Renato Guttuso

Renato Guttuso

 

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Renato Guttuso

“Io lo conoscevo bene...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia

Giuseppe Cipolla

 

“A giustificazione del suo amore per l'arte,
Leonardo ha scritto molto sugli artisti e di ogni
 artista ha saputo sempre cogliere un lato
 particolare e inedito”

Bruno Caruso, Le giornate
romane di Leonardo Sciascia,
Edizioni La Vita Felice, Milano 1997

      «Ho conosciuto benissimo Renato Guttuso: e posso dirlo non solo per i frequenti incontri, la lunga confidenza, la simpatia e l’affetto che avevo per lui, ma anche – e soprattutto – perché il nostro essere d’accordo nel giudicare persone, fatti e libri nella loro immediata verità, se appena tentavamo di risalire ai principi, diventava fondamentale e profonda discordia».
Più che mai simili in moltissimi contenuti, come l'attaccamento alla loro terra, l'interesse per una giustizia sociale, il rinnovamento di istituzioni superate. Personalmente non potevano essere più diversi: Sciascia illuminista, constante seguace del filo della ragione, uomo riservato; Guttuso esuberante, di temperamento passionale a volte volubile, perennemente in crisi, in cerca di compagnia, amici, amiche, movimento.
Sciascia non amava distaccarsi per periodi molto lunghi dalla Sicilia, mentre Guttuso trascorreva lunghi periodi lontano dalla sua terra, ma non se ne distacca mai emotivamente: quasi tutta la sua pittura ritorna alle vedute marine, ai ritratti, alle nature morte che sono radicati in Sicilia. Non a caso amava ripetere «Anche se dipingo una mela, c'è la Sicilia».
I rapporti di intensa e comprovata amicizia tra  Renato Guttuso e Leonardo Sciascia, come noto, furono segnati nel 1979, da una rottura prettamente di carattere politico – definita dal comune amico Bruno Caruso il «fattaccio» -, che tuttavia portò a un distacco molto sofferto tra i due. Sciascia era stato consigliere comunale assieme a Guttuso a Palermo, eletto nel 1975 nelle liste del Pci, carica da cui si dimise dopo circa un anno e mezzo, mentre dal 1979 al 1983, in un momento di disapprovazione con il compromesso storico del Pci, diventò deputato al Parlamento nelle file del Partito Radicale.  In seguito, fatto che poi determinò la fine della storica amicizia, fu il noto misunderstanding con Berlinguer e Guttuso sul caso Moro  riguardo alla questione delle responsabilità dei servizi segreti dell’Est nel rapimento.
Un rapporto che fino a quella data era stato segnato, pur nelle divergenze di vedute, da profonda amicizia, come emerge, ad esempio, da un intervista allo scrittore apparsa su “Critica Sociale” nel gennaio del 1978, dove, alla domanda sui legami personali e politici con Guttuso, Sciascia rispose: «Con Guttuso ho rapporti di profonda amicizia, mai incrinati dalla sua ortodossia e dal mio dissenso. In questo siamo entrambi molto siciliani». Appena un anno dopo lo scrittore verrà smentito proprio dall'”ortodossia politica” del grande pittore, che, nel maggio del 1979, in seguito alla candidatura di Sciascia nelle liste del Partito Radicale, scriverà: «Caro Leonardo, il senso di sgomento che ho provato nell'apprendere la notizia della tua candidatura nel PR mi ha fatto riflettere sulla misura e qualità della mia amicizia per te». Una frase perentoria, che dimostra quanto per il pittore le divergenze e la “contraddizione” nelle scelte politiche dello scrittore rappresentassero un muro invalicabile anche per i rapporti personali. Ed è significativa, infatti, la risposta di Sciascia, che chiarisce la propria visione in merito:

 La tua preoccupazione e il tuo sgomento non vengono dallo scoprirmi in contraddizione: sono un modo e del tuo modo di vivere il comunismo, e del tuo modo di intendere l'amicizia. Tu dici “La notizia della tua candidatura nel PR mi ha fatto riflettere sulla misura e qualità della mia amicizia per te”. Al contrario, il tuo essere comunista negli anni del realismo socialista, durante la polemica Vittorini-Togliatti, di fronte ai fatti d'Ungheria e di Cecoslovacchia, in questi anni di compromesso storico, non mi hanno mai fatto riflettere sull'amicizia che sentivo per te anche prima di conoscerti e che poi ha trovato conferma nel conoscerti.
(...)
Un mio concittadino usava chiudere le discussioni con questa frase: “Siamo d'accordo, ma la pensiamo diversamente”. Anche noi, caro Renato, siamo d'accordo su tante cose: ma la pensiamo diversamente. Contentiamoci dell'essere d'accordo su qualche punto. E continuiamo, finché si può, a pensarla diversamente.

Fin qui la storia nota delle loro divergenze politiche legate alla fase conclusiva dei loro rapporti: ma è, tuttavia, in campo figurativo e letterario che emergono svariati punti di condivisione, che vanno a comporre, nella loro varietà, il lungo sodalizio culturale intercorso fra i due prima del 1979.
Prima di sondare nello specifico la rete di tali rapporti, però, sia consentita una breve e generale premessa relativa ai legami di Sciascia con le arti figurative.
Un aspetto poco noto, infatti, dell’attività extra-letteraria – ma che con la letteratura presenta frequenti e indissolubili punti di contatto – di Leonardo Sciascia è la sua intensa passione per le arti figurative, condensata in una cospicua produzione di scritti d’arte.
Come per il Cinema, si può distinguere uno Sciascia che scrive d'arte (presentazioni, elzeviri, saggi critici) da uno Sciascia appassionato d'arte (nella veste a lui non tanto congeniale di collezionista, e in quella, diversamente più autentica e spontanea, di frequentatore di atelier e gallerie d'arte) e, infine, da uno Sciascia che mutua nella sua scrittura narrativa immagini dall'arte figurativa. 
Un interesse ampio quello dello scrittore: che si muove dalla passione per le stampe e la grafica in genere - come attesta la cospicua collezione che donò alla Fondazione Sciascia a Racalmuto, costituita da circa duecento disegni e incisioni con i ritratti degli scrittori da lui più amati dal Cinquecento al Novecento, raccolti nei numerosi viaggi e soggiorni a Parigi, Milano, Torino, Parma, Firenze e Roma - alla vasta produzione di scritti d'arte  articolatasi attraverso la critica d’arte militante in presentazioni, cataloghi di mostre, nella stampa periodica e nelle riviste d'arte, e su argomenti quali scultura, pittura, disegno, incisione, architettura e fotografia. Dall’interesse per l’arte moderna in Sicilia, come attesta la lettura sociologica sul Ritratto di Ignoto di Antonello da Messina del Museo Mandralisca di Cefalù, o gli scritti dedicati a Francesco Laurana, Caravaggio, Filippo Paladini e Pietro d'Asaro; o i rapporti con la cultura figurativa contemporanea, non soltanto siciliana.
Per quanto riguarda i ritratti degli scrittori del passato da lui raccolti, e ora conservati alla Fondazione Sciascia a Racalmuto, si possono citare qui almeno le due chine di Guttuso donate allo scrittore per la sua collezione: si tratta di due ritratti di Voltaire, scrittore amatissimo da Sciascia, di cui uno di profilo, dove l'artista appose una significativa dedica: «A Leonardo, a Voltaire e alla Dea Ragione», a dimostrazione del sodalizio culturale tra i due (fig. 1); e l'altro che rappresenta una sorta di studio “divertito” del volto dello scrittore francese visto nelle varie espressioni, anche qui con una scritta di Guttuso: «pour Voltaire (fig. 2).
La familiarità di Sciascia con l'arte contemporanea è confermata, inoltre, dal frequentatissimo  contatto con pittori come Guttuso, Mino Maccari, Lia Pasqualino Noto, Antonello e Francesco Trombadori, Tono Zancanaro,  Cazzaniga, Fabrizio Clerici, Emilio Greco, Bruno Caruso e Fausto Pirandello, oltre alle sue relazioni, sebbene più distanti, con altri, tra cui spicca la figura di Giorgio De Chirico, che intervistò nel 1975 in occasione di una mostra del pittore a Palermo.
Sciascia era molto conosciuto negli studi palermitani, romani, milanesi e parigini frequentati da scrittori e pittori, come amico e come collega. Inoltre è stato il tutore di numerosi giovani pittori, ai cui vernissages delle mostrre a Palermo, Parma, Milano, Torino e altre città italiane non mancava mai.
Quando si tratta, poi, di artisti particolarmente congeniali e siciliani, come Antonello da Messina, Emilio Greco, Renato Guttuso e Bruno Caruso, esulando da differenziazioni storiche, in questi casi lo scrittore trasforma la sua pagina critica quasi in una pagina narrativa, “raccontando” le analogie esistenziali fra gli artisti e i luoghi della vita siciliana, quasi registrandone i tratti endemici del loro legame con la cultura isolana.
Si ricordi, inoltre, l'attività, poco nota, di Sciascia, come fondatore e direttore della rivista “Galleria: rassegna bimestrale di cultura”, fondata nel 1949 assieme a Mario Petrucciani e Jole Tornelli ed edita da Salvatore Sciascia a Caltanissetta, che annoverava tra i suoi collaboratori Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Mario Praz, Emilio Cecchi, Ferruccio Ulivi,  Enrico Falqui; e  storici e critici d’arte, tra cui Roberto Longhi, Carlo Ludovico Ragghianti, Roberto Salvini, Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan e Federico Zeri. Nomi che testimoniano  la sensibilità del periodico per le arti visive, a dimostrazione dei legami esistenti nella seconda metà del Novecento tra critica letteraria e critica d’arte. Sciascia coinvolgeva spesso i suoi amici pittori per illustrare il periodico nisseno, come nel caso del numero del 1955 dedicato a Nino Savarese, per il quale aveva chiesto a Guttuso e Maccari una serie di disegni con i ritratti del grande scrittore ennese.
Un discorso a sé è rappresentato poi dalla sua passione per l'incisione:  Luigi Bartolini, Mario Calandri, Mino Maccari, Ernesto Treccani (che Sciascia conobbe tramite Guttuso), Leonardo Castellani, Flavio Costantini, Tono Zancanaro, sono i nomi degli incisori più vicinial goût esthétique dello scrittore; un gusto che si muove tra recupero della tradizione naturalistica dell'arte moderna e linguaggi a volte di matrice neosimbolista o neoespressionista, ma sempre votati a intenti narrativi. Non è un caso che molti degli artisti prediletti da Sciascia, fossero anche scrittori, come nel caso di Savinio, Caruso, Antonello Trombadori e altri, personaggi che affascinavano Sciascia per il loro “dilettantismo” stendhaliano, per il loro “peregrinare nel mondo con spirito universalistico”.
Quasi come compensazione metafisica, inoltre, nei suoi romanzi, egli ha spesso incastonato nella narrazione improvvise apparizioni di immagini tratte dal patrimonio artistico mondiale: dal tableau vivant erotico composto dal protagonista Di Blasi e dalla sua amante nel Consiglio d’Egitto (1963), che rimanda alle scene galanti dei dipinti di Boucher; alla presenza della Tentazione di Sant’Antonio di Rutilio Manetti e della Zattera della Medusa di Géricault in Todo Modo (1974), dove il protagonista è un pittore anonimo di successo, che senza molte difficoltà potrebbe essere identificato proprio con Guttuso;alla nota incisione di Dürer ne’ Il cavaliere e la morte (1988); al quadro rubato, allusivo al furto della Natività di Caravaggio dell’Oratorio di San Lorenzo di Palermo, in Una storia semplice (1989).
Questa in sintesi la vasta rete in cui si viene a collocare l'interesse di Sciascia per le arti visive, nella quale – come vedremo - la figura di Guttuso inevitabilmente occupa un posto significativo.
Tra gli artisti siciliani del Novecento, infatti, la figura di Guttuso è stata       forse quella che più ha suscitato l'interesse, accanto a quello della critica ufficiale, di letterati e poeti, in varia misura adusi alla critica d'arte. Come emerge dalla vasta bibliografia su Guttuso, numerosi risultano gli scritti di letterati – in genere presentazioni e testi introduttivi a cataloghi di mostre – quali Alberto Moravia, Elio Vittorini, Giuseppe Ungaretti, Alfonso Gatto, Pier Paolo Pasolini, Fernandez, Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia.
Dagli scritti di Elio Vittorini e Duilio Morosini nel catalogo della mostra milanese del 1942, a quello di Pablo Neruda del 1954, alla celebre monografia di Vittorini del 1960, per non tacere poi di quelli di Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini,Giuseppe Ungaretti, Elsa Morante e di altri scrittori. Inutile, forse, aggiungere qui quanto le ragioni di questa diffusa attenzione siano da ricondurre alle comuni radici culturali dell'antifascismo, sulle quali si fonda gran parte della cultura italiana del secondo Novecento, e a cui si deve, peraltro, quel clima culturale che vide un legame stringente e ideologico tra arte e letteratura, del quale risulta emblematico il sodalizio tra Sciascia e Guttuso.
Nell'acceso dibattito post-bellico tra realisti e astrattisti, dove la figura del pittore bagherese occupa un posto rilevante, Sciascia si schiera apertamente con i sostenitori del figurativismo, mantenendo tuttavia alcune riserve sulle posizioni estremiste di matrice marxista dell'amico.
E difatti, tempo dopo, in un'intervista dove gli veniva chiesto se condivideva l'estetica del “realismo socialista” della pittura di Guttuso, lo scrittore fermamente rispondeva:
…............un rigo di spazio

No, e del resto, per un artista vero – qual è per esempio Guttuso – il “realismo socialista” non esiste. Guttuso è un grande pittore più quando fa “I tetti di Sicilia” che quando dipinge i “Funerali di Togliatti”. Le etichette esistono in senso deteriore, e per la la parte deteriore.

Non è un caso, forse, che Sciascia scelga proprio un dipinto come Paese del latifondo siciliano del 1956, come illustrazione della copertina di uno dei suoi romanzi più celebri, Il giorno della Civetta, pubblicato da Einaudi nel 1961.
Inoltre Sciascia, sin dai primi anni Cinquanta, dimostra il suo interesse per artisti dediti al realismo, anche di epoche precedenti, come attestano alcuni saggi e recensioni di questi anni: si ricordi, ad esempio, la recensione apparsa su “Galleria”, nel novembre del 1952, della monografia su Vincenzo Gemito di Fortunato Bellonzi e Renzo Frattarolo, dove ritroviamo espressa meglio la sua visione del realismo nell'arte: «la verità si fa arte e diventa più vera della stessa verità da cui muove». O si consideri la sua recensione, anni dopo, alla mostra parigina di Courbet del 1977 al Grand Palais, dove, liberando l'artista dalla semplicistica etichetta di “realismo socialista” cui aveva contribuito un saggio di Louis Aragon, afferma: «i quadri dicono semplicemente la storia di un grande pittore, una storia ricca di contraddizioni, di ambiguità e di mistero quanto quella di ogni grande artista, in ogni tempo», per sgombrare poi il campo da ogni dubbio  citando uno scritto del pittore del 1855, dove l'artista stesso affermava: «l'etichetta di realista mi è stata imposta così come agli uomini del 1830 è stata imposta quella di romantici (…) ho voluto semplicemente mettere nell'intera conoscenza della tradizione il sentimento ragionato e indipendente della mia individualità».  E qui si notano già le premesse di fondo della prospettiva sciasciana nei confronti del realismo, che sarà poi alla base della sua visione del realismo di Guttuso, con il quale lo scrittore entrerà in contatto nel secondo dopoguerra negli ambienti romani del Caffè Greco.
In quegli anni Guttuso era già per molti artisti un punto di riferimento nodale, e nel suo entourage romano gravitano artisti che poi saranno molto vicini a Sciascia. Si pensi allo scultore messinese Augusto Perez, assistente nel 1936 di Emilio Greco all'Accademia di Belle Arti a Napoli; oppure ad Antonello Trombadori, che fu anche fine scrittore; e, infine, a Bruno Caruso, i cui rapporti con Sciascia furono altrettanto significativi, non solo nel periodo romano.
Lo studio di Guttuso di via Margutta a Roma, in quegli anni, è frequentato, inoltre, da artisti siciliani che ne sposano idealità etiche e politiche, come Carla Accardi, Ugo Attardi, e gli artisti della Scuola Romana, sulla quale Sciascia scriverà un articolo apparso nel 1983 sul “Corriere della Sera”.
Con l'inizio degli anni Sessanta si affievolisce in parte per Guttuso l'impegno politico a favore della riflessione, con un linguaggio alto, non più inquadrabile in categorie, che trova le proprie ragioni nel ricordo, testimoniato nel ciclo pittorico autobiografico.
Sono gli anni che Crispolti definisce di “realismo esistenziale”, al quale Sciascia guarda con maggiore simpatia, come dimostra la sua attenzione per i dipinti del ciclo autobiografico dedicati ai “mostri” di Villa Palagonia, sulla quale anni dopo lo scrittore scriverà una nota introduttiva di particolare spessore storiografico.
I rapporti tra i due si intensificano negli anni Sessanta, con frequenti incontri a Roma, nello studio di Bruno Caruso, frequentato da altri artisti dell'entourage    sciasciano: Fabrizio Clerici, Tono Zancanaro, Mino Maccari, Renzo Vespignani, Ugo Attardi, Carlo Levi e altri. E proprio in uno di questi incontri nasce l'idea  della pubblicazione della cartella Vietnam-Liberta, apparsa poi nel 1968, alla quale aderirono con le loro incisioni Attardi, Guttuso, Levi e Vespignani, introdotte dal testo di Sciascia. Sempre negli stessi anni i due si ritrovano spesso nelle gallerie d'arte palermitane, prima fra tutte “Arte al Borgo” di Eustachio, e poi del figlio Maurilio Catalano.
Non va poi dimenticata la collaborazione di Sciascia al quotidiano “L'Ora” di Vittorio Nisticò, dove proprio in questi anni lo scrittore andava pubblicando elzeviri, articoli su vari artisti, recensioni di mostre e altro, contribuendo al clima mittleuropeo e aggiornato che la rivista si proponeva in quegli anni.
E proprio da un articolo del quotidiano “L'Ora” del 22-23 febbraio 1969 (p. 13)via, , ad esempio, emerge la frequentazione assidua di Sciascia degli ambienti artistici palermitani, dove ritrovava tutti i suoi più cari amici, da Enzo ed Elvira Sellerio a Eustachio Catalano, a Ignazio Buttitta, a Natale Tedesco; e proprio in merito alla mostra di Lia Pasqualino Noto, il suo nome è tra gli ospiti illustri in casa della pittrice, dove si dava una cena in onore di Guttuso e della moglie Mimise. E viene fuori, che in quell'occasione Guttuso disse di Sciascia: «ha insegnato a noi siciliani ad amare la Sicilia».
Nell'autunno del 1969 i due si trovano assieme a Palermo per curare la mostra di Gianbecchina alla galleria “La Robinia”, occasione che porterà Sciascia a scrivere una nota critica sul pittore di Sambuca di Sicilia.
Nel 1971, in concomitanza con la mostra antologica  di Guttuso realizzata dal Comune di Palermo al Palazzo dei Normanni – nel cui catalogo figuravano scritti di  Sciascia stesso, Franco Grasso e Franco Russoli – lo scrittore racalmutese decide di dedicare interamente al pittore un numero di “Galleria”, affidandone la cura editoriale a Natale Tedesco.
Il numero monografico, articolato in tre sezioni, comprendeva una prima parte dedicata all'antologia della critica, con scritti di illustri letterati e critici, tra cui quelli di Roberto Longhi (Lettera per la mostra di Guttuso a New York), Giovanni Testori, Elio Vittorini (Storia di Renato Guttuso), Cesare Brandi (La mostra di Guttuso a Parma), Carlo Ludovico Ragghianti (Guttuso pittore e scultore) e Antonello Trombadori; una successiva sezione costituita dagli omaggi, scritti e poesie, di letterati italiani e stranieri, tra cui Pier Paolo Pasolini, Mario Soldati, Leonardo Sciascia, Rafael Alberti, John Berger e Pablo Neruda; e infine, chiudeva il numero una antologia degli scritti di Guttuso sulle arti figurative.
Appare significativo che Sciascia decida di dedicare un intero numero di “Galleria” a Guttuso, a una data in cui già l'artista bagherese rappresentava  uno dei più importanti autori della pittura del Novecento.
Importanza che il periodico nisseno voleva consacrare attraverso le testimonianze sia dei letterati che dei critici, e infine con gli scritti di Guttuso stesso sulle arti, quasi a voler considerare l'artista nella totalità del suo apporto alla cultura del tempo, a volerne quindi sottolineare la portata universale, attraverso però una rigorosa attenzione alla fortuna critica.
É qui che compare il primo scritto di Sciascia sull'amico ritornato a Palermo per la grande mostra del Palazzo dei Normanni. Guttuso a Palermo è però una acuta nota biografica, nel senso più strettamente esistenziale,  dove lo scrittore guarda all'uomo Guttuso, all'uomo di successo che suo malgrado  si trova a lottare contro sé stesso, aspetto che porta Sciascia a una singolare rievocazione dei personaggi verghiani:

Ci sono, si, i suoi quadri: nelle case, nelle gallerie pubbliche, riprodotti a milioni di esemplari, sotto gli occhi di tutti, ad arricchire e ad abbellire la vita, a riscoprirla; ma sono come le terre al sole di don Gesualdo. «Ma egli è siciliano», dice ancora Lawrence di Gesualdo, «e qui salta fuori la difficoltà». La difficoltà, per Guttuso, per noi, per ogni uomo che è nato in quest'isola, di vivere dopo aver fatto, dopo avere accumulato quadri o libri o denaro; la difficoltà a resistere, a non soccombere «sotto il gruzzolo» della ricchezza o della gloria o soltanto e semplicemente delle cose fatte, delle cose in cui abbiamo messo e mettiamo la nostra passione.

Con questo accostamento, Sciascia non fa altro che inserire l'artista nel più ampio concetto di “sicilitudine”, neologismo sciasciano per eccellenza che fa eco a un'altra concezione dello scrittore, quella della “Sicilia come metafora del mondo”, vere e proprie chiavi di lettura della storia culturale siciliana secondo cui «scrittori e artisti, poeti e pittori, attraverso la particolarità e le particolarità della Sicilia, hanno raggiunto l'universalità».
Del resto i “travagli esistenziali” di Guttuso, in rapporto anche con la sua attività pittorica, che Sciascia conosceva bene visti i profondi legami di amicizia che li legò dagli anni Cinquanta in poi, emergono già a partire dalla fine degli anni Trenta, come attesta ad esempio il carteggio con un altro suo grande sodale, Cesare Brandi – che sarà poi anche amico di Sciascia nel periodo palermitano. Nel 1939, così infatti scrive Guttuso al critico senese riguardo al suo rapporto problematico con la pittura: «Non posso dirti come vada il lavoro, perchè non ne so nulla, e poi ho avuto il mal di denti, e poi è un momento che di lavorare non ho voglia. La campagna mi ha eccitato qualche momento – così bella e così inaspettatamente ricca di colore... Ma certe volte io vedo, sento penso e non mi piace dipingerlo. Mi pare di guastarmi un piacere privato. Non so che deduzione trarre da siffatti sentimenti ma preferisco guardare persino senza pensare ..». Il trovarsi “perennemente in crisi”, componente quasi sartriana della poetica guttusiana, tuttavia, viene vista anni dopo da Sciascia non tanto come una défaillance, quanto come il più autentico punto di forza del pittore: «nessuna crisi può segnare il punto del cedimento per un uomo, per un artista, il cui elemento di vita è appunto la crisi. Guttuso è sempre in crisi: sicchè nessuna crisi può coglierlo con insidia o alla sprovvista. Il suo essere pittore è una passione, una febbre – cioè, propriamente, una crisi».
Un aspetto nodale e comune a una parte della critica letteraria e artistica su Guttuso, e che in questi scritti emerge dichiaratamente, è, quindi, l'inscindibilità tra l'uomo Guttuso e la sua opera, e tra la sua opera e la Sicilia. Assunto questo, tanto apparentemente semplicistico quanto legato a una problematicità di carattere critico-letterario fortemente presente non solo negli scritti di Sciascia.
Quando Sciascia scrive di Guttuso avverte di trovarsi di fronte ad un grande artista, totalmente immerso nella vita, per il quale arte e vita coincidono a tal punto da non lasciare spazio all'ironia e al gusto, due strumenti che servono a prendere le distanze. La personalità di Guttuso lo porta ad una considerazione di carattere generale, in certo qual modo paradossale per lo scrittore, attratto dall'ironia: «A pensarci bene, sono poi questi strumenti (l'ironia e il gusto) che impediscono lo scatto verso la grandezza. Un grande artista, un grande scrittore, non ha ironia e non ha gusto; e così anche i grandi momenti della letteratura, dell'arte, sono quelli che mancano di gusto e non sono governati dall'ironia».
La percezione del paesaggio siciliano negli anni '50 e '60 era stata condizionata molto dalla pittura di Guttuso, dai violenti contrasti cromatici, e Sciascia non ne è immune. Recensendo, nel 1971, una mostra dell'amico lombardo Giancarlo Cazzaniga, avverte, però, che in Sicilia si può trovare anche un'altra luce, diversa da quella dipinta da Guttuso, un altro paesaggio in grigio-argento-viola, una Sicilia dai toni spenti, come l'aveva vista Cazzaniga nei suoi  paesaggi siciliani.
Esigenza primaria di questi scritti di Sciascia su Guttuso è quella di porsi non già come testi analitici sulle opere dell'artista, in chiave descrittiva o ekfrastica, quanto quella di illuminarne sinteticamente alcuni significativi aspetti della  poetica, enucleandone le più profonde radici culturali.
Tale operazione e i conseguenti giudizi critici, tuttavia, risultano mediati da profonde conoscenze della storiografia artistica, e in particolare di quella relativa alla fortuna critica dell'artista siciliano.
Nella pagina sciasciana si possono individuare almeno due direttive relative ai modelli di critica figurativa del Novecento: la prima, per quanto riguarda il linguaggio, ha origine nella critica di matrice rondista, precipuamente in figure come Cecchi e Praz – per i quali lo scrittore manifestò sempre la sua predilezione; mentre la seconda, riguardo invece ai contenuti e alle metodologie di analisi dell'opera d'arte, può essere individuata nelle pur diverse influenze della critica dagli anni Sessanta agli anni Ottanta di Ragghianti, Brandi, Argan e Calvesi, questi ultimi tre, in successione, titolari della  cattedra di storia dell'arte all'Università di Palermo, incidendo fortemente oltre che sulla scuola storico-artistica siciliana, anche sul panorama dell'arte contemporanea e della critica d'arte militante.
L'inestricabile binomio Sicilia-Guttuso ritorna nelle parole di Sciascia più volte: «quando si parla di Renato Guttuso, della sua pittura, si parla di Bagheria. Il paesaggio, la gente. L'intraprendenza e l'acutezza dei bagheresi, i fasti e nefasti dell'amor proprio. La vampa dei colori, la morte. Bagheria con le sue ville settecentesche, estremo delirio dell'anarchia baronale; coi suoi giardini di limoni, in cui delira l'anarchia mafiosa. I mostri di Palagonia. Il mare dell'Aspra».
E sono richiami  confermati anche dalla critica ufficiale. Basti leggere, ad exemplum, le mirabili pagine di Calvesi del 1985, quando osserva «la Sicilia, la terra per antonomasia della nascita e del lutto, dei sogni e delle visioni che continuamente la rievocano, la Sicilia chiama Guttuso, lo chiama con i suoi mostri impietriti in bizzarre contorsioni, sul muro di cinta di villa Palagonia (...)».
Gli scritti di Sciascia su Guttuso, sotto forma di pensieri, note, divagazioni, in tutto cinque, distribuiti nel corso degli anni Settanta, involgono la dimensione più autobiografica dell'opera del pittore e quella quindi maggiormente legata alla Sicilia, che si manifesta nel ciclo autobiografico, e in dipinti quali La Vucciria, o i Vespri Siciliani.
É soprattutto la componente narrativa della pittura di Guttuso, correlata all'universo storico-culturale siciliano, che affascina Sciascia, suscitandogli diverse suggestioni letterarie e culturali che vanno dal Magalotti a Verga a Brancati, a Fernandez, Unamuno ecc.
Parlando di opere come La fuga dall'Etna (1938-1939), che lo scrittore considera tra le più significative degli esordi, ritorna inevitabilmente l'accostamento, in chiave narrativa e poetica, a Verga:

    La poetica è per entrambi quella di «semplificare le umane passioni»; ma quella di Verga prende avvio da un ritorno, quella di Guttuso da una fuga. La differenza non è trascurabile. Si potrebbe dire, con una battuta, che c’è di mezzo tutta la scala zoologica: dall’ostrica all’uomo in rivolta. E tuttavia l’ostrica di Verga, l’uomo attaccato allo scoglio della miseria e degli affetti, soffre come e quanto l’uomo in fuga, l’uomo in rivolta di Guttuso. Il sistema della sofferenza, il sistema della passione.

Del resto, la forte componente geografica dell'opera di Guttuso e l'accostamento  a Verga, sono due aspetti che riprenderà a pieno anche Calvesi nel saggio Guttuso e la Sicilia del 1985, dove, a proposito di questi due punti, afferma che «pochi artisti, come Guttuso, sono così profondamente segnati dalla loro origine, e non soltanto nella natura dei temi, ma nelle stesse scelte linguistiche», e più avanti, riferendosi alla “vocazione al racconto” del pittore, precisa come «il romanzo di Verga può essere il riferimento più spontaneo e diretto». Vocazione al racconto che Calvesi mette in relazione alla venatura popolare insita nella migliore tradizione realistica della pittura siciliana, a partire dal realismo di fondo di Antonello, e in particolare di quell'«aria di famiglia» di cui aveva parlato Sciascia a proposito delle ambientazioni delle annuciazioni del pittore messinese. Si viene a delineare qui, come in altri frangenti,  un proficuo scambio di idee , spesso bilaterale, tra lo scrittore e il critico, a dimostrazione di influenze reciproche.
Influenze che ritroviamo anche con Brandi, con il quale Sciascia concorda, ad esempio, nel ritenere la Fuga dall'Etna – sotto l'influenza velata di Picasso - il vero snodo della pittura guttusiana:«la storia della pittura di Guttuso comincia da quella Fuga dall’Etna durante un’eruzione che Natale Tedesco ha chiamato “la Guernica siciliana” ,però siciliana è un po’ anche la Guernica di Picasso; e forse Picasso ha studiato lo schema compositivo del Trionfo della morte di Palermo più di quanto Guttuso abbia dipinto la Fuga sotto l’impressione della Guernica che Cesare Brandi gli aveva allora mandato in cartolina»; e gli influssi di Picasso nella Fuga dall'Etna Brandi li aveva individuati in un suo scritto apparso nel 1964, in occasione della presentazione della mostra di Palazzo della Pilotta a Parma – testo riproposto nel numero già  citato di “Galleria” dedicato al pittore -, dove lo storico sottolineava l'importanza cruciale del celebre dipinto, conservato alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea di Roma: «è di lì che nasce Guttuso, o meglio è lì l'impennata per cui salì sulla cresta dell'onda ed è riuscito a non scendere».
Nel 1972 esce  a Napoli, per le Edizioni Scientifiche Italiane, una monografia di Sciascia dedicata ai disegni di Guttuso, dal periodo dei primi studi grafici della Crocifissione (1942) sino alle celebri serie del Gott mit uns (1944), delle illustrazioni della Divina Commedia (1962), per finire con la  Serie autobiografica (1966). 
Sono interessanti le considerazioni sul Guttuso disegnatore, per le quali lo scrittore parte da spunti teorici derivanti da Diderot, Baudelaire e Alain, che sono peraltro per Sciascia i punti di riferimento della sua visione in merito allo statuto del disegno. A questa tradizione risale ad esempio la distinzione baudelairiana, che Sciascia sposa pienamente, tra “disegnatori puri” e “disegnatori coloristi”, e lo scrittore colloca naturalmente Guttuso nella seconda categoria, affermando:

E ne abbiamo esempio immediato in questi disegni di Guttuso, che sono appunto i disegni di un colorista: e tanto più li riconosciamo per tali nell'assenza del colore, nel bianco e nero. Una riconoscibilità che viene da quello che Baudelaire chiama «un metodo analogo alla natura» - ed è inutile dire che la natura non è naturalistica. E quale metodo è più analogo alla natura di quello dell'azione che viene da dentro le cose, dal centro delle cose, dell'azione che è la cosa - nella «armoniosa lotta delle masse», nell'aria, nella luce?

Il 14 dicembre del 1974 una delle opere più importanti di quel periodo di Guttuso, la Vucciria (fig. 3), sarà esposta per la prima volta in una mostra a Palermo voluta da Sciascia alla galleria “La Tavolozza” di Doretta Laudino.
Anche qui lo scrittore propone uno scritto che, per quanto breve, colpisce per le sinestetiche impressioni che il capolavoro guttusiano gli suggerisce. Lo si nota, ad esempio, quando con una sottile lettura iconologica che lo porta a citare persino le Lettere odorose (1693-1705) del bizzarro conte, scienzato e letterato Lorenzo Magalotti (Roma, 1637 – Firenze, 1712), afferma:

Ora il visualizzare un fatto visuale quale la Vucciria di Palermo, vale a dire un fatto di predisposta, funzionale e funzionante visualità - il visualizzarlo in una pittura, in un quadro, in un grande quadro - sarebbe una operazione piuttosto ovvia e banale, se non vi concorresse non solo una celebrazione della visualità nel senso magalottiano, ma anche la conoscenza e conscienza di un significato: di quel che una tale visualità - che sarebbe da dire propriamente e definitivamente teatralità - umanamente e storicamente significa.

Nel dicembre del 1975 un'altra mostra, sempre alla galleria “La Tavolozza”, offre a Sciascia lo spunto per presentare una cartella di sei litografie di Guttuso, accompagnate dai relativi disegni preparatori, riguardanti il tema dei Vespri siciliani
Già anni prima lo scrittore aveva espresso un giudizio sulla poetica dei disegni riguardanti temi della storia siciliana, nel quale – citando uno scritto di Dominique Fernandez sull'artista - poneva l'accento sulla sostaziale differenza tra l'uomo politicizzato e l'artista:

Se come marxista non ignora che il mondo non deve essere soltanto contemplato, ma mutato, la sua sicilianità di fondo lo condanna a sentire, da artista, solo il lirico disordine degli oltraggi, da ciò, possiamo anticipare, il suo incontro col più lirico – anche nel senso del melodramma – degli oltraggi che siano stati consumati in Sicilia: quello che diede esca al Vespro.

Ed è chiaro che Sciascia, tra i due, preferisca di gran lunga l'artista, la sua “prosa figurativa” capace di narrare in senso “lirico” i fatti drammatici della storia, aspetto che lo porta naturalmente ad affermare: «Il suo sentimento e giudizio del Vespro, in queste immagini, è quello stesso che trascorre nei versi di Dante, nella Storia di Amari, nell'opera di Verdi».
In generale, questi scritti su Guttuso sono costruiti in modo impeccabile nel rapporto tra la “restituzione” della critica alla sua letterarietà e l'analisi formale, sottolineando al contempo la capacità di Guttuso nell'inventare col segno le cose, e interpretando la sua opera come fuga “dell'uomo in rivolta contro la miseria”. Aspetto questo, che inevitabilmente va ad associarsi con un altra significativa connotazione critica che Sciascia individua nell'opera dell'artista bagherese, e cioè l'identificazione arte-vita, che in Guttuso più che in altri artisti a lui contemporanei non è mai fatto banale: “le opere d'arte di Guttuso– scrive infatti Sciascia – non somigliano alla vita, non sono come la vita: sono, su un piano che non è quello della vita, la vita”.
É evidente negli scritti di Sciascia l'intenzione critica di sondare in profondità l'essenza umana dell'artista, le profonde ragioni intrinseche del fatto creativo, però tutto questo in stretta relazione e misurata compenetrazione con i dati “esterni”, gli aspetti sociali, ideologici, letterari e politici che informano interamente la produzione di Guttuso. Con sorpresa poi ci si accorge che questi scritti offrono improvvise aperture alla critica figurativa novecentesca, divagazioni colte, “cruciverba”, combinazioni critiche,  spunti notevoli sullo statuto della pittura o del disegno, che, come osservato da Natale Tedesco, “vengono fuori ad illuminarci sulla cultura, sulla sintassi intellettuale di Sciascia, piuttosto che per una precisa analisi dell'opera dell'artista in questione». Alla luce però dei dovuti confronti con la coeva critica ufficiale, emerge come tali formule e costruzioni critiche adottate da Sciascia nella sua scrittura d'arte siano del tutto funzionali e pertinenti alla materia trattata.
Anche se raramente queste pagine presentano letture formali dei dipinti presi in esame, né tanto meno tentativi di critica visuale,  o di ekfràsis, è perchè lo scrittore vede i caratteri testuali più nell'ottica di una funzionalità narrativa. Sciascia si occupa di Guttuso nella misura in cui l'opera, i  dipinti, i disegni rievocano la Sicilia e l'immaginario letterario che ne consegue. In ultima analisi, è evidente quanto in queste pagine di Sciascia sull'amico pittore, così come altre sulle arti visive e su altri artisti siciliani, sia assente ogni intenzione di fare critica d'arte – tanto meno di matrice accademica -, quanto piuttosto di continuare un romanzo, scrivendone una delle pagine più interessanti: il “romanzo della Sicilia del Novecento”, dove Guttuso occupa – secondo lo scrittore -  un posto di primaria importanza.

 

Appendice

Scritti di Leonardo Sciascia su Renato Guttuso

 

La semplificazione delle passioni (1971)

«Se io potessi scegliere un momento nella storia e un mestiere, sceglierei questo tempo e il mestiere del pittore. Le condizioni oggi sono storicamente privilegiate, che si abbia la forza e la libertà interna necessaria in tempi così pericolosi». Così scriveva Guttuso nel novembre del 1939, in quel numero del Selvaggio che Mino Maccari gli dedicava come ad uno «fra i migliori disegnatori che le nuove generazioni artistiche ci promettano», ed anzi il migliore senz’altro, considerando che dei pittori che allora si affacciavano alla notorietà solo Guttuso ebbe tutto per sé un numero del Selvaggio. Dopo più di trent’anni, forse Guttuso non si sentirebbe di riaffermare che viviamo in condizioni storicamente privilegiate, ma senza esitazioni tornerebbe a dichiarare che, se gli si offrisse di scegliere un’epoca in cui vivere e un mestiere, sceglierebbe quest’epoca e il mestiere del pittore; e che se alle certezze di allora sono subentrati i dubbi, se i tempi sono più di allora pericolosi, la forza e la libertà interna non gli sono venute meno, e anzi al tramonto della certezza e dal rampollare del dubbio la sua forza viene a prova decisiva e la sua libertà interna si accresce. O forse non lo dichiarerebbe per quel pudore che appunto s’appartiene alla forza, ma tutta la sua opera nell’arco di quarant’anni, e il lavoro di questi ultimi anni particolarmente, dispiegano questa dichiarazione: Guttuso tanto più è forte e libero quanto più le condizioni sono difficili, i tempi pericolosi – difficili e pericolosi sia per «i destini generali» sia per i destini dell’arte. E questa forza di Guttuso, questa libertà, la conoscono bene coloro che da anni vanamente aspettano di coglierlo al passo climaterico, quando «todo mal afirmado pie es caìda, toda fàcil caìda es precipicio»; e intendiamo al passo climaterico dei rivolgimenti e delle mode, degli scatti avanguardistici, delle reazioni – che per un artista, oggi, viene molto prima di quanto non venga, quando viene, quello dell’età; e si ripete. Guttuso il piede in fallo non lo mette: non solo perché ha grande talento e inesauribile energia, ma soprattutto per questa semplice e profonda ragione: che nessuna crisi può segnare il punto del cedimento per un uomo, per un artista, il cui elemento di vita è appunto la crisi. Guttuso è sempre in crisi: sicchè nessuna crisi può coglierlo con insidia o alla sprovvista. Il suo essere pittore è una passione, una febbre – cioè, propriamente, una crisi. Prima che nel tempo, nelle condizioni storiche, il suo privilegio è quello di essere un uomo che ama la vita con furore ed angoscia, che con furore ed angoscia vuol coglierne il flusso, capirla, esprimerla, rappresentarla. Appartiene a quella linea di scrittori, di artisti, cui manca l’ironia e il gusto: a tal punto immersi nella vita che non sanno che farsene di questi due strumenti di misurazione, e cioè di distacco. E, a pensarci bene, sono poi questi due strumenti che impediscono lo scatto verso la grandezza. Un grande artista, un grande scrittore, non ha ironia e non ha gusto; e così anche i grandi momenti della letteratura, dell’arte, sono quelli che mancano di gusto e non sono governati dall’ironia.
Già sul vecchio numero del Selvaggio, nella nota di presentazione presumibilmente scritta da Maccari, si diceva Guttuso «immune dalle eccessive pretese letterarie e dalle calligrafiche divagazioni che viziano gran parte del disegno moderno»; che «i segni morti, i segni equivoci non hanno posto nelle composizioni» sue; che «alle tentazioni di una arbitraria eleganza, che pure la sua abilità gli renderebbe facile, egli oppone una coscienza che lo sconsiglia dalle avventure non confacenti al suo carattere e al suo temperamento». E dopo aver detto che i suoi disegni possono anche essere aridi ma sono sempre onesti, l’autore della nota spiegava come tale qualifica di onestà fosse da intendere nel senso «d’un iniziale atteggiamento morale, a cui il pittore deve in gran parte la felicità dell’azione, la padronanza dell’avventura, il ritmo vibrato della scrittura». Dopo tanti anni, davanti alla lunga e fitta prospettiva dell’opera di Guttuso, queste parole assumono più vaste e suggestive risonanze. La felicità dell’azione, l’avventura – l’avventura di vivere nella pittura, di vivere la pittura come avventura: felicemente, e cioè con dolore. L’iniziale atteggiamento morale da cui diramano la felicità dell’azione, l’avventura, il vibrato ritmo dei segni, dei colori. E mai un segno morto, un segno equivoco. Magari l’errore: possibile, frequente anzi. Mai l’insignificante o l’ambiguo, nel disegno di Guttuso, nella pittura. Ma ci lascia, la nota del vecchio Selvaggio, una fondamentale questione da dipanare: l’atteggiamento morale (cioè «poetico») iniziale, primario. Qual è, da quali radici viene? Ecco un testo brevissimo ma essenziale: «Tutta la scienza nella vita sta nel semplificare le umane passioni». È di Giovanni Verga; e si trova in Eros, un romanzo in cui c’è poco di tale scienza. Ma aveva già scritto, Verga, la novella Nedda: «…la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un’altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna. Pioveva, e il vento urlava incollerito; le venti o trenta donne che raccoglievano le ulive del podere facevano fumare le loro vesti bagnate dalla pioggia davanti al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che erano innamorate, cantavano; gli altri ciarlavano della raccolta delle ulive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della pioggia che rubava loro il pane di bocca; la vecchia castalda filava, tanto perché la lucerna appesa alla cappa del focolare non ardesse per nulla, il grosso cane color di lupo allungava il muso sulle zampe verso il fuoco, rizzando le orecchie ad ogni diverso ululato di vento. Poi, nel tempo che cuocevasi la minestra, il pecoraio si mise a suonare certa arietta…». Ed è un caso: ma come la storia del Verga grande comincia da quella fattoria del Pino alle falde dell’Etna, la storia della pittura di Guttuso comincia da quella Fuga dall’Etna durante un’eruzione che Natale Tedesco ha chiamato «la Guernica siciliana» (però siciliana è un po’ anche la Guernica di Picasso; e forse Picasso ha studiato lo schema compositivo del Trionfo della morte di Palermo più di quanto Guttuso abbia dipinto la Fuga sotto l’impressione della Guernica che Cesare Brandi gli aveva allora mandato in cartolina). Un caso: ma Savinio ci ha appreso che bisogna far caso al caso nella vita di uno scrittore, di un artista – chè c’è del metodo nella follia del caso, come in quella d’Amleto. E un tale metodo ci porta alla fiamma - «troppo vicina forse» - da cui sorge, con la dolente figura di Nedda, la poetica di Giovanni Verga; alla fiamma da cui erompe, con la fuga di una popolazione – eterna e atroce fuga dalla natura, dalla storia, da se stessa – la poetica di Renato Guttuso. La poetica è per entrambi quella di «semplificare le umane passioni»; ma quella di Verga prende avvio da un ritorno, quella di Guttuso da una fuga. La differenza non è trascurabile. Si potrebbe dire, con una battuta, che c’è di mezzo tutta la scala zoologica: dall’ostrica all’uomo in rivolta. E tuttavia l’ostrica di Verga, l’uomo attaccato allo scoglio della miseria e degli affetti, soffre come e quanto l’uomo in fuga, l’uomo in rivolta di Guttuso. Il sistema della sofferenza, il sistema della passione.
Nelle pagine di Mère Méditerranée che Dominique Fernandez dedica a Guttuso (tre pagine: e restano, tra quelle che conosciamo, le migliori che siano state scritte su di lui) leggiamo: «L’influenza di Goya e di Géricault raggiunge in Guttuso l’atavismo siciliano più profondo. Il pittore di Bagheria, esaltato o detestato per il fatto che dipinge cantonieri, zolfatari e pescatori, è vittima – o autore? – di un equivoco. Come Vittorini, suo conterraneo, il Vittorini ferito di Conversazione in Sicilia, Guttuso raccoglie il lamento del mondo offeso ben più di quanto non esorti i proletari alla riscossa… Il vero, il migliore Guttuso è rimasto un autentico siciliano, cioè un poeta della rassegnazione e della morte, della sconfitta e del massacro, nonostante i principi rivoluzionari. Se come marxista non ignora che il mondo non deve essere soltanto contemplato, ma mutato, la sua sicilianità di fondo lo condanna a sentire, da artista, solo il lirico disordine degli oltraggi» (da ciò, possiamo anticipare, il suo incontro col più lirico – anche nel senso del melodramma – degli oltraggi che siano stati consumati in Sicilia: quello che diede esca al Vespro). E prima aveva detto: «Fra due quadri di pescatori siciliani, la Pesca del pesce spada in cui si vedono gli uomini attaccati e serrati ai remi, e il Pescatore addormentato, forma abbattuta, spiaccicata sul fondo indaco, il secondo è di gran lunga superiore. Guttuso dipinge di preferenza le donne nell’atteggiamento del grido, della disperazione; e rovescia le teste all’indietro, come se un coltello stesse per affondare in quelle gole. Tutta la sua opera riflette lo spavento di un supplizio imminente… ma si esprime, mi pare, con maggiore vigore quando la minaccia del martirio non è esplicita e resta allo stato di rosso, sanguinante fantasma».
Nella sua Storia di Guttuso (1960), Elio Vittorini ha una intuizione che purtroppo lascia subito cadere. Ricordando il soggiorno di Guttuso a Milano, tra il ’33 e il ’36, ad un certo punto dice: «Era a Milano che apprendeva dell’avvento di Hitler in Germania, delle cannonate di Dollfuss contro le case operaie in Austria, del 6 febbraio di Parigi, della Guerra d’Abissinia e della “fondazione dell’impero”. Era a Milano che portava avanti la sua pittura su un piano in cui il carattere mostruoso di questi fatti politici aveva la stessa importanza ossessiva che i mostri barocchi delle ville borboniche avevano avuto nelle sue prime prove di Bagheria». Ci si può spingere più avanti: la pittura di Guttuso è tutta, mentre implica l’ideologia e la storia, la speranza e l’amore, il tripudio dei sensi e la lotta – è tutta nell’ossessiva premonizione o presenza dei mostri, nell’incombere del rosso e sanguinante fantasma di cui parla Fernandez. La follia, la morte. E l’uomo non può rispondere alla follia che impazzendo. Non può rispondere alla morte che morendo. «Nobili scienziati», faceva dire Brancati all’uomo, in una delle sue ultime note di diario, «io non posso che morire». È la risposta di ogni siciliano alle cose (e anche a quella che Sartre chiama «la cosa»). E tuttavia le cose vivono e splendono (a parte «la cosa») perché non si può che impazzire, perché non si può che morire. E così vivono e splendono nella pittura di Renato Guttuso.

Catalogo della Mostra antologica dell’opera di Renato Guttuso, Palermo, Palazzo dei Normanni, 1971

 

Nota su Guttuso (1972)

Tra i pensieri bizzarri sul disegno di Diderot, ce n'è uno su cui convergono e da cui si diramano gli altri: «Autre chose est une attitude, autre chose une action. Toute attitude est fausse et petite; toute action est belle et varie».
La distinzione tra «posa» e «azione», tra la posa che immeschinisce e falsifica e l'azione che restituisce alla bellezza e alla verità, è chiara e persino ovvia: quando Diderot parla di posa si riferisce ai modelli dell'accademia, quando parla di azione si riferisce ai modelli che offre la vita e tout court alla vita. Ma poco più avanti la distinzione si attenua e c'è come uno spostamento dall'oggetto al soggetto, dal modello all'artista. Si apre la possibilità che il primo termine si cali e realizzi nel secondo, o al contrario - e che insomma la posa può essere azione o l'azione arridere alla posa solo che il disegnatore sappia e voglia, solo che il suo punto di vista si muova da fuori e dentro, da una situazione eccentrica a una situazione centrica. «Non è già da troppo tempo che di un oggetto vedete soltanto la parte che copiate? Cercate, amici miei, di supporre l'intera figura trasparente e di situare il vostro occhio al centro di essa: da lì osserverete tutto il giuoco esteriore del meccanismo; vedrete come certe parti si distendono mentre altre si accorciano; come queste cedono mentre quelle crescono; e continuamente interessati all'insieme e al tutto, riuscirete a mostrare, nella parte dell'oggetto che il vostro disegno presenta, la conveniente corrispondenza con quella che non si vede; e, non offrendone che una faccia, tuttavia costringerete la mia immaginazione a vedere la faccia opposta. E allora potrò affermare che siete dei disegnatori sorprendenti».
A un secolo e mezzo da Diderot, Ortega y Gasset (Sobre el punto de vista en las artes, 1924) vedrà la storia dell'arte occidentale, da Giotto ai nostri giorni, in un gesto unico e semplice: lo spostamento, l'evoluzione e involuzione del punto di vista; il ritrarsi del punto di vista dall'oggetto al soggetto. Ma non vedrà questo stadio del punto di vista al centro dell'oggetto, o non ne terrà conto. Del resto, Diderot diceva del disegno. E Ortega parla della pittura. Sappiamo poi come ai saggisti spagnoli, da Unamuno a Ortega, da Menendez y Pidal a Castro, sia peculiare un processo di emarginazione di tutto quello che contraddice o ostacola le tesi alla cui dimostrazione vanno dritti come frecce al bersaglio; e lo stesso Ortega, appunto aprendo il saggio cui ci riferiamo, dice che «la storia, quando è davvero quel che deve essere, consiste in una elaborazione di films» - cioè in una scelta e montaggio di fatti cristallizzati, di immagini discontinue, di idee disperse che si ricostituiscono così in unità e movimento.
Ma il punto di vista che Diderot inventa e Ortega scarta, si può considerare meramente ottico così come sembra Diderot voglia, senza equivoco, affermarlo? Soprattutto ottico, se si vuole: ma al tempo stesso, al di là dell'evento fisico, suggerisce una categoria, una definizione del disegno moderno nel suo divenire autonomo, nel suo svincolarsi dalla pittura e nel suo - qualche volta - vincolare la pittura. Un disegno che muove dal centro delle cose, e perciò, le rende all'azione. Un disegno di cui ci dà esempio, in queste tavole, Guttuso.
Facciamo ancora un passo in avanti - per il disegno, per i disegni di Guttuso - con Baudelaire.
Dalle sue considerazioni sul disegno, nel Salon de 1846, caviamo una distinzione fondamentale: quella tra i disegnatori esclusivi o puri e i disegnatori coloristi. La distinzione non consiste nel fatto che i disegnatori puri escludono il colore e i coloristi lo impiegano ma, al contrario, nel diverso linguaggio o genere in cui si esprimono nell'assenza del colore. I disegnatori puri si preoccupano di seguire e sorprendere la linea nelle sue più segrete ondulazioni, e non hanno il tempo di vedere l'aria e la luce, e anzi si sforzano di non vederle per non venir meno al loro principio; il colorista che disegna, al contrario, non vede che l'aria e la luce, cioè i loro effetti. «I coloristi disegnano come la natura; le loro figure sono naturalmente delimitate dalla lotta armoniosa delle masse colorate» nel tempo stesso che ne fanno a meno. E insomma: «I puri disegnatori sono dei filosofi e dei distillatori di quintessenze. I coloristi sono dei poeti epici». Più avanti, dirà che soltanto i coloristi hanno il privilegio del disegno di immaginazione o di creazione e che «i disegnatori puri sono dei naturalisti dotati di un senso eccellente, ma disegnano per ragionamento, mentre i coloristi, i grandi coloristi, disegnano per istinto, quasi a loro insaputa». Là dove, dunque, il colorista può passare alla «matita nera» senza pena e anzi con libertà, inventando, creando, il disegnatore puro, se si attenta a passare al colore, sempre mostrerà nelle sue cose un che «d'amer, de pènible et de contentieux».
La distinzione è precisa, e oggi ci è consentito di verificarla forse meglio che al tempo in cui Baudelaire la faceva: poichè con più «inconcepibile slancio» i disegnatori puri si danno al colore, e con maggiore autonomia e libertà i coloristi si danno al disegno. E ne abbiamo esempio immediato in questi disegni di Guttuso, che sono appunto i disegni di un colorista: e tanto più li riconosciamo per tali nell'assenza del colore, nel bianco e nero. Una riconoscibilità che viene da quello che Baudelaire chiama «un metodo analogo alla natura» - ed è inutile dire che la natura non è naturalistica. E quale metodo è più analogo alla natura di quello dell'azione che viene da dentro le cose, dal centro delle cose, dell'azione che è la cosa - nella «armoniosa lotta delle masse», nell'aria, nella luce?
Questi brevi testi - di Diderot, di Baudelaire - e altri cui ci avverrà di fare richiamo, sono delle approssimazioni, dei gradi di avvicinamento, a una proposizione che possiamo già nettamente dichiarare: le cose di Guttuso sono quanto di più vicino alla vista si possa dare nell'arte; e il disegno è il mezzo espressivo suo in cui lo scarto tra l'arte e la vita si riduce al minimo.
Non a caso questa proposizione espunge il «come» e la sua ombra: la vicinanza alla vita non è data dal fatto che sono come la vita, che somigliano alla vita, ma appunto dal contrario. Non somigliano alla vita, non sono come la vita: sono, su un piano che non è quello della vita, la vita.
Qualcosa di simile è stato detto per Tolstoi - e benissimo da Lionel Trilling, nel saggio su Anna Karénina. E vale la pena riportarne il brano finale: «Parte dell'incanto del libro si deve al suo violare la nostra nozione del rapporto che dovrebbe esistere tra l'importanza di un evento e lo spazio ad esso dedicato. La scena di Vronskij che comprende all'improvviso di essere legato ad Anna non dall'amore ma dalla fine dell'amore, fatto che colora (così nella traduzione, ma ci viene il dubbio non sia la parola esatta) tutto il nostro modo di intendere la relazione» dei due amanti, è trattata in poche linee; ma intere pagine sono dedicate alla scoperta di Levin che tutte le sue camicie sono state messe in valigia e non gli resta neppure una camicia da indossare al suo matrimonio. Fu proprio la somma di attenzione data alle camicie che fece esclamare a Matthew Arnold che questo libro non doveva essere considerato arte ma vita, e forse questa scena più di ogni altra suggerisce la vigorosa intelligenza animale che carettirizza Tolstoij come romanziere. Perchè qui abbiamo infine la sua coscienza che lo spirito dell'uomo è sempre alle mercè di cose contingenti e banali, il suo senso appassionato che il contingente e il banale sono della più grande importanza... Comprendere lo spirito incondizionato non è così difficile, ma non v'è nulla di più raro che il comprendere lo spirito quale esiste nelle condizioni ineluttabili creategli dal contingente e dal banale».
Si potrebbe riscrivere questo brano per Guttuso: con qualche modifica, ovviamente, con qualche ritocco. Anche Guttuso fa violenza alla nozione del rapporto tra gli eventi e lo spazio (e qui la parola spazio assume più forte valore), tra noi e le cose, delle cose tra loro. E se spesso tratta il grande evento in grande spazio (e da ciò certe sue dèfaillances di un'epica senza poesia), è nello spazio che prendono i piccoli eventi, le cose contingenti e banali, che riconosciamo la vita. Si potrebbe dire, con una battuta, che la sua grandezza è più nelle camicie che nelle bandiere. Le camicie di Levin e non quelle di Giuseppe Cesare Abba. Lo spirito (poichè ci troviamo la parola tra le mani) ineluttabilmente condizionato dal contingente e dal banale - e che è poi la vita - gli dà vigore e acutezza più dello spirito incondizionato - che è poi, per lui, la storia. E sempre si è tentati, di fronte alle sue rappresentazioni dei grandi eventi, al giuoco del sezionamento (a parte, si capisce, La fuga dall'Etna del 1938 e la Crocifissione del 1941: e anche se amiamo il primo più del secondo, l'importanza della Crocifissione è evidente, e non solo nella storia di Guttuso) - qualcosa di diverso della usuale estrazione del particolare: e ne vien fuori che ogni parte è maggiore del tutto, cioè che ogni parte è vicina alla vita più di quanto lo sia la rappresentazione nel suo insieme. Chiamare «composizioni» i suoi grandi quadri sarebbe insomma esattissimo: per poi operarvi, idealmente, una «scomposizione» - cioè una deduzione, non una riduzione, del contingente dall'assoluto, del momento quotidiano dal momento storico, della vita che si fa dalla vita - storicamente, ideologicamente – fatta (E questo discorso altri potrebbe forse farlo in ordine a valori esclusivamente pittorici: di come nelle parti ci sia, paradossalmente, più pittura che nell'insieme).
Le camicie di Levin sono importanti perchè mancano. Pascal ha avuto un pensiero sul contingente e il banale che può arrivare ad ucciderci: per affermare che l'uomo è più nobile di tutto ciò che lo uccide. Non ha però tenuto conto del contingente e del banale che può condizionarci o ucciderci non per presenza e dinamica (la dinamica dell'incidente), ma per mancanza, per assenza. Del resto, non poteva o non gli importava. La situazione dell'uomo «nelle condizioni ineluttabili creategli dal contingente e dal banale» in assenza, comincia ad essere visibile dopo. Perchè il condizionamento per assenza è di specie economica: ed è la povertà. Momentanea in Levin (ma a questo punto le camicie di Levin retrocedono a labile pretesto), inveterata e perenne nei Malavoglia. La vita dei pescatori di Acitrezza, quale Verga ce la rappresenta, altro non è, in effetti, che il continuo e tragico condizionamento - il tragico che non cresce e precipita ma continua - dell'uomo da parte delle cose che gli mancano.
Ecco: la condizione da cui le cose (e parliamo propriamente di cose) di Guttuso esplodono sulla tela o sul foglio è appunto quella della povertà. E non diciamo la povertà bohémienne alla quale a volte, in esplicita autobiografia, si riferiscono - ma l'antica e immobile povertà del mondo verghiano che è stato, negli anni venti e trenta, anche il suo.
Le cose sono fissate sulla tela o sul foglio da una divorante impazienza. Gli spaghetti, le uova al tegamino, la fetta d'anguria debbono essere, subito dopo, mangiati; il vino deve essere, subito dopo, bevuto. Si tratta di veri spaghetti, di vere uova, di vera anguria, di vero vino: anche se il segno non li riproduce ma li inventa. Si tratta insomma di vera fame: e si pensi a quel suo mangiatore di spaghetti del 1956. E comunque si tratta di un desiderio profondo e sofferto, rapidamente appagato e mai spento - e rapidamente appagato e mai spento (mai cioè «scorporato», distaccato, sublimato) anche nell'immediata duplicazione - con scarto minimo, come abbiamo detto - dalla vita all'arte. Una nota di Bergamin può forse esemplificare, semplificare, quel che intendiamo: «Avete sete e bere acqua è la perfezione della sensualità, raramente raggiunta. Alcune volte si beve acqua e altre si ha sete. (E altre volte ci si beve la propria sete, mi rispose Unamuno)». Guttuso raggiunge questa perfezione della sensualità, bevendo acqua quando ha sete; e va oltre nella perfezione bevendo, insieme all'acqua, la propria sete.
Automaticamente ricordiamo: «Egli può rivedere tutto un Oriente nell'interno di un frutto nostrano come il cocomero». È Bruno Barilli che parla di Verdi. E ancora: «Chi è abituato per una certa dimestichezza a ficcare le mani fra gli ingranaggi dei componimenti musicali, le ritrae improvvisamente, fa un salto indietro e rimane trasecolato al prorompere della sua foga folgorante e irreparabile». Sembra cioè, la musica di Verdi, un meccanismo semplice e frusto come quello, se si alza il coperchio, delle viscere di un pianino: ma appunto i meccanismi semplici sprigionano, nell'arte, le scariche folgoranti e irreparabili. «Con immediatezza tutta meridionale», dirà infine, per noi, per questo nostro frammentario discorso su Guttuso, Barilli parlando di quel «culmine eccelso» che è per lui Il trovatore.
E sembra parli di un Verdi, oltre che di sè sulla soglia della grandezza, Verga quando dice che «tutta la scienza nella vita sta nel semplificare le umane passioni». Lui, questo processo di semplificazione l'aveva appena cominciato: «...la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un'altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere nell'immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell'Etna. Pioveva, e il vento urlava incollerito; le venti o trenta donne che raccoglievano le olive del podere facevano fumare le loro vesti bagnate dalla pioggia davanti al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che erano innamorate, cantavano; le altre ciralavano della raccolta delle ulive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della pioggia che rubava loro il pane di bocca...». E così vien fuori Nedda la varannisa; e Verga passa dalla mediocrità al genio, come è stato detto. Ed è senz'altro casuale: ma come la storia del più grande Verga comincia da quella fattoria del Pino alle falde dell'Etna, la storia della pittura di Guttuso si può far cominciare dal quadro (e dal più lontano intenso disegno che lo precede) Fuga dall'Etna durante un'eruzione. Un caso: ma Savinio ci ha appreso che bisogna far caso al caso, alle corrispondenze e coincidenze le più vaghe e quasi impercettibili, nella storia di uno scrittore, di un artista - e che insomma c'è del metodo nella follia del caso. E cercandolo in questo, ecco che siamo alla fiamma da cui sorge, con la dolente figura di Nedda, la poetica di Giovanni Verga; e alla fiamma da cui erompe, con la fuga di una popolazione - eterna e atroce fuga dalla natura, dalla storia, da se stessa - la poetica di Renato Guttuso. La poetica è per entrambi quella di «semplificare le umane passioni»; il luogo ad essa connaturato, e che non può essere altro, la Sicilia. Ma la poetica di Verga, l'uomo attaccato allo scoglio della miseria e degli affetti, soffre come e quanto l'uomo in rivolta di Guttuso. Il sistema della sofferenza (come dicessimo sistema nervoso) dell'uomo di Guttuso è uguale a quello dell'uomo di Verga: semplificato. Il sistema della sofferenza. Il sistema della passione.
Tra Verdi e Verga, tra un Verdi vissuto e un Verga vaticinato, c'è Francesco De Sanctis.
L'Italia di Guttuso è l'Italia di De Sanctis. (E anche la Divina Commedia disegnata da Guttuso è quella letta da De Sanctis - e l'Inferno, oltre che luogo delle passioni umane semplificate, come inferno della nostra storia civile).
Da queste tessera, da questo piccolo mosaico di tesi e di richiami, dovremmo a questo punto muovere un discorso meno aleatorio e sfuggente, più coerente, più sicuro, sull'arte di Guttuso. Ma abbiamo davanti l'uomo, il conterraneo, l'amico - la sua irresistibile vitalità e simpatia, la sua parola, il suo gesto - il suo gesto che dalla vita sconfina nell'arte senza soluzione di continuità, senza sorpresa, senza che ce ne accorgiamo o che se ne accorga (mentre ce ne accorgiamo e se ne accorge). Qualcosa di simile a quel che Stendhal, secondo Gide, faceva con malizia: lo «scrivere di colpo» - in Guttuso il disegnare o dipingere di colpo - per cui alla sempre viva e commossa fantasia si mescola «un non so che di aggressivo e di impulsivo, di sconveniente, d'immediato e di nudo». Ecco: questa catena di aggettivi - aggressivo, impulsivo, sconveniente, immediato, nudo - può anche definire il mondo che Guttuso ci restituisce nei disegni, nelle pitture. Ma ora vogliamo allontanare il mosaico, e anche quest'ultima tessere, come sfondo a un ritratto. «Incontriamo per la strada Guttuso. Cammina fra gli amici con il collo sprofondato entro la giacca e la testa piegata a sinistra come tutti i passeggiatori siciliani che porgono una guancia al molle vento di scirocco; ogni tanto avvolge un braccio sulle spalle dell'amico che gli sta a destra o dell'amico che gli sta a sinistra...». A Roma, nel 1947, Brancati ferma nel suo diario questa immagine, questo «riconoscimento» lontano ma fraterno - quasi avesse riconosciuto prima il siciliano, e poi che quel siciliano era Guttuso. A Palermo, nel 1971, più da vicino...«Prima, quando venivo in Sicilia subito mi assaliva la smania di andarmene; ora mi viene la tentazione di restarci». Sempre la sigaretta tra le dita, una appresso all'altra consumate in poche boccate, nervosamente; sempre quell'onda di fumo davanti al volto, come negli autoritratti. Renato Guttuso, bagherese nato a Palermo: che il padre in quel momento ce l'aveva coi suoi concittadini, o soltanto con gli amministratori comunali, e volle che il figlio non nascesse a Bagheria ma nella città capitale, nella splendida e misera Palermo di quegli anni, di sempre. Ma la ripicca di Gioacchino Guttuso è rimasta un fatto puramente anagrafico: quando si parla di Renato Guttuso, della sua pittura, si parla di Bagheria. Il paesaggio, la gente. L'intraprendenza e l'acutezza dei bagheresi, i fasti e nefasti dell'amor proprio. La vampa dei colori, la morte. Bagheria con le sue ville settecentesche, estremo delirio dell'anarchia baronale; coi suoi giardini di limoni, in cui delira l'anarchia mafiosa. I mostri di Palagonia. Il mare dell'Aspra.
Il giorno di Natale, Guttuso è andato al cimitero di Bagheria. Ha camminato tra le tombe e ha parlato di comunismo col custode. Poi è tornato a Palermo, in albergo. «È sempre pieno d'angoscia», mi dice la persona che meglio lo conosce e l'ama. Lo guardo mentre ascolta le disperate canzoni di Rosa Balistreri. È come se fosse arrivato alle radici della sua angoscia, al nudo viluppo delle antiche paure, delle antiche sofferenze. Morsi cu morsi e cu m'amava persi, - comu fineru li jochi e li spassi! - La bedda libirtà comu la persi, - l'hannu 'mputiri li canazzi corsi, - Chiancinu tutti, li liuna e l'ursi, - chianci me matri ca vivu mi persi, - Cu dumanna di mia, comu 'un ci fussi, - scrivitimi a lu libru di li persi. Quando Guttuso è a Palermo sono frequenti le serate, in casa di amici, in cui Rosa Balistreri canta: con quella sua voce viscerale e straziata, pieda d'amore e rancore. E tra tutti i canti, Guttuso sembra preferisca questo: un canto di carcerato misteriosamente dolente, che cela una identità, una storia.
«È morta chi è morta e ho perso chi mi amava, i giuochi e gli spassi sono finiti»: e viene da tradurre «morta» invece che «morto» perchè si ha il senso che l'uomo abbia ucciso colei che lo amava; e sta scoprendo ora di averla uccisa ingiustamente; e perciò il rimorso, e il vagheggiamento della lontana e perduta felicità.
«Ho perso la bella libertà, sono ormai in potere degli sbirri, feroci come cani corsi; e perciò piangono tutti, anche i leoni e gli orsi; e piange mia madre, che vivo mi perse. A chi domanda di me, come non ci fossi: scrivetemi nel libro dei persi». Uccidiamo sempre le cose che amiamo, rimpiangiamo sempre i verdi paradisi dell'infanzia e dell'amore; il mondo è una prigione, i cani corsi ci azzannano. Ma piange la madre, la natura che è madre piange con lei: ed è soltanto il pianto del nostro esser vivi. Meglio dunque esser morti, calati nel libro dei persi.
Guttuso accompagna il canto a mezza voce, lo alza e impenna nel gesto della mano, nell'agitata voluta di fumo che sale dalla sigaretta. La mano ricade sul libro dei persi, la mano che ha dipinto fiori e battaglie, nudi di donne, scene d'amore, atrocità storiche e malinconie esistenziali. La mano che ha dipinto altre mani. Ma la sua non mi fa pensare a quella di Lenin, che lui ha dipinto. Mi fa pensare, viva ma così abbandonata e stanca, a quella di don Gesualdo. «Guardate che mani», fa dire Verga di quelle di Gesualdo Motta: e basta per farcele vedere grandi e dure. Ma non è fisicamente che la mano di Guttuso mi ricorda quella di don Gesualdo. Fisicamente diverse, sono mani che hanno fatto, mani che hanno vinto e che pure posano come vinte. Dice Lawrence di don Gesualdo: “Ma non altro ottiene dalla ricchezza che un grande tumore di sofferenza, un amaro tumore..” Dalla ricchezza, dal successo, dalla gloria, che altro resta a Renato Guttuso se non uguale tumore di sofferenza?
Ci sono, si, i suoi quadri: nelle case, nelle gallerie pubbliche, riprodotti a milioni di esemplari, sotto gli occhi di tutti, ad arricchire e ad abbellire la vita, a riscopritla; ma sono come le terre al sole di don Gesualdo. «Ma egli è siciliano», dice ancora Lawrence di Gesualdo, «e qui salta fuori la difficoltà». La difficoltà, per Guttuso, per noi, per ogni uomo che è nato in quest'isola, di vivere dopo aver fatto, dopo avere accumulato quadri o libri o denaro; la difficoltà a resistere, anon soccombere «sotto il gruzzolo» della ricchezza o della gloria o soltanto e semplicemente delle cose fatte, delle cose in cui abbiamo messo e mettiamo la nostra passione.
Questa è la lotta di Guttuso, la sua angoscia. Non vuole soccombere sotto le cose che ha fatto, sotto le cose che fa. La lotta contro il «gruzzolo» nel tempo stesso che inevitabilmente, inarrestabilmente, ogni suo gesto lo fa crescere. La lotta contro la «roba» - che sono i quadri, che è la fama, che può essere anche la ricchezza - mentre la «roba» dislaga a raggiungere il più lontano orizzonte. Il «disvivere» mentre tenacemente, testardamente, profondamente vive. E il suo tornare in Sicilia, il legame fisico che ora ristabilisce con la sua terra, ha questo senso: di porsi faccia a faccia con la verità, di godere (questo è il punto) il suo tumore di sofferenza. Gesualdo Motta no, non poteva: «visse ciecamente, sotto l'impeto del sangue e dei muscoli, con l'astuzia e la volontà, e mai ebbe coscienza di sè. Sarebbe stato migliore se l'avesse avuta? Nessuno può dirlo». Non possiamo dirlo. Nemmeno Guttuso può dire se la sua «coscienza di se» lo fa migliore di don Gesualdo che non lo sapeva: non può dirlo soggettivamente, come uomo che soffre, ma lo affermano i suoi quadri, la sua «coscienza di se» che si fa nostra: coscienza di come siamo, di come soffriamo, di come godiamo la nostra sofferenza.
Vedendolo in luce verghiana, come personaggio sconfitto nel momento stesso in cui vince, vincitore nel momento in cui è sconfitto, si capiscono tante cose di Guttuso, della sua pittura. Tutto quello che da lui vien fuori, nella vita come nell'arte, anche la sua innocenza, s'appartiene alla profonda coerenza di questa agonia da personaggio verghiano che Verga non riuscì a raggiungere (e avrebbe forse raggiunto se stesso). E non a caso mi viene il termine agonia: della vita che lotta contro se stessa, e cioè contro la morte. O al contrario: della morte che lotta contro se stessa, e cioè contro la vita.
«Ogni mattina, quando mi faccio la barba, vedo affiorare nello specchio il volto di mio padre» - mi ha detto una volta Guttuso. Ho subito pensato a quell'altro siciliano, suo amico, che «da una ruota / imperfetta del mondo, / su una piena di muri serrati, / lontano dai gelsomini d'Arabia», volle parlare al padre: «per dirti / ciò che non potevo un tempo - difficile affinità / di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo / cicale del biviere, agavi lentischi, / come il campiere dice al suo padrone: / 'Baciamu li mani'. Questo, non altro. / Oscuramente forte è la vita».
Gli antichi dicevano, in diritto, «paterna paternis», al figlio quel che è del padre. Scomparsa nel diritto, la formula è rinunciata anche nei pensieri, nei sentimenti. Se non da pochi: Quasimodo, Guttuso...
E non si può essere, più di così, siciliani. Più di cosi, uomini.

 Guttuso. Disegni 1938-1972, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1972

 

La Vucciria di Guttuso (1974)

Così come certe pietanze o dolci in cui c'è tutto (e a volte, persino, la pietanza sconfina nel dolce e il dolce nella pietanza), e sembrano realizzare il sogno di un affamato, i mercati più abbondanti e traboccanti, più ricchi, più festosi, più barocchi sono quelli dei paesi poveri, dei paesi in cui lo spettro della fame si è sempre aggirato come la Morte Rossa di Poe - ma a differenza di questa, mai riuscendo a varcare la soglia delle patrizie dimore. A Bagdad, a Valencia, a Palermo un mercato è qualcosa di più di un mercato - cioè di un luogo dove si vendono vivande o dove si va per comprarne. È una visione, un sogno, un miraggio. Un “mangiar visuale”: e con effetti di appagamento e delizia pari a quelli delle “bevute visuali” del Magalotti. E potremmo anche lasciar cadere la parola mangiare: chè dei cinque sensi, a ben considerare, il meno impegnato finisce con l'essere il gusto, subordinato agli altri quattro: i quali, dalla sua inattività resi più alerti e sottili, a compenso gli trasmettono quei segnali tra loro complementari e concomitanti che diventano “un misto di gola, di ristoro, di maraviglia, di dolcezza, di liquefazione”, come appunto nelle “bevute visuali” del Magalotti.
Ora il visualizzare un fatto visuale quale la Vucciria di Palermo, vale a dire un fatto di predisposta, funzionale e funzionante visualità - il visualizzarlo in una pittura, in un quadro, in un grande quadro - sarebbe una operazione piuttosto ovvia e banale, se non vi concorresse non solo una celebrazione della visualità nel senso magalottiano, ma anche la conoscenza e conscienza di un significato: di quel che una tale visualità - che sarebbe da dire propriamente e definitivamente teatralità - umanamente e storicamente significa. E potremmo anche fare a meno di dire che non significa il consumo, ma la fame: poichè il quadro di Renato Guttuso impareggiabilmente lo dice.

 “Sicilia”, luglio, n. 76, 1974
Il vespro siciliano (1975)

…..Vi si aggiunge ora Renato Guttuso. Il suo sentimento e giudizio del Vespro, in queste immagini, è quello stesso che trascorre nei versi di Dante, nella Storia di Amari, nell'opera di Verdi. Certo, Guttuso sa bene dell'altro e più esatto giudizio di Croce e degli storici moderni, di quella specie di invettiva lanciata contro la falsa rivoluzione del Vespro, per colpire la falsa rivoluzione che era il fascismo, da Elio Vittorini. Ma nel suo sentire popolare, nel suo aver radici nella vita e nel sentimento del popolo (e la sua vitalità, la sua «energia», appunto consiste nel fatto che la sua cultura, anche nei più puntuali, avvertiti e risentiti aggiornamenti, è humus a quelle radici), egli torna al fatto in sé, al Vespro nel suo innescarsi e nel suo esplodere, reciso dagli avvenimenti di cui fu causa, dalle implicazioni e complicazioni che gli storici poi vi riconobbero e condannarono.
Torna cioè al mito del Vespro come improvvisa e incontenibile rivolta di popolo. Per la giustizia, per la dignità, per il buongoverno.

E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Rodolfo,
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: «mora, mora!»
E se mio frate questo antivedesse...

Se l'antivedesse tiranno, se l'antivedessero tutti coloro che operano contro la libertà, contro la giustizia, contro la dignità umana... E ancora una volta, rappresentando il Vespro, questo dicono, di questo ammoniscono, le intense e vivide immagini di Guttuso.

Guttuso, catalogo della mostra, Galleria “La Tavolozza”, Palermo 1975-1976.

Io lo conoscevo bene (1987)

Ho conosciuto benissimo Renato Guttuso: e posso dirlo non solo per i frequenti incontri, la lunga confidenza, la simpatia e l’affetto che avevo per lui, ma anche – e soprattutto – perché il nostro essere d’accordo nel giudicare persone, fatti e libri nella loro immediata verità, se appena tentavamo di risalire ai principi, diventava fondamentale e profonda discordia. Il che ci rendeva – penso reciprocamente – guardinghi. Tanto per fare un esempio: conosceva ed amava Voltaire, potevamo parlarne per delle ore con uguale entusiasmo; ma appena si affacciava la contrapposizione a Rosseau, ecco che – come nel gioco della torre buttava giù Voltaire e si teneva zelantemente a Rosseau. La sua obbedienza ai principi – o meglio: a un principio – era indefettibile. Tutt’altra era la sua vita, tutt’altri i suoi sentimenti e pensieri; e con pena portava la contraddizione del come viveva col come obbediva: ma non ammetteva ci si attentasse a discuterla, pretendeva anzi che fosse capita e magari elogiata. Il che, ad un certo punto, ci ha portati ad una rottura di cui entrambi abbiamo sofferto. Ed io posso sinceramente confessare la mia sofferenza, la sua intravedendola nei biglietti che continuò a mandarmi e nei messaggi che comuni amici mi riferivano. Lo conoscevo, ripeto, benissimo: nelle sue debolezze, nei suoi mutevoli umori, nei suoi “enfantillages” – che eran tanti, a momenti patetici e addirittura commoventi. La sua frequentazione di persone che comunque rappresentassero il potere aveva un che di’infantile, senza ombra di utilitarismo. Un nostro amico cui, come a me, qualche volta accadeva di passare un pranzo o una cena in casa Guttuso, incontrandovi le più disparate persone del potere, soleva dire: «Quella non è una casa, è un aeroporto». Ma anche se la “casa-aeroporto” di Guttuso può essere assunta a campione sociologico e a spiegazione dei fasti e nefasti della politica italiana dell'ultimo quarto di secolo, io so che quell'accozzare a mensa le persone più disparate veniva principalmente dal suo temperamento, dal suo voler essere amato da tutti – e dal suo essere irreparabilmente siciliano. Lui riusciva a parlare con tutti, ad affrescare tutti. C'era una sola cosa in lui di sgradevole: uomo generoso, lo era di più con coloro che un po' disprezzava. Ne conseguiva che intrattenere con lui un rapporto non di soggezione – di vera, disinteressata e libera amicizia – era difficile, anche se in definitiva bello; ma intrattenerne uno interessato, era facile. Potrei scrivere lungamente su di lui, sul suo carattere e sui nostri rapporti (ma sui nostri rapporti, se lui ha conservato le mie lettere come io le sue, chi ne ha voglia potrà domani scriverne). Io, qui ed ora, voglio soltanto dire che gli ultimi suoi giorni di vita sono stati di tutta coerenza rispetto a come era sempre stato. E l'ho subito dichiarato: né le sue ultime volontà riguardo ai beni, né la sua conversione alla religione cattolica, mi hanno minimamente sorpreso. Mi ha sorpreso invece, e spiacevolmente, che intorno alla sua morte si muovesse un caso giudiziario. Ma, detto questo, mi sento in dovere – come cittadino – di esprimere solidarietà alle due signore che gratuitamente, nella sentenza di archiviazione del caso, sono state offese.

 “L'Espresso”, 11 ottobre 1987

 

            L. SCIASCIA, Io lo conoscevo bene, “L'Espresso”, 11 ottobre, 1987, infra.

            G. JACKSON, Nel labirinto di Sciascia, Edizioni La Vita Felice, Milano 2004, p. 202.

            B. CARUSO, Le giornate romane di Leonardo Sciascia, La Vita Felice, Milano 1997, p. 63.

            Su questo punto cfr. L. SCIASCIA, Io lo conoscevo..., 1987.

            A. MAORI, Leonardo Sciascia: elogio dell'eresia, Edizioni La Vita Felice, Milano 1995, pp. 22-24.

          Su questa vicenda cfr. L. SCIASCIA, A futura memoria: se la memoria ha un futuro, Bompiani, Milano 1989, pp. 102-105.

            L. SCIASCIA, Intervista su “Critica Sociale”, gennaio 1978, ripubblicata in L. SCIASCIA, La palma va a nord, a cura di V. Vecellio, Gammalibri, Milano 1982, p.17.

          Lettera di Renato Guttuso a Leonardo Sciascia, s.d., pubblicata su “La Repubblica”, maggio 1979.

            Lettera di Leonardo Sciascia a Renato Guttuso, s.d., pubblicata su “La Repubblica”, maggio 1979.

        Una prima ricognizione bibliografica degli scritti di Sciascia sulle arti figurative è stata pubblicata da Francesco Izzo (cfr. F. IZZO, Come Chagall vorrei cogliere questa terra: L. Sciascia e l’arte. Bibliografia ragionata di una passione, in La memoria di carta, a cura di V. Fascia, con scritti di F. Izzo e A. Maori, Edizioni Otto/Novecento, Milano 1998, pp. 191-276), che ringrazio vivamente per avermi fornito preziosi suggerimenti. Recentemente è stata pubblicata una nuova ricognizione bibliografica, cfr. A. MOTTA,  Bibliografia degli scritti di Leonardo Sciascia, Sellerio editore, Palermo  2009.

           Su questo aspetto si veda l'informata biografia di G. TRAINA, Leonardo Sciascia, Mondadori, Milano 1999, pp. 48-50.

        Per un quadro generale sui rapporti tra Sciascia e le arti figurative cfr. La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, catalogo della mostra (Racalmuto 1999) a cura di P. Nifosi, Edizioni Salarchi Immagini, Comiso 1999; e G. CIPOLLA, L'universo sciasciano delle arti figurative, “El Aleph”, 11, Francotirature, Milano 2009, pp. 81-89.

        Cfr. G. MANDEL, L’opera completa di Antonello da Messina, con introduzione di L. Sciascia, Milano 1967.

        Cfr. Caravaggio in Sicilia, il suo tempo, il suo influsso, catalogo della mostra (Siracusa 1984) a cura di F. Abbate, Sellerio editore, Palermo 1984.

        Cfr. Mostra di Filippo Paladini, catalogo della mostra (Palermo 1967) a cura di M. G. Paolini e D. Bernini, saggio introduttivo di C. Brandi, Palermo 1967.

        Cfr. Pietro d’Asaro il «Monocolo di Racalmuto», catalogo della mostra (Racalmuto 1984-1985) a cura di M. P. Demma, prefazione di L. Sciascia, Palermo 1984.

           Entrambi i disegni sono firmati e datati in basso a sinistra: il primo reca la firma e la data:«Guttuso / 1-1-1972», e il secondo: «Guttuso / 1-1-1972».

        Sulla rivista “Galleria” cfr. G. CIPOLLA, Leonardo Sciascia e le arti figurative attraverso la direzione di  “Galleria. Rassegna bimestrale di cultura” (1949-1989), in Annali di Critica d'Arte, in corso di stampa.

   Cfr. Nino Savarese, “Galleria. Rassegna bimestrale di cultura”, VI, 5-6, 1955.

           Cfr. F. IZZO, Come Chagall..., 1998, p. 194.

        In Todo modo Sciascia, pur tacendo il nome del pittore-protagonista, ci lascia una traccia significativa che ce lo fa intravedere, quando al suo primo incontro con l'antagonista Don Gaetano, questi dice al pittore anonimo: «mi pare di riconoscerla...Aspetti, non mi dica il suo nome...In televisione, circa tre mesi fa: facevano vedere come nasce un quadro, un suo quadro... Francamente, poteva farsi vedere a dipingere un quadro più bello...Ma l'ha fatto apposta, immagino: come nasce un brutto quadro per un brutto mondo, un quadro senza intelligenza per quei milioni di esseri senza intelligenza che stanno davanti a un televisore» (cfr. L. SCIASCIA, Todo modo, in Opere 1971-1983, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1989, p. 110). E di fatti Guttuso, che è un caso emblematico di artista che accanto a imponenti capolavori dovette realizzare anche molti dipinti “corrivi” per il mercato,  nel noto programma televisivo aveva realizzato in diretta una Natura morta con peperoni.

           Sulle suggestioni figurative dei romanzi sciasciani cfr. G. JACKSON, Nel labirinto di Sciascia, pp. 183-207.

        E. VITTORINI, D. MOROSINI, Disegni di Guttuso, Edizioni di Corrente, Milano 1942.

        P. NERUDA, A. TROMBADORI, Renato Guttuso, Vystavnì Sine Mànesa, Praga 1954.

           E. VITTORINI, Guttuso, Edizioni del Milione, Milano, 1960.

   A. MORAVIA, F. GRASSO, Renato Guttuso, Edizioni Il Punto, Palermo 1962.

  P. P. PASOLINI, Venti disegni di Renato Guttuso, Editori Riuniti, La Nuova Pesa, Roma 1962.

           G. UNGARETTI, Renato Guttuso, Zeichnungen 1930-1970, Propyläen Verlag, Berlino 1970.

        É noto quanto estesa e notevole fosse la rete di amicizie di Guttuso in campo artistico e letterario, ci si limita a ricordare tra questi Picasso, di cui Guttuso era ospite almeno due volte l'anno, Neruda che fu testimone alle sue nozze con Mimise, «la persona che più l'ha capito e che più l'ha amato» come scrisse Sciascia.

        Sul dibattito in ambito figurativo tra realismo e astrattismo nel secondo dopoguerra cfr. R. BOSSAGLIA, La ripresa del dopoguerra: le varie tendenze, in EAD., L'arte nella cultura italiana del Novecento. Con un dizionario minimo degli artisti e dei critici, Laterza, Milano 2000, pp. 37-41.

           La scelta di campo in favore del realismo, che fu naturalmente trasversale rispetto alla letteratura e alle arti visive, va intesa nel solco della cultura gramsciana che emergeva nella critica letteraria e figurativa dei primi anni Cinquanta attraverso riviste quali “Nuova Corrente”, “Nuovi Argomenti”, “ L'esperienza poetica”, “Galleria”, “Il Selvaggio”, dove scrivevano Pasolini, Romanò, Roversi, Maccari, Guttuso stesso e Sciascia. Su questo punto cfr. M. ONOFRI, Storia di Sciascia, Editori Laterza, Roma 2004, pp. 33-34.

        L. SCIASCIA, Intervista su “Critica Sociale”, gennaio 1978, cit., p. 17.

        Cfr. Renato Guttuso, Paese del latifondo siciliano (1956). Illustrazione per la copertina dell’edizione originale di L. SCIASCIA, Il giorno della civetta, Einaudi, Torino 1961.

           Cfr. L. SCIASCIA, I misteri di Courbet, in Id., Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 2009, pp. 202-208.

        Cfr. L. SCIASCIA, Scuola Romana: una mostra per risvegliare una città, “Corriere della Sera”, 5 maggio 1983. Sulle frequentazioni dello studio romano di Guttuso negli anni del dopoguerra cfr. D. FAVATELLA LO CASCIO (a cura di), Storie di amici e di arte. Opere dal Museo Renato Guttuso, catalogo della mostra (Bagheria- Vigevano 2004), Bagheria 2004, pp. 21-22.

           E. CRISPOLTI, Malinconie esistenziali di Guttuso, da Milano (1935), e suggerimenti parigini di Severini, da Roma (1937), ai Pasqualino, a Palermo (un frammento di storia dei "Quattro"), in Il presente si fa storia: scritti in onore di Luciano Caramel, a cura di C. De Carli, F. Tedeschi, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 313-330.

        F. SCIANNA, La villa dei mostri, introduzione di L. Sciascia, Einaudi, Torino 1977; lo stesso testo di Sciascia è ripubblicato in una versione più ampia in L. SCIASCIA, Cruciverba, Einaudi, Torino 1983, pp. 67-75.

        Cfr. Vietnam libertà, Milano, Istituto Litografico Internazionale, 1968 [con 5 acqueforti originali di Bruno Caruso, Carlo Levi, Renato Guttuso, Renzo Vespignani, Ugo Attardi, in 90 esemplari]. Sull'argomento si veda A. MOTTA, Bruno Caruso negli scritti di Leonardo Sciascia, in Storia di un'amicizia. Scritti di Leonardo Sciascia sull'opera di Bruno Caruso, Kàlos, Palermo 2009, p. 124.

        Le informazioni sull'assidua frequentazione di Sciascia della Galleria “Arte al Borgo”, negli anni Sessanta e Settanta, si devono a una piacevole conversazione verbale con Maurilio Catalano, che ringrazio vivamente. Sulle mostre degli anni Sessanta e Settanta nella galleria palermitana cfr. E. DE CASTRO, “Arte al Borgo” 1963-1973: dieci anni di mostre a Palermo, in “Retablo”, I, 1999, 11, p. 7.

        Al noto periodico palermitano “LOra”, fondato dall'imprenditore siciliano Ignazio Florio, nel corso della metà del Novecento ebbe tra le più autorevoli firme, per quanto concerne la critica d'arte, oltre a Sciascia, anche lo stesso Guttuso, e inoltre Maria Accascina, Adolfo Venturi, Emilio Cecchi e altri. Per un inquadramento generale del periodico citato cfr. G. DE MARCO, “L'Ora”. La cultura in Italia dalle pagine del quotidiano palermitano (1918-1930). Fonti del XX secolo, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano 2007.

  Cfr. “L'Ora”, 22-23 febbraio 1969, p. 13.

        Cfr. R. GUTTUSO, L. SCIASCIA, Gianbecchina, catalogo della mostra, galleria "La Robinia", Palermo 1969.

        Il periodico, fondato da Sciascia nel 1949 a Caltanissetta, si affacciava nel clima culturale del dopoguerra inserendosi nel dibattito sul realismo con una posizione in parte critica nei confronti del neorealismo, specialmente quello più politicizzato, promuovendo invece una cultura libera da ogni paternalismo politico e improntata sull'autonomia della letteratura e delle arti, nel solco comunque della tradizione realistica, riconosciuta in scrittori come Alvaro, Bontempelli, Brancati, Jovine, Moravia, Savinio, Vittorini e Zavattini, rivendicando il valore espressivo del linguaggio letterario. In ambito figurativo, queste posizioni si rispecchiavano nell'adesione iniziale al realismo sociale di Renato Guttuso e Giuseppe Migneco del gruppo di “Corrente”, del quale però Sciascia non condivideva l'estremismo politico, e successivamente nell'interesse verso le esperienze più libere, orientate tra figurativismo simbolico ed espressionismo lirico, di  Bruno Caruso, o verso il linguaggio visionario di ascendenza metafisica di Alberto Savinio e Fabrizio Clerici.

        Cfr. Renato Guttuso, a cura di N. Tedesco, “Galleria. Rassegna bimestrale di cultura”, a.XXI, 1-5, gennaio-ottobre 1971.

           L. SCIASCIA, Come si può essere siciliani, in Id., Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 2009, p. 20.

           Lettera di Renato Guttuso a Cesare Brandi, 25 luglio 1939, Archivi della Soprintendenza di Siena; pubblicata in Brandi Guttuso, storia di un'amicizia, a cura di F. Carapezza Guttuso, Electa, Milano 2006, p. 10.

   L. SCIASCIA, La semplificazione delle passioni, in Catalogo della Mostra antologica dell’opera di Renato Guttuso, Palermo, Palazzo dei Normanni, 1971, infra.

        P. NIFOSÌ, Leonardo Sciascia: la passione di un “incompetente”, in La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, catalogo della mostra (Racalmuto 1999) a cura di P. Nifosi, Edizioni Salarchi Immagini, Comiso 1999, p. 19.

        Nel caso degli scritti su Guttuso, ad esempio, la prosa d'arte sciasciana, sull'onda dei ricordi della pagina cecchiana e in genere della critica di matrice rondista – come ha notato Onofri - «vorrebbe portarsi dietro l'infinito di una digressione, la quale, nel gioco di citazioni e analogie, sveli una sua necessità», che nel caso del pittore bagherese è quella di esprimere i riflessi esistenziali, e non tanto quelli ideologici, della sua pittura. Cfr. M. ONOFRI, Storia di Sciascia, Laterza, Milano 2004, p. 53.

        L. SCIASCIA, Nota su Guttuso, infra.

        M. CALVESI, Guttuso e la Sicilia, in Guttuso e la Sicilia. Opere dal 1970 ad oggi, catalogo della mosra (Palermo 1985), Palermo 1985, p. 15.

        L. SCIASCIA, La semplificazione delle passioni, infra.

        M. CALVESI, Guttuso e la Sicilia...cit., p. 11.

        Ibid., p. 12.

           Il testo di Brandi è pubblicato più volte: cfr. C. BRANDI, Guttuso a Parma, “Il Punto”, Roma, 15 febbraio 1964; ID., La mostra di Guttuso a Parma, in «Galleria», XXI, 1-5, gennaio-ottobre 1971, pp. 84-85; C. BRANDI, Scritti sull'arte contemporanea, Einaudi, Torino 1976, pp. 401-404; e infine in Brandi e Guttuso: storia di un'amicizia, a cura di F. Carapezza Guttuso, Electa, Milano 2006, pp. 132-134.

        L. SCIASCIA, Nota su Guttuso, cit.,  infra.

        L. SCIASCIA, La Vucciria di Guttuso, infra.

           L. SCIASCIA, Il Vespro Siciliano, presentazione della mostra di Guttuso, Galleria “La Tavolozza”, Palermo 1975-1976, infra.

        Cfr.  P. NIFOSÌ, Leonardo Sciascia: la passione di un “incompetente”, in La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, catalogo della mostra (Racalmuto, Fondazione Sciascia, 1999) a cura di P. Nifosì, Racalmuto 1999, p. 19.

        Cfr. L. SCIASCIA, Nota su Guttuso, in Guttuso. Disegni 1938-1972, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1972; infra.

           Cfr. N. TEDESCO, Le genealogie artistiche di Leonardo Sciascia, in La Sicilia, il suo cuore. Omaggio a Leonardo Sciascia, catalogo della mostra (Racalmuto-Palermo 1992) a cura di M. Pecoraino, Palermo 1992, p. 28.

Fonte: http://www1.unipa.it/tecla/contenuti/pdf/temiCritica/immagini_testi/cipolla/Guttuso-Sciascia%20Tecla.doc

Sito web da visitare: http://www1.unipa.it

Autore del testo: sopra indicati

Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.

 

Renato Guttuso

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

Renato Guttuso

 

"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco

www.riassuntini.com dove ritrovare l'informazione quando questa serve

 

Argomenti

Termini d' uso, cookies e privacy

Contatti

Cerca nel sito

 

 

Renato Guttuso