto, ma un autoritratto dove il soggetto è doppio e diviso. (Rosalind Krauss)
A questa identificazione personale con i protagonisti del Grande Vetro si lega l’invenzione, verso il 1920, di un alter ego femminile, Rrose Sélavy (da Rose c’est la vie, ma anche Eros c’est la vie), nei panni della quale realizza vari autoritratti fotografici. Successivamente, l’io diviso non sarà più soltanto alluso ma apertamente messo in scena.
Belle Haleine, eau de violette, 1921
Peraltro Duchamp è anche l’iniziatore delle opere incentrate sul corpo, sempre attraverso autoritratti che lo mostrano con il cranio rasato o con i capelli pieni di schiuma.
Tonsura, 1919:
foto di Man Ray in cui D appare col cranio rasato a stella, attraversato da una striscia: la tonsura caratterizza chi ha rinunciato al mondo per cercare la conoscenza, la stella è simbolo di illuminazione.
Per tornare alla lettura psicoanalitica-alchemica, l’atteggiamento di Duchamp nei confronti di questa era di tollerante, divertita ironia. Oggi la maggior parte degli studiosi non la condivide; anche se è vero che Duchamp attribuiva importanza più alla ricerca che all’adempimento. Ma la lettura di Schwartz è stata integrata nel 1980 da quella della Marquis (Marcel Duchamp: Eros, c’est la vie), secondo la quale il desiderio incestuoso per Suzanne porta Duchamp a una paralisi affettiva che lo spinge a lasciare la pittura per un’arte più spersonalizzata. In questa chiave interpreta l’atteggiamento distaccato, i rapporti superficiali con le donne, l’ossessione per i giochi (scacchi) come sostituto della vita, la proiezione in un alter ego femminile del suo io sessuale, e forse omosessuale, anelante a uscire dalla prigione che si era costruito. Altrettante strategie di spersonalizzazione sarebbero l’importanza data al caso, il ready made, il disegno tecnico, l’ironia, il distacco.
Anche per Donald Kuspit (1996) è uno psicotico che si dà al ready made in quanto incapace di creare arte: un impostore nella cui impostura sono cascati tutti.
Queste letture non tengono conto del fatto che l’espressione individuale non è sempre stata un valore nell’arte. E perché non considerare, oltre alle vicende personali, anche il ruolo delle circostanze culturali? Il culto dell’assurdo di Alfred Jarry, l’iconoclastia di Francis Picabia, il cui atteggiamento di negazione dandistica dovette contare molto per D, l’humour di Apollinaire, le ambiguità linguistiche di Mallarmé, le descrizioni di macchine per fare arte e l’uso del caso da parte di Raymond Roussel (Impressions d’Afrique, 1911; Roussel sceglieva una frase, ne costruiva una con suono analogo e senso diverso e poi inventava una storia di cui una era l’inizio e l’altra la fine).
Per Thomas Mc Evilley Duchamp sarebbe stato molto influenzato dalla lettura del filosofo Pirrone di Elide (IV-III sec. A.C) nel periodo (1912-13) in cui lavorava alla Biblioteca Ste Geneviève. Filosofo che da pittore si fece filosofo, per il quale niente esiste, la vita umana è governata dalla convenzione, il linguaggio non ha il potere di definire la realtà, e quindi bisognerebbe limitarne l’uso a scopi pratici (passami il sale) e rifugiarsi nell’afasia. Pirrone contesta la legge logica per cui una proposizione o è vera o è falsa, raccomanda la neutralità, l’indifferenza (apatheia) e l’imperturbabilità (ataraxia).
Duchamp dopo il 1913 parla ripetutamente della bellezza dell’indifferenza e afferma di non credere in niente.
Porta di rue Larrey, 11, 1927-64
Contesta il principio secondo cui una proposizione è vera o falsa (una porta o è aperta o è chiusa).
La posizione pirroniana che rigetta l’affermazione e la negazione conduce al famoso silenzio di Duchamp, artista in realtà molto loquace, ma attento a un uso del linguaggio che eviti di definire la realtà e, nelle note alla Scatola verde (1934) e alle altre, così criptico da lasciare aperta ogni interpretazione.
Duchamp disse una volta, in un’intervista a Pierre Cabanne, che si era impegnato a “rinunciare a ogni estetica nel senso corrente della parola”. Allude all’estetica kantiana.
Kant aveva distinto facoltà cognitiva (Critica della Ragion Pura), etica (Critica della Ragion Pratica) e estetica (Critica del Giudizio). Così facendo aveva posto le basi del formalismo: se solo la facoltà estetica portava al giudizio di gusto, da questo rimaneva esclusa ogni considerazione cognitiva o etica. Duchamp voleva restituire valore cognitivo all’arte: non a caso da lui discende la tendenza artistica che definiamo concettualismo, in cui la dimensione intellettuale e mentale dell’opera ha il primato su quella visiva ed estetica.
Nella Critica del Giudizio Kant distingue 4 momenti:
1. il puro giudizio estetico è senza concetto, non ha a che vedere con l’attività cognitiva
2. è universale, si basa sul senso comune; quindi un’opera è oggettivamente bella o brutta, buona o cattiva;
3. è senza scopo né funzione, il che implica la distinzione tra arte pura e applicata;
4. necessità a priori del giudizio estetico: questo è necessariamente corretto.
Con il ready made, Duchamp contesta l’universalità del giudizio (visto che si tratta di opere che dividono il pubblico) e rifiuta la separatezza dell’arte dal mondo; con l’inserimento dell’elemento linguistico in molte opere, comprese le famose scatole in cui include repliche in miniatura delle sue opere e appunti sulle stesse, contesta l’indipendenza dell’arte dai contenuti cognitivi.
Rifiuta l’idea, centrale in Kant, del gusto come costante universale e immutabile: per lui il gusto è un’abitudine che nasce dalla ripetizione; e ammonisce a non lasciarsi intrappolare dalla ripetizione (ad es. mette in guardia dal moltiplicare in ready made, che è esattamente quel che verrà fatto a partire dagli anni 90 del 900).
Ecco il perché, secondo Mc Evilley, della scarsità della sua opera, che la ripetizione avrebbe trasformato in uno stile come tanti (scarsità relativa, visto che il catalogo di Schwartz del 1968 elencava 421 opere e l’ultima ed. del 1997 ne include 663; ed altre continuano a venire alla luce man mano che, modificandosi la visione dell’artista, si dà importanza ad oggetti senza evidente intenzionalità artistica).
Duchamp rifiuta la sacralità dell’arte: questa non è via d’accesso all’universale e al sublime, ma un modo per evitare l’assolutizzazione del proprio io e delle proprie opinioni: il suo lavoro mina sistematicamente il concetto di aura.
L’idea che Duchamp abbia abbandonato l’arte dopo il 1923 è frutto di una costruzione volontaria. Nel 1938 progetta e dal 1946 al 1966 esegue Etant Donnés, capolavoro della maturità e pendant del Grande Vetro
Etant Donnés: 1. La chute d’eau 2. le gaz d’éclairage, 1938-66
Realizzata perché fosse esposta nel Philadelphia Museum nel 1969, l’anno dopo la sua morte, lasciò sconvolti gli studiosi. Si tratta di un peep show: attraverso i buchi di una porta di legno da fienile, lo spettatore è ammesso alla visione di un assemblaggio in cui un nudo femminile a gambe aperte è disteso sull’erba, con una lampada a gas in mano, contro uno sfondo di campagna.
Duchamp era noto come un artista concettuale, ma questa è una messa in scena erotica realisticamente esplicita. Inoltre, se il ready made aveva svalutato la manualità, Etant donnés è minuziosamente artigianale.
Eppure è un lavoro profondamente innovativo. Pensato per un museo, chiama in causa direttamente questo luogo cruciale per la legittimazione dell’arte contemporanea, compiendone una critica devastante. Secondo l’estetica kantiana (Critica del Giudizio, 1790) il giudizio estetico era disinteressato (privo di legami con la dimensione dell’utile o con quella della conoscenza) e al tempo stesso universale, valido per tutti. Questi due aspetti venivano (e vengono) rispecchiati dall’istituzione museo: un luogo la cui separatezza e neutralità dalla vita quotidiana mette in evidenza l’autonomia dell’esperienza estetica, e che al tempo stesso ne esalta la dimensione pubblica (lo spettatore partecipa di un’esperienza collettiva, condivisa con la comunità dei fruitori raccolti con lui davanti all’opera). Qui però il lavoro è visibile solo da una persona per volta, che nell’atto del guardarlo si espone a sua volta allo sguardo altrui, è colta sul fatto e –dato il carattere dello spettacolo cui è ammessa – anche in fallo. L’esperienza visiva qui non trascende il corpo ma lo mette in gioco nella sua carnalità. La messa in scena richiama quella dei modelli illustrativi della prospettiva rinascimentale, una parodia della finestra dell’Alberti; il punto di vista è in asse col sesso della donna.
Dürer, Macchina prospettica, dal Manuale del Pittore, 1525
Così Duchamp porta avanti quella “critica dell’istituzione” che aveva già cominciato con Fountain: lì interrogava i meccanismi di legittimazione dell’opera, qui le sue condizioni di fruizione e la sua pretesa autonomia.
(Il calco è probabilmente basato sul corpo di Maria Martins, scultrice, moglie dell’ambasciatore brasiliano a NY e amante di Duchamp tra il 1943 e il 1950. Duchamp le diede un’edizione della Boîte en valise con inserito il Paysage fautif (“dipinto” col suo sperma), nonché un disegno inedito per il Grande Vetro (appropriatamente, lo “scapolo” Duchamp, con cui Martins rifiutava di andare a vivere, le dà un’opera sul desiderio inappagato).
Esempio di voyeurismo provocatorio. Duchamp riesce nel suo progetto di provocare fin dalla tomba, svelando poco a poco i suoi segreti.
A Etant donnés si ricollegano 3 piccoli oggetti erotici dei primi anni 50, come
Feuille de vigne femelle, 1950
E in generale la creazione delle opere maggiori di Duchamp è accompagnata da una miriade di opere accessorie, difficili da identificare come tali a causa della loro estraneità ai canoni estetici in quel momento vigenti, e del fatto che eludevano il concetto di autografia, di identità dell’autore.
Tra queste opere rientrano anche le repliche, riproduzioni e versioni successive che mettono in atto un processo di autocitazione continua, con variazioni costanti, anche se minime, di scala, mezzo e formato. Le opere maggiori ne generano altre laterali che a loro volta gettano luce sulle prime. Il tutto punta a dissolvere i confini tra opera e mondo e tra un’opera e l’altra.
I rapporti tra questa costellazione di lavori vengono ulteriormente intensificati dalle note e progetti che Duchamp comincia a realizzare dal 1914. Di quell’anno è la prima delle Scatole che racchiudono una sintesi in miniatura del suo percorso artistico. Poi verranno La scatola verde (Boite en valise), 1934, La scatola bianca del 1967 e altri lasciti postumi. Piazza infatti quelle che sono state definite delle “bombe a tempo” destinate a esplodere dopo la sua morte. A Etant Donnée lega un Manuale di istruzioni che doveva essere, e fu, aperto 15 anni dopo la rivelazione dell’installazione; poi ci sono le note connesse alle 3 scatole del 1914, 1934 e 1967, che lasciò morendo e che furono pubblicate nel 1980 dal figlio adottivo Pierre Matisse.
Quanto alle repliche, la prima è del 1916: una foto colorata a mano di Nu descendant un escalier. Prima di una lunga serie, di cui alcune fatte a mano, altre no. Repliche del Grande Vetro di Richard Hamilton, Ulf Linde e altri, quelle dello Scolabottiglie comprate da rivendite commerciali da intermediari che seguivano le istruzioni di Duchamp.
La più ambiziosa è la
Scatola verde (Boîte en valise), 1934
Museo portatile con 69 riproduzioni in una valigetta diplomatica. Tiratura di 300; le edizioni de luxe con un originale inserito. Ricorda la valigia di un commesso viaggiatore.
Fino ad anni recenti, a parte la Boîte en valise, queste repliche sono state ignorate perché viste come mere riproduzioni. Ma si può vederle come parte integrante di un’attività intesa a minare, tra altri assunti modernisti, quello dell’autografia ed unicità dell’opera. Anche se con Duchamp le cose non sono mai così semplici: visto che il colore era applicato a mano con la tecnica dello stencil, questo trasformava le repliche in “coloriages originaux”. E poi le repliche dei ready made erano meno seriali degli oggetti medesimi.
Altra strategia diretta a questo sono i lavori in collaborazione. Si stanno ora rivalutando gli allestimenti da lui curati per le mostre surrealiste (1938, 1942, 1947, 1959, 1960), vere installazioni ante litteram: es
First papers of Surrealism, New York 1942
Con un intrico di fili tesi tra pavimento e soffitto.
Abbiamo visto che Duchamp emerge dopo la I guerra mondiale (come il dadaismo, di cui parleremo) e riemerge dopo la seconda, quando più chiara era la crisi dei valori da lui contestati. Negli anni 50 i giovani artisti scoprono il ready made, il ruolo del caso, dell’ironia, la tendenza all’interazione col pubblico (Duchamp diceva che l’opera veniva completata dal pubblico) e l’identificazione arte-vita.
Il Duchamp che la neoavanguardia riscopre è quello del ready made; i critici ancora legati al modernismo esaltano il Grande Vetro, perché è la sua ultima opera ancora vicina ai principi estetici del moderno. Come artista, è stato tra i più vituperati (il più distruttivo artista della storia) e meno capiti (enigmatico). In effetti è il solo ad aver compiuto una rottura epistemologica decisiva per l’arte del 900.
Clement Greenberg (il critico più influente del Novecentoi) disse, verso il 1974, che Duchamp aveva condannato l’arte successiva alla ripetizione. L’affermazione è ingiustificata se riferita alla neoavanguardia degli anni 60 e 70 che seppe reinterpretarlo creativamente, ma appare legittima rispetto al Neo-Geo e al simulazionismo dei tardi anni 80 (e di esperienze più vicine a noi, che trasformarono le strategie di Duchamp in uno stile commerciale, proprio quello che lui voleva evitare.
Negli anni Dieci, Duchamp non era l’unico a muovere una critica radicale all’arte: il Dadaismo ne è un altro esempio. Attenzione però a non catalogare sbrigativamente Duchamp come rappresentante del movimento dadaista, sulla scorta di quanto fanno i manuali di storia dell’arte, che hanno l’obbligo di semplificare. Anzitutto, l’invenzione più clamorosa di Duchamp, il ready-made, precede la nascita del dadaismo. Questo nasce nel 1916, mentre il primo readymade è del 1913, il nome viene inventato nel 1915, solo la prima esposizione pubblica è del 1917. Pur avendo dei contatti con dada, Duchamp mantenne sempre le distanze rispetto al gruppo. Inoltre, non inneggia all’anti-.arte, non assume i panni del tradizionalista dell’anti-tradizione; semplicemente anticipa, con la sua opera, quella che sarà la condizione degli artisti e dei fruitori dell’arte a venire, senza nessun atteggiamento distruttore o polemico; a differenza dei dadaisti, non vuole profanare nulla.
Fonte: http://www.dissufdidattica.uniss.it/download/198/duchamp.doc
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Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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