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LA CHIMICA LETTA ATTRAVERSO L’OPERA DEI SUOI PROTAGONISTI
IL PERIODO ANTICO
La chimica nasce come tecnologia e non come scienza a partire dal IV millennio a.C. nell’area del Mediterraneo orientale (Egitto, Mesopotamia, Asia Minore). A quell’epoca gli scopi principali erano essenzialmente di carattere pratico (lavorazione dei metalli, produzione del vetro, estrazione di pigmenti naturali…), ma in Egitto la khemeia assunse rapidamente significato religioso. I greci per primi cominciarono a dare alla materia anche un connotato teorico, ma questo rimaneva basato sul metodo deduttivo aristotelico, che permise ben poche scoperte.
L’ALCHIMIA
L’alchimia venne all’inizio praticata da Arabi e Bizantini a partire dal V secolo, passando successivamente anche nell’Europa occidentale. Lo scopo dell’alchimista era la scoperta della pietra filosofale, una fantomatica sostanza in grado di trasformare ogni materiale in oro. Ovviamente l’alchimia non raggiunse mai il proprio scopo, ma fu molto importante per l’eredità che lasciò ai futuri chimici, come la scoperta delle proprietà di molte sostanze o la messa a punto di nuovi strumenti. Inoltre nell’alchimia si trovano anche le radici delle odierne farmacologia e fisiologia. L’alchimia entrò in crisi con la formulazione da parte di Galileo Galilei del metodo scientifico sperimentale e poi viene considerata conclusa con l’opera di Robert Boyle.
ROBERT BOYLE, IL CHIMICO SCETTICO
Si può senza dubbio alcuno affermare che l’opera di Boyle abbia precorso i tempi di almeno 150 anni, anticipando quella dei primi chimici moderni. Robert Boyle nacque a Lismore, in Irlanda, nel 1627, figlio del duca di Cork. La provenienza da una famiglia nobile gli consentì di coltivare la passione per gli studi e in particolare per l’alchimia. Ebbe la possibilità di viaggiare in Francia e in Italia, dove conobbe l’opera di Galileo. Grazie alla sua abilità sperimentale, come detto sorprendente per l’epoca, unita ad un’elevata capacità speculativa, riuscì a cogliere diversi successi: enunciò la legge isoterma PV=k, poi fissò per primo lo 0 come temperatura di fusione del ghiaccio, infine dimostrò sperimentalmente il paradosso idrostatico , già spiegato teoricamente da Stevino con l’omonima legge. Ma la sua opera principale è il libro “Il chimico scettico” in cui riassume le proprie scoperte, critica aspramente la teoria degli elementi, dimostra che l’aria è un miscuglio ed enuncia una prima teoria corpuscolare, che poi ritroveremo, perfezionata, nell’enunciato di Dalton. Infine definisce per la prima volta i termini composto e elemento in questi termini:
ELEMENTO: sostanza non separabile ulteriormente nemmeno con reazioni chimiche
COMPOSTO: sostanza formata da più elementi.
Negli ultimi anni della sua vita si dedicò soprattutto a ricerche pratiche, ma ebbe ancora successi, come la scoperta del fosforo o la sintesi dell’acido fosforico. Morì a Londra nel 1691, dopo aver fondato la Royal Society, che aveva come scopo lo scambio di informazioni e la cooperazione tra differenti scienziati. Anche qui in anticipo, Boyle aveva capito che la ricerca non può essere compiuta da uno scienziato isolato, ma deve essere il risultato dell’unione delle differenti esperienze di vari ricercatori.
STAHL E IL FLOGISTO: UN PASSO INDIETRO NELLA RICERCA CHIMICA
Il Seicento è stato un secolo di grande sviluppo economico, a partire dalla fine della grande epidemia di peste del 1630. Per questo l’attività estrattiva dei metalli divenne sempre più importante, per sostenere la continua crescita delle manifatture, primo nucleo di quel fenomeno oggi noto come rivoluzione industriale. Ma, pur essendo le tecniche di lavorazione dei metalli note fin dall’epoca degli Ittiti, alcuni processi restavano tuttavia oscuri. Soprattutto era complicato lo studio della combustione e della calcinazione dei metalli. Infatti si osservava che durante la fusione parte di essi bruciava, trasformandosi in calce ed aumentando di peso. Mentre poi scaldando queste calci con carbone, riavevamo il metallo di partenza, assieme ad una diminuzione di peso. Per risolvere la questione, nel 1715 il professore tedesco Stahl, dell’università di Jena, avanzò la teoria del flogisto: metalli e combustibili erano ricchi di questa sostanza dalle straordinarie proprietà: aveva peso negativo, era il principio dell’infiammabilità, aveva la facoltà di uscire da un corpo per entrare in un altro. Stahl dunque spiegò con queste due reazioni i fenomeni di combustione e calcinazione:
METALLO – FLOGISTO = CALCE (avendo il flogisto peso negativo, la calce pesa più del metallo)
CALCE + COMBUSTIBILE = METALLO + CENERE (il combustibile è ricco di flogisto, lo cede alla calce, che così riduce il suo peso e diviene metallo)
La teoria di Stahl può sembrare oggi abbastanza astrusa, ancora figlia di una mentalità alchimistica, piuttosto che di una ricerca scientifica, ma ebbe grande successo specialmente in Inghilterra e in Francia. Solo nel 1770 alcuni iniziarono a mettere in dubbio la validità di quella che a tutti gli effetti è stata la prima teoria chimica di ampie proporzioni, ma si dovrà attendere Lavoisier nel 1789, perché la teoria venga del tutto superata. Per assurdo, però, oggi si può dire che la teoria del flogisto sia stata anche di qualche utilità per la chimica: infatti le frenetiche ricerche fatte dai chimici per tentare di isolare il flogisto (che ovviamente non fu mai trovato) produssero una serie di scoperte accessorie, che furono humus necessario per il lavoro di Lavoisier.
Georg Ernst Stahl non deve però essere ricordato solamente per la sua teoria del flogisto, ma anche per i suoi studi sulla fermentazione, che in alcuni punti restano ancora oggi validi, e per quello sui sali di potassio. Inoltre fu il primo ad osservare che gli acidi possono avere differenti gradazioni di forza. Fu anche eccellente medico, tanto da divenire dottore personale di Federico Guglielmo I di Prussia.
LA CHIMICA PNEUMATICA
È necessario, prima di approfondire la nascita della chimica moderna grazie alle prime tre leggi ponderali di Lavoisier, Proust e Dalton, accennare rapidamente alle ricerche sui gas che alcuni scienziati compirono nel XVIII sec., ottenendo risultati fondamentali per lo sviluppo della disciplina.
Fino al XVI secolo, l’unica sostanza aeriforme conosciuta era l’aria, ritenuta, secondo la teoria aristotelica degli elementi, non un miscuglio ma una sostanza pura. Poi ci fu il fondamentale lavoro del fiammingo Jan Baptist van Helmont, che scoprì l’anidride carbonica dalla combustione del legno e per primo usò il termine gas, adattamento fonetico al fiammingo della parola greca chaos, che nella cultura classica indicava la caotica sostanza primordiale che, una volta ordinata, dette vita al kosmos.
Ricordiamo ora altri importanti ricercatori: Henry Cavendish, inglese, personalità poliedrica che, nonostante le nobili origini, condusse una vita semplice per amore della scienza. Ottenne notevoli risultati: nel 1766 scoprì l’idrogeno tramite la reazione: e poi fu anche il primo, nel 1784, a sintetizzare l’acqua. Oltre a questo, è ricordato anche come grande fisico in quanto riuscì a determinare con un geniale esperimento basato su una bilancia a torsione il valore della costante di gravitazione universale G contenuta nella formula di Newton ma soprattutto compì ricerche sui circuiti elettrici con straordinari risultati che gli consentirono tra l’altro di anticipare le leggi di Ohm. Purtroppo la morte lo sorprese nel 1810, prima che i suoi risultati potessero essere completamente pubblicati. Sarà lo scozzese Maxwell a riscoprire, alla fine del XIX° secolo le sue ricerche in maniera completa.
La scoperta dell’ossigeno è dovuta a Priestley e Scheele, che in maniera indipendente giunsero, contemporaneamente allo stesso risultato. Joseph Priestley (1733-1804), non fu solamente chimico, ma anche filosofo e teologo, pur non raggiungendo in questi ultimi due campi i livelli di eccellenza che lo contraddistinsero nella ricerca scientifica, alla quale tuttavia si dedicò solo negli ultimi anni della sua vita, quando fu costretto a rifugiarsi, per motivi politici, negli Stati Uniti, appena divenuti indipendenti, collaborando con illustri personaggi come Benjamin Franklin. Karl Wilhelm Scheele nacque in un sobborgo di Göteborg nel 1742, in una famiglia di umili condizioni. Studiò per otto anni farmacia, trasferendosi a 27 prima a Stoccolma e poi alla prestigiosa università di Uppsäla. A soli 35 anni però, decise di ritirarsi dalla carriera accademica, rifiutando addirittura un’offerta dall’università di Berlino, per potersi dedicare in tranquillità, nella piccola cittadina di Köping, ai suoi studi di chimica, che furono molto fecondi: scoprì l’ossigeno, il cloro, dimostrò che la grafite è composta da carbonio, scoprì l’acido cianidrico (HCN), quello ossalico (H2C2O4) e quello lattico. Ancora oggi l’arsenito rameoso (Cu3AsO3) è conosciuto come verde di Scheele. Il farmacista svedese inoltre dà il suo nome anche ad un minerale, la scheelite, dal quale per primo estrasse il tungsteno (W). Nel 1779 ottenne la glicerina. Morì nel 1786.
LAVOISIER: NASCE LA CHIMICA MODERNA
Antoine Laurent de Lavoisier segna una svolta decisiva nella storia della chimica. Nato in una ricca famiglia borghese parigina nel 1743, si dedica inizialmente agli studi umanistici, particolarmente s’interessa di giurisprudenza. Ma già a vent’anni i suoi interessi si erano spostati nelle materie scientifiche: anatomia, chimica e botanica. A 25 anni iniziò un’indagine meteorologica assieme ad altri ricercatori dell’Accademia delle scienze, che portò ad un radicale cambiamento nelle tecniche agricole della Francia. Si dedicò al perfezionamento della bilancia, che diventò strumento insostituibile delle sue ricerche. Nel 1787 pubblicò un’opera sulla riforma della nomenclatura e del simbolismo chimici. Ma la sua pubblicazione fondamentale è di due anni dopo: Traité Elémentaire de Chimie, dove espone le sue teorie antiflogistiche, ma soprattutto enuncia la prima legge ponderale, nota come legge di conservazione della massa: in una reazione chimica la massa totale delle sostanze reagenti è uguale alla massa delle sostanze prodotte. Con questa affermazione Lavoisier confuta una volta per tutte le teorie flogistiche di Stahl, dimostrando che in realtà le reazioni prese in considerazione da Stahl si potevano spiegare facilmente considerando l’intervento dell’ossigeno. Morì nel 1794, ghigliottinato, vittima del periodo del terrore.
PROUST: LA LEGGE DELLE PROPORZIONI DEFINITE E COSTANTI
Nel 1799, a 10 anni dall’enunciato di Lavoisier, rimanevano però ancora vivi nell’immaginario collettivo alcuni principi alchimistici, come quello secondo cui una stessa sostanza avesse composizione differente a seconda della zona in cui era stata trovata. A superare questa idea così diffusa, pensò Joseph Louis Proust (1754-1826), chimico francese che tuttavia svolse gran parte dei suoi studi in Spagna, dove il re Carlo IV lo aveva nominato direttore della scuola di artiglieria di Segovia. Qui poté studiare la pirite e il solfuro di ferro (FeS2 e FeS), composti necessari nella fabbricazioni delle polveri da sparo, attività per cui era pagato lo scienziato. Proprio l’utilizzo dell’analisi chimica, di cui fu uno dei fondatori, gli permise di dimostrare che la composizione percentuale di Fe e di S era costante in qualsiasi campione si analizzasse, di qualsiasi provenienza. Poi Proust ripeté con successo l’esperimento anche sul carbonato rameico (CuCO3) e sull’acqua. Nel 1806 si ritirò a vita privata, studiando miglioramenti per le mongolfiere, da poco inventate. La sua legge sostiene che“in un composto chimico puro gli elementi costituenti sono sempre presenti in un rapporto di massa definito e costante”.
DALTON: LA PRIMA TEORIA ATOMICA
John Dalton fu figura poliedrica e fondamentale nello sviluppo della chimica moderna, riportando d’attualità la teoria atomica che era già stata formulata, anche se su basi non sperimentali ma solo deduttive, nell’antichità greca da Leucippo e Democrito e ripresa in epoca romana da Lucrezio nel De Rerum Natura. In epoca rinascimentale, con la riscoperta delle antiche filosofie antiaristoteliche, dimenticate nel Medioevo , alcuni pensatori riportarono in auge tale idea, di cui anche Boyle, in alcuni testi, parrebbe essere sostenitore. Ma Dalton fu il primo a proporla su basi scientifiche.
Il primo importante risultato fu l’enunciazione della terza legge ponderale, nota anche con il suo nome oppure come legge delle proporzioni multiple: quando due elementi si combinano tra loro per formare due o più composti, i rapporti tra le quantità in massa di uno stesso elemento, combinato con quantità fissa dell’altro sono espressi da numeri interi, generalmente piccoli. Dalton lavorò con le anidridi del cloro: Cl2O, Cl2O3, Cl2O5, Cl2O7. Si vede chiaramente che, tenendo fisse le due moli di Cl, abbiamo un rapporto per l’O di 1:3:5:7 moli .
Poté così formulare la teoria atomica, che si configura come la sintesi delle tre leggi ponderali, riassunta da Dalton in quattro punti:
Da ciò deriva che l’atomo è definibile come una particella di materia che durante le reazioni chimiche mantiene la propria identità.
Dalton però sbagliò su un punto, e cioè sulla spiegazione della differenza tra composti ed elementi: infatti ignorava l’esistenza delle molecole e sostenne l’esistenza di atomi composti, di peso uguale alla somma degli atomi elementari che lo compongono.
Non è un errore da poco, infatti Dalton se lo portò dietro anche nella fase successiva della sua ricerca: si propose infatti l’ambizioso obiettivo di massare tutti gli atomi allora conosciuti. Non esistendo strumenti così accurati da permettere un’esatta misura del peso atomico. Poiché misurare una grandezza significa confrontarla con un’unità di misura data, riuscì comunque a superare il problema, decidendo di non utilizzare come termine di paragone il kilogrammo ma la massa dell’atomo che entrava nei rapporti ponderali sempre con il numero minore e cioè l’H, che divenne l’u.m.a. (unità di massa atomica) . Un atomo di H pesava 1 u. Gli altri atomi venivano massati in relazione all’H. Il problema giunse quando si arrivò all’O. Nell’acqua il rapporto tra H e O era di 1:8, ma non conoscendo la molecola (H2O) non si poteva escludere che l’atomo complesso di acqua fosse HO o addirittura HO2. Ma Dalton introdusse in maniera arbitraria (non empirica e dunque errata) il principio della massima semplicità: in assenza di evidenze contrarie, si deve proporre la formula più semplice. Dunque l’acqua è HO e l’O ha massa 8u. Quest’errore sarà corretto solo 50 anni dopo.
Dalton nella sua vita si occupò però anche di altro: fu eccellente meteorologo (e anzi in questa disciplina cominciò la carriera), fisico (enunciò la legge della somma delle pressioni dei gas parziali) e si dedicò anche alla medicina, studiando su sé stesso la malattia oggi nota come daltonismo. Morì a 78 anni nel 1844 nella sua città natale, Manchester.
BREVE STORIA DELLA U.M.A.
L’u.m.a., o dalton, si è resa necessaria per i chimici, data l’impossibilità di massare in termini assoluti atomi e molecole. Dalton la stabilì nell’H, poiché era l’atomo che entrava con il numero più basso nei rapporti ponderali. Ma ben presto si passò all’O, in quanto l’ossigeno forma composti con tutti gli altri elementi ed era dunque più facile il confronto: corretto l’errore di Dalton e riconosciuto che l’O è 16u, si stabilì la nuova u.m.a. in 1/16 dell’O. Solo recentemente la IUPAC decide di passare alla dodicesima parte del carbonio-12, in seguito alla scoperta degli isotopi e alla creazione di strumenti a campi magnetici, come lo spettrometro di massa, in grado di calcolare con estrema precisione la massa degli atomi. La u attuale vale 1,66∙10∙10
BERZELIUS RIORDINA LA NOMENCLATURA
Il barone Jöns Jach Berzelius fu amico di Dalton, ma soprattutto un grandissimo chimico. Coetaneo dell’inglese, non ebbe la sua versatilità, ma si dedicò solo alla chimica. Razionalizzò i simboli chimici , inserendone uno certo per ogni elemento, basato sull’iniziale del nome in lingua greca o latina. Propose l’O come u.m.a. e diede il nome di ammonio allo ione NH4+. Fu il primo chimico organico ed enunciò i concetti di isomeria, allotropia e polimeria, oltre alle leggi dell’elettrochimica. Scoprì un gran numero di elementi: selenio, calcio, torio, cerio, bario, tantalio, zirconio, vanadio, stronzio. Descrisse le proprietà del silicio. Fu Presidente dell’Accademia delle Scienze di Stoccolma dal 1810 fino alla morte nel 1848, a 69 anni.
BREVE STORIA DELLA CHIMICA ORGANICA
Apriamo ora una parentesi per analizzare una branca della chimica che cominciò il suo sviluppo proprio in questi anni e che oggi sta assumendo sempre maggiore importanza: la chimica organica. La chimica organica si occupa dello studio delle molecole tipiche dei viventi, a differenza di quella inorganica, che si occupa di sostanze minerali. Fino al XIX secolo, si credeva che si trattasse di due campi completamente separati, poiché si ritenevano i composti organici caratterizzati da una vis vitalis che poteva essere infusa solo da organismi viventi. Nel 1828 però ci fu un importantissimo esperimento del tedesco Friedrich Wöhler il quale riuscì a sintetizzare l’urea [CO(NH2)2], composto organico, partendo da sostanze inorganiche come il cianato d’ammonio (NH4OCN). Pertanto si capì che era sbagliata la precedente definizione e se ne dette una nuova. Sono molecole organiche quasi tutti i composti del carbonio. Si notò infatti che il carbonio entra, spesso con lunghe catene polimerizzate, in tutti i composti organici. Perché tale centralità del C? Esso si trova nel gruppo IVA della tavola periodica, e ciò gli garantisce caratteristiche favorevoli: - possibilità di fare 4 legami; - possibilità di formare lunghe catene covalenti pure, anche con ramificazioni complesse; - un valore di elettronegatività (2,1) tale da rendere covalenti (e poco polari) tutti i legami; - una stabilità dovute alla piccola dimensione dell’atomo (77 pm) ; - la possibilità di formare molecole isomere, cioè con stessa formula grezza ma diversa struttura. Dal 1828 dunque nasce la chimica del C su basi scientifiche. Vari studiosi hanno contribuito al suo sviluppo, ma in particolare dobbiamo ricordare Friedrich August Kekulé von Stradonitz, professore di chimica prima a Gand, in Belgio e poi a Bonn, nato a Darmstadt, in Germania nel 1829 e morto nel 1896. Egli è stato colui che ha permesso di trovare ordine in quella che lo stesso Wöhler definì, in una lettera a Berzelius del 1835: “una primitiva foresta tropicale […] dalla quale è impossibile districarsi e in cui è pauroso entrare”. Fu lui a teorizzare la tetravalenza del C e a comprendere l’importanza di ideare una scrittura che evidenziasse anche la struttura delle molecole. Fu così che nacquero le fondamentali formule di struttura. Kekulé stesso cercò di ricavarne il maggior numero possibile: nel 1867 ricavò il tetraedro del metano, ancora prima, nel 1862, scoprì i primi composti a catena ciclica e nel 1865 ricavò la formula di struttura di quello più importante, il benzene (C6H6). Esso era stato scoperto nel 1825, ma fu Kekulé a comprendere che esso aveva forma esagonale con tre legami semplici e tre doppi, non localizzabili precisamente, ma delocalizzati (oggi sappiamo che tale fenomeno è causato da un’ibridazione laterali tra sei orbitali py). Sessant’anni prima della VB, davvero una felice intuizione! Ma Kekulé deve molto al suo maestro, il barone Justus von Liebig (1803-1873), di cui era concittadino. Egli fu il primo ad introdurre nelle facoltà scientifiche all’Università le lezioni in laboratorio. Fu lui a scoprire il concetto di isomeria e, assieme a Wöhler, quello di radicale, ossia un gruppo di atomi che può trasferirsi in blocco da un composto ad un altro durante una reazione. Nel 1831 isolò il titanio, poi sintetizzò il cloroformio. Fu il primo a tentare una teoria sugli acidi, definiti composti in cui l’H è sostituibile con un metallo. Pubblicò anche una rivoluzionaria teoria sugli alimenti, che suddivise in grassi, carboidrati e proteine secondo la loro funzione. Fece scalpore la sua teoria secondo cui il calore animale deriva dalla combustione degli alimenti.Nell’ultima fase della vita si occupo di chimica quotidiana, studiando il funzionamento dei concimi, le proprietà chimiche del vino e quelle della carne.
Nell’ultimo secolo la chimica organica ha trovato applicazione specialmente in due settori: quello industriale, soprattutto grazie allo studio delle reazioni di polimerizzazione, e quello medico, grazie allo sviluppo della biochimica e lo studio della struttura delle molecole necessarie alla vita più complesse. Per quanto riguarda il primo campo, dobbiamo ricordale l’opera di Giulio Natta, nato ad Imperia nel 1903, professore presso il Politecnico di Milano, vincitore del premio Nobel per la Chimica nel 1963. Egli partì dallo studio dei polimeri, notando come fosse possibile produrli facendo reagire numerose volte tra loro molecole di alcheni . Notò poi che utilizzando alcuni catalizzatori organometallici combinati con metalli di transizione come Ti o V, si ottenevano reazioni a catena che permettevano in maniera rapidissima la formazione di lunghe catene polimerizzate. Oltre alla velocità, c’era poi un altro vantaggio forse ancora più importante: le molecole ottenute dal prof. Natta erano altamente cristallizzabili, dunque eccezionalmente più stabili di polimeri a struttura irregolare che erano quanto di meglio fin lì si era riusciti a produrre artificialmente. Questa scoperta ebbe ripercussioni fondamentali nel mondo dell’industria: ancora oggi questa tecnica viene utilizzata per produrre materiali divenuti ormai indispensabili come la plastica .
Nel campo biochimico, nel corso del XX secolo si è cercato di ricostruire la struttura delle molecole dei viventi, consci del fatto che da questa poi deriva la loro funzione. Un ruolo fondamentale ricoprono in questo ambito le ricerche di Emil Fischer, professore bavarese Nobel per la Chimica nel 1902. Egli in gioventù aveva determinato la struttura di molecole complesse come la caffeina, ma i risultati principali li ottenne studiando la sintesi proteica. In particolare, è considerato il padre della chimica degli enzimi. Riuscì infatti ad identificarne un gran numero e fu il primo a definirne la funzione. Partendo dai suoi studi, negli ultimi anni, i ricercatori sono riusciti a definire le differenze tra le reazioni chimiche che avvengono in un essere vivente e quelle di laboratorio: 1) le reazioni biochimiche si verificano a temperature relativamente basse e sono in genere abbastanza veloci. Ciò avviene grazie alla presenza di speciali catalizzatori, gli enzimi appunto, dotati di alta specificità ; 2) Quasi tutte le sostanze che costituiscono le cellule sono complesse macromolecole (poliosi , proteine, acidi nucleici, acidi grassi ecc.); 3) Uno stesso composto può subire trasformazioni diverse a seconda dei casi, a causa della variazione delle condizioni chimico-fisiche della cellula che permettono l’attivazione di enzimi diversi.
Negli ultimi anni, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i biochimici si sono dedicati allo studio delle più complesse molecole organiche: gli acidi nucleici (DNA e RNA). Una pietra miliare nella ricerca è senza dubbio la scoperta del modello a doppia elica del DNA da parte di James Watson e Francis Crick, nel 1953, che ha aperto la strada allo studio dei meccanismi dell’ereditarietà biologica. Non c’è dubbio che oggi sia questo il campo su cui si stanno concentrando gli sforzi dei ricercatori.
GAY-LUSSAC E LA PRIMA LEGGE VOLUMETRICA
Anche Louis Joseph Gay-Lussac cominciò come meteorologo, ottenendo eccellenti risultati grazie all’utilizzo della mongolfiera, con la quale raggiungeva anche i 7000 m di altitudine per studiare la differente pressione dei gas. Proprio da qui nacque il suo amore per la chimica e la fisica pneumatica. Cominciò a studiare in laboratorio e già a 30 anni, nel 1808, aveva ottenuto brillanti risultati, ricavando la legge isocora, a volume costante P = kT, e la prima legge volumetrica: quando due gas, a condizione di T e P costante, si combinano, i loro volumi stanno in rapporto numerico semplice tra loro e con il prodotto della reazione, se questo è un gas. Alcuni risultati però smentivano clamorosamente la teoria daltoniana: ad esempio 1L di H + 1L di Cl davano 2L di HCl. Berzelius aveva già detto che volumi uguali di gas diversi, a parità di T e P, contengono lo stesso numero di particelle. E questo principio venne confermato da questa legge (altrimenti sarebbero rimaste alcune tracce di uno dei due reagenti). Ma lo svedese, come il suo amico Dalton, credeva che i gas fossero formati da atomi e dunque che si dovesse formare 1 solo L di acido cloridrico. Infatti possiamo mostrare per via grafica cosa sarebbe accaduto se la teoria di Dalton fosse stata corretta (il pallino nero rappresenta l’H, quello bianco il Cl): ● + ○ = ●○. Allora perché l’evidenza empirica mostra che otteniamo due volumi di HCl? A questa domanda darà risposta Avogadro tre anni dopo. Dalton invece, dal canto suo, furioso per aver visto smentita in parte la sua teoria, non volle riconoscere mai questi risultati ed anzi iniziò a sostenere che la teoria corretta era la sua, portando a sostegno le leggi di Coulomb sulla carica elettrica. Grazie al grande prestigio internazionale di cui godeva, Dalton ebbe la meglio e ci vollero più di quarant’anni prima che la comunità scientifica riconosca pienamente i meriti di Gay-Lussac e soprattutto di Avogadro. Il chimico francese nella seconda parte della vita divenne professore presso la Sorbona di Parigi e poi, nel 1831 anche deputato all’Assemblea Nazionale. Si dedicò soprattutto ad applicazioni pratiche ed inventò l’etilometro, l’antenato di quello che oggi chiamiamo “palloncino”, cioè dello strumento che consente di calcolare il tasso alcolico di una persona. Visse per un periodo anche in Italia, compiendo studi di geologia. Morì a 72 anni, nel 1850, in un incidente nel suo laboratorio di Parigi: un banale errore provocò un’esplosione fatale.
AMEDEO AVOGADRO: LA TEORIA ATOMICO-MOLECOLARE
Quasi mai ricordato quando si parla dei più insigni scienziati della storia del nostro paese, Amedeo Avogadro è stato in realtà, per le implicazioni che hanno avuto le sue ricerche, una delle figure fondamentali della scienza, non solo chimica, a livello mondiale. Forse questa scarsa considerazione è dovuta al fatto che i suoi meriti gli furono riconosciuti solamente post mortem, come purtroppo troppo spesso accade, a causa del maggior prestigio che Dalton poteva vantare rispetto al chimico piemontese. Nato a Torino nel 1776, Amedeo Avogadro conte di Quaregna e Cerreto si dedicò agli studi di legge, compiendo una brillante carriera fino a divenire segretario di prefettura della capitale del Regno dei Savoia. Si appassionò alla scienza solo in seguito e compì studi di matematica, fisica e chimica da autodidatta. Già nel 1809 divenne professore di matematica e fisica presso il Liceo di Vercelli. Due anni dopo inizia a studiare i risultati di Gay-Lussac e giunge ad una conclusione straordinaria: volumi uguali di gas diversi contengono lo stesso numero di molecole. L’introduzione del concetto di molecola consente ad Avogadro di spiegare allo stesso tempo le tre leggi ponderali e la legge di Gay-Lussac. Infatti la molecola viene definita come la depositaria delle proprietà specifiche delle sostanze. Vediamo cosa accade con molecole biatomiche: ●● + ○○ = ●○ + ●○. Così è risolto il problema. Ma la comunità scientifica si mostrò riluttante ad accogliere l’ipotesi di un professore di liceo al posto di quella di Dalton e così Avogadro, che nel frattempo ottenne la cattedra di fisica a Torino, morì nel 1856 senza ottenere la considerazione che avrebbe meritato. Solo in seguito i chimici, con un omaggio postumo, definirono numero di Avogadro il numero di molecole (o atomi o ioni) contenuti in una mole, numero che è sempre costante e che è di 6,023∙1023. Una mole è una quantità di sostanza di massa in grammi pari alla sua massa molecolare (o atomica) relativa (cioè calcolata rispetto alla u.m.a.).
IL CONGRESSO DI KARLSRUHE E STANISLAO CANNIZZARO
Nel 1859-1860 i chimici decisero di tenere un congresso internazionale per poter discutere degli ultimi sviluppi della materia e scambiare informazioni su teorie, nuove tecniche di ricerca ecc.
Ma il protagonista assoluto di quel congresso divenne il siciliano Stanislao Cannizzaro, nato a Palermo nel 1826, docente all’Università di Genova a causa di un esilio dovuto alla sua partecipazione a rivolte anti-borboniche. Egli riuscì a dimostrare l’esattezza della teoria molecolare formulata cinquant’anni prima da Avogadro. La molecola venne così definita: “La più piccola parte di sostanza (semplice o composta) capace di esistenza indipendente e che presenta l’identità e le proprietà chimico-fisiche della sostanza”. Per questo nel caso dei gas nobili si parla di molecola monoatomica, per non dover stravolgere di nuovo questa definizione.
Cannizzaro inoltre presentò nuovi metodi per determinare la Mr delle sostanze gassose (o riconducibili questo stato) e quella dell’Ar di elementi presenti in sostanze gassose (o riconducibili). Le Mr le calcolò notando che il rapporto fra la massa di ugual volume di due gas a parità di P e T è pari al rapporto tra le loro Mr. Tenendo fisso come uno dei gas l’H2, la cui Mr è 2, riuscì a calcolare le altre. In questo modo l’O divenne, come era corretto, 16u.
Il metodo per calcolare le Ar è invece ancora oggi noto come Regola di Cannizzaro: “Per determinare l’Ar di un elemento basta considerare un gran numero di suoi composti, il maggiore possibile (tale da evitare omissioni significative), determinare di ciascuno la Mr e per ciascuno dedurre, attraverso l’analisi chimica, la quantità dell’elemento considerato contenuta in una quantità del composto pari alla sua Mr: l’Ar è definita dal valore più basso così ottenuto.” Altri due fisici avevano da poco pubblicato, per i metalli, cui non si può applicare questo procedimento, la regola nota con il loro nome, vale a dire Dulong – Petit: Ar moltiplicato per il calore specifico dà sempre una costante uguale a 6,4 cal/°C. Si tratta in realtà di una regola ottenuta con una serie di approssimazioni e il cui risultato non è dunque sempre preciso, oltre a essere limitata da diverse eccezioni. Ma per l’epoca, anch’essa fu molto utile.
Dopo il congresso, Cannizzaro riprese l’attività accademica, tornando nella sua città natale dopo l’Unità d’Italia e passando poi all’Università di Roma dopo la breccia di Porta Pia (fu un fervente sostenitore del Risorgimento). Confermò la tetravalenza del C, che come abbiamo visto era già stata ipotizzata da Kekulé. Morì a Roma nel 1910.
MENDELEEV E IL SISTEMA PERIODICO
Al congresso di Karlsruhe, partecipò anche un giovane chimico russo, nato a Tobol’sk, oltre gli Urali, in piena Siberia, nel 1834. Da giovane si recò negli Stati Uniti, per studiare il petrolio, poi tornò in Russia, da cui non si allontanò più se non per alcuni convegni o congressi. Professore a Pietroburgo, nel 1869 pubblicò una classificazione periodica degli elementi. Il suo nome era Dmitrij Ivanovic Mendeleev. All’epoca diversi chimici avevano già tentato di ordinare gli atomi degli elementi conosciuti, avendo notato che godono di proprietà che tendono a ripetersi in alcuni di essi. Come scrive Isaac Asimov: “Nel 1830 si conoscevano 55 elementi […] In effetti, il numero cominciava a sembrare troppo elevato ai chimici […] quanti ne rimanevano ancora da scoprire? Dieci? Cento? Mille? Un numero infinito? Era una tentazione cercare di trovare un po’ d’ordine nella lista degli elementi noti. Forse in questo modo si sarebbe riusciti a scoprire un qualche motivo del numero degli elementi e qualche mezzo per spiegare la varietà delle proprietà esistenti.” . Il primo che tentò di proporre un ordine fu il tedesco J. W. Döbereinerche nel 1829 propose la teoria delle triadi, terzetti di atomi di peso atomico crescente, ma con proprietà chimiche simili: per esempio Li, Na, K; oppure Ca, Sr, Ba; o anche P, As, Sb. Osservando la tavola periodica odierna, si noterà che si trovano in quest’ordine nei gruppi IA, IIA e VA. Ma le sue ricerche non furono prese in considerazione da altri scienziati. La questione torno d’attualità negli anni ’60, dopo Karlsruhe, quando De Chancourtois propose una classificazione a spirale, nei raggi della quale si inserivano gli elementi che differivano per 10 unità di massa atomica. Ma questa non era la strada giusta. Più importante fu certamente il contributo dell’inglese Newlands che enunciò la legge delle ottave: se si ordinano gli atomi secondo massa atomica crescente, si può notare che le proprietà tendono a ripetersi ogni otto elementi. Ma questa teoria fu a torto ridicolizzata perché simile alla musica.
Mendeleev intuì che la chiave potesse essere la massa atomica e per questo sistemò gli elementi in una tabella ad otto colonne, riempiendo le righe secondo il criterio della Ar crescente. Le righe furono chiamate periodi, mentre le colonne gruppi. In ogni gruppo gli atomi differivano per peso, ma avevano le stesse proprietà chimiche. Per poter mantenere gli elementi con stesse proprietà nel medesimo gruppo, Mendeleev dovette però lasciare dei buchi, che se il suo sistema si fosse rivelato corretto, sarebbero dovuti essere occupati da elementi ancora non scoperti. Così quando furono isolati il gallio, lo scandio e il germanio si vide che andavano a collocarsi nel posto lasciato libero per gli atomi di quelle caratteristiche. La scoperta del cesio da parte di Bunsen e Kirchhoff fu la prova definitiva che sancì la validità del sistema periodico di Mendeleev. La compilazione permise anche di risolvere un problema incontrato dal professore russo: ad un certo punto dovette invertire le posizioni di tellurio Te e iodio I e di cobalto Co e nichel Ni mettendo prima il più pesante, per inserire l’elemento nel gruppo che possedeva le sue stesse proprietà chimiche. Mendeleev però non seppe dare una spiegazione a questa “eccezione”, che in realtà non era tale, perché, come spiegò il fisico inglese Moseley: “Le proprietà degli elementi sono una funzione periodica del loro numero atomico Z”, cioè del numero dei protoni, che nel frattempo erano stati scoperti.
Mendeleev continuò ad insegnare fino alla morte sopraggiunta a S. Pietroburgo nel 1907. In suo onore l’elemento con Z=101, realizzato artificialmente nel 1957 con una reazione nucleare, è stato ribattezzato mendelevio. A pochi altri, cioè Curie, Fermi, Einstein e Nobel, è toccato questo onore.
GIBBS E VON HELMHOLTZ: NASCE LA TERMOCHIMICA MODERNA
In questo periodo abbiamo risultati di rilievo anche nell’ambito dello studio dei meccanismi che sono alla base delle reazioni chimiche. In particolare ci si chiedeva per quale motivo alcune reazioni avvengono a temperatura ambiente mentre altre sono possibili solo ad altissime temperature o addirittura impossibili. Il lavoro di Josiah Gibbs e Hermann Von Helmholtz permette di spiegare ciò. Essi giunsero alla medesima conclusione in maniera indipendente il primo a Yale, il secondo a Bonn attorno al 1880. Essi considerarono l’entalpia [H] (cioè il contenuto termico di un sistema) e l’entropia [S] (il disordine di un sistema). Essi considerarono il fatto che ogni sistema tende a raggiungere la situazione più stabile (dunque con H più bassa) e più probabile, dunque con S più alta. Ma allora come mai in alcuni casi abbiamo un aumento di H (esempio le reazioni endotermiche) o una diminuzione di S (esempio la formazione del ghiaccio)?
Gibbs comprese che l’energia totale di un sistema è divisibile in due parti: quella libera (che può produrre lavoro) e quella vincolata (che viene dispersa in calore latente). Una reazione avviene spontaneamente quando c’è una diminuzione di energia libera. Cioè, come ha quantizzato Von Helmholtz, DG=DH-TDS. Se questa formula da risultato minore di zero, la reazione è possibile.
È interessante notare come questo risultato sia scaturito dall’opera di due studiosi che solitamente si occupavano d’altro. Infatti Gibbs è stato essenzialmente fisico e matematico, autore di importanti studi sullo spazio vettoriale, mentre Von Helmholtz è stato fisiologo, noto anche per essere stato il primo sostenitore di una teoria che prevedeva un’origine extraterrestre per la vita sul nostro pianeta. Con il loro lavoro nasce la termochimica moderna.
BREVE STORIA DELLA CINETICA CHIMICA
Già nel XVI secolo, l’italiano Vannuccio Biringuccio si era dedicato allo studio del ruolo che il tempo ricopre nello svolgersi di una reazione, ma i risultati più importanti, in tale campo, giunsero solo nell’Ottocento. La cinetica chimica si pone come obiettivo quello di stabilire i fattori che influenzano la velocità di una reazione. Per velocità in questo ambito si intende il rapporto tra la diminuzione di concentrazione dei reagenti e il tempo. Vedremo come questi risultati abbiano consentito poi di scoprire il meccanismo alla base delle reazioni chimiche. Da un’osservazione empirica si nota che la velocità di reazione è influenzata da 5 caratteristiche:
Nel 1918 il chimico americano William Lewis riassunse tali risultati in quella che è nota come teoria delle collisioni. Infatti egli comprese che la reazione chimica avviene tramite una serie di collisioni tra le molecole dei reagenti. Tuttavia gli urti devono essere efficaci, cioè capaci di determinare la rottura dei precedenti legami, rendendone possibile la formazione di nuovi, con il variare la posizione iniziale degli atomi. L’efficacia degli urti è dovuta alla geometria della collisione e dall’energia cinetica delle particelle. Poiché l’energia cinetica è direttamente proporzionale alla temperatura, si spiega l’influenza della temperatura. Si capisce anche l’importanza della concentrazione e della superficie laterale: rendono più probabili gli urti efficaci .
Fino a qui abbiamo analizzato però reazioni complete ed irreversibili, vale a dire che trasformano tutti i reagenti in prodotti, senza che sia possibile la reazione inversa . Tuttavia in natura le reazioni più numerose sono proprio quelle incomplete e che dunque ammettono una reazione inversa che avviene contemporaneamente a quella diretta. Empiricamente si osserva che all’inizio la velocità della reazione diretta è massima e quella inversa è minima. Se la temperatura rimane costante le due velocità tendono sempre più allo stesso valore, fino a pareggiarsi ad un tempo caratteristico per ogni reazione. Il chimico norvegese Peter Waage, docente di chimica all’Università di Oslo, nel 1868 enunciò pertanto la cosiddetta legge dell’azione di massa: ad una data T costante il rapporto tra le due velocità è costante. Il suo collega di matematica applicata presso la stesso ateneo, Cato Guldberg, noto anche per studi sui moti convettivi dell’atmosfera, si occupò della sua formulazione quantitativa: introdusse una costante Kc, pari a al rapporto tra le costanti cinetiche delle due reazioni diretta e inversa e la definì, per una reazione generica, così: . Pertanto tale legge oggi è nota anche con il nome di legge di Guldberg-Waage.
L’ultimo contributo fu quello del francese Henri Louis Le Chatelier. Il suo principio analizza infatti cosa avviene quando viene turbato l’equilibrio raggiunto secondo la legge dell’azione di massa. In particolare esso afferma che l’equilibrio si sposta verso la reazione che tende a contrastare il disturbo apportato. Ad esempio, se aumenta la pressione, l’equilibrio si sposta verso la reazione che provoca una diminuzione del volume. Esso non è altro che la lettura chimica del principio generale della fisica secondo cui in natura ciascun sistema tende spontaneamente all’equilibrio.
ALCUNE INTERESSANTI PROPRIETÀ DELLA MATERIA
Dopo Karlsruhe, con la definitiva accettazione della teoria molecolare, il lavoro dei chimici non era certamente terminato: restavano numerosi proprietà della materia che non si riuscivano a comprendere: l’elettrizzazione per strofinio ad esempio. Osservata già da Talete di Mileto nel VII sec. a.C. e descritta in relazione all’ambra da William Gilbert , medico personale della regina Elisabetta I, nel XVII secolo e da questo il fenomeno prese il nome: ambra in greco = elektron. Sarà Charles de Coulomb con la sua legge nel 1785 che darà un’interpretazione quantitativa del fenomeno. Ma dove si trovano le cariche nella materia? Nell’800 altri esperimenti mostrarono che le soluzioni acquose, con disciolti acidi, sali e basi, conducevano elettricità. Faraday mostrò come in soluzioni elettrolitiche passi l’elettricità nel 1830-31 e comprese il ruolo degli ioni, cosi detti dal termine greco che significa “che migra”. Infatti gli ioni, che sono i prodotti delle reazioni di ionizzazione degli acidi e di dissociazione di basi e sali, “migrano” verso il polo di carica opposta.
L’ESPLORAZIONE DELL’ATOMO
Apparve chiaro che all’interno dell’atomo, in qualche modo, si dovesse trovare la spiegazione alla presenza di queste cariche. Per fare ciò si inizio ad utilizzare un particolare strumento chiamato tubo di Crookes, riempito di gas. Solitamente la materia allo stato aeriforme non conduce corrente, ma nei gas a volte assistiamo a delle ionizzazioni spontanee, dovute all’azione di fattori esterni, come ad esempio i raggi cosmici (ultravioletti, gamma ecc.). Se poi si applicano elettrodi con elevato d.d.p. (10.000 V), si assiste ad una valanga ionica, che provoca la creazioni di molti altri ioni, detti secondari. Nel 1876 Goldstein osservò che, in particolari condizioni (d.d.p. 10.000 v, P 10-6 atm), partivano radiazioni giallo-verdi dal catodo (-) all’anodo (+), da lui chiamate raggi catodici. Quattro modifiche apportate al tubo consentirono agli scienziati di comprendere meglio la natura di questi raggi. Per prima cosa si introduce nel tubo un ostacolo. Questo consente di capire che i raggi si propagano in linea retta. Poi si applica un campo magnetico e si vede che i raggi sono sensibili al magnetismo. Applicando invece un campo elettrico si osserva che i raggi sono carichi positivamente. Nel 1891 così Stoney afferma che i raggi catodici non sono radiazioni ma particelle. Non ha però prove empiriche. Una quarta modifica al tubo di Crookes consentirà di dimostrarlo. Si applica un mulinello all’interno del tubo, realizzato in maniera da rendere minimo l’attrito. Il mulinello si muove. Dunque i raggi catodici hanno una quantità di moto , e dunque una massa. Sono dunque particelle.
THOMSON E LA SCOPERTA DELL’ELETTRONE
Joseph Thomson nacque a Manchester nel 1856. Allievo di Maxwell, fu nominato professore di fisica presso l’Università di Cambridge. Sotto la sua direzione il laboratorio di fisica di tale ateneo diviene uno dei più prestigiosi del mondo. Si dedica allo studio delle caratteristiche elettriche della materia in particolare agli sviluppi inattesi della ricerca sui raggi catodici. Nel 1897 con lo spettrometro di massa, che aveva contribuito a perfezionare, riesce a ricavare il rapporto carica/massa delle particelle componenti i raggi catodici. Sostituisce più volte il gas all’interno del tubo e anche il metallo del catodo, non sapendo ancora con certezza se fosse il gas o il metallo a liberare i raggi (oggi sappiamo essere il gas). In ogni caso riscontra lo stesso valore. Dunque queste particelle sono una componente fondamentale dell’atomo, in quanto si riscontra, con uguale rapporto e/m in tutti gli esperimenti. Si tratta della prima particella subatomica ad essere scoperta. Sarà chiamata elettrone . Thomson con questa scoperta è solo all’inizio di una brillante carriera. Lo ritroveremo fra poco, quando tratteremo il suo modello atomico.
L’ESPERIENZA DI MILLIKAN
Nel 1911 il 43enne fisico Robert Andrews Millikan, originario dell’Illinois, con un geniale esperimento ricava il valore esatto della carica dell’elettrone, dimostrando allo stesso tempo come la carica sia una grandezza quantizzata, cioè possa assumere solo valori discreti . L’apparato fondamentale dell’esperienza è costituito da un condensatore all’interno del quale sono spruzzate da un nebulizzatore alcune goccioline d’olio, fatte prima passare in un condotto che le caricasse. In un primo momento non applico alcuna differenza di potenziale tra le due armature, in modo tale da non avere campo elettrico. Pertanto il moto della gocciolina, una volta a regime, cioè stabilizzatosi su un valore costante, sarà caratterizzato dall’equilibrio tra tre forze: la gravità, la spinta di Archimede e la resistenza dell’aria. La gravità è mg, con la massa uguale a densità per volume: . La forza di Archimede sarà, per definizione, . La resistenza dell’aria sarà, ancora per definizione,Uguagliando a 0 la sommatoria di questi tre vettori, che agiscono su un’unica direzione, possiamo ricavare il valore del raggio della gocciolina d’olio: . Come si vede, si tratta di valori noti o comunque facilmente misurabili. Se in un secondo momento applichiamo un campo elettrico, interverrà nel sistema una quarta forza, di natura elettrica, che avrà valore (infatti V=Ed). Aggiungendo il valore di questa forza alla sommatoria precedente, e sostituito u0con u, dovrò ancora ottenere 0. A questo punto, conoscendo il valore del raggio, possiamo ricavare la carica:. Ogni esperimento dava sempre come risultato un multiplo di 1,60∙10
Millikan in seguito si dedicò a studi sull’equazione di Einstein e sulla fisica quantistica. Ottenne fra l’altro la prima determinazione della costante di Planck. Nel periodo bellico si occupò di strumentazioni militari, in particolare di tecnologia sottomarina. Poi si dedicò, con ottimi risultati, allo studio dei raggi cosmici. Nel 1923 ricevette il Nobel per la fisica. Morì a Pasadena, presso Los Angeles, nel 1953.
GOLDSTEIN E LA SCOPERTA DEL PROTONE
Nel frattempo, Eugen Goldstein continuava le sue ricerche sui tubi. Nel tubo a raggi catodici, avviene la seguente reazione: Ne → Ne+ + e-. I raggi catodici evidenziavano l’e-. Però Goldstein tentò un’altra modifica, forando il catodo. Notò che, questa volta dall’anodo, partivano dei raggi rossastri. Applicando le modifiche sopra descritte si giunse alla conclusione che si trattasse di particelle positive. Si trattava ovviamente del Ne+, perciò cambiando il gas, cambiava anche il valore e/m. Il valore più piccolo si otteneva con l’H+. Gli altri erano suoi multipli. Sarà Rutherford a chiamarlo protone , cioè il primo. Ma prima, nel 1898, Wilhelm Wien ne enuncia le caratteristiche in 4 punti:
THOMSON E IL PRIMO MODELLO ATOMICO
Alla luce di quanto scoperto, nel 1904 Thomson ipotizzò quale potesse essere la struttura dell’atomo. Nel 1904 presentò il suo primo modello: parlò di una sfera uniforme di carica positiva con “affogati” qua e là elettroni in modo tale da rendere complessivamente neutra la struttura. Nel 1906 poi si corresse e presentò un nuovo modello, detto a struttura piena o anche, in maniera anche un po’ ironica, a panettone: restano gli elettroni, ma sparisce la sfera uniforme, suddivisa in tante particelle: i protoni. Il modello di Thomson, come vedremo, avrà vita breve. Nonostante ciò nel 1906 vinse il premio Nobel. Morì a Cambridge nel 1940.
ARRHENIUS, BRONSTED E LOWRY: LO STUDIO DI ACIDI E BASI
Prima di analizzare le varie teorie sulla struttura dell’atomo, è necessario aprire una parentesi su un non meno importante campo di indagine che impegnò molti chimici nei primi trent’anni del ventesimo secolo: lo studio degli acidi e delle basi. Le proprietà degli acidi e delle basi erano state studiate per tutto il XIX secolo, a partire da quando Faraday ne aveva osservato la reazione di ionizzazione in soluzione acquosa. Era però necessario darne una definizione corretta e precisa.
Il primo a formulare un ipotesi fu Svante Arrhenius. Chimico svedese, nacque nel 1859 a Uppsala. Diventò prima professore e poi rettore dell’Università di Stoccolma. Si occupò a lungo dello studio delle soluzioni acquose, ma nel 1900 propose anche una teoria sulla composizione della coda delle comete. Nel 1903 vinse il Nobel. Nel primo decennio del 1900 dimostrò teoricamente che un aumento dei gas serra nell’atmosfera è responsabile di un aumento della temperatura terrestre . In ambito biologico riprese l’idea di un’origine extraterrestre della vita già enunciata da Von Helmhotz, perfezionandola con la teoria della panspermia, secondo cui la vita sarebbe arrivata sulla Terra sottoforma di spore batteriche spinte dal vento solare. Abbiamo già detto della sua determinazione del valore della costante cinetica di una reazione. Morì a Stoccolma nel 1927.
Egli sostenne che è acida la sostanza che in acqua libera ioni H+ mentre è basica quella che libera ioni OH-. In realtà dovette correggere questa definizione quando gli si fece notare che non tutti gli acidi possiedono H+ o le basi OH-. Arrhenius si corresse dicendo che era sufficiente che queste sostanze spingessero l’acqua a liberare i suddetti ioni, ma la sua teoria iniziò a scricchiolare
Migliore fu la teoria che il danese Johannes Brönsted e l’inglese T. Lowry misero a punto, in maniera indipendente, nel 1923. Essi sostennero che era acida qualsiasi sostanza in grado di cedere protoni, mentre era basica una sostanza in grado di acquistare protoni. Secondo loro non esistono acidi e basi a sé stanti, ma solo coppie coniugate: l’acido perde il protone divenendo la sua base coniugata; la base accetta il protone, divenendo l’acido coniugato. Maggiore è la forza dell’acido, più sarà debole la base coniugata e viceversa.
Un’ulteriore teoria sarà enunciata dall’americano G. N. Lewis negli anni ’30, ma di essa ci occuperemo quando analizzeremo l’opera di questo poliedrico scienziato. Tuttavia, poiché essa corregge solo pochi aspetti, spesso a livello empirico si lavora, per maggior semplicità, con la teoria di Brönsted-Lowry.
LA SCOPERTA DELLA RADIOATTIVITÀ
Nel 1896 il 44enne fisico parigino Henri Becquerel stava compiendo studi sui raggi X appena scoperti, utilizzando tra l’altro dei sali di uranio. Come sempre, alla sera, prima di tornare a casa, pose tali composti in un cassetto che conteneva occasionalmente anche delle pellicole fotografiche appena acquistate, dunque non impresse, che sarebbero dovute servire per un esperimento l’indomani mattina. Quando il giorno dopo si apprestava ad utilizzare la pellicola, si accorse che su di essa si trovavano delle macchie nere, come se qualcuno l’avesse usata. Poiché la sera prima era vergine e nella notte nessuno poteva averla usata egli comprese che l’unica spiegazione fosse che l’uranio avesse emesso una qualche radiazione. Perciò cominciò a studiare quest’aspetto. I risultati più importanti li ottennero i coniugi Pierre e Marie Curie. Pierre Curie è stato uno dei più grandi scienziati della storia di Francia. Nato nel 1859, da giovane studiò alla Sorbona di Parigi, dedicandosi allo studio della conduzione elettrica sui cristalli. Poi analizzò l’influenza della temperatura sul magnetismo, dimostrando come i materiali ferromagnetici perdano le proprie caratteristiche sopra una certa temperatura che, in suo onore, fu chiamata punto di Curie. Il 26 luglio 1895 sposò la giovane fisica polacca Marie Sklodowska, costretta ad emigrare nel 1891 perché di idee antizariste , con la quale cominciò ad analizzare la scoperta di Becquerel. Essi ipotizzarono che l’uranio e il torio, emettendo radiazioni, si trasformavano in nuovi elementi, che chiamarono polonio e radio. Ne ebbero conferma quando riuscirono ad isolare, da un minerale chiamato pechblenda, i primi campioni di Ra. Nel 1903 vinsero assieme il Nobel per la Fisica, condividendolo con Becquerel. Nel 1906 Pierre Curie morì, investito da un carro mentre attraversava la strada. La moglie gli successe come docente di fisica alla Sorbona, prima donna nella storia ad insegnare presso la prestigiosa università. Continuò gli studi sul radio, ottenendo un nuovo Nobel, stavolta per la chimica, nel 1911. Morì, intossicata dalle radiazioni, a Sallanches nel 1934. La scoperta della radioattività, come vedremo fu decisiva per lo sviluppo della ricerca sui modelli atomici e per la scoperta della terza particella atomica. I coniugi Curie ebbero anche una figlia, Irène, che sposò il fisico Frédéric Joliot. Anche la figlia fu una brillante ricercatrice, tanto che per i suoi studi sull’azione dei neutroni sugli elementi pesanti, in particolare sull’U, ottenne il Nobel, assieme al marito nel 1935, a soli 38 anni. Si dedicò poi anche alla politica (ricoprì il ruolo di viceministro per la ricerca nel 1936, in seno all’esecutivo socialista, appoggiato anche dai comunisti, guidato da Léon Blum) impegnandosi particolarmente per l’emancipazione femminile. Nel dopoguerra ricoprirà in quest’ambito cariche a livello internazionale, continuando le ricerche sulle reazioni nucleari. Morirà a 59 anni nel 1956. I suoi lavori degli anni trenta furono la base da cui partirà Fermi nel suo lavoro.
ERNST RUTHERFORD: IL MODELLO A STRUTTURA VUOTA
Il neozelandese Ernst Rutherford, nato nel 1871, fu stretto collaboratore di Thomson a Cambridge e fu tra i primi a dedicarsi allo studio della radioattività. Fu anch’egli Nobel per la chimica nel 1908, per ricerche effettuate con H. Geiger sulla radioattività del Th e sulla natura delle particelle a, che scoprì essere nuclei di He. Ma la sua scoperta più importante è successiva, risale al 1911. Rutherford mise a punto un esperimento con il quale dimostrare l’esattezza del modello del suo amico Thomson, ma finì per smentirlo. Pose una sottilissima (pochi micron) lamina d’oro tra del polonio radioattivo (che emetteva radiazioni a) e una pellicola impressionabile, che tuttavia circondava tutta l’area dell’esperienza. Se la teoria di Thomson fosse stata corretta, il 100% delle emissioni avrebbe raggiunto in linea retta la pellicola (semplicisticamente si può immaginare un proiettile che passa un cuscino). Ma non andò esattamente così: il 99% delle radiazioni era passata, mentre meno dell’1% era stata deviata ed addirittura 1/8000 completamente respinta. Da ciò Rutherford comprese che l’atomo era formato da un nucleo duro ma attorno al quale si trovava il vuoto. Allora propose un modello che ricordava in piccolo il sistema solare: al centro si trovavano i protoni, condensati nel nucleo positivo, attorno al quale ruotavano, come pianeti gli elettroni. Calcolò anche il rapporto tra raggio del nucleo e raggio atomico in 1/10.000.
NASCE LA FISICA MODERNA: L’IPOTESI QUANTISTICA, L’EFFETTO FOTOELETTRICO, L’EFFETTO COMPTON, LA SPETTROSCOPIA
Per poter comprendere gli sviluppi successivi della chimica, è ora necessario accennare brevemente ad alcune grandi scoperte che segnarono l’inizio del ventesimo secolo e che fungono da premessa al successivo sviluppo della chimica moderna.
Max Planck era un professore di fisica già affermato, nato nella città marittima di Kiel nel 1858, successore di Kirchhoff, era soprattutto interessato a studi di termodinamica, in particolare riguardo il principio dell’entropia di Clausius . Nel 1900 stava studiando, sempre in quest’ambito, il corpo nero. Con questo termine si intende un corpo che assorbe tutta la radiazione incidente su di esso e, se portato all’incandescenza, emette su tutte le frequenze dello spettro elettromagnetico .
Empiricamente, si realizzarono durante tutto l’Ottocento dei grafici, con la frequenza sull’asse delle scisse e l’intensità dell’emissione su quello delle ordinate. Come risultato di vedeva che c’era una certa frequenza (e di conseguenza una certa lunghezza d’onda) , detta picco, a cui corrispondeva una intensità massima mentre ogni altra frequenza aveva comunque un’intensità minore del picco ma diversa da 0. Il grafico aveva approssimativamente dunque un aspetto a campana . Si notò così che l’andamento dipendeva solo dalla temperatura del corpo e non dalla sua composizione chimica o da altri fattori. Il già citato fisico Wien poté così ricavare la sua legge sul corpo nero: . Inoltre si vedeva che aumentando la temperatura aumentava l’area sottostante la curva e dunque anche l’energia. Ludwig Stefan-Boltzmann notò che essa aumentava anche con l’aumento dell’area del corpo nero. Pertanto enunciò la sua famosa legge: .
Tali legge erano, come detto, empiriche. Da un punto di vista teorico invece c’erano seri problemi . Le leggi della fisica newtoniana non erano infatti in grado di spiegare l’andamento dei grafici del corpo nero. Secondo queste infatti il grafico avrebbe dovuto tendere all’infinito con una pendenza ripidissima, mentre alle alte frequenze essa tende a 0. Questo problema fu definito perciò catastrofe ultravioletta. Planck per prima cosa riuscì a determinare una funzione matematica che, rappresentata, desse come grafico la curva di emissione del corpo nero, che dunque in suo onore s’ora i poi sarà chiamata curva di Planck. Ora però si doveva dare giustificazione fisica di questa funzione. L’unico modo per spiegare ciò era assumere che l’energia fosse un multiplo intero del prodotto della frequenza per una costante che sarà appunto chiamata costante di Planck, di valore h=6,63∙10-34 J∙s. Pertanto l’energia è quantizzata, potendo assumere solo valori hf, 2hf, 3hf… La fisica classica, secondo cui invece poteva assumere qualsiasi valore era smentita. Tuttavia i fisici, e Planck stesso, erano piuttosto scettici al riguardo: sembrava più un artificio matematico che una reale rappresentazione della natura.
L’unico che pensava che tale teoria potesse essere valida fu un giovane fisico di nome Albert Einstein. Egli, nato ad Ulm nel 1879, dovette a sedici anni emigrare con la famiglia a causa del fallimento economico del padre, qui girovagò tra Milano, Pavia e Genova prima di emigrare di nuovo, stavolta in Svizzera. Qui il giovane Albert potè studiare al Politecnico di Zurigo, dove si laureò nel 1900 in matematica e fisica. Nel 1902 accettò l’incarico di perito tecnico presso l’Ufficio brevetti. Gli anni dal 1902 al 1915 furono i più fecondi della sua vita di scienziato. In primo luogo pubblicò nel 1905 la sua celebre teoria della relatività ristretta. Poi con l’applicazione del suo modello a fotoni all’effetto fotoelettrico dette conferma della teoria di Planck. Nel 1911 riuscì a matematizzare il moto browniano , permettendo così di calcolare il valore del numero di Avogadro. Ottenne cattedre prima a Praga e poi proprio a Zurigo. Nel 1915 pubblicò un ampliamento della sua teoria della relatività, nota con il nome di teoria della relatività generale . Tornò in Germania per insegnare a Berlino, vinse il Nobel nel 1921, ma poi fu costretto a fuggire negli USA quando il nazismo salì al potere. Era inviso ai nazionalsocialisti sia per le proprie origini ebraiche sia per le idee cosmopolite e pacifiste. Assunse la cattedra di fisica a Princeton nel 1933, dove rimase fino alla morte nel 1955. Negli ultimi anni di vita si allontanò dalla comunità scientifica internazionale, non riuscendo ad accettare l’idea di universo in espansione e quella dell’incertezza della fisica quantistica.
Einstein fu il primo a pensare che la quantizzazione dell’energia potesse essere dovuta al fatto che la luce fosse organizzata in “pacchetti” di energia, ciascuno dei quali aveva energia ricavabile dall’ipotesi di Planck . Secondo Einstein, si poteva pensare alla luce come ad un fascio di particelle, ciascuna con un carico hf di energia. Aumentandone l’intensità, aumenta il numero di fotoni. Così si spiega anche la curva di Planck: la frequenza di picco è quella alla quale viene emesso il maggior numero di fotoni. La verifica sperimentale Einstein la ottenne così: fece colpire una superficie di metallo da un raggio di luce incidente, provocando l’emissione di un elettrone. Per liberare un elettrone è necessario una quantità di lavoro W0. Secondo la fisica classica, dunque, avremmo dovuto assistere ad un’emissione con qualsiasi frequenza della luce, essendo sufficiente solamente che l’energia fosse superiore a W0 e l’elettrone avrebbe dovuto avere energia cinetica pari alla differenza tra l’energia del fascio di luce e il W0: quindi ad una maggiore intensità corrispondeva una maggiore K. Invece sperimentalmente si osservava che, indipendentemente dall’energia, l’emissione si aveva solamente se il fascio aveva una frequenza superiore ad un valore, mentre l’energia cinetica dipende solo da f, un aumento di intensità provoca solo un aumento di elettroni emessi. Questo è considerata una verifica sperimentale al modello a fotoni: infatti se la luce è un fascio di fotoni, aumentando l’intensità ne aumento solo il numero, per aumentarne l’energia devo aumentarne la frequenza.
L’effetto Compton, dal nome del suo scopritore Arthut Holly Compton, ci mostra un’altra particolarissima caratteristica dei fotoni: essi pur avendo massa 0, hanno una quantità di moto pari a . Tale valore si ricava teoricamente applicando le equazioni della relatività ristretta e se ne ha verifica sperimentale, ed è ciò che fece Compton, facendo scontrare un fotone ed un elettrone ed analizzando l’urto elastico che avviene tra i due.
L’ultima innovazione che dobbiamo qui ricordare è lo sviluppo della spettroscopia. Il primo spettro di emissione fu ottenuto da Isaac Newton, quando con il prisma scompose la luce visibile. All’inizio del Novecento invece si usava la spettroscopia per riconoscere i vari atomi. Ciascuno di essi infatti emette, se portato all’incandescenza, alcune righe particolari, corrispondenti a determinate lunghezze d’onda, diversi da elemento a elemento. Fu proprio osservando nello spettro del Sole alcune righe non note che nel 1868 Lockyer e Frankland scoprirono l’elio. Particolarmente interessante era l’emissione dell’idrogeno, il quale emetteva nell’ultravioletto (serie di Lyman), nel visibile (serie di Balmer, 4 righe viola, blu, verde mare, rosso) e nell’infrarosso (serie di Paschen) . Lo svizzero Johann Jakob Balmer trovò anche, empiricamente, una formula che permetteva di prevedere la lunghezza d’onda delle righe di emissione dell’H: , dove R è la costante di Rydberg mentre n e n′ sono dei numeri naturali . Tale strumento, di vitale importanza in molti campi della scienza, come per esempio l’astrofisica, permise a Bohr di correggere il modello di Rutherford, alla luce anche delle ultime scoperte della fisica, che lo scienziato neozelandese non aveva considerato.
BOHR E L’ATOMO AD ORBITE QUANTIZZATE
Il modello di Rutherford, infatti, fu corretto solamente due anni dopo, nel 1913 dal giovane danese Niels Bohr. Nato nel 1885, studiò presso l’Università di Copenaghen. Nel 1908, assieme al fratello Harald, che diverrà uno dei principali matematici dello scorso secolo, partecipò alle Olimpiadi di Londra nella squadra danese di calcio, vincendo la medaglia d’argento. Nel 1922 vinse il Nobel per la fisica , proprio per il suo modello atomico. Si dedicò poi allo studio dei nucleoni. Si rifugiò negli USA durante la seconda guerra mondiale, partecipando alle sperimentazioni sulla bomba atomica a Los Alamos. Nel 1945, appena finito il conflitto, tornò a Copenaghen dove continuò a studiare la meccanica quantistica. Negli ultimi anni della sua vita ottenne numerosi riconoscimenti. Tra l’altro divenne membro dell’Accademia dei Lincei in Italia. Morì nel 1962.
Secondo la fisica teorica, il modello di Rutherford era inaccettabile perché l’elettrone, che è una particella carica, ruotando attorno al nucleo avrebbe dovuto emettere energia sottoforma di radiazione elettromagnetica. Come nel caso di un satellite che subisce l’attrito dell’aria, in un tempo di 10-9 s l’elettrone sarebbe dovuto collassare a spirale sul nucleo, pertanto la materia non potrebbe essere stabile come la vediamo oggi.
Bohr risolse questo problema. Egli partì dagli spettri dell’H e dalle scoperte di Planck ed Einstein. Per prima cosa distinse il comportamento dell’elettrone eccitato da quello stazionario enunciando due postulati. I postulato: gli elettroni non emettono onde elettromagnetiche allo stato stazionario poiché si muovono solo lungo orbite circolari privilegiate, tali che qui il momento angolare sia uguale alla costante di Planck fratto 2p. II postulato: si verificano emissioni di onde elettromagnetiche solo quando un elettrone che era stato eccitato torna allo stato stazionario, “saltando” da un’orbita consentita a maggiore energia ad una con minore. Ovviamente ciò sottintende che al momento dell’eccitazione, l’elettrone che salta ad un livello energetico superiore. Bohr doveva ora dimostrare tali ipotesi. Per prima cosa ricavo i valori della v dell’elettrone e del r dell’orbita, considerando che, secondo il I postulato, e che la forza centripeta doveva essere uguale alla forza elettrostatica di Coulomb, quindi . Ottenne che il raggio era uguale a . Sembra complicato, ma non è altro che il prodotto di una serie di costanti. Per il primo livello il raggio ottenuto era di 5,29∙10DE. Sapendo che, secondo Planck, posso sostituire tale valore. Se poi porto a secondo membro hc, allora ottengo: . Il valore del primo fattore, formato solo da costanti, è di R=1,097∙107 m-1. Dunque incredibilmente ho riottenuto l’equazione empirica di Balmer. Questa fu considerata una formidabile dimostrazione della veridicità di tale modello, che ha avuto pure il merito storico non indifferente di fungere da ponte tra la fisica classica di Newton e Maxwell e quella moderna.
L’ATOMO DI BOHR-SOMMERFELD
Anche il modello di Bohr però presentava dei difetti. Quando infatti cercò di espandere il suo modello ad altri atomi (fu sufficiente aggiungere un fattore Z alla formula, indicante il numero atomico), non ebbe problemi con l’He, ma incontrava incongruenze addirittura già considerando il litio (Z=3). A risolverli pensò il suo amico e collaboratore Arnold Sommerfeld, che nel 1916 propose delle correzioni che portarono ad un nuovo modello, chiamato appunto atomo di Bohr-Sommerfeld. Introdusse altri numeri quantici: il numero l, da 0 a n-1, che indicava la forma dell’orbita e che serviva per correggere il momento angolare e il numero m, da –l a +l, che indicava il suo orientamento, detto magnetico perché ricavato dallo studio delle interazioni tra l’elettrone ed un campo magnetico esterno. Poi, nel 1924, un altro collaboratore di Bohr, lo svizzero Wolfgang Pauli, introdusse un nuovo numero, detto magnetico, che identifica lo spin con cui ruota l’elettrone e stabilì il principio di esclusione (in ogni orbita possono trovarsi solo due elettroni di spin opposto). Pauli sarà anche il primo a sostenere l’esistenza del neutrino. Sommerfeld invece continuò le sue ricerche, perfezionando la diffrazione a raggi X che poi nel 1953, tra le altre cose, servirà a Watson e Crick per scoprire la struttura a doppia elica del DNA. Mise anche a punto una prima teoria delle bande per spiegare il legame metallico. Morì a Monaco nel 1951.
LA RIVOLUZIONE DEGLI ANNI ’20: DE BROGLIE, HEISENBERG, SCHRÖDINGER E L’ATOMO AD ORBITALI
A questo punto sembrava che la struttura dell’atomo fosse stata finalmente scoperta. Ma negli anni ’20 una serie di rivoluzionare scoperte posero a dura prova le certezze che in campo fisico erano state fin lì acquisite. La prima fu opera del fisico francese Louis Victor de Broglie. Egli, nato da una nobile famiglia nel 1892 a Dieppe, da giovane cominciò a dedicarsi a studi storici, ma ben presto si dette alla fisica. Durante la prima guerra mondiale contribuì ad installare l’impianto radiofonico sulla Torre Eiffel. Nel 1924 ottenne il risultato per cui è rimasto famoso. Egli fu molto colpito dai risultati di Compton dell’anno precedente ed ebbe un’idea che poteva sembrare assurda ma che si rivelò straordinaria: così come la luce presenta un aspetto corpuscolare, forse anche la materia può presentare un comportamento ondulatorio. E dall’effetto Compton riprese anche l’equazione, isolando a primo membro la l: . Chiaramente, essendo al denominatore p, tale comportamento sarà percettibile solo per masse molto piccole, dato anche il valore infinitesimo di h. Ovviamente ci volevano anche delle verifiche sperimentali. La prima la ottennero negli USA Davisson e Bremer nel 1925, verificando come anche un fascio di elettroni è soggetto al fenomeno della diffrazione , tipico delle onde. La seconda verifica la ottenne lo stesso de Broglie, applicando la sua idea al modello di Bohr. Uno dei punti di debolezza di questo era il fatto che il valore del momento angolare enunciato nel primo postulato era stato scelto in maniera assolutamente arbitraria, per adattare la teoria alla pratica. L’ipotesi di de Broglie poteva giustificare tale valore. Infatti egli suppose le onde di materia analoghe a quelle su una corda: il moto di un elettrone lungo l’orbita circolare del primo livello energetico era come quello di un’onda stazionaria su una corda. Perché non dia luogo ad un fenomeno di interferenza distruttiva, la lunghezza della corda deve essere un multiplo intero della l. Pertanto si ha che . De Broglie riprese allora la sua equazione e sostituì il valore di l. Inoltre, poiché l’elettrone è anche una particella di materia, avrà anche una quantità di moto uguale a massa per velocità. Pertanto . È esattamente ciò che aveva postulato Bohr. Questa fu considerata la prova definitiva della validità del modello di de Broglie. Tuttavia ora si doveva riscrivere praticamente tutta il modello atomico di
Bohr e non si possedevano mezzi adeguati. A fornire tali strumenti furono Heisenberg e Schrödinger.
Werner Heisenberg era un giovane tedesco, arrivato alla fisica quasi per caso, dopo essere stato rifiutato dalla facoltà di Matematica all’Università di Monaco. Allievo di Sommerfeld e compagno di studi di Pauli, conobbe Bohr, di cui fui assistente per sei mesi durante uno stage a Copenaghen. Nel 1927 divenne professore di fisica a Lipsia e nel 1932, a soli 31 anni, gli fu attribuito il Nobel per la fisica. Quando nel 1933 salì al potere Hitler, fu molto critico verso gli pseudoscienziati nazisti, che rifiutavano la fisica del Novecento perché ebrea. Tuttavia il suo rapporto con il nazismo fu alquanto ambiguo, perché fu uno dei pochi intellettuali a non fuggire dalla Germania, ed anzi ebbe anche incarichi ufficiale per il regime. Però oggi sappiamo che se Hitler non riuscì ad ottenere la bomba atomica, fu anche per la sua opera di sabotaggio dall’interno. Dopo la guerra fu arrestato con l’accusa di collaborazione con il nazismo, ma dopo pochi mesi fu prosciolto. Così tornò ad insegnare all’Università di Monaco e si impegnò per far tornare ad alti livelli la ricerca nella Germania Ovest. Morì nel 1976 a Monaco.
Il suo contributo è noto come principio di indeterminazione. Esso sostiene che esistono coppie di grandezze che non possono essere misurate contemporaneamente con precisione assoluta, ma anzi l’approssimazione di una è inversamente proporzionale all’altra. Un esempio di tali coppie è posizione – quantità di moto, un’altra è energia – tempo. Questa dimostrazione, che mette in dubbio le basi stesse della fisica newtoniana, che invece era basata sull’assoluto determinismo delle sue leggi, è considerata l’atto di nascita della fisica quantistica, fondata invece sull’incertezza. Essa si fonda sul dualismo onda-materia teorizzato da de Broglie.
È chiaro a questo punto che il modello di Bohr debba essere completamente rivisto: parlare di orbite significa sostenere di conoscere sempre con precisione ogni parametro dell’elettrone: velocità, posizione, energia… cosa che, abbiamo visto, secondo Heisenberg è impossibile.
Si deve perciò cominciare a parlare di orbitali, i quali sono definiti zone di spazio nelle quali ho almeno il 90% di possibilità di trovare l’elettrone. Per questi restano validi i 4 numeri quantici introdotti da Sommerfeld, i quali indicano ancora livello energetico, forma, orientamento e spin. Resta valido il principio di Pauli. Bisogna però trovare un modo matematico per esprimerli
Chi arrivò a questo modello fu l’austriaco Erwin Schrödinger. Nato nel 1887 da una ricca famiglia, compì studi umanistici ma decise poi di frequentare la facoltà di fisica all’Università di Vienna. Nel 1914 fu costretto a partecipare alla prima guerra mondiale, combattendo sul fronte italiano. Nel 1917 fu però richiamato in patria e poté così cominciare la carriera accademica, prima in Austria, poi in Svizzera infine in Germania, finché nel 1926 assunse la cattedra lasciata vacante da Planck a Berlino. L’ascesa di Hitler lo convinse a trasferirsi ad Oxford . Dopo l’Anschluss , Schrödinger fu esiliato come oppositore. Perciò si rifugiò a Dublino, dove rimase fino al 1957. Negli ultimi 4 anni della propria vita tornò a Vienna. È importante anche per i suoi studi di biologia. Infatti è considerato il padre della biologia molecolare: fu il primo a comprendere l’importanza di ricavare la struttura delle molecole organiche ed il legame di questa con la loro funzione.
Ma il lavoro per cui è rimasto celebre è senza dubbio la funzione d’onda, con la quale riesce a descrivere il comportamento dell’elettrone se lo intendiamo come un’onda di materia. Essa è considerata la base della meccanica quantistica. L’equazione di Schrödinger ci permette di calcolare la probabilità che un elettrone si trovi in una data posizione. Se consideriamo l’atomo di H e rappresentiamo tale funzione su un piano cartesiano con la posizione alle ascisse e la probabilità alle ordinate, vediamo che essa presenta un massimo proprio a 5,29∙10. (Vedi immagine in figura). La funzione d’onda Y si ottiene risolvendo la seguente equazione, nota come equazione di Schrödinger: . Si tratta di un risultato molto difficile che riportiamo solo come curiosità: è infatti un’equazione differenziale del secondo tipo la cui risoluzione richiede conoscenze universitarie. Lo stesso Schrödinger all’inizio non sapeva quale valore dare a Y. Fu Max Born che ne dedusse il valore, sostenendo che Y2non sia altro chela probabilità di trovare la particella in un determinato punto, in un determinato istante.
CHADWICK SCOPRE IL NEUTRONE
James Chadwick fu allievo di Rutherford. Nato a Manchester nel 1891, durante la Prima Guerra Mondiale fu internato come prigioniero di guerra in Germania. Negli anni venti si dedicò allo studio della disintegrazione degli elementi tramite bombardamento con particelle a. Proprio durante queste ricerche scoprì il neutrone , la terza particella subatomica, grazie alla reazione nucleare Be + a → C + n. Grazie a questa scoperta, ottenne il Nobel per la Fisica nel 1935. Il neutrone non fu comunque scoperto per caso ma anzi era da tempo che si stava cercando, perché la massa degli atomi era troppo elevata per poter essere spiegata solo con la presenza di elettroni e protoni. Si deve sottolineare infine come grazie alle reazioni nucleari sia divenuto possibile trasformare un elemento in un altro: è dopotutto l’antico sogno degli alchimisti che si realizza.
LEWIS, DAGLI ACIDI AL LEGAME CHIMICO
A questo punto è necessario approfondire un ulteriore aspetto della ricerca chimica: lo studio del legame chimico. Si cercava di comprendere come fosse possibile che gruppi di atomi si aggregassero a formare una molecola. Era chiaro che la molecola dovesse essere più stabile, quindi meno energetica, rispetto ad un atomo singolo. Ma come si configurava tale situazione? Il primo a cercare una risposta fu Lewis.
Gilbert Newton Lewis fu un chimico che si occupò di vari aspetti della materia. Docente a Berkeley, si dedicò a migliorare la teoria sugli acidi di Brönsted-Lowry. Infatti essa non prevedeva come acidi sostanze che non disponevano di un atomo di idrogeno ionizzabile. Dunque, per superare questa difficoltà, definì acido qualsiasi sostanza capace di utilizzare una coppia di elettroni e base qualsiasi sostanza capace di mettere a disposizione una coppia di elettroni (rispettivamente elettrofilo e nucleofilo). Questa definizione ampliò di molto le sostanze considerate acide.
Ma Lewis è sicuramente più famoso per la sua teoria sul legame chimico covalente. Anche se ormai superata, prima dalla VB e poi dalla MO, la teoria di Lewis fu molto importante, perché tentò di spiegare in maniera anche piuttosto semplice il legame chimico. Fu la prima interpretazione in chiave elettronica. Lewis prese spunto dalla stabilità che caratterizzava i gas nobili e notò che essi erano caratterizzati sempre da 8 elettroni nel livello energetico più esterno. Lewis sostenne che il legame covalente nasce dalla condivisione, da parte di due atomi, di una o più coppie di elettroni di valenza. In tal modo, entrambi gli atomi realizzano l’ottetto di stabilità se tali elettroni vengono conteggiati per ciascuno degli atomi collegati. Se la coppia è una sola, il legame è singolo, altrimenti può essere doppio o triplo. Il legame covalente poteva essere puro se effettuato tra due atomi con elettronegatività uguale; altrimenti si dice polare ed avremo nella molecola un dipolo positivo ed uno negativo.
KOSSEL E IL LEGAME IONICO
In natura tuttavia esistono anche composti per i quali non si può parlare di molecola. Essi infatti sono costituiti da cristalli composti da ioni che si attraggono elettrostaticamente. Ne è esempio il cloruro di sodio , NaCl, dove tale formula indica solo il rapporto con cui i due ioni si trovano nel cristallo, e non una molecola. Questo tipo di legame è chiamato legame ionico. Fu il tedesco Walter Kossel che nel 1916 enunciò le caratteristiche di tale legame. Esso intercorre tra atomi che abbiano un De>1,9. Per De si intende la differenza di elettronegatività tra i due atomi. L’elettronegatività è un numero che esprime la tendenza di un atomo di attrarre verso di sé gli atomi di legame. Questo fa sì che in un legame covalente tra atomi con elettronegatività differente vi sia un polo negativo ed uno positivo. E questo rende possibile anche il legame ionico. Infatti quando il De è molto elevato, accade che l’attrazione di uno dei due atomi è talmente forte che quello più elettronegativo “strappa” via gli elettrone in comune e se ne impossessa. A questo punto tra i due ioni positivo e negativo intercorre una forza attrattiva di Coulomb. Questo rimase il punto più alto della carriera di Kossel, che si dedicherà poi allo studio degli spettri dei cristalli, in particolare analizzando i raggi x e g, ma senza risultati di rilievo.
LA TEORIA DEL LEGAME DI VALENZA (VB)
La teoria di Lewis come detto fu molto presto superata. Erano evidenti alcuni suoi limiti: innanzitutto esistevano composti che tale modello non spiegava, come il monossido di carbonio (CO), poi furono preparati alcuni composti dei gas nobili (per esempio l’esafloruro di xenon, XeF6), infine essa era ancora basata sull’atomo di Bohr: con la nascita meccanica quantistica, era logica una sua rivisitazione. Per questo negli anni ’30 prese corpo un’ulteriore teoria sul legame covalente ,quella del legame di valenza, secondo cui: un legame chimico si forma spontaneamente tra due atomi che presentino orbitali esterni semivuoti (incompleti) al fine di conseguirne la saturazione. Essa fu formulata nel 1927 dal fisico tedesco Walter Heitler, allievo anch’egli di Sommerfeld, il quale vide che se si fosse ipotizzata una sovrapposizione degli orbitali, effettuabile tramite la somma di due funzioni d’onda, l’energia potenziale del sistema sarebbe diminuita. Quest’accresciuta stabilità spiega il perché dell’esistenza delle molecole. In particolare si vede che il minimo di Ep, si ha ad una distanza pari a quella che poi si è empiricamente riscontrato essere la lunghezza del legame. Da un punto di vista fisico ciò si spiega bilanciando la forza repulsiva tra nuclei e quella attrattiva tra elettroni e nuclei. Ci si potrebbe chiedere come sia possibile il legame per atomi come il berillio (Be) che possiede solo orbitali completi . La risposta è nell’esistenza dell’orbitale ibrido. Infatti si può pensare che in taluni casi, al momento di reagire, la disposizione elettronica, a causa delle energie in gioco, subisca delle alterazioni, in seguito alle quali coppie di elettroni si sciolgono e gli elettroni componenti vanno ad occupare da soli orbitali vacanti, caratterizzati da energie poco superiori. Tale fenomeno comporta una piccola perdita di stabilità che però viene poi compensata dalla formazione del legame. Quindi il Be sposta un elettrone su uno degli orbitali p. A questo punto può formare due legami, uno con l’orbitale s ed uno con il p. Potremmo pensare che, dopo la sovrapposizione, avremmo due risultati diversi. Invece i due legami sono uguali per contenuto energetico e lunghezza. Ciò si spiega ipotizzando che al momento della promozione dell’elettrone, l’energia si sia ripartita egualmente tra l’orbitale s e il p, formando un orbitale ibrido sp. Esistono anche altri tipi di orbitale ibrido che qui ci limitiamo ad enunciare: sp2, sp3, sp3d2, sp3d3. Da essi dipende la forma della molecola. Un ultimo aspetto da sottolineare è il fatto che la sovrapposizione può avvenire in maniera frontale o laterali. A seconda del caso la sommatoria tra le funzioni d’onda darà risultati differenti: più stabile nel primo, detto legame s, meno nel secondo, chiamato legame p.
HUND, MULLIKEN E LA TEORIA DELL’ORBITALE MOLECOLARE (MO)
La teoria della VB era ormai unanimemente accettata, quando nel ne apparve una che appariva migliore in quanto permetteva anche di giustificare i fenomeni di paramagnetismo e diamagnetismo . La teoria fu proposta dal tedesco Friedrich Hund e dall’americano Robert Sanderson Mulliken. Il primo era già noto per aver enunciato la regola di Hund, una legge empirica secondo cui gli elettroni, prima di disporsi su un orbitale in coppia, occupano singolarmente ogni orbitale isoenergetico libero. Il secondo, premio Nobel nel 1966, si dedicò anche allo studio della struttura delle molecole.
Il concetto-base della loro teoria poggia sul fatto che le due funzioni d’onda degli orbitali che si sovrappongono possono essere in fase o fuori fase: nel primo caso avremo un’interferenza costruttiva, nel secondo una distruttiva. Così dalla sovrapposizione di due orbitali atomici (AO) avremo sempre la formazione di due orbitali molecolari (MO), uno costruttivo, detto di legame, con minore energia rispetto agli AO ed uno distruttivo, di antilegame, con maggior energia rispetto agli AO . Restano valide le regole per il loro riempimento ed anche la distinzione tra legame s e p della VB. Vediamo che se gli elettroni più esterni vanno a disporsi su orbitali di antilegame, la molecola non può formarsi. Ecco perché in natura non si trova He2 . Se poi nell’ultimo livello energetico si troveranno elettroni solitari, allora la molecola sarà paramagnetica, altrimenti diamagnetica. La teoria inoltre riesce a spiegare bene anche il legame metallico. Si tratta di un legame particolare, che provoca la creazione di un cristallo di ioni tutti però positivi. Ciò viene spiegato dalla teoria delle bande che propone la formazione di grandi MO che coinvolgono tutto il cristallo, sui quali sono liberi di muoversi gli elettroni, che fungono da collante tra le cariche positive. Ciò spiega anche il fatto che i metalli siano ottimi conduttori.
ENRICO FERMI E LA REAZIONE DI FISSIONE NUCLEARE
Enrico Fermi è stato probabilmente il più grande scienziato italiano del Novecento. Al suo nome è legata una delle maggiori innovazioni introdotte dalla chimica nucleare: la reazione di fissione nucleare. Nato a Roma nel 1901, si laureò alla Scuola Normale di Pisa nel 1922. Dopo un breve periodo in Germania, tornò in Italia, dove si dedicò a partire dal 1932 alla fisica nucleare. Fu lui a enunciare il decadimento b, supponendo tra l’altro l’esistenza del neutrino, che pur ipotizzato anche da Pauli, sarà scoperto solo nel 1955. Si tratta di una particella di massa piccolissima o nulla . Tale decadimento prevede la trasformazione di un protone in un neutrone, con l’emissione di un positrone e, appunto, di un neutrino. Poi ebbe un intuizione geniale: capì che se si fosse bombardato con un neutrone lento un atomo di uranio o di plutonio, ciò avrebbe comportato una disgregazione del nucleo (fissione, dal latino fingere, spaccare), liberando neutroni ed energia, molta energia. Inoltre, poiché si liberano neutroni, se la massa del materiale fissile supera una certa soglia detta massa critica, si inizia un processo di reazione a catena che provoca uno sviluppo in progressione geometrica delle reazioni di fissione. Tale fenomeno, se incontrollato, genera un’esplosione nucleare. Fermi invece ideò un metodo per controllarlo, costruendo la pila atomica, antenata dei reattori nucleari. Infatti pensò di inserire materiali come grafite o cadmio che fossero in grado di assorbire neutroni. Inserì poi un sistema di refrigerazione ad acqua che ha il doppio compito di mantenere sotto controllo la temperatura e di, vaporizzandosi per il calore, attivare turbine che poi generano corrente elettrica alternata. Il rendimento di tali reattori è altissimo, ma ha inconvenienti come la pericolosità delle scorie (si tratta sempre di materiali radioattivi con tempi di decadimento lunghissimi) e il rischio di esplosioni. Fermi per questa sua realizzazione ottenne il Nobel nel 1938. Dopo essersi recato a Stoccolma per ritirarlo, invece di rientrare in Italia, scappò negli USA, per evitare che sua moglie, ebrea, incappasse nelle leggi razziale emanate da Mussolini. Fermi resterà negli USA fino alla morte, avvenuta a Chicago, dove era professore universitario, nel 1954, a soli 53 anni, malato di cancro. Durante la guerra partecipò agli studi sul nucleare (anche se non fu a Los Alamos) e poi, negli anni ’50, si dedicò allo studio dei raggi cosmici e delle particelle subatomiche.
GLI SVILUPPI SUCCESSIVI DELLA CHIMICA
Con il modello ad orbitali e le teorie sul legame siamo arrivati agli anni ’30 del Novecento. Ma la ricerca chimica non si è certo qui esaurita. Cercheremo di sintetizzare i risultati ottenuti negli ultimi anni del XX secolo. Nel 1932 Carl David Anderson, statunitense di origini svedesi, grazie ad un nuovo macchinario chiamato camera a nebbia, scoprì nei raggi cosmici una particella che aveva tutte le stesse caratteristiche dell’elettrone ma che sottoposto ad un campo magnetico, si comportava in maniera esattamente contraria: aveva cioè carica opposta. Era un positrone, la prima antiparticella scoperta. Anderson vinse il Nobel nel 1936. Egli ipotizzò che, come l’elettrone, anche il protone dovesse avere un’antiparticella. Ed effettivamente l’antiprotone sarà scoperto nel 1955, grazie agli acceleratori di particelle, dall’americano Owen Chamberlain e dall’italiano Emilio Segré. Entrambi vinsero il Nobel nel 1959. Emilio Segré è figura di spicco nella storia della scienza italiana. Allievo di Fermi, emigrò negli USA col maestro nel 1939. Prima, nel 1937, a Palermo aveva ricavato il tecnezio . Partecipò alla costruzione della bomba atomica. Nel dopoguerra si stabilì in California, dove insegnerà fino alla morte. L’utilizzo degli acceleratori di particelle fu fondamentale: essi permettevano scontri ad altissime energie cinetiche di particelle, creando così energia che, ad un punto-limite, si trasformava in nuove e diverse particelle. Non solo, assieme alla particella, si formava anche un’antiparticella. Per questo oggi si sostiene che ad ogni particella corrisponde una propria antiparticella e non si produce materia senza che si produca antimateria. L’incontro tra materia ed antimateria dà però luogo all’annichilazione, cioè alla trasformazione delle particelle in energia secondo l’equazione E=mc2. Si sono identificate più di 200 coppie di particelle-antiparticelle. Serviva perciò dare un’organizzazione. A fare ciò pensò Murray Gell-Mann, statunitense che propose nel 1961 una classificazione che lo portò a vincere, nel 1969, il Nobel. Il risultato più importante del suo lavoro fu la scoperta del quark: il protone ed il neutrone erano ulteriormente divisibili! I quark, cui ovviamente corrispondono antiquark, possono essere di vario tipo: up, down, charm, strange, top, bottom o beauty; ciascuno di questi può poi essere di tre colori . Combinati a tre a tre danno luogo ai barioni, cioè ai neutroni ed ai protoni . Essi hanno anche carica frazionaria rispetto a quella dell’elettrone.
Negli anni ’70 ci si rese conto che le quattro forze fondamentali della natura, cioè gravità, elettromagnetismo, forza nucleare debole , forza nucleare forte , sono mediate da particelle, dette mediatori. Per questo la chimica nucleare diventa fondamentale per cercare di raggiungere il più grande obiettivo della scienza moderna: l’unificazione delle 4 forze, tramite lo studio di queste particolari particelle. Il primo mediatore scoperto fu il fotone, che è vettore della forza elettromagnetica. I mediatori della forza nucleare forte furono invece scoperti nel 1979 ad Amburgo dallo statunitense Samuel Ting, ed è chiamato gluone. Nel 1982 al CERN di Ginevra, fu l’italiano Carlo Rubbia ad identificare i mediatori della forza nucleare debole, chiamati bosoni W e Z. Rubbia vinse il Nobel nel 1984. Grazie a tale scoperta, tre fisici, gli statunitensi Alvin Weinberg e Shaldon Glashow e il pakistano Abdus Salam riuscirono a proporre una teoria che unificava le forze elettromagnetica e nucleare debole. Tuttavia oggi restano ancora problemi insoluti: per esempio si sta ricercando il vettore della forza gravitazionale. È già stato definito gravitone, anche se nessuno è stato in grado di identificarlo.
CONCLUSIONI
Siamo così giunti al termine del nostro percorso lungo più di venti secoli, partito all’ombra delle piramidi e terminato nei moderni laboratori. Abbiamo cercato di presentare il maggior numero di figure che hanno avuto un importante ruolo nello sviluppo di questa scienza, cercando per ognuno di delineare un profilo che ne abbracciasse non solo l’attività di scienziato, ma anche le esperienze di vita, dimostrando come la ricerca scientifica non sia avulsa dal contesto storico-sociale ma anzi sia la linfa da cui una civiltà matura dovrebbe trarre nutrimento per continuare a prosperare. Abbiamo cercato una trattazione completa ma che allo stesso tempo fosse il più possibile accessibile a tutti, credendo che lo scopo principale di questa trattazione sia stato il cercare di coinvolgere il maggior numero di persone nello spirito che ha animato questi uomini, ai quali dobbiamo l’agio di cui oggi godiamo grazie alla moderna tecnologia, sperando che l’attività scientifica non resti, come sta avvenendo in questi ultimi anni, solo un’attività per pochi intimi.
Fonte: http://www.sansepolcroliceo.it/LavoriIndividuali/La_Chimica_letta_attraverso_opera_dei_suoi_protagonisti.doc
Sito web da visitare: http://www.sansepolcroliceo.it
Autore del testo: ROMANELLI MATTEO BIANCONI MARIA CONCETTA
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