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Per definire questo straordinario movimento è necessario presentare la definizione di inconscio. L’inconscio è quella sfera dell’attività psichica che non raggiunge il livello di coscienza, quella parte di vita di cui ciascuno di noi non può avere esperienza diretta. Esso può manifestarsi attraverso attività indipendenti dalla nostra volontà come l’emergere dei ricordi, atti ripetitivi e abitudinari o la dimenticanza di nomi. Tuttavia la via per eccellenza attraverso cui l’inconscio si manifesta è il sogno su cui Freud ne L’interpretazione dei sogni aveva indagato e lo aveva definito lo strumento più adatto per la ricostruzione dell’attività psichica slegata dalla ragione. Siamo alle porte della psicoanalisi e il poeta Andre Breton nel 1924 scriveva nel Primo manifesto del Surrealismo che “era inammissibile che fino ad ora ci si sia soffermati così poco” sull’importanza del sogno. Da tale considerazione scaturisce la definizione di Surrealismo secondo il poeta. Egli constata che il sogno non è altro che una parentesi della vita quotidiana dell’uomo il quale vive la maggior parte della sua vita sognando. Ne consegue che deve necessariamente esistere una “surrealtà, una realtà assoluta” in cui sogno e veglia si uniscono armoniosamente. Pertanto definisce Surrealismo un’attività psichica automatica in cui l’inconscio emerge e si esprime nonostante non stiamo sognando. In tal modo il pensiero è libero di vagare senza alcun vincolo della ragione e mescolare idee, immagini, parole spesso inaccostabili nella realtà. In questo movimento l’arte gioca un ruolo particolare in quanto deve costruire le emozioni, indagare e rappresentare le forme irrazionale e pensieri suscitati dall’accostamento di due oggetti che nella realtà non hanno alcun tipo di legame. Tuttavia l’arte surrealista è sempre un’arte figurativa, ciò significa che le forme e gli oggetti rappresentati sono comunque conoscibili.
L’arte surrealista dà, dunque, voce all’istinto e, per questo, vengono utilizzate tecniche particolare come il frottage, il grattage o il collage.
Il frottage consiste nel sfregare un qualunque materiale per colorire come una matita o un gessetto su una superficie ruvida affinché l’immagine che ne deriva sia svincolata dalla nostra volontà.
Il grattage consiste nel raschiare con qualsiasi strumento in modo da far emergere un colore sottostante deposto in precedenza o la tela grezza.
Il collage consiste ne sovrapporre in modo casuale ritagli di giornale, di riviste, di stampe, di cataloghi, d pubblicità per ottenere immagini surreali, irrazionali. Da aggiungere è il fatto che il surrealismo è un vero e proprio stile di vivere in quanto gli artisti ricercavano anche libertà sociale la quale può essere ottenuta attraverso la rivoluzione.
JOAN MIRO’ Joan Mirò, una delle personalità emergenti del movimento surrealista, nasce a Barcellona il 20 Aprile 1893. Dopo aver seguito gli studi per diventare contabile, frequenta l’Accademia delle Belle Arti e, in seguito, segue corsi alla scuola d’arte di Galì. Mirò si reca per la prima volta a Parigi, meta agognata dagli artisti in quei primi anni del secolo, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale nel marzo del 1920. Dal 1921 comincia a trascorrere gli inverni a Parigi e le estati in Spagna. Nel 1924 conosce vari poeti come Andrè Breton e aderisce al Surrealismo. Nel 1936 si stabilisce a Parigi dove ci resta fino allo scoppio della prima guerra civile. Decide quindi di trasferirsi a Parigi per poi rientrare in Spagna solo alla fine del 1941. In quest’anni di spostamenti realizza innumerevoli murales per esempio negli Stati Uniti eseguì un + per l’Hotel Hilton a Cincinnati, nel 56 presso la sede del vescovo di Parigi, a Barcellona. Negli anni 70, inoltre, cominciò a dedicarsi a realizzare opere monumentali nei vari spazi pubblici. Durante i primi anni della Seconda Guerra Mondiale la sua produzione fiorisce e, famosissimo, muore nel 1983 a Palma de Mallorca.
IL CARNEVALE DI ARLECCHINO
“Ho cercato di plasmarvi le allucinazioni provocate dalla fame che soffrivo”. Così Joan Mirò ricordava lo stato mentale in cui versava quando tra il 1924-1925 dipingeva Il Carnevale di Arlecchino. In quest’opera non è il sogno l’ispiratore della composizione, ma uno stato particolare di allucinazione con cui l’artista riesce a raggiungere un perfetto equilibrio tra figuratività e astrazione. In una grande stanza, che è il supporto della tela, figurette fantastiche, geometriche, sembrano danzare e muoversi a ritmo delle note musicali emesse da una minuscola chitarra. Volatili, pesci, rettili animano scherzosamente la composizione. Dalla finestra emerge un triangolo nero che simboleggia la Tour Eiffel; un cerchio verde trafitto da una freccia sottile, posto su un tavolo, simboleggia un mappamondo. Differentemente una scala a pioli rappresenta un’evasione magica o, più precisamente, l’elevazione verso l’alto. In questo universo puramente fantastico abbiamo oggetti riconoscibili perché sono tratti direttamente dalla realtà: il dado, un occhio, un cono, un cilindro, dei palloncini, dei gatti, la scala a pioli che ha anche un valore simbolico x l’artista in quanto significa magica evasione e quindi di elevazione verso l’alto. Uno degli obiettivi di Mirò è quello di immergere lo spettatore in una stanza piena di oggetti, popolata da numerosissimi oggetti e metterlo in contrapposizione alla realtà che l’artista interpreta come una dimensione di pace e tranquillità. questa visione di disordine, questa miriade di oggetti che generano una festa per occhi e mente, suscitano nell’animo dello spettatore l’idea di partecipare a una sorta di balletto, un carnevale in maschera. Popolata da queste presenze che producono immagini da cui nascono altre immagini e quindi lo spettatore vive una sorte di suggestione inconscia. Un altro elemento da mettere in evidenza è come l’artista usa il colore: tanto è vero che il repertorio cromatico utilizzato da Mirò è rappresentato da rosso, verde, giallo, tinte accese, brillanti. Tutte queste tonalità sono ben orchestrate e armonizzate grazie anche all’utilizzo del bianco e dell’azzurro, colori aerei per eccellenza.
SALVADOR DALI’
Salvador Dalì è senza dubbio colui in cui il Surrealismo trova l’espressione più completa e esasperata a tal punto da essere considerata esagerata dagli stessi surrealisti. Salvador Felipe Jacinto Dalì nasce a Figures, in Catalogna, nel 1904. All’inizio degli anni Venti è ammesso alla prestigiosa Accademia Reale San Ferdinando di Madrid. Tuttavia a causa del suo comportamento provocatorio viene definitivamente radiato. Nel frattempo conosce Buñol insieme al quale stenderà la sceneggiatura di film surrealisti. Un dopo aver incontrato Picasso in un viaggio a Parigi, entra in contatto con i surrealisti grazie all’amico Mirò. È in questo periodo che Dalì costruisce il suo personaggio da provocatore, esibizionista, eccentrico in particolar modo grazie al suo modo estroso di vestire e la stravaganza del suo comportamento. Figura eclettica oltre ad aver spaziato nel campo cinematografico, pittorico, della scultura e architettura, diventa uno dei più grandi stilisti di moda. Sempre più altezzoso, muore nella natia Figures il 23 gennaio 1989.
Come aderisce Salvador Dalì al Surrealismo?
L’adesione al surrealismo si completa grazie all’invenzione di una tecnica di automatismo che definisce “metodo paranoico-critico”. La paranoia è “una malattia mentale cronica” che nasce da delusioni sistematiche “con o senza allucinazione dei sensi”. Le delusioni, secondo Dalì, possono prendere forma di mania di persecuzione, grandezza o ambizione. Proprio per questo possiamo comprendere come le immagini riportate nella sua tela nascano dall’agitarsi del suo inconscio (momento paranoico) e riescono a prendere forma pittorica grazie alla razionalizzazione del delirio (momento critico). Si tratta d forme puramente inventate in quanto la sua poetica prevede “guardare un oggetto, vederne due e dipingerne un altro”. L’obiettivo di Dalì risulta, dunque, esprimersi come un paranoico ma dalle sue opere emerge un sublime distacco che mette in luce la lucidità che acquisisce il momento critico. È grazie a ciò che gli elementi onirici, le fobie, le paure, le angosce riescono a materializzarsi nella tela con un nitore tale da sfiorare l’Iperrealismo. Il delirio rappresentato da figure mostruose, esseri ripugnanti, frammenti anatomici a seconda del punto di vista possono essere più cose assieme, possono assumere più significati in uno stesso momento. Concludendo, è uno stile fondato sull’immaginario, uno stile che lui stesso lo definisce perverso e polimorfo.
LA GIRAFFA INFUOCATA
Ne la Giraffa infuocata si presenta l’idea dei cassetti, tipica della pittura di Dalì, intesi come simbolo dei nostri più paranoie e segreti tabù. La psicoanalisi ha il ruolo di aprirli e mettere in luce il loro contenuto, differentemente l’artista, come un ladro, può solo frugarci dentro alla ricerca dell’essenza dell’uomo. Il dipinto rappresenta, sullo sfondo di un paesaggio desolato e primitivo, una grande figura femminile in primo piano. Essa ha al posto della testa una massa informe simile a un teschio, mentre le mani scheletriche sono macchiate di sangue. Il corpo innaturale è puntellato da stampelle e cassetti che si aprono. A destra, in secondo piano, un’altra figura di donna leva un drappo rosso simbolo di sesso e violenza. Anch’essa è puntellata e dalla testa le spunta un arbusto. In lontananza la giraffa infuocata è messa in contrasto con il cielo cupo, allegoria di violenza è morte. La rappresentazione di questo tema è probabilmente dovuta al fatto che la tela è creata nel periodo della guerra civile spagnola.
SOGNO CAUSATO DAL VOLO DI UN’APE Lo spunto per la realizzazione di questa opera avviene in seguito alla puntura di un’ape durante il sonno dell’artista Con l’automatismo dei Surrealisti, Dalì cerca di fissare sulla tela questa folle visione dando voce al suo inconscio. Nel dipinto viene rappresentata in primo piano una sensuale figura femminile probabilmente riconducibile a Gala, la moglie dell’artista, mentre riposa nella sua nudità sopra uno scoglio piatto e frastagliato. Gala è sicuramente l’elemento più erotico e ricorrente nei sogni di Dalì. Una baionetta appuntita sta per trafiggere il braccio destro della donna: siamo nell’istante prima della sensazione di dolore, ma l’arma, in questo contesto, rappresenta un simbolo sessuale. La bellezza della donna è rafforzata dalla rappresentazione della mela, attributo della dea della bellezza Venere. È facile, dunque, comprendere che la bellezza è la protagonista dell’opera; infatti Dalì rappresenta due tigri, simbolo per eccellenza della bellezza tanto è vero che una leggenda narra che gli indigeni, per catturare questi splendidi animali, ponevano dei pezzi di specchi nei luoghi che la tigre era solita frequenta ed essa, attratta dalla bellezza, rimaneva impressionata dalla sua immagine e, in quell’attimo in cui lei era distratta, il popolo indigeno era in grado di catturarla. La percezione in seguito alla puntura viene, quindi, rappresentata da queste due feroci tigri che fuoriescono dalle fauci di una pesce che a sua volta è originata da una rossa e immensa melagrana spaccata. La scelta della melagrana non è casuale in quanto viene anche rappresentato un assurdo elefante dalle scheletriche zampe d’insetto che regge un obelisco sulla groppo e cammina con la leggerezza di una libellula su un mare piatto; infatti questo frutto afrodisiaco, di cui l’elefante è ghiotto, viene creato dalla natura per stimolare la passione dell’animale e per attutire la pigrezza di quest’ultimo nel procreare. Cercare di dare significati all’opera ha poco valore in quanto tutto è frutto del sogno e della paranoia, i quali danno origine a una visione frammentata e priva di alcuna unitarietà
APPARIZIONE DI UN VOLTO E DI UNA FRUTTIERA SU UNA SPIAGGIA
Nell’Apparizione di un volto e di una fruttiera su una spiaggia l’attenzione si sposta dalla paranoia al sogno, in quanto le forma e i personaggi non hanno contorni ben definiti e possono assumere differenti, inquietanti e contradittori significati. Vi è infatti un tavolo, coperto da una tovaglia chiara con sopra una natura morta composta da una fruttiere in porcellana bianca dentro alla quale vi sono pere. La fruttiera però può essere anche un pallido volto allucinatorio con un’alta fronte oppure il piedistallo della fruttiera è paragonabile a una donna velata di spalle seduta in mezzo a una spiaggia. Sullo sfondo oltre a un promontorio roccioso vi è una spiaggia che si perde in una catena di monti all’orizzonte. Ma se, anche in questo caso, si guarda più attentamente il dipinto, le rocce sembrano aver plasmato la figura di un cane da caccia in posizione di punta, con il muso rivolto verso destra. Il collare del cane, invece, può assumere le forme di un acquedotto che riflette le proprie arcate nell’acqua sottostante l’occhio dell’animale può sembrare un tunnel di una caverna al termine del quale si vede l’orizzonte. Sotto il muso-pendio, poi, si sta svolgendo un combattimento di cavalieri, un dichiarato e raffinato omaggio al Leonardo della Battaglia di Anghiari. Inoltre, in lontananza sulla destra, manichini mostruosi si agitano presso un muro diroccato. Il dipinto, dunque, ripropone a ogni occhiata un enigma senza fine; non vi è alcuna certezza per ogni forma rappresentata in quanto appena percepita è subito polverizzata, contraddetta. Così cento occhi diversi posso percepire mille realtà diverse, confuse e angoscianti a tal punto che lo stesso Dalì afferma che “nemmeno lui capisce il significato dei suoi quadri in quanto il significato è così profondo, complesso, coerente e involontario da sfuggire alla semplici analisi dell’intuizione logica”.
RENE’ MAGRITTE
René François Ghislain Magritte nasce a Lessines, in Belgio, il 21 novembre 1898. Studia dapprima a Bruxelles all’Académie Royale de Beaux-Art e nel 1922 inizia a lavorare disegnando carte da parati. Trasferitosi a Parigi nel 1927, entra a contatto con i Surrealisti e stringe amicizia con Bréton ed Éluard. Già nel 1930, però, lascia il gruppo dei Surrealisti a causa di contrasti con lo stesso Bréton, rientra in Belgio e si stabilisce a Bruxelles e qui si attornia di un gruppo di surrealisti belgi. Tuttavia, con l’occupazione nazista, Magritte è costretto a lasciare il suo paese e rifugiarsi in Francia. Rientrato in Belgio riprende la sua attività per poi morire il 15 agosto 1967. Fondamentale nella sua formazione è l’ammirazione per il quadro Le chant d’amour di de Chirico, di esso ammira in particolar modo la dimensione smisurata degli oggetti, il mancato nesso logico tra le figure rappresentate e il senso di spaesamento prodotto dall’accostamento di oggetti dissimili in un luogo dove non ci si aspetterebbe mai di trovarli. Da quel momento la ricerca dell’artista, verterà sul nonsenso delle cose, sui rapporti tra visione e linguaggio, sulla creazioni di oggetti usuale sottratti dal loro contesto naturale e consueto. Non sono il sogno e l’inconscio i protagonisti dei dipinti dell’artista belga, ma la veglia; una veglia in cui oggetti sono rappresentati con nitidezza e, nonostante gli accostamenti inusuali, sembrano “più veri del vero”
L’USO DELLA PAROLA
L’uso della parola è un dipinto raffigurante una pipa e recante una scritta che afferma che “ceci n’est pas une pipe” ovvero “questa non è una pipa”. Magritte vuole rappresentare la differenza fra l’oggetto reale e la sua rappresentazione. Egli vuole focalizzare l’attenzione sul fatto che la pipa dipinta non si può fumare, ovvero non ha le stesse funzioni di quella reale e dunque la pipa reale e quella rappresentata hanno caratteristiche ben diverse nonostante il fatto che ognuno di noi alla vista della tela di Magritte affermeremo che quella rappresentata è una pipa. Per sottolineare la funzione di rottura delle convenzioni del suo dipinto, egli aggiunge una scrittura esplicativa in un corsivo molto scolastico, ricollegandosi così alle tavole degli studenti che, per prendere dimestichezza con le lettere dell’alfabeto, guardavano immagini note il cui nome cominciava con la lettere da imparare a scrivere. Tuttavia, Magritte utilizza il metodo presentato per affermare il contrario; egli vuole sbalordire lo spettatore e spingerlo a riflettere sul dissidio tra visione e linguaggio e, per la prima volta, lo scopo dell’opera d’arte non è più l’arte di per sé, ma la riflessione su quest’ultima.
LA BELLA PRIGIONIERA
In la bella prigioniera vengono mostrati una roccia, una tela dipinta posta su un valletto e una tuba infuocata in riva del mare. Nel dipinto Magritte fonde lo stupore e i problemi. Il primo è rappresentato nel destino riservato allo strumento musicale in fiamme che è stato decontestualizzato e ha subito modifiche in quanto alle sue note capacità viene aggiunta quella di essere infiammabile. Il secondo è rappresentato nella possibilità di vedere dal medesimo punto di vista sia l’oggetto reale sia la rappresentazione pittorica. Infatti nel dipinto viene rappresentato ciò che è al di là e che ci nasconde, ovvero una porzione di spiaggia, di cielo e di mare tempestoso. Il paesaggio esiste, quindi, simultaneamente sia nella mente di chi osserva, sia nella realtà, sia nella tela. Tuttavia, l’artista introduce un altro elemento che desta stupore ovvero le fiamme riflesse della tuba in fiamme, si tratta dunque di una tela protetta da un vetro? E se si tratta di un vetro trasparente, perché non si intravede la struttura del cavalletto?
Fonte: http://www.clp06.altervista.org/110309_FedeSurrealismo.doc
Sito web da visitare: http://www.clp06.altervista.org
Autore del testo: F.Giatti
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