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L’arte rinascimentale in Italia - Introduzione
Architettura
Scultura
Pittura
La definizione di Rinascimento è una tra le poche a sorgere in concomitanza con il periodo stesso. Con questo s’intenda che mentre accezioni negative quali “gotico” sono nate in epoca successiva al periodo cui il termine fa riferimento, entrando poi nell’uso comune, il termine “rinascita” viene usato per la prima volta dal Vasari, appena alla metà del XVI secolo. La divisione temporale dell’arte rinascimentale presenta tuttora alcune difficoltà. La data d’inizio del Rinascimento è tecnicamente considerata il 1492, anno della scoperta dell’America e della morte di Lorenzo il Magnifico, ma questo tende a relegare il Quattrocento a semplice momento preparatorio per la cultura del Cinquecento. Tale divisione è inaccettabile. Seppure si tende giustamente a dividere gli artisti seguendo il secolo cui essi appartengono, la rigida divisione tra XV e XVI secolo ha poco senso in una compagine culturale che prende avvio ai primi del Quattrocento ed abbraccia tutto il Cinquecento, senza strappi né fratture. Spesso i critici preferiscono dividere il Rinascimento in primo, medio e tardo. E’ certo, comunque, che ogni personalità artistica appartiene ad un periodo per le sue caratteristiche e non certo per la data di nascita.
L’arte rinascimentale in Italia - La situazione storica
L’Italia del XV secolo è un luogo di ferventi cambiamenti e di politiche esuberanti. Il potere politico di Roma e del papato si è appena consolidato con il ritorno del Pontefice in Vaticano, dopo l’esilio d’Avignone ed il Grande Scisma (1378 – 1417).
Nelle altre città italiane, le forze politiche si vanno equilibrando sotto nuove egemonie. A Firenze, Cosimo de’ Medici inizia nel 1434 un lungo periodo di dominio della sua famiglia sulla città; a Milano, il condottiero Francesco Sforza sbaraglia le resistenze dei duchi Visconti; a Ferrara, Lionello e Borso d’Este rendono la loro corte una delle più ricche ed originali dell’epoca; a Napoli, gli Aragonesi consolidano il loro potere, mentre Venezia estende il suo dominio a luoghi come Creta e Cipro, erede naturale di Bisanzio.
La politica nel XV secolo assume caratteri di scienza e astuzia ben codificati dagli scritti di Niccolò Machiavelli. Del potere politico fa parte integrante una corte raffinata e colta, pronta ad accogliere artisti, scienziati e dotti eruditi.
Le corti italiane fanno a gara per la bellezza e l’eccellenza delle proprie arti. Gli artisti vengono ad assumere una nuova e più consapevole importanza. Essi non sono più soltanto artigiani, ma assurgono a ruolo di creatori di una parte fondamentale della corte e delle città in cui essa risiede. L’Italia, grazie alla continua accoglienza d’artisti, diviene luogo privilegiato per lo sviluppo delle massime personalità mondiali e funge da guida nei confronti d’altri paesi europei. Il XV secolo è periodo della curiosità e dello studio. Lontano dalle inquietudini che attanagliavano il Medioevo, l’uomo può dedicarsi con piena fede nella ragione a studi intesi a far luce sui vari campi del sapere. La fede nelle possibilità dell’uomo e nella ragione proviene da germi già posti nel secolo XIV e consolidati da fattori di stabilità politica e sociale, ma soprattutto dal diffondersi della filosofia neoplatonica. Marsilio Ficino con il suo “Teologia platonica” riunisce la mistica di Platone all’ideale cristiano. Le medesime dissertazioni vanno facendo Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti e Girolamo Landino, impegnati nel dimostrare la libertà dell’uomo e l’esaltazione della sua ragione. E’ a partire da queste basi filosofiche che nasce l’umanesimo (già iniziato da autori letterari come Francesco Petrarca), con la riscoperta della letteratura antica e dei valori della civiltà classica. Tale riscoperta non è pedissequa imitazione, bensì cultura. Il passato si rinnova nel presente e lo alimenta. Tra le scienze maggiormente applicate in questo periodo trova nuovo impulso l’archeologia, che porta alla luce splendide opere classiche, esempio ed ispirazione per l’arte contemporanea.
L’arte rinascimentale in Italia - L'artista rinascimentale e lo studio della prospettiva
Il XV secolo è anche il periodo delle codificazioni scientifiche. Ogni materia è analizzata su basi scientifiche e trova una sua espressione letteraria. Quasi tutti i maggiori artisti del tempo dimostrano un alto grado di consapevolezza dei propri mezzi espressivi e affiancano all’arte la stesura di trattati.
Il ruolo dell’artista in questa nuova concezione è rivoluzionario rispetto al passato. Se nel Medioevo l’arte era considerata un’“attività meccanica”, nel XV secolo essa viene intesa come diretta espressione dell’anima. Gli artisti in tal modo si trovano in una posizione d’influenza nei confronti della cultura. Le botteghe d’arte da semplici scuole di mestiere diventano centri pulsanti di creazione artistica.
In questo clima culturale, la forma di rappresentazione viene ad assumere connotati rivoluzionari. Brunelleschi, Donatello e Masaccio pongono le basi per una nuova modalità artistica. Si restituisce valore plastico alla figura umana e la si rapporta profondamente con la realtà. La relazione dinamica tra figura umana e paesaggio è rappresentata su basi razionali e scientifiche. Lo studio della prospettiva “lineare” - così chiamata per distinguerla da quella “aerea”, più incerta ed empirica - si impone nel metodo di rappresentazione.
L’architetto Filippo Brunelleschi codifica il concetto di prospettiva, attraverso puntuali studi di geometria e matematica. La scoperta della prospettiva in periodo rinascimentale non significa che essa non fosse nota ai grandi artisti gotici: ne sono chiari esempi le opere di Giotto e Lorenzetti. E’ il concetto di prospettiva a mutare radicalmente. La prospettiva medievale ha una funzione ideologica, cioè rappresenta dei concetti e non la realtà così come la si vede. La prospettiva rinascimentale è uno strumento di comprensione del reale e si pone come razionale ed universale. La centralità dell’uomo in questa visione prospettica non indica un suo egocentrismo, ma la consapevolezza del proprio ruolo nel mondo e dell’esistenza di tale mondo circostante.
L’arte rinascimentale in Italia - Firenze al centro del primo Rinascimento
Il primo Rinascimento è tutto fiorentino per poi diffondersi al resto d’Italia. La situazione di Firenze nel XV secolo è economicamente positiva e politicamente forte. Nel 1385 viene istituito lo “Studio”, primo centro universitario; nel 1397 arriva in città Emanuele Crisolora, celebre studioso proveniente da Costantinopoli. La famiglia Medici, che tiene saldamente il potere, è celebre per il suo mecenatismo ed è committente di tutti gli artisti più importanti del secolo. Nel contempo nasce un nuovo tipo di committenza, quella privata, che diversifica i soggetti, fino ad allora quasi esclusivamente religiosi. Nel 1401 a Firenze si svolge, bandito dall’Arte dei Mercanti, un importante concorso artistico per la seconda porta del Battistero. Vi partecipano Filippo Bunelleschi e Lorenzo Ghiberti. Il Brunelleschi ne esce unanimemente sconfitto ed è un fatto importante per capire la collocazione di questi due artisti nella compagine culturale rinascimentale, per comprendere quanto Brunelleschi fosse proiettato verso innovazioni che da lui prenderanno l’avvio. Il progetto del Ghiberti, analizzato oggi, mostra con evidenza un’eleganza tutta gotica, una concezione architettonica destinata ad esser presto superata, ma che in quel momento mostrava piena maturità e coerenza.
L’arte rinascimentale in Italia - Roma caput mundi
Quello che in molti definiscono Rinascimento medio e che è stato anche definito “maturo” o “classico”, è caratterizzato da una rinnovata importanza della città di Roma. Sono i pontefici a pensare ad una vera e propria “restauratio urbis Romae”, immaginando la città come la capitale di un impero, richiamandosi a quello stesso impero romano cui tutta la cultura del tempo guarda come ad un esempio. Se nel XV secolo è Firenze la capitale artistica della Penisola, nel XVI secolo le cose cambiano. Alla scomparsa di Lorenzo il Magnifico, avvenuta nel 1492, Firenze subisce un rapido, seppur temporaneo, irrigidimento dei costumi ed un ritorno alle tradizioni artistiche del passato. E’ la rivoluzione del frate domenicano Girolamo Savonarola a mutare temporaneamente la compagine culturale della città. Sono molti gli artisti che risentono del nuovo clima di rigidità e tradizionalismo, primo fra tutti il Beato Angelico, che impronta sempre più la sua opera alla devozione cattolica. Il 1500 si apre, però, con un nuovo risveglio di Firenze. Il gonfaloniere Pier Soderini s’impegna nel ripristinare quella vitalità artistica tanto voluta dal Magnifico. Firenze è ancora il centro artistico dell’Italia, non fosse altro per la presenza d’artisti quali Botticelli, Filippo Lippi, Lorenzo di Credi, Domenico Ghirlandaio, Leonardo (che rientra in città nel 1501, dopo il soggiorno milanese), Raffaello (che risiede a Firenze dal 1504 al 1508). In pochi mesi, la situazione è destinata a mutare. Il papa Giulio II chiama a Roma Michelangelo e Raffaello. L’intento del pontefice è manifesto: restaurare il ruolo di centralità di Roma. Alla morte di Giulio II (1513), Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo, sale al soglio pontificio con il nome di Leone X e intensifica il progetto iniziato dal suo predecessore. Firenze deve cedere il passo a Roma. Raffaello istituisce la sua scuola romana, attende alle stanze vaticane, Michelangelo viene chiamato a realizzare la Cappella Sistina: Roma è ormai il nuovo centro culturale e politico d’Italia.
L’arte rinascimentale in Italia - La situazione politica del XVI secolo
La situazione politica dei primi anni del Cinquecento vede lo Stato Pontificio in posizione preminente. Di lì a pochi anni tutto sarebbe cambiato. L’Italia diviene presto il campo di battaglia delle guerre di supremazia in Europa. Già alla fine del Quattrocento la Francia, con Carlo VIII, si impossessa di Milano e Napoli, perdendole nel 1512, sotto la guida di Luigi XII, contro il quale papa Giulio II muove la Lega Santa, una colazione anti-francese. Nel 1515, ormai morto Giulio II, sale al trono di Francia Francesco I. Il nuovo reggente riprende la guerra in Italia. La situazione della Penisola si consolida con la Francia a Milano, lo Stato Pontificio al centro, la Spagna a Napoli. Nel 1519 Carlo d’Asburgo, figlio di Filippo il Bello, riuniti sotto di sé i poteri di tre dinastie, riesce a farsi incoronare imperatore col nome di Carlo V. Il suo scopo palese è restaurare il Sacro Romano Impero. A nulla valgono gli sforzi del papa Clemente VII per liberarsi della Francia a nord e dell’Impero, coalizzato con gli spagnoli, sotto la sovranità di Carlo V. Entrambi gli invasori premono sullo Stato Pontificio, i cui tentativi d’emancipazione vengono duramente puniti con il sacco di Roma, voluto dall’Imperatore nel 1527. La posizione politica dello Stato Pontificio muta radicalmente e segna l’inizio del declino del Rinascimento.
L’arte rinascimentale in Italia - Tra il culto della classicità e il sentimento della ricerca
La centralità culturale di Roma nei primi anni del XVI secolo è fortemente voluta dai papi, ma è anche possibile grazie al patrimonio della città. Roma custodisce le bellezze della classicità cui il Rinascimento s’ispira. Per comprendere l’importanza delle scoperte archeologiche si può menzionare il ritrovamento del gruppo scultoreo del “Laocoonte”, all’interno delle Terme di Tito. Giulio II invia sul posto una commissione d’esperti, tra i quali Giuliano da Sangallo e Michelangelo, per analizzare il reperto. Le cronache raccontano con dovizia di particolari come la folla accorresse con stupore e gioia ad ammirare la scultura, ancora immersa nei detriti del terreno.
La presenza d’opere classiche e la loro interpretazione da parte della cultura rinascimentale è di fondamentale importanza per comprendere i tratti distintivi di tutto il periodo. Il canone classico cui gli artisti del XV e del XVI secolo fanno riferimento proviene dall’antica Grecia, ma è mutuato dalla cultura romana. Le statue che arricchiscono i palazzi e le dimore rinascimentali sono copie romane, qualche volta ellenistiche. Il concetto ideale di bellezza classica viene dunque da Cicerone e da Plinio più che da Policleto. La ricerca dell’ideale nella concezione rinascimentale può essere ben compresa grazie al celebre aneddoto che Leon Battista Alberti diffonde, derivandolo da Cicerone. Egli racconta che il pittore greco Zeusi per ritrarre Elena non scegliesse una sola modella, ma cinque, fondendone insieme i tratti più belli.
Alla ricerca dell’ideale, l’arte del Rinascimento aggiunge altri due elementi: l’equilibrio e la razionalità. Tutte le parti di una composizione, sia essa pittorica, scultorea o architettonica sono armoniosamente equilibrate fra loro. Questa bilanciata distribuzione delle parti e la bellezza d’ogni singola parte sono un mezzo per esprimere il concetto di ragione. L’uomo rinascimentale dimostra nelle sue opere le conquiste della ragione e della scienza. Conquiste ottenute a prezzo di un’ inquieta e spasmodica ricerca. Tutto questo invalida un’idea, per molti anni accreditata, secondo cui la bellezza della forma rinascimentale non racchiude che se stessa ed è vuota. Niente di più falso. Il bello ideale ed il classicismo sono mezzi espressivi per giungere a contenuti filosofici, religiosi, morali di grande valore. La ricerca in tutti i campi scientifici non ha mai avuto impulso pari a quello del Rinascimento. Ne sono prova gli studi di Leonardo da Vinci, ma anche le numerose scoperte geografiche. Il sentimento di ricerca è insito nella cultura rinascimentale ed è germe stesso della sua crisi. Il classicismo e la fede nella ragione iniziano presto a vacillare.
L’arte rinascimentale in Italia - Verso il manierismo
Solitamente si considera il medio Rinascimento concluso alla data del 1520, con la morte di Raffaello. Solo sette anni più tardi il sacco di Roma, con saccheggi e devastazioni ad opera dei lanzichenecchi, segnerà profondamente la politica ma anche la cultura del tempo. Quello che alcuni critici chiamano tardo Rinascimento (al quale appartengono menti geniali ed artisti quali Tiziano, Correggio, Giorgione), viene anche definito “manierismo”.
Lo storico Giorgio Vasari definiva “bella maniera” la composizione ottenuta fondendo in modo armonico le singole parti. Il termine “maniera” è d’uso corrente negli scritti dell’epoca e fa riferimento allo stile di un autore. L’accezione “manierismo”, però, si afferma nei secoli successivi e ha una valenza negativa. La parola “manierismo” diviene sinonimo di fredda imitazione, di forma ideale ma vuota. A ragion veduta, alcune manifestazioni artistiche tardorinascimentali si abbandonano al capriccio inutile, alle forme tanto ricercate quanto bizzarre. Ma questa è una minima parte dello stile di un periodo composito, che va analizzato in modo attento ed individuale.
Architettura
L’arte rinascimentale in Italia
Scultura
Pittura
Nel Rinascimento, scindere i campi del sapere di un artista ha poco senso. E’ evidente dalle esperienze artistiche dei massimi esponenti del periodo che l’artista racchiude in sé tutte le arti, che ha dimestichezza con quelli che possono essere considerati i diversi aspetti di una stessa disciplina. E’ vero anche che la specificità e l’eccellenza di ciascun artista in una singola scienza è un fatto che va considerato. Filippo Brunelleschi, ad esempio, fu scultore ed architetto, ma la sua codificazione teorica ed i suoi risultati pratici in architettura lo restituiscono ai posteri come un eccellente architetto. Artisti come Leonardo, Raffaello e Michelangelo dimostrano quanto vana sia la distinzione delle arti nel Rinascimento.
L’architettura è la scienza che sembra dare maggiore apporto alla formulazione teorica del Rinascimento. Non si può dimenticare che due dei caratteri fondamentali di questo periodo, la prospettiva e la ripresa della classicità, sono strettamente pertinenti all’architettura. La nuova architettura usa la prospettiva per determinare spazi compiuti e finiti, opposti agli spazi infiniti del gotico. Ciò che distingue nettamente la nuova scienza architettonica è l’uso di un progetto. Nasce un metodo matematico e geometrico che guida la mano degli artisti in modo non empirico ma razionale. Se nel Medioevo la progettazione si limita all’applicazione d’alcune regole, nel Rinascimento è una fase preliminare fondamentale alla realizzazione dell’opera. Un progetto teorico, definito sulla base di chiare leggi matematiche, assicura la perfetta riuscita finale. La struttura che tiene in piedi un edificio risponde a regole precise e diviene più autonoma rispetto alla decorazione.
Filippo Brunelleschi,
Santa Maria del Fiore, Firenze
Gli architetti rinascimentali s’avvalgono di nuove scoperte in materia di architettura. Nel 1486 viene dato alle stampe il “De architectura” di Vitruvio, ritrovato in un codice cassinese. La riscoperta non intende un’ignoranza da parte del Medioevo dei concetti fondamentali dell’architettura, ma dimostra una nuova interpretazione dei canoni classici. Il calcolo proporzionale cui fa riferimento Vitruvio serve a nuove realizzazioni. L’architettura Rinascimentale ricerca proporzioni equilibrate e misura, unità ed organicità delle parti.
Il profondo senso di rinnovamento architettonico inizia con l’opera di Filippo Brunelleschi, che lavora instancabile al rinnovamento della città di Firenze con realizzazioni e molti progetti. L’eredità del Brunelleschi viene presto raccolta dal suo seguace Michelozzo, mentre Leon Battista Alberti, un altro grande innovatore, lavora a Firenze, curando la progettazione degli edifici e il loro inserimento nel tessuto urbano, creando le basi per la moderna urbanistica.
Questi grandi architetti del Quattrocento preannunciano con le loro teorizzazioni e le opere fiorentine l’affermarsi di un’architettura improntata al classicismo puro. Dai primi anni del Cinquecento in poi, anche grazie al volere di papi quali Giulio II e Leone X, Roma diviene il nuovo centro culturale della Penisola, ove attendono alle grandi fabbriche architettoniche nuovi artisti. Donato Bramante, dopo un soggiorno milanese, giunge a Roma per volere di Giulio II e si dedica alla fabbrica di San Pietro, alla quale lavorerà sino alla morte. Gli succede nel 1514 Raffaello, che produce un suo nuovo progetto e, nel frattempo, realizza a Roma numerosi altri edifici. Con Raffaello collabora un altro architetto che proviene da Siena: Baldassarre Peruzzi, autore fra l’altro di una villa di fronte a Palazzo Farnese, per Agostino Chigi. Nel 1520, ormai morto anche Raffaello, l’eredità dell’ideale classico giunge nelle mani di Michelangelo Buonarroti. I tempi politici sono ormai mutati. La Riforma luterana ed il sacco di Roma hanno incrinato la fede nella ragione. Nell’opera di Michelangelo sono insiti un dubbio ed una prima frattura nei confronti del classicismo rinascimentale: i primi segni dei nuovi tempi a venire.
Leon Battista Alberti,
Facciata di Santa Maria Novella,
1456 circa, Firenze
Scultura
Il rinnovamento artistico del Rinascimento dà nuovo impulso all’arte scultorea. Se nel Medioevo la scultura è concepita come legata alla struttura di cui essa è decorazione, nel Rinascimento il suo ruolo si svincola da qualsiasi dipendenza e torna al pieno valore. Il concetto d’autonomia della scultura deriva direttamente dall’antica Grecia. Né l’arte romana, né quella gotica concepiscono la scultura nella sua pienezza plastica, come opera a sé stante. Il Rinascimento recupera la centralità della scultura e la svincola dal suo ruolo decorativo. In questa libertà si esprime il richiamo alla classicità in campo scultoreo, ma non nelle modalità artistiche, almeno fino al Cinquecento. Nel Quattrocento, la scultura di Donatello si eleva per eccezionalità e individualismo. La sua concezione plastica è unica ed irripetibile e spesso viene addirittura considerata anticlassica. Negli stessi anni lavora a Firenze Lorenzo Ghiberti, vincitore di quel famoso concorso per la seconda porta del Battistero che vede sconfitto il Brunelleschi. La sua concezione si manifesta più improntata al gotico dei grandi maestri del passato, quali Giotto e Duccio.
Nella scultura minore come l’ornato architettonico o la scultura ornamentale vengono invece riprese le forme classiche. Ne è chiaro esempio il “bronzetto”, termine con cui si definisce la copia di una scultura classica, molto di moda nel Rinascimento.
La scultura rinascimentale conquista caratteri di realismo, grazie allo studio anatomico della forma umana. Nel contempo, le figure rappresentate ricercano un valore concettuale: esprimono, cioè, un ideale di bellezza ed equilibrio. Anche nella scultura, come nella pittura e nell’architettura, viene spesso applicata la prospettiva lineare, soprattutto nel rilievo.
La scultura rinascimentale del XV secolo presenta caratteri innovativi, che vanno verso la rivoluzionaria e geniale opera di Michelangelo Buonarroti. Considerato a ragione un artista senza pari in un periodo pure ricco di menti geniali, il Buonarroti divide la propria attività tra architettura, pittura e scultura. Le sue prime opere note sono, però, scultoree e sembra che egli scolpisse ancora molto anziano: i risultati da lui ottenuti in questo campo rendono ragione della sua predilezione.
Michelangelo Buonarroti: Tondo Pitti
Pittura
La pittura nel Rinascimento rappresenta ciò che la scultura rappresentò per l’antica Grecia. Malgrado l’indubbio sviluppo di tutte le arti e la già menzionata unitarietà delle diverse discipline artistiche, è certo che la pittura abbia un ruolo preminente nella cultura rinascimentale.
La rivoluzione degli stilemi artistici nasce proprio dalla pittura con l’opera di Masaccio, che trasforma radicalmente la materia pittorica.
Un tratto che distingue profondamente la pittura dalle altre arti nel Rinascimento è la mancanza del modello classico. Nel clima d’ispirazione ai modelli classici, la pittura non ha alcun riferimento oggettivo. La pittura classica viene scoperta molti secoli più tardi, con gli scavi di Pompei nel XVIII secolo. Manca, dunque, un vero modello di riferimento, fatta eccezione per i motivi decorativi del Quarto Stile, chiamati “grottesche” ed usati in ambito ornamentale.
Pure la pittura è improntata alla fede per la ragione e al dominio della realtà da parte dell’uomo. L’osservazione diretta della realtà rappresentata è frutto della certezza da parte dell’artista, della sua consapevole fiducia nei propri mezzi di ricerca e nelle proprie capacità espressive. Sono numerose anche le innovazioni tecniche nel campo della pittura. Già Domenico Veneziano, Piero della Francesca, Andrea del Castagno non usano più riportare la sinopia - cioè il disegno preparatorio realizzato in piccolo - sull’intonaco mediante una quadrettatura che permetta di mantenere le proporzioni originali. Si realizzano, invece, cartoni a grandezza naturale, poi incisi sull’intonaco. Il sistema facilita il lavoro ed agevola la cura dei particolari. Nel Cinquecento si diffondono nuove tecniche che riguardano la pittura su tavola, prediligenti l’olio alla tempera. Geniali artisti, fra i quali Leonardo, sperimentano nuove tecniche a volte con esiti disastrosi.
I soggetti nella pittura Rinascimentale mutano anch’essi. La committenza religiosa non gode piùd’esclusività. Sono molti i ricchi signori che commissionano opere profane, spesso ritratti (la ritrattistica ha un ruolo privilegiato, in questo periodo).
Dalle innovazioni di Masaccio la pittura si avvia verso nuovi stilemi, passando attraverso le opere di Domenico Veneziano, Beato Angelico, Filippo Lippi, Paolo Uccello, Piero della Francesca.
Tutto il Quattrocento è un fiorire di personalità artistiche d’alto livello. Lo stesso Leonardo è l’artista che si pone come cardine tra Quattrocento e Cinquecento, in contatto con l’arte dei più giovani Raffaello e Michelangelo, esponenti del pieno Rinascimento.
L'Opera di Filippo Brunelleschi
Filippo Brunelleschi è tra i massimi esponenti del primo Rinascimento italiano. La sua attività inizia quando egli è molto giovane: è, infatti, appena 24enne, allorché partecipa al concorso, indetto nel 1401, per la seconda porta bronzea del Battistero di Firenze. Nel contempo, egli ha già alcune attività personali, fuori dalle maestranze di bottega. Perlopiù si occupa di oreficeria, realizza un “Busto di profeta” in argento dorato per il Battistero di Pisa ed alcune sculture in legno. Al periodo giovanile risale il “Crocifisso” ligneo di Santa Maria Novella, celebre per un aneddoto sulla sua disputa poetica con l’amico Donatello. Dopo la partecipazione al concorso, dunque nel primo decennio del Quattrocento, i documenti relativi alla vita del Brunelleschi scompaiono da Firenze. E’ probabile che egli fosse a Roma, con Donatello, a studiare le opere antiche ed a maturare dentro di sé i germi della sua arte successiva. Brunelleschi accoglie, nelle sue meravigliose architetture, elementi dell’arte classica: con questo non s’intende una pedissequa imitazione, ma ispirazione e assimilazione dell’equilibrio e dell’armonia, proprie della classicità. Nel 1418 e nel 1420, l’architetto è ancora a Firenze per partecipare a due nuovi concorsi cittadini. Il primo è per l’erezione della cupola del Duomo, che presenta da tempo un annoso problema di ingegneria.
Dopo la morte del primo progettista del Duomo, Arnolfo di Cambio, che aveva previsto una cupola a chiusura della chiesa, sembra che nessuno sia più in grado di realizzare questo elemento architettonico, ben diverso dal tiburio medievale. E’ probabile che l’incapacità degli ingegneri sia da attribuire alla peste del 1348, che si portò via gran parte della popolazione e molti dei maestri. Sarà il Brunelleschi ad inventare una nuova tecnica costruttiva, applicandola al Duomo. Egli vince, insieme al Ghiberti, entrambi i concorsi, ma risulta poi tutta sua la costruzione dell’opera: l’artista la porta a termine nel 1436, spingendo molti a gridare al miracolo. La cupola ha forma gotica archiacuta ed aspetto profondamente rinascimentale, con il suo spiccare definito delle forme nello spazio, sottolineate dai costoloni di marmo bianchi, che incorniciano le vele rivestite di materiale povero. Il 25 marzo del ’36, Papa Eugenio IV inaugura l’opera, ma Brunelleschi deve ancora portare a termine alcuni elementi fondamentali: le “tribune morte”, scavate da nicchie intervallate, che imprimono una plasticità tipica dell’architetto a tutta la costruzione, e la “Lanterna”. Questo elemento, per costruire il quale il Brunelleschi è costretto ancora a passare un concorso, è la conclusione logica della cupola e termina con una sfera, espressione di perfezione geometrica. L’opera brunelleschiana della cupola è, forse, l’espressione più evidente del concetto rinascimentale di dominio dell’uomo sulla natura, sviluppato in modo armonico e senza contrasto. La cupola si erge, difatti, dal centro di Firenze su tutta la città, sovrastando ciò che la circonda, però armonizzandosi con i monti delle valli toscane e la natura che circonda l’area fiorentina.
Durante i lavori al Duomo, Brunelleschi attende ad altri lavori. Al 1419 risale “L’Ospedale degli Innocenti”. L’edifico ha caratteristiche medievali, ma l’architetto concepisce l’intera struttura secondo una doppia partizione geometrica, tridimensionale nella parte inferiore, bidimensionale in quella superiore. Il Nostro applica un modulo compositivo a tutto l’edificio, che dà unità ed è l’elemento al quale tutti gli altri si proporzionano. Inoltre, egli applica la sua scienza anche alla zona circostante l’Ospedale. Secondo un’innovativa concezione urbanistica, crea una strada che collega il centro cittadino con l’edificio, per sottolineare il suo ruolo sociale di rilevanza.
Filippo Brunelleschi: Santa Maria del Fiore, Firenze
Nello stesso periodo di questi lavori, il maestro progetta la “Basilica di San Lorenzo”. La chiesa sorge su una basilica precedente del IV secolo. Brunelleschi realizza l’opera seguendo una concezione prospettica molto precisa: tutte le linee vanno verso un punto di fuga, non in modo infinito, come nel medioevo, ma in modo finito, a misura d’uomo. Man mano che il fedele avanza, seguendo l’asse principale, gli si rivelano le prospettive laterali delle cappelle e degli archi, che lo accompagnano sino al punto di fuga. La costruzione dello spazio in funzione della presenza umana è ancora più visibile nella “Sagrestia”. Lo spazio è cubico, così che tutte le parti abbiano una stessa relazione con il centro, ed è sormontato da una cupola.Tutta la struttura è costruita secondo una proporzione armonica, che si ripete singolarmente o per multipli. E’ in questa composizione architettonica che nasce la polemica di Brunelleschi con Donatello, il quale sovrappone elementi scultorei assolutamente esterni alla razionale composizione dell’autore.
L’interno della “Sagrestia” mostra somiglianze con la “Cappella de’ Pazzi”, progettata nel 1430. Vi si ritrova, infatti, il medesimo rapporto tra membrature ed intonaco chiaro. La pianta quadrata della Cappella si dilata grazie alla presenza di due ali, sormontate da volte a botte. La struttura rispecchia la fase matura dell’opera del Brunelleschi, seppur sia stata terminata dopo la sua morte.
Le sue ultime opere vieppiù dimostrano questa maturità.
La “Chiesa di Santo Spirito” è edificata secondo una complessa trama prospettica, che varia a seconda del punto di vista dello spettatore. Purtroppo, dopo la morte del maestro, la direzione dei lavori è nelle mani del Manetti, che stravolge alcuni elementi fondamentali. Ne è chiaro esempio l’esterno dell’edificio, che avrebbe dovuto mostrare le curve convesse delle cappelle interne, armonizzando l’interno con lo spazio esterno e sottolineando la presenza continua della linea curva.
Sorte peggiore è toccata al progetto di “Santa Maria degli Angeli”, pensata dal Brunelleschi a pianta poligonale, ma realizzata in tempi recenti in modo arbitrario. Alla sua morte, avvenuta nel 1446, Brunelleschi lascia molte opere, alcune delle quali incomplete, sebbene corredate da progetti. La sua attività è cardinale nella formazione del pensiero rinascimentale e gli attribuisce di diritto il titolo d’iniziatore del Rinascimento.
Filippo Brunelleschi: Chiesa di Santo Spirito, Firenze
Il sacrificio di Isacco |
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L'Opera di Donatello
La produzione artistica di Donatello è tra le più variegate e interessanti del panorama rinascimentale. Ciò si deve al suo eccezionale talento, ma anche ad una capacità particolare di superare se stesso e i propri traguardi, di mutare repentinamente stilemi e forme per seguire un guizzo creativo.
Le sue prime opere note s’inseriscono nel panorama tardo gotico degli scultori addetti alle decorazioni del Duomo, del Campanile e di Orsanmichele di Firenze. Si tratta di un “Profetino”, della Porta della Mandorla, e di un “David” in marmo.
Già nel “San Giovanni Evangelista”, databile al 1412-15, realizzato per il Duomo, s’intuisce la fierezza tipica del Donatello. L’apostolo è un “uomo donatelliano”, fiero ed ardito, inserito nello spazio che la sua posizione conquista.
Caratteri ancora più forti nel “San Giorgio” del 1416-20, destinato all’Orsanmichele. In questa scultura, il tratto medievale è quasi sparito e tutta la composizione è affidata alla geometria del triangolo, dello scudo, delle gambe, dei piedi divergenti, in modo da dare fermezza alla figura. La testa esprime un pensiero, con lo sguardo rivolto verso qualcosa. La fissità degli occhi delle sculture medievali, rappresentante l’uomo che guarda la trascendenza divina, qui prende il posto di uno sguardo concreto verso il mondo, fuori dall’essere umano. San Giorgio è un eroe rinascimentale, tale per propria volontà. Donatello sottolinea le sue doti di fermezza, di forza e di coraggio in modo del tutto laico.
Se la laicità di Donatello è tale anche a causa della committenza (non ecclesiastica, ma appunto laica), la sua concezione nuova dell’uomo si rafforza nelle opere successive. Il geometrismo, che egli mutua dall’amico Brunelleschi, è sostituito da un attento uso della luce e della prospettiva. Ne costituisce chiaro esempio il “San Giorgio e il drago”, rilievo scolpito per l’Orsanmichele. Intorno al 1425, Donatello accentua le linee della sua poetica, realizzando le statue del Campanile del Duomo. Nelle due sculture del “Profeta Geremia” e del “Profeta Abacuc”, l’ideale rivoluzionario del Nostro diviene più chiaro. Geremia ha la barba incolta e un mantello mal vestito, buttato sul corpo; Abacuc, eccessivamente magro, è calvo. Il concetto classico di bello uguale buono non esiste, in Donatello: la povertà e la bruttezza non impediscono la grandezza morale.
Donatello: David di bronzo, ca 1430, Museo Nazionale del Bargello, Firenze
Nel 1427 il maestro scolpisce “Il banchetto di Erode” nel Battistero di Siena. In esso, l’uso della prospettiva è del tutto particolare. Le figure sono schiacciate sul piano di fondo e vengono proporzionate man mano che si avvicinano al primo piano, fino a divenire alto rilevate (il gruppo di figure a destra) e a tutto tondo (la testa di colui che porta il vassoio). La tecnica usata da Donatello è detta dello “stiacciato” ed ha una valenza espressiva molto forte. Le figure deformate sono drammatizzate.
Negli anni seguenti, lo stile di Donatello sembra assumere forme maggiormente tranquille e classiche, come nel celebre “David” di bronzo del 1433. Dall’arte classica derivano il concetto di nudo, la posizione policletea, la luminosità delle superfici. A tutti questi elementi, si contrappone una certa irrequietezza donatelliana.
Tra il 1433 e il ‘39, lo scultore attende alla “Cantorìa” del Duomo, anch’essa impregnata di ricordi classicheggianti e realizzata col metodo “stiacciato”. Simili ai putti “stiacciati” della cantorìa sono i putti del Pulpito del Duomo di Pisa, probabilmente coevi ai primi. A questo periodo appartengono numerose opere di valore, tra le quali l’“Attis”, il “Busto di San Lorenzo”, la decorazione della “Sagrestia vecchia”.
Nel 1443 Donatello è a Padova, ove rimane per dieci fruttuosi anni. Tra i tanti capolavori di questo periodo, spicca l’“Altare del Santo” per la Basilica di Sant’Antonio, oggi apprezzabile solo parzialmente poiché smembrato e ricostruito in modo lacunoso dopo tre secoli. Lo splendido “Crocifisso” bronzeo non è più un contadino, ma nemmeno individuo perfetto, piuttosto un uomo non abbandonato alla sofferenza, bensì consapevole d’averla accettata. I “Miracoli del Santo”, posti in basso rispetto al Crocifisso, mostrano Sant’Antonio circondato da una folla sempre agitata e sconvolta, ritratta con dovizia di particolari e sentimenti ben delineati. La “Deposizione” è considerata la parte migliore del complesso, realizzata senza prospettiva, con la tecnica dello “stiacciato” che comprime i piangenti tutt’intorno alle linee del corpo adagiato del Cristo, mentre la Maddalena, con le mani alzate in segno di disperazione, crea, al centro del rilievo, un vuoto drammatico.
Al suo arrivo a Padova, al maestro viene commissionato un monumento equestre in onore del capitano generale Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, appena morto. Donatello erige il monumento tra il 1447 e il 1453. Riallacciandosi direttamente alla scultura classica, egli dà autonomia alla statua, senza piegarla alla dipendenza di una struttura architettonica, come nel Medioevo. In tal modo, l’uomo sul suo destriero si staglia nella piazza, irrompendo nello spazio. Segue la sua marcia di battaglia e si erge con fermezza, mostrandosi un tutt’uno con il cavallo. L’eroe non ha l’elmo, per non celare la sua umanità e mostrare apertamente la testa, sede della sua ragione e della sua volontà.
Nel 1454 Donatello, ormai sessantottenne, torna aFirenze. Malgrado l’età avanzata, egli crea ancora opere innovative, donando ai posteri la sua maturità artistica. Si veda, ad esempio, la “Maddalena” lignea, figura muliebre privata della sua femminilità per ottenere la purificazione e la purezza, espressione della bellezza interiore che trascende l’aspetto esteriore.
Donatello, Madonna con Bambino, 1448, bronzo, Basilica di sant'Antonio, Padova
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L'Opera di Beato Angelico
L’opera di Beato Angelico, forse per motivi d’impegno religioso, è vastissima. Tutta la produzione è d’argomento cristiano, comunque usuale per l’epoca. Le prime opere, la cui documentazione fa supporre risalenti al periodo compreso tra il 1418 e il 1423, sono purtroppo andate perdute.
Al 1424 risale, forse, il tabernacolo con l’ “Annunciazione” e l’ “Adorazione dei magi”. In esso, spiccano ancora forti elementi gotici. Una certa bidimensionalità e la ricchezza dell’ornamento della cuspide suggeriscono un richiamo alla pittura medievale, più senese che fiorentina. Eppure, le figure hanno un loro sviluppo volumetrico importante, carattere decisamente rinascimentale.
Una maggiore cura del senso prospettico fa pensare che il “Giudizio universale” sia databile intorno al 1430.Il soggetto è tipico di quello che Beato Dominici, correligionario dell’Angelico, chiama “ammaestramento dei fedeli”. L’arte ha lo scopo di indurre alla fede, di educare. Nel “Giudizio” sono rappresentati, secondo un’iconografia medievale, gli eletti assunti in cielo, che, sulla sinistra, si avviano verso la città di Dio, e i dannati, sulla destra, condannati a pene diverse e divisi in gironi come nella “Commedia” dantesca. Le due immagini coesistono ma sono nettamente separate, secondo uno stilema artistico ripreso in seguito dal Ghirlandaio, da fra’ Bartolomeo e da Raffaello. Sempre risalente a questi anni si suppone sia il capolavoro della “Deposizione di Santa Trinita”, un tempo destinata alla sagrestia di Santa Trinita, oggi nel museo di San Marco a Firenze. Qui, l’interpretazione del tema tradizionale trova nuove caratteristiche: la disposizione piramidale del gruppo di figure centrali si combina con due gruppi laterali e con la veduta di una città sullo sfondo. La composizione risulta più viva e la tripartizione viene sottolineata dalle arcate sovrastanti.
Beato Angelico: Giudizio Universale, l'Inferno, particolare
La “Visitazione” di Cortona, parte di una predella della chiesa di San Domenico, risale agli anni 1433 – 34. Fra le tavole dedicate al tema, questa è tra le più belle e dimostra come l’Angelico tratti soggetti sacri e miracolosi, intessendoli nell’ambiente umano e reale. Sullo sfondo della tavola, si ravvisa, infatti, Castiglion del Lago, immersa in una luce che ancora oggi avvolge le vallate dell’Umbria. I tratti rinascimentali dell’Angelico, a lungo negati dalla critica romantica, spiccano nettamente nel “Tabernacolo dei Linaioli”, così chiamato perché commissionato dall’Arte dei Linaioli. La Madonna è assisa nella posizione medievale della Maestà, ma la sua veste le dona un aspetto solido e monumentale.
Del 1435 è l’”Imposizione del nome al Battista”, che la critica moderna riconosce come ancor più rinascimentale. La scena narra di Zaccaria, costretto a scrivere il nome del nascituro, dopo aver perso la voce per la sua incredulità nei confronti del concepimento annunciato dall’Angelo. Tutto si svolge in un ambiente umano, nel ristretto delle mura domestiche, sopra le quali s’intravede il mondo esterno.
Intorno al 1436, i domenicani di Beato Angelico si trasferiscono dal vecchio convento di Fiesole a quello di San Marco a Firenze. Il pittore inizia ad affrescare la nuova casa dell’ordine in quegli anni, dedicandosi all’opera fino al 1446. Il corpus immenso delle decorazioni è omogeneo ed è il risultato d’un assiduo lavoro da parte del maestro e di molti suoi collaboratori. Sovente, gli affreschi realizzati dall’Angelico stesso sono autografi. Le composizioni sono, per lo più, semplici e dominate da una forte austerità. Tra di esse, spiccano l’affresco “Noli me tangere”, animato da un folto giardino, e l’“Annunciazione”, tra gli esiti più alti dell’autore. L’opera si trova all’ingresso del dormitorio del convento e la sua austerità spirituale è totale, sebbene le espressività dei volti, la luce meridiana che avvolge le figure e l’equilibrio della prospettiva siano assolutamente rinascimentali.
Nel 1446, l’Angelico si reca a Roma su commissione del Papa Eugenio IV, che gli affida la decorazione di una cappella vaticana, opera oggi perduta. Nel 1447, il Papa è ormai morto e l’Angelico, prima di rientrare al convento, si ferma ad Orvieto, dove affresca la Cappella San Brizio del Duomo. L’anno dopo il nuovo pontefice, Niccolò V, gli commissiona la Cappella Niccolina in Vaticano ed egli ritorna a Roma. Il maestro vi affresca le “Storie di Santo Stefano e San Lorenzo”. Nella scena dell’“Elemosina di San Lorenzo”, la rappresentazione ha forti caratteri umanisti. La connotazione della miseria e della felicità per le monete ricevute è tutta umana; la prospettiva dell’elemento architettonico è puntuale sebbene ancora non compenetrata con le figure, che si trovano tutte fuori dalle architetture.
Beato Angelico: Tabernacolo dei linaioli
Madonna con Bambino e i SS. Domenico e Tommaso d'Aquino |
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L'Opera di Paolo Uccello
Tra le prime opere di Paolo Uccello va messo in rilievo il lavoro svolto sui mosaici nella chiesa di San Marco a Venezia, tra il 1425 ed il 1430. E’ un fatto importante, poiché spiega la provenienza di una sua certa tendenza all’astrazione delle forme ed al passaggio brusco da un colore ad un altro, caratteristiche tipiche e necessarie del mosaico. Quando Paolo rientra a Firenze, nel 1432, sembra essere un pittore di nulla fama, poiché gli Operai del Duomo cercano a Venezia informazioni sul suo conto prima di affidargli un lavoro.
Nel 1436, egli realizza il monumento pittorico equestre di “Giovanni Acuto”, condottiero inglese. Gli viene fatta specifica richiesta di affrescarlo “in terra verde” perché somigli ad un monumento bronzeo, ma l’effetto finale è piuttosto irreale. La composizione si basa su due prospettive, una dal basso attraverso cui si vede il basamento, una all’altezza dello spettatore che inquadra il cavaliere. In molti hanno visto un errore nell’uso della prospettiva, ipotesi impossibile data la precisione geometrica per la quale era famoso il pittore e la puntualità di realizzazione delle due singole parti. C’è, piuttosto, un voluto scopo d’astrazione e d’irrealtà, comune a molte altre opere. Di poco posteriori sono le “Storie di Santi monaci”, in San Miniato al Monte a Firenze. Di questi affreschi è rimasto ben poco, ma vi si ravvisa una certa predilezione per gli spazi astratti e geometrici. Di gusto simile è il celebre “San Giorgio e il drago”: favoloso ed infantile nella visione, è un soggetto affrescato due volte. La seconda versione - oggi alla National Gallery di Londra - è meno favolosa ed è caratterizzata da forme quasi “bloccate” sparse nel dipinto.
Paolo Uccello: Disputa di Santo Stefano, particolare
Intorno al 1450, Paolo attende alla decorazione del Chiostro verde di Santa Maria Novella a Firenze. Vi affresca storie tratte dalla Bibbia (il peccato originale, la creazione dell’uomo, della donna e degli animali, il diluvio universale). Pure in queste immagini, l’uso della prospettiva è doppio e ha un effetto straniante. Si prenda come esempio il “Diluvio universale”, nel quale l’autore affresca contemporaneamente due momenti della vicenda: l’arca rovesciata dai flutti, con gli uomini attaccati che tentano di salvarsi, gli alberi sradicati e bastoni e botti sparsi nelle onde, e Noè sull’arca al momento di ricevere la colomba con il ramoscello. L’effetto della composizione è un’immagine allucinante, nella quale s’inseriscono figure umane realistiche e grandiose.
Nel 1456 Paolo Uccello realizza la sua opera più famosa: “La Battaglia di san Romano”, scontro avvenuto nel 1432, con la vittoria dei fiorentini condotti da Niccolò da Tolentino. L’opera è ripetuta in tre tavole ed è tra le ragioni per cui la critica moderna ha visto in Paolo un precursore della metafisica. Nonostante il fatto d’armi fosse avvenuto pochi anni prima, dunque dovesse essere forte nella sua memoria, il pittore lo rappresenta in modo del tutto irreale. I cavalieri fissi nelle loro armature, come manichini metafisici, le lance rivolte immobili verso l’alto, nessun accenno al sangue ed alla morte truculenta. La geometria è molto rigida e tutto è disposto secondo un reticolato geometrico ben definito. I colori sono irreali, i particolari guerreschi fantasiosi, la giustapposizione cromatica va per contrasto. Tutto, dunque, contribuisce ad un’astrazione mentale. Lo stesso avviene nella tavola dal titolo “La caccia” - oggi ad Oxford - e nel “Miracolo dell’Ostia profanata”, dipinta ad Urbino sulla predella di una pala d’altare.
Paolo Uccello:
Nascita della Vergine, particolare
Presentazione di Maria al tempio |
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L'Opera di Masaccio
Masaccio è unanimemente considerato l’iniziatore del Rinascimento. Molto meno anziano degli altri due grandi artisti degli albori di questo periodo, Donatello e Brunelleschi, egli muore molto giovane, privando i posteri della possibilità di ammirare una maturità sicuramente grandiosa. La sua influenza sul mondo artistico rinascimentale è assoluta, anche paragonata a quella avuta da Brunelleschi e Donatello in un periodo di sessant’anni.
L’arte di Masaccio si riassume in solo un lustro, eppure raggiunge un alto valore estetico. Tutt’oggi la sua opera più significativa, la Cappella Brancacci, viene considerata “il primo testo della pittura rinascimentale”.
Della formazione di Masaccio si sa poco. Si è supposto che egli fosse a bottega da Masolino da Panicale, con il quale collabora spesso ma dalla cui pittura non è minimamente influenzato, semmai il contrario. Il rapporto tra quello che dovrebbe essere l’allievo e il maestro è stato a lungo dibattuto dalla critica. Certo è che i risultati raggiunti da Masaccio nell’arte difficilmente trovano paragone in quelli di Masolino. Nell’opera del primo sembrano più ravvisabili forti suggestioni brunelleschiane e donatelliane ed è probabile che il lavoro col secondo sia stato dettato da motivi pratici.
La più antica opera di Masaccio è un “Trittico”, venuto alla luce in tempi moderni, chiamato di Cascia e datato al 1422. Pur se l’impianto dell’opera è piuttosto tradizionale, colpisce l’assetto prospettico caratterizzato da un punto di fuga posto molto in alto, per contribuire a coordinare una certa varietà di temi. Se ne deduce l’importanza che Masaccio dà ai contenuti morali, sacrificando gli spogli ornamenti.
Posteriore al “Trittico” è una “Madonna, il Bambino e Sant’Anna”, databile forse al 1424, anno in cui Masaccio inizia a collaborare con Masolino. E’ certo che Masaccio abbia dipinto la Vergine e il Bambino, racchiusi in una piramide volumetrica forte ed indissolubile. Si riscontra nelle immagini di Maria e Gesù - come anche in quella di Sant’Anna, sulla cui totale paternità non si è certi - una caratteristica peculiare di Masaccio: un chiaroscuro cromatico, ovvero creato dal colore.
Masaccio: Madonna dell'umiltà
Nel 1425, Masolino parte al seguito di Pippo Spano per l’Ungheria e lascia nelle mani del collaboratore tutti i lavori che essi hanno in comune. Masaccio realizza anche un’opera esclusivamente sua, un “Polittico” commissionatogli per il Carmine di Pisa. L’opera oggi è smembrata in varie sedi, il che rende difficile coglierne la novità. In essa, la prospettiva delle parti è unica ed è quella dello spettatore; inoltre, il colore viene usato per delineare fortemente i corpi, dargli una volumetria grandiosa. Nella tavola centrale della “Madonna con Bambino” è contenuto il punto di fuga su cui convergono tutte le linee prospettiche. Un particolare di grande innovazione è presente nella raffigurazione dell’aureola di Gesù, dipinta in prospettiva. L’aureola medievale, concepita come un ovale dietro la testa, è un simbolo. Nel Rinascimento, detto concetto inizia a stridere ed ecco che Masaccio “razionalizza” l’aureola, sottomettendola alla prospettiva.
Non è certa la data d’inizio dei lavori della Cappella, nella chiesa del Carmine a Firenze, voluta da Felice Brancacci, mercante fiorentino. Masolino e Masaccio vi attendono insieme forse nel 1424. Dopo la partenza di Masolino, il lavoro rimane nelle mani di Masaccio: ma la cacciata da Firenze del committente, nemico dei Medici, interromperà presto i lavori, ultimati da Filippino Lippi molti anni dopo. Il tema delle decorazioni è relativo alle “Storie di San Pietro”, precedute negli stipiti dal “Peccato originale” e dalla “Cacciata dei progenitori”.
Sembra che Masaccio abbia iniziato da alcuni elementi nella “Resurrezione di Tabia”, dipinto da Masolino, per poi proseguire con le due storie ai lati dell’altare, “Battesimo dei neofiti” interamente suo, e “Predica di San Pietro”, nel quale egli aggiunge elementi all’opera di Masolino. Nel “Battesimo”, l’impostazione prospettica segue i caratteri d’assoluta novità già visti nelle altre opere: il bambino è isolato da un ampio spazio intorno, per dargli importanza e grandezza, il contrasto tra ombra e luce pare quasi sostituirsi al colore. Lo stesso contrasto cupo è nella “Cacciata di Adamo ed Eva”, anch’esso dello stesso periodo di inizio lavori nella Cappella. Dopo un periodo d’interruzione ed un viaggio a Roma, Masaccio torna a Firenze e riprende la decorazione della Cappella. Della seconda fase dei lavori, l’opera più celebre è “Il tributo”. Il dipinto racconta la storia evangelica in cui Cristo, fermato da un gabelliere, ordina a San Pietro di recarsi al mare, pescare un pesce, aprirgli la bocca, per trovare uno statère che servirà da pagamento. La scena si svolge in una vallata con elementi architettonici su un lato, gli apostoli e Cristo sono tratteggiati in senso psicologico, come esseri umani, con volti espressivi e fisicità evidenziate, le aureole sono inserite nella prospettiva. Agli ultimi anni di vita del pittore risale la “Trinità” di Santa Maria Novella in Firenze. L’immagine è composta in forma simbolica piramidale, la prospettiva controllata e perfetta ha fatto supporre la presenza del Brunelleschi nella realizzazione. La cosa, in realtà, non sarebbe condizione necessaria, dal momento che Masaccio ha una sua personale concezione della prospettiva ed ha assimilato quella del collega più anziano, di cui sicuramente subisce l’influenza.
Masaccio: Cacciata di Adamo ed Eva
Trittico di San Giovenale |
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L'Opera di Piero della Francesca
Non sono molte le opere giunte fino a noi di Piero della Francesca: eppure, egli è unanimemente considerato tra i più alti rappresentanti della pittura del primo Rinascimento. Il suo stile appare del tutto singolare e risponde in modo rigoroso alla scienza che il pittore stesso studiò in modo approfondito: la prospettiva. Al 1445 risale la commissione del “Polittico della Madonna della Misericordia”, per realizzare la quale Piero impiega molti più anni di quanti richiesti. Le parti più antiche di quest’opera (insieme a “Il Battesimo di Cristo”, datato tra il 1440 e il 1450), danno testimonianza del lavoro giovanile del pittore. La “Madonna” è soggetto astratto e simbolico, Piero ne mantiene i tratti iconografici medievali (si pensi allo sfondo dorato), ma introduce un certo senso monumentale e una forte organizzazione prospettica delle forme. Nel “Battesimo”, il rigore prospettico è ancora più evidente nella disposizione architettonica delle forme, le persone e gli alberi, come nelle diverse parti delle singole figure umane. Figure che, per tale costruzione, dimostrano un’assoluta fermezza ed assurgono ad astrazione simbolica. Pochi anni dopo il “Battesimo”, Piero affresca in Borgo Sansepolcro una “Resurrezione”. Nel dipinto, Cristo è rappresentato con tratti rudi ed essenziali, posto al centro esatto della composizione in una posizione simbolica. Egli è il passaggio dall’inverno, rappresentato con gli alberi spogli a sinistra, all’estate, con gli alberi rigogliosi a destra, e dalla notte dei soldati addormentati davanti al sarcofago all’alba che sorge al di sopra delle sue spalle. Egli è il passaggio dalla vita alla morte.
Un’altra celebre opera di Piero è la tavola con “La Flagellazione”. Alcuni credono che essa sia stata richiesta pochi anni dopo l’omicidio di Oddantonio di Montefeltro (rappresentato nella tavola), avvenuto nel 1444; altri, invece, suppongono che i personaggi rappresentati siano il Cardinale Bessarione, Buonconte di Montefeltro e Giovanni Bacci, e che questi sia il mandante dell’opera. Questa ipotesi sposta la datazione al 1459-60. La scena si svolge in un’architettura classica, fatta di linee rigorosamente rette e non curve. Queste linee convergono in un preciso punto di fuga. Nel riquadro centrale avviene la flagellazione: le due scene - una con Cristo e i suoi torturatori, l’altra coi tre personaggi che parlano - sono divise dalla colonna ma condividono una stessa prospettiva. Quest’organizzazione compositiva è studiata dal della Francesca per correlare simbolicamente i due avvenimenti.
Piero della Francesca:
Sogno di Costantino
Nel 1449, Piero della Francesca affresca due cicli d’opere per la dimora di Lionello d’Este a Ferrara e per la chiesa degli Eremitani. Di questi affreschi, ormai perduti, restano solo testimonianze che suggeriscono la loro importanza nella formazione della scuola rinascimentale ferrarese.
Nel 1451, Piero si reca a Rimini dove attende ad un ritratto di Sigismondo Malatesta all’interno del Tempio malatestiano. Nel dipinto, il Signore di Rimini è rappresentato in ginocchio davanti a San Sigismondo: dietro a lui una coppia di levrieri, motivo tipicamente tardo gotico ma ben inserito nell’economia compositiva. Pure qui la prospettiva è rigorosa, le figure sono scalate in altezza ed in profondità.
Nel 1452, Piero viene chiamato ad Arezzo per proseguire la decorazione della cappella maggiore di San Francesco, rimasta incompiuta alla morte di Bicci di Lorenzo. Il ciclo rappresenta le “Storie della Croce”, ispirate alla “Legenda Aurea” di Jacopo da Varagine. La composizione del ciclo non segue un ordine cronologico, bensì un’organizzazione simbolica e spaziale molto precisa. Piero realizza una vera orchestrazione delle parti, che mostrano corrispondenze e rimandi continui. Le storie sono distribuite sulle due pareti laterali e su quelle di fondo, ai lati della finestra: Piero dimostra maggiore interesse per la coerenza razionale del tutto più che per i singoli episodi ed è per questo che le organizza in modo rigoroso, senza pedissequa giustapposizione. Spesso il pittore affresca in uno stesso riquadro due parti successive della medesima vicenda, divise con un elemento geometrico, ma unite dalla prospettiva comune. Tra gli affreschi, spiccano l’“Incontro di Salomone e della Regina di Saba”, l’“Invenzione e verifica della vera Croce” e il “Sogno di Costantino”.
La maturità stilistica raggiunta dall’autore in questo ciclo, ritorna in alcune sue opere tarde. Il ciclo aretino deve probabilmente datarsi ai primi anni Sessanta. In quello stesso periodo, Piero intrattiene ottimi rapporti con i duchi d’Urbino, dei quali realizza due ritratti: “Ritratto di Battista Sforza” e “Ritratto di Federico da Montefeltro”. Il volto della duchessa Battista è imperturbabile e sereno, raffigurato con un incarnato pallido e levigato, cui fa contrasto un’elaborata acconciatura alla moda. Anche nel volto del duca Federico le varietà tonali del rosso della veste danno risalto all’incarnato grigio e rendono l’immagine quasi distaccata e irreale. Entrambi i ritratti sono realizzati con un intento di trasfigurazione ed idealizzazione della persona. L’autore vi aggiunge inoltre, sullo sfondo, elementi di minuta particolarità, mutuati dalla cultura pittorica fiamminga. Elementi provenienti dalla pittura fiamminga sono presenti anche nella celebre “Madonna di Senigallia”, tavola realizzata nel 1470. Di poco più tarda deve essere la realizzazione della “Pala di Brera”. La Pala, un tempo attribuita a Fra Carenevale, oggi viene ritenuta autografa. La critica è concorde nel ritenerla una sorta di summa dell’arte del della Francesca e delle sue teorie scientifiche sulla prospettiva. Al centro di una perfetta architettura, è seduta la Madonna con il Bambino sulle ginocchia, ai lati della quale si raccolgono a semicerchio i Santi e gli Angeli. Inginocchiato davanti a lei, ritratto di profilo, si trova Federico da Montefeltro. L’elemento geometrico principale è il cerchio, inscrivibile perfettamente nella maggior parte delle forme. Al centro esatto della composizione è appeso un uovo, simbolo della vita e della nascita di Cristo, forma geometrica perfetta su cui tutte le linee prospettiche convergono. L’analisi tecnica dell’opera ha impegnato a lungo critici d’arte e matematici, ponendosi come perfetta rappresentazione visiva delle teorie che il pittore esprime nella sua opera “De Prospectiva pingendi”.
Piero della Francesca:
Ritratto di Battista Sforza
Polittico della Misericordia |
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L'Opera di Antonello da Messina
Capace come nessun altro di sintetizzare e sviluppare i caratteri della pittura europea del pieno Quattrocento in un mirabile equilibrio fra l’analitica ricerca fiamminga e la solenne monumentalità della pittura italiana, Antonello da Messina ha soggiornato in molti importanti centri artistici della Penisola, rivelando una notevole capacità di recepire le novità più originali di ciascuno e, nel contempo, di offrire importanti contributi autonomi, destinati spesso a tradursi in spinte innovative nelle scuole locali.
A Napoli, intorno al 1450, entra in contatto con le splendide collezioni reali di pittura fiamminga e provenzale e può così studiare lo stile e la tecnica di Van Eyck. Di qui il ricorso alla pittura ad olio, adottata già da decenni nelle Fiandre, e, grazie alla sua opera, la conseguente diffusione in Italia, dove, nel giro di un paio di generazioni, sostituisce la tradizionale tecnica dei colori a tempera, dapprima per opere di piccole dimensioni come i ritratti, poi anche per le pale d’altare.
Il “San Gerolamo nello studio” (1474) è esemplare per dimostrare sia le derivazioni fiamminghe (non a caso l’opera è stata, in passato, attribuita a Van Eyck e a Memling), sia la peculiarità dell’impostazione antonelliana: la minuziosità descrittiva fiamminga, evidente in numerosi dettagli - dagli animali ai vasi di ceramica sul piano sopraelevato dello studiolo, ai libri variamente disposti, alle vesti del Santo -, è sostenuta da un insolito impianto luministico, che unifica, facendoli rifulgere, i molti oggetti.
Successivamente, Antonello tende ad incentrare la composizione sulla figura umana, accostandosi alla visione toscana, probabilmente tramite la conoscenza – non sappiamo se diretta o indiretta – di Piero della Francesca.
Fra il 1475 e il 1476, a Venezia, dipinge la “Pala di San Cassiano”, opera mutilata di cui rimangono la Vergine sul trono rialzato e quattro santi a mezzo busto. Ispirata allo schema compositivo della perduta “Sacra Conversazione” di Giovanni Bellini, costituisce un punto di riferimento essenziale per il Rinascimento veneziano, soprattutto per gli effetti atmosferici determinati dalla luce e la creazione del volume attraverso il colore e non, come nella tradizione toscana, mediante la linea ed il chiaroscuro.
Al periodo veneziano va ascritto anche il “San Sebastiano” (1476 circa), che, nella disposizione matematica degli elementi e nell’uso della prospettiva, reca indubbie tracce dell’influenza di Piero della Francesca, anche se essa è temperata da un calore cromatico e un “pathos” interpretativo di chiara impronta meridionale.
Del 1476 è il cosiddetto “Ritratto Trivulzio”, impostato di tre quarti, secondo l’uso fiammingo, in modo da consentire maggiori possibilità di caratterizzazione psicologica, data l’accentuata differenza d’espressione del viso umano di fronte o di profilo. Rispetto ai fiamminghi, i ritratti d’Antonello rivelano una minore attenzione per il dettaglio, ma una più marcata introspezione. Inoltre, in essi risiede gran parte dell’importanza della mediazione operata da Antonello tra la tradizione fiamminga e le diverse scuole italiane, ancora legate all’impostazione del profilo.
Il ritorno d’Antonello, dopo il 1470, nella sua terra d’origine produce, fra l’altro, un’opera di straordinaria intensità: la “Vergine annunciata”, conservata presso la Galleria Nazionale di Palermo, che propone l’idea dell’Annunciazione come evento puramente spirituale, senza angelo, la cui presenza è evocata unicamente dall’espressione di profonda concentrazione interiore della Vergine e dal gesto delle mani, una piegata a chiudere il mantello, l’altra sollevata a mezz’aria.
Dopo il soggiorno siciliano, Antonello si reca ancora nell’Italia settentrionale, in particolare a Venezia, dove la sua presenza non è priva di conseguenze, influenzando gli esiti del rinascimento locale.
Ma la sua vicenda artistica rimane singolare, in quanto la sua attività - pur se destinata a segnare indelebilmente tutti gli ambiti con i quali entrerà in contatto - non produrrà una scuola, né in Italia meridionale, né altrove.
Antonello da Messina,
San Gerolamo nello studio 1475 circa Olio su tavola cm 46 x 36,5 Londra, National Gallery
Madonna Salting |
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L'Opera di Andrea Mantegna
Tra i principali artisti rinascimentali attivi nell’Italia settentrionale nella seconda metà del Quattrocento, Andrea Mantegna ha contribuito a diffondere il nuovo stile soprattutto nell’area lombardo-veneta. Nutritosi della gloriosa tradizione culturale padovana, ha elaborato un peculiare ed incisivo disegno che conferisce alle forme un profilo angoloso ed utilizza la prospettiva per dare monumentalità alle scene ed ai personaggi che le animano. Tutto ciò è già evidente nell’importante – e, purtroppo, in gran parte perduto – ciclo d’affreschi della Cappella Ovetari nella chiesa padovana degli Eremitani, che intraprese intorno ai diciassette anni, sebbene in alcuni di essi - come il “Martirio di San Cristoforo” o il “Trasporto del corpo del Santo” - si possa rilevare una minore asprezza cromatica, dovuta in gran parte al contatto con le opere di Gentile e Giovanni Bellini (di cui Mantegna diverrà cognato sposando Nicolosia, loro sorella). Esemplare, in tal senso, è l’“Orazione nell'orto” della National Gallery di Londra (1450-1452 ca.), in cui gli stretti riferimenti alla produzione artistica di Giovanni Bellini sono evidenti soprattutto nella tonalità dominante - un marrone-bruno che rivela una personale interpretazione della cromia veneziana - e nel paesaggio roccioso (formato da dislivelli sinuosi composti come quinte degradanti), che compare anche nel medesimo soggetto dipinto da Giovanni pochi anni dopo.
Si è a lungo discusso su quanto Giovanni Bellini debba al Mantegna o questi al cognato: la dimestichezza familiare ha senza dubbio determinato un significativo rapporto artistico, ma redigere un bilancio del “dare” e dell’”avere” sarebbe difficile quanto inutile. L’incontro fra i due pittori, basato su una reciproca influenza, sarà fondamentale per entrambi e per l’intero Rinascimento settentrionale: Mantegna da Bellini trasse l’intensità cromatica, mentre il veneziano, grazie al Mantegna, acquisì maggiore forza plastica, temperandola con la dolcezza del suo colore veneziano.
Altra importante indicazione della ricerca artistica di Mantegna, l’uso della prospettiva non al fine di un’esatta rappresentazione dello spazio, bensì per creare uno “spazio illusionistico di rappresentazione”: egli è stato tra i primi ad intuire che con la prospettiva si può creare quell’effetto di dilatazione dello spazio visivo solitamente denominato “trompe l’oeil”.
Esempio mirabile, a riguardo, gli affreschi per la “Camera degli Sposi”, realizzati nel Palazzo Ducale di Mantova tra il 1465 e il 1474 in onore della famiglia Gonzaga: in essi la creazione dello spazio illusorio si avvale soprattutto di una tecnica, lo scorcio dal basso, peraltro già presente in Masaccio, ma da Mantegna condotta ad esiti così felici - si pensi al celebre “Cristo morto” e all’inedita ed originale rappresentazione della scena da esso determinata - da divenire la grande novità della sua pittura e uno dei maggiori insegnamenti consegnati alle generazioni successive.
Andrea Mantegna,
Orazione nell'orto, 1450-1452 circa, Tempera su tavola, cm 63 x 80,
Londra, National Gallery
Polittico di San Zeno - Crocifissione |
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L'Opera di Donato Bramante
Influenzato dagli insegnamenti di Piero della Francesca, Bramante artisticamente nasce come pittore. Malgrado il praticantato iniziato in gioventù, nel Ducato d’Urbino nonvi è alcuna traccia di sue pitture. Restano invece sue testimonianze a Bergamo, luogo dove egli si reca ad affrescare il Palazzo del Podestà, e a Milano. Qui egli affresca la Casa Panigarola, dalla quale provengono un “Uomo con lo spadone” ed “Eraclito e Democrito”, oggi conservati a Brera. Più celebre resta, invece, il “Cristo alla colonna” dell’Abbazia di Chiaravalle, figura imponente vista dal basso e tratteggiata con netto contrasto chiaroscurale.
Le notizie sulle attività pittoriche del Bramante negli anni ‘70 non sono molto precise. Si sa per certo che egli era affermato pittore “illusionista”, ossia creatore di prospettive e d’architetture fittizie. Il ciclo degli “Uomini d’arme” della casa Panigarola ne è esaustivo esempio: gli uomini vi si trovano collocati su guglie, piedistalli e vasi, ed inseriti in un complesso di architetture finte.
Le testimonianze dell’opera architettonica rimangono, invece, più note e significative. La strada che Bramante apre in architettura è del tutto originale. Nel 1482, egli cura la sistemazione della Chiesa di Santa Maria presso San Satiro a Milano e ne rinnova anche il battistero. L’edificio è grandioso per il rapporto tra lunghezza e larghezza e all’interno il Bramante realizza un perfetto trompe l’oeil sulla parete retrostante l’altare della navata maggiore, che dà l’impressione di proseguire, tramite un braccio longitudinale con volta a botte, la navata centrale. Questo non è solo un artificio, è il modo in cui il Bramante riequilibra gli spazi della chiesa a croce commissa, assimilandola ad una croce greca. La percezione visiva è di una magnifica vastità spaziale, seppure creata dalla prospettiva di una parete dipinta.
Mentre Leonardo dipinge la sua “Ultima cena” nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, Bramante è chiamato a costruire la tribuna all’interno della chiesa. Egli concepisce la tribuna come uno spazio cubico, aperto al termine della chiesa, con annesse absidi semicilindriche sporgenti sui tre lati liberi, sormontate da una cupola a sedici spicchi. E’ probabile che per l’opera egli abbia preso ispirazione dalla Cattedrale di Parma. Il risultato di questa costruzione è uno sviluppo grandioso dello spazio interno e un effetto monumentale di quello esterno.
Donato Bramante: Santa Maria delle Grazie, Chiostro, Milano
Come molti altri artisti, alla caduta di Ludovico il Moro, Bramante lascia per sempre Milano e si reca a Roma, dove rimarrà fino alla morte. Il suo maestoso classicismo, la concezione di vastità spaziale caratterizzanti la sua opera si fondono perfettamente con l’immagine di Roma, con i suoi monumenti antichi e la sua storia.
Qui Bramante realizza il chiostro di Santa Maria della Pace, forse il cortile di Palazzo della Cancelleria ed il Tempietto di San Pietro in Montorio, unanimemente considerato il suo capolavoro. Innovatore perché profondamente amante dell’originalità nel recupero dell’antico, Bramante è l’unico architetto ad integrare l’antichità nel moderno. Il tempietto è a pianta circolare, sormontato da cupola e circondato da colonne tuscaniche. In una perfetta compenetrazione d’architettura ed atmosfera, esso è stato giustamente definito “una forma architettonica proiettata nello spazio”. L’opera è la più compiuta del maestro.
Molte altre realizzazioni romane del Bramante sono state pesantemente rimaneggiate- dal Palazzo di Giustizia ai Palazzi Vaticani alla Basilica di San P ietro - e non permettono un esame soddisfacente della sua concezione architettonica. Nel 1506, il 18 aprile, Giulio II benedice la prima pietra della Basilica di San Pietro. E’ Bramante l’architetto pontificio, ma il suo progetto resterà incompiuto. Solo a metà del secolo successivo, Bernini darà alla chiesa pontificia l’aspetto attuale. L’idea di Bramante prevede una croce greca, considerata ideale nel Rinascimento, con quattro absidi semicircolari, quattro campanili angolari, quattro cupolette e un’enorme cupola centrale. Ciascuna delle parti è coordinata al tutto, secondo l’ideale rinascimentale. Pure, la pianta così concepita va contro la tradizionale idea cattolica longitudinale dell’edificio, che pone i fedeli nella stessa posizione d’ascolto del sacerdote e quest’ultimo in posizione di guida. Solo i disegni del Bramante e del suo collaboratore Peruzzi, oggi, restituiscono un’idea della concatenazione ritmica di linee curve della chiesa voluta dall’architetto. Eforse, ancora di più, restituiscono la suggestione due affreschi del Raffaello, nelle Stanze Vaticane, in cui egli interpreta le architetture del Bramante in maniera personale.
Donato Bramante: Santa Maria della Pace, Chiostro, Roma
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