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Il tipo più semplice di radiotelescopio è composto da un’antenna e da un ricevitore. L’antenna può essere si vari tipi: dipolo semplice, Yagi, ecc. Il dipolo è un oggetto in grado di trasformare le onde elettromagnetiche in corrente elettrica misurabile e amplificabile. Mettendo una resistenza ai capi di un dipolo immerso in un campo elettromagnetico, si genera una corrente elettrica. Il motivo dell’immediata conversione, già all’interno dell’antenna del radiotelescopio (e di una qualunque antenna per le telecomunicazioni) dell’onda elettromagnetica in un segnale elettrico è che noi siamo in grado di amplificare una corrente elettrica, mentre possiamo solo deviare, riflettere, schermare o filtrare un’onda elettromagnetica, senza però aumentarne l’intensità. In genere un’antenna per la ricezione di onde radio deboli (come l’antenna di un radiotelescopio) è costituita da uno specchio a forma di paraboloide nel cui fuoco è situato un dipolo che trasforma la radiazione captata e riflessa in ogni punto dello specchio in corrente elettrica. L’unico compito dello specchio è quello di focalizzare l’energia ricevuta e raccoglierla tutta in un punto. L’antenna (specchio + dipolo) può essere selettiva cioè ricevere solo un certo intervallo di frequenze, grazie alla presenza di un illuminatore (horn) in cui “entrano” (per arrivare al dipolo) solo onde radio di una certa lunghezza d’onda, diversa a seconda della dimensione e della struttura interna dell’illuminatore. In un punto vicino (il più possibile) al dipolo si trova un ricevitore, costituito da un diodo che rivela la presenza di corrente elettrica, creando una corrente continua in uscita che può poi essere visualizzata in diversi modi. Spesso, prima del ricevitore, subito dopo il dipolo, si trova un preamplificatore (front end), che amplifica tutto il segnale in ingresso, con l’unica selettività data dall’illuminatore. Il segnale elettrico che arriva al ricevitore a causa dell’incidenza di un’onda elettromagnetica sullo specchio ha la stessa natura del segnale elettrico che rappresenta il rumore che entra in qualunque ricevitore, anche senza l’azione di un’onda elettromagnetica. La variazione dell’intensità della corrente elettrica viene interpretata come la presenza di un rumore “aggiuntivo” (il vero segnale radio). Ogni minima variazione di temperatura del ricevitore fa variare il livello del rumore, rischiando di creare l’illusione dell’arrivo di un segnale: per questo i ricevitore devono essere mantenuti a temperatura costante. Lo scopo dell’osservazione è riuscire a distinguere la “parte” di corrente elettrica legata alla presenza di un’onda radio incidente, che fa aumentare l’intensità di corrente. Per ottenere una chiara differenza di intensità tra il rumore di fondo e il segnale incidente, si dovrebbe: - aumentare il segnale in ingresso, cosa impossibile in radioastronomia, oppure - ridurre il rumore di fondo. Per ridurre il rumore bisogna ridurre la temperatura (che durante l’osservazione deve sempre essere costante) e così ridurre l’agitazione delle cariche elettriche. Il ricevitore amplifica tutto il segnale elettrico in ingresso. La sua efficienza (guadagno) e stabilità sono maggiori a bassa frequenza: per questo, anche se le osservazioni sono ad alta frequenza, si introduce, prima del diodo, un dispositivo che è in grado di ridurre la frequenza del segnale che arriva al ricevitore. Questo dispositivo è composto da un oscillatore locale che produce un segnale a frequenza leggermente diversa da quella osservata e da un Mixer, che combina la frequenza in ingresso con quella dell’oscillatore locale. Il risultato sarà un segnale a frequenza più bassa, pari alla differenza tra le due. Questa frequenza è detta I.F. (Intermediate Frequency, media frequenza)
Ad esempio, nel caso della strumento installato nei laboratori del Liceo “Gioia”, l’antenna opera tra 11GHz e 12GHz. Dopo la traslazione di frequenza operata con l’uso dell’oscillatore locale e del mixer, si ottiene una banda di frequenze di lavoro comprese tra 1 GHz e 2GHz.
I segnali raccolti vengono inviati, attraverso linee di trasmissione, a un ricevitore-amplificatore e passano da qui a un registratore a carta oppure sono digitalizzati su schede o su nastro magnetico per l'elaborazione con i calcolatori elettronici. L’intervallo di lunghezze d'onda che un tale strumento può ricevere è limitato dalla bontà della struttura metallica che costituisce lo specchio; questa deve essere tanto più vicina alla forma parabolica e tanto più “piena” quanto più si lavora ad alte frequenze. Il potere risolutivo però non è paragonabile a quello dei telescopi ottici perché dipende dalla lunghezza d'onda e dal diametro dello specchio. Infatti le lunghezze d'onda radio sono molto più grandi di quelle ottiche (da pochi millimetri a pochi decametri rispetto a valori di meno di millesimi di millimetro), per cui a parità di diametro il potere risolutivo di un radiotelescopio a paraboloide è inferiore di parecchi ordini di grandezza a quello di un analogo strumento ottico. Uno dei maggiori vantaggi di questo tipo di radiotelescopi è rappresentato di contro dalla possibilità di abbracciare una larga banda di frequenze con il semplice cambiamento dell'antenna posta nel fuoco del paraboloide. I maggiori radiotelescopi a paraboloide mobile sono quelli di Green Bank in Virginia con diametro di 102 m (1966), di Jodrell Bank in Gran Bretagna (1957) di 76 m di diametro, di Parkes in Australia (1961), di 64 m, di Effelsberg in Germania (1972) di 100 m, di Nobeyama in Giappone (1970) di 45 m, tutti completamente orientabili. Il radiotelescopio di Arecibo, a Portorico, ha uno specchio di 305 m, ma giace immobile, sostenuto da piloni in una conca del terreno, orientato verso lo zenit. Il grande radiotelescopio orientabile del Max Planck Institut di Bonn è dotato di uno specchio del diametro di 100 m; tale specchio ha la parte centrale a struttura piena e la parte periferica a rete metallica. Con una realizzazione di questo tipo, pur riducendo il peso e il costo totali, si riesce a contemperare l'esigenza di una grande superficie riflettente a lunghezze d'onda più grandi (alle quali si sfrutta tutta la superficie dello specchio) e quella di poter usare lo specchio anche a lunghezze d'onda molto brevi (alle quali si sfrutta solo la parte centrale dello specchio). Un miglioramento del potere risolutivo, senza ricorrere agli enormi diametri dei paraboloidi, viene ottenuto applicando il principio dell'interferometro stellare di Michelson usato nella misura dei diametri stellari.
Cos’è un interferometro?
L’interferomeria si basa sul principio dell’interferenza, come suggerisce il suo nome: due onde con la stessa fase, si amplificano a vicenda, mentre due onde con fase opposta si cancelleranno l’un l’altra.
Il primo interferometro fu costruito da Michelson, per il suo esperimento sull’esistenza dell’etere. L’esperimento fu cruciale perché diede la prima evidenza sperimentale in favore della Relatività Ristretta, ma a detta del suo ideatore, che voleva fortemente trovare una prova dell’esistenza dell’etere su cui si basava tutta la teoria sulla natura ondulatoria della luce, fu un completo fallimento. Così ne parla proprio Michelson:
“L’esperimento è per me storicamente interessante perché è stato per risolvere questo problema che l’interferometro fu ideato. Penso che si ammetterà che il problema in questione, avendo portato all’invenzione dell’interferometro, ha più che compensato il fatto che questo esperimento particolare abbia dato un risultato negativo.” Gli elementi basilari di un interferometro come quello di Michelson sono: una sorgente di luce monocromatica, di solito un laser, un ricevitore, due specchi più uno semitrasparente.
La luce emessa dalla sorgente, una volta raggiunto lo specchio semitrasparente, segue due percorsi diversi: parte viene riflessa dallo specchio, raggiunge la specchio in alto, per essere poi riflessa e raggiungere il ricevitore; parte invece attraversa lo specchio semitrasparente, raggiunge lo specchio in fondo al percorso (a destra nella figura) e poi ritorna allo specchio semitrasparente, da cui viene mandata al ricevitore. Se questi due percorsi differiscono di un numero intero di lunghezze d’onda, si ha interferenza costruttiva e quindi il segnale arriva forte al rivelatore. Se invece differiscono per metà di un intero (ad esempio 0.5, 1.5, 2.5 ...) si avrà interferenza distruttiva e il segnale rivelato sarà debole.
In radioastronomia, l’interferometria viene utilizzata per aumentare il potere risolutivo dello strumento. La risoluzione dello strumento dipende infatti dalla lunghezza d’onda: θ µ λ / D. In altre parole, θ, l’ordine di grandezza del dettagli che si riescono ad osservare distintamente, è tanto più grande quanto maggiore è la lunghezza d’onda. Quello che conta nel risolvere i dettagli di una sorgente è il rapporto tra il diametro del rivelatore e la lunghezza d’onda della radiazione rivelata, che deve essere sufficientemente piccolo: per ottenere ciò, l’unico modo è aumentare le dimensioni dello strumento. Ma anche con telescopi piuttosto grandi, come il telescopio radio Parkes (64m), osservando la riga a 21 cm dell’idrogeno neutro, si ottiene una risoluzione di 690 arcosecondi, 1/3 delle dimensioni della Luna in cielo: le strutture più piccole di così appaiono indefinite... Costruire telescopi più grandi porta problemi di tipo strutturale: perché un telescopio deve essere anche in grado di muoversi e puntare in diverse direzioni del cielo. Il più grande radiotelescopio direzionale è il Green Bank, negli Stati Uniti, con dimensioni di circa 100 metri. Il telescopio di Arecibo è il più grande del mondo (305 metri), ma non può muoversi perché è stato costruito all’interno di una dolina in una regione carsica di Porto Rico (foto qui a destra). Questo telescopio è stato utilizzato durante i film Contact e Goldeneye (della saga dei James Bond). Per ottenere una risoluzione spaziale maggiore, gli astronomi radio cominciarono ad utilizzare la tecnica dell’interferometria. Si raccolgono radio con due o più radiotelescopi posti ad una certa distanza. Con l’interferometria, la risoluzione non è più unicamente determinata dalle dimensioni della singola antenna, ma dalla distanza massima tra i singoli “elementi” dell’interferometro.
L'estensione di questo principio ha portato alla costruzione di radiointerferometri a più antenne. Il potere risolutivo è proporzionale alla distanza delle due antenne estreme, sempre nel caso di orientamento Est-Ovest (E-O), mentre resta uguale a quello di una sola antenna se l'orientamento è in direzione Nord-Sud (N-S). Per aumentare il potere risolutivo anche in direzione N-S si ricorre alla cosiddetta croce di Mills (dal nome del suo primo realizzatore), cioè a un sistema formato da due gruppi ortogonali di antenne in forma di croce, allineati rispettivamente in direzione EO e N-S. Il potere risolutivo di un tale strumento corrisponde a quello del paraboloide inscritto nell'area del quadrato di lati uguali ai bracci della croce di Mills, mentre la sensibilità è proporzionale all'area coperta dalla croce e quindi inferiore a quella del paraboloide corrispondente. L'inconveniente maggiore che si incontra con questo tipo di radiotelescopi è rappresentato dalle perdite che si verificano lungo le linee di trasmissione, oltre alla laboriosità della costruzione e del collegamento di un gran numero di antenne e dal puntamento di un dato oggetto sulla volta celeste. Un altro tipo di radiotelescopio è quello che sfrutta il cosiddetto principio di sintesi di antenna o di apertura. È costituito da un radiointerferometro ad antenne mobili e facilmente orientabili: il potere risolutivo dello strumento equivale a quello di un radiotelescopio a paraboloide di area uguale a quella entro cui si possono muovere le singole antenne. Questo strumento consente un'osservazione abbastanza veloce, che necessita tuttavia dei calcolatori elettronici per l'elaborazione dei dati di osservazione ottenuti. Per alimentare ulteriormente il potere risolutivo sono entrati in funzione dal 1965 radiointerferometri a lunga linea di base. Linee di base intercontinentali collegano gli Stati Uniti alla Svezia e all'Australia, il Canada a Portorico e Jodrell Bank a Portorico. In questi casi il segnale radio raccolto dall'antenna viene amplificato da un amplificatore parametrico o a maser; quest'ultimo è particolarmente adatto allo studio dei segnali deboli. I segnali amplificati vengono di solito registrati su disco o nastro magnetico ed elaborati con calcolatori elettronici, che possono fornire anche mappe (a falsi colori) degli oggetti celesti osservati.
I radiotelescopi e l’interferometria in italia
I primi lavori di ricerca in Italia iniziarono nel 1942 (con studi sulla radioemissione solare) presso l’osservatorio astrofisico di Arcetri (Firenze). Sono stati costruiti un paraboloide di 5 metri di diametro che lavorava alla frequenza di 1421 MHz, un paraboloide di 2 metri di diametro funzionante a 9300 MHz ed un array piano di 4 antenne ad elica operante a 187 MHz (questa fu la prima struttura installata). Successivamente furono sperimentati un interferometro composto da 2 antenne yagi (225 MHz) ed un paraboloide di 10 metri di diametro funzionante a 9.42 GHz e a 36 GHz. Attualmente è attivo ad Arcetri un gruppo di lavoro di radioastronomia che collabora con l’Istituto di Radioastronomia di Bologna (l’istituzione nazionale di riferimento per la ricerca radioastronomica italiana) nel programma VLBI (Very Long Baseline Interferometry). L’ultima generazione di sistemi interferometrici è appunto quella denominata VLBI: si tratta di radiointerferometri intercontinentali con basi (distanze tra le antenne) paragonabili al diametro della Terra e potere risolutivo equivalente a quello che si otterrebbe con un paraboloide di diametro pari a decine di migliaia di chilometri. Questo sistema esalta al massimo le prestazioni degli impianti interferometrici: mentre, in genere, gli elementi di raccolta della radiazione incidente sono collegati elettricamente tra loro mediante linee di trasmissione o ponti radio, con la tecnica VLBI le antenne riceventi sono indipendenti e possono essere spaziate fino a migliaia di chilometri sulla superficie terrestre (eventualmente poste a bordo di satelliti artificiali). I sistemi di antenna progettati per questa applicazione sono generalmente riflettori parabolici orientabili in tutte le direzioni per inseguire il moto apparente delle radiosorgenti. Per ottenere l’interferenza tra le varie stazioni che partecipano all’esperimento occorre registrare su nastro magnetico il segnale radioastronomico insieme ad un preciso segnale di riferimento temporale. Il processo di correlazione fra le informazioni ottenute da tutte le stazioni (prodotto interferometrico) è effettuato in un secondo tempo da un elaboratore elettronico dedicato situato nel centro di raccolta dati. La riuscita dell’esperimento è condizionata dalla perfetta conservazione della fase originale del segnale nelle singole stazioni di osservazione quando si effettua la conversione di frequenza dalla banda di ricezione alla banda video (per consentire la registrazione su un normale ed economico nastro magnetico commerciale): la stabilità degli oscillatori locali di conversione del ricevitore VLBI, durante tutto il tempo in cui il segnale è integrato (fino ad alcune ore), deve essere molto elevata. Notevole è l’incremento ottenibile nel potere risolutivo: è possibile produrre mappe di radiosorgenti con risoluzioni migliori di 0.001 secondi d’arco, mille volte superiori a quelle ottenibili con i più grandi telescopi ottici che restano comunque pesantemente limitati dal fenomeno della turbolenza atmosferica. L’Italia partecipa alla rete internazionale VLBI con due stazioni realizzate per lo scopo, una situata nei pressi della “Croce Del Nord” a Medicina (BO), l’altra a Noto in Sicilia, entrambe gestite dall'Istituto di Radioastronomia di Bologna. Ciascuna stazione comprende un’antenna a riflettore parabolico con diametro di 32 metri completamente orientabile in azimut e zenit, funzionante sulle bande di frequenza assegnate per convenzione internazionale alla radioastronomia comprese fra 327 MHz e 24 GHz. E’ in costruzione una terza stazione in Sardegna (in provincia di Cagliari) dove è stato approvato un progetto per la realizzazione di un radiotelescopio di 64 metri di diametro. Tra gli obiettivi scientifici del progetto, oltre alle osservazioni VLBI, sono previste ricerche a lunghezze d’onda millimetriche (43 e 96 GHz), studi di radar-astronomia, supporto alle missioni spaziali, ricerche di geodinamica e ricerche SETI. Sempre a Medicina, nell’ottobre del 1983, fu inaugurato un radiotelescopio a paraboloide. Esso è entrato subito a far parte della rete di strumenti europea e planetaria che sfrutta la tecnologia detta VLBI. Collegati assieme, questi strumenti vedono delle figure d’interferenza tra i fasci che giungono dalla medesima sorgente celeste e, ricostruendo da queste le immagini, è importante che siano situati alla massima distanza l’uno dall’altro. Il paraboloide ha una superficie riflettente di 32 metri di diametro e, a differenza della Croce del Nord, può essere orientato in qualsiasi direzione grazie alla montatura altazimutale. Il moto di inseguimento avviene su due assi, verticale e orizzontale, ed è comandato da un calcolatore che effettua in tempo reale la conversione delle coordinate. I ricevitori dell’antenna sono posti al fuoco primario o al fuoco Cassegrain. Il paraboloide di Medicina si è subito inserito nella rete europea EVN, che va dalla Svezia all’Inghilterra, alla Francia e alla Germania, realizzando una base interferometrica di circa 2000 chilometri. Ma alla fine del 1988 ad esso è stato affiancato un radiotelescopio praticamente identico installato a Noto, a sud-ovest di Siracusa. Con il suo gemello, la base si è allungata di altri mille chilometri in latitudine e il potere risolutivo della rete europea è quindi aumentato del 50%. Le bande usate per l’osservazione sono 1.6, 5, 10 e 23 GHz. Oltre all’impiego in astronomia, i due paraboloidi italiani forniscono dati di grande importanza geodinamica in quanto la distanza tra le basi può essere periodicamente misurata, per mezzo di sorgenti cosmiche, con la precisione del centimetro. Le variazioni di tali distanze indicano come si muovono le zolle tettoniche africana ed europea. L’emissione radio proveniente dal Sole viene registrata in Italia dal radiotelescopio dell’Osservatorio Astronomico di Trieste, un paraboloide di 10 metri di diametro con montatura equatoriale posto nella sede distaccata di Basovizza, a 12 chilometri dalla città e a 400 metri di altezza. Attivo dal 1968, lo strumento sente il soffio del Sole alle frequenze tra 0.2 e 1 GHz e registra costantemente i segnali misurati 500 volte al secondo. Una volta elaborati, questi dati vengono diffusi su un apposito bollettino e consentono di seguire l’attività solare e coronale. Un secondo radiotelescopio in montatura altazimutale è in corso di completamento. Esso permetterà di estendere le osservazioni a una gamma di frequenze più alte, fino a 3 GHz, con un campionamento delle misure di 1000 volte al secondo.
La Croce del Nord compie gli anni Nella pianura a Nord di Medicina (Bologna), in località Fiorentina, il 24 Ottobre 1964 veniva inaugurato un grande radiotelescopio denominato “Croce del Nord”. Con la progettazione e costruzione di questo strumento il nostro paese iniziava una nuova e fruttuosa avventura scientifica.
L’ambizioso progetto, che prevedeva la realizzazione di due file di antenne, ciascuna lunga circa 600 metri e tra loro perpendicolari, fu ideato e inizialmente guidato da Marcello Ceccarelli. Alla memoria dello scienziato prematuramente scomparso è stato intitolato il Centro Visite, collocato a poco più di un chilometro dai radiotelescopi di Medicina. Pensato per illustrare i concetti di base dell’astronomia, spiegare cos’è e a cosa serve l’astronomia nella banda radio, permetterà anche di conoscere la storia e il funzionamento dei radiotelescopi dell’Istituto di Radioastronomia.
La prima spinta verso questo progetto venne da Giampiero Puppi, allora direttore dell’Istituto di Fisica dell’Università di Bologna e si sviluppa in seguito grazie al contributo del Ministero della Pubblica Istruzione e del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Un gruppo ristretto di persone, sotto la guida di Marcello Ceccarelli, dà vita ad un ambizioso progetto che permette alla Ricerca italiana di giocare un ruolo importante nell’allora giovane scienza della radioastronomia.
Il radiotelescopio ha un forma a “T” e non a croce, come proposto inizialmente, per carenze finanziarie. Mentre procede la costruzione, nei laboratori dell’Istituto di Fisica dell’Universita’ di Bologna si sviluppano le componenti elettroniche, in particolare il ricevitore a 408 MHz dimostratosi uno dei migliori al mondo. Il principio delle cosiddette croci di Mills, dal nome del loro progettista, è di unire due antenne allungate in direzioni perpendicolari e di connetterle ai ricevitori in modo che il loro fascio abbia la forma di un sottile pennello anziché, come quello di una sola delle due, a forma di ventaglio. Così a Medicina un’antenna è disposta nella direzione nordsud e l’altra in quella est-ovest. I suoi bracci sono lunghi circa 600 metri e la lunghezza d’onda ricevuta è di 73 centimetri, come l’antenna quasi gemella costruita nel 1964 a Molonglo, in Australia. La coppia di strumenti esplora ciascuno il suo emisfero celeste. La superficie delle antenne non è continua, ma formata da fili di acciaio e i dispone in un unico grande cilindro parabolico 560x36 metri est-ovest e di 64 cilindri più piccoli 24x7 metri allineati in direzione nord-sud. Lo strumento è tuttora il maggiore radiotelescopio italiano.
Nel 1972 e’ deciso un ammodernamento della “Croce del Nord”. Il ramo Nord-Sud diviene lungo 635 m. Col rinnovato strumento, più sensibile grazie a componenti elettronici aggiornati e di miglior risoluzione, viene prodotto un nuovo importante catalogo di radiosorgenti, il “B3”, pubblicato nel 1985.
Contare il numero di sorgenti radio in funzione della loro “luminosità” radio apparente ha grandi implicazioni per la nostra comprensione della struttura dell’Universo, dato che ci permette di riconoscere se esso può essere considerato stazionario o in evoluzione, in accordo con la teoria del Big Bang.
Ma anche la storia recente della “Croce del Nord” è altrettanto ricca di importanti contributi alla ricerca in campo internazionale. Per oltre dieci anni sono state condotte osservazioni sulla variabilità dell’emissione da radiosorgenti forti con importanti risultati astrofisici sulla comprensione dei meccanismi di emissione radio e sulla natura del mezzo interstellare. Attualmente sono in corso programmi per la ricerca di pulsar con periodi di rotazione dell’ordine del millesimo di secondo e “pulsar timing” (uso delle pulsar come standard temporali).
Le caratteristiche del radiotelescopio si sono poi dimostrate “uniche” per provare le tecniche da utilizzare in strumenti di nuova generazione, in particolare l’avveniristico “Square Kilometre Array”, progetto di radiotelescopio con superficie di raccolta di 1 Milione di m2, nato da una collaborazione a livello mondiale.
Negli ultimi venti anni anche l’Istituto di Radioastronomia e’ cresciuto. Ora ha diverse sedi e gruppi di ricerca a Bologna, Arcetri, Matera, Noto e Cagliari e dispone di altri radiotelescopi come le due parabole da 32 m di Medicina e di Noto, mentre a San Basilio (Cagliari) e’ in costruzione un nuovo radiotelescopio parabolico da 64 m di diametro, il Sardinia Radio Telescope (SRT) che potenzierà in modo decisivo la rete italiana di interferometria radio a lunghissima linea di base (VLBI).
Fonte: ftp://www.ira.inaf.it/pub/outgoing/varano/corso_aggiornamento_insegnanti/radiotelescopi_PC.doc
Sito web da visitare: ftp://www.ira.inaf.it/pub/outgoing/varano
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