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Premessa
Potrà sembrare un’avvertenza ridondante ma non è certo il caso di dimenticare che le dispense di un corso non possono né devono sostituire i contenuti (e lo studio) di testi, documentazione e risorse di vario genere di tipo specifico ed approfondito. Che sia il caso di ricordarlo viene dal fatto che, forse maggiormente che in altri settori della fisica e della sua applicazione in campo scolastico, il tema trattato (modelli atomici e molecolari) è fortemente oggetto di letture e riletture, di edizioni e riedizioni: si tratta di una vera e propria sperimentazione (continua) di cosa e di come parlare di argomenti fondanti e fondamentali di fisica, di chimica, di biologia, di scienza dei materiali e molto più. In ogni caso, il solo fatto di volersi soffermare a considerare queste tematiche da un punto di vista, se non rinnovato, almeno attento a ciò che di nuovo è stato fatto sul fronte della ricerca scientifica, è di buon auspicio per una nuova presenza a scuola della fisica atomica e molecolare.
Introduzione
Non c’è (forse) dubbio che molti di noi riescono a sentirsi perfettamente a proprio agio parlando ai propri studenti di fisica “classica” (meccanica, elettromagnetismo, ottica, termodinamica, ecc.) perché si tratta di cose che, in varia misura, fanno parte del nostro mondo percettivo e cognitivo. Parlare di onde, oltre che essere affascinante, è tutto sommato alla portata di chiunque visto che l’oggetto della lezione si vede benissimo andando al mare. Magari gli studenti non hanno mai “pensato” alle onde, ma le conoscono. Oppure ci si riferisce con ragionevole tranquillità ai fenomeni termici visto che a tutti è ben chiara la differenza – in pratica – fra caldo e freddo. Non esiste studente che non abbia usato le parole “calore” e “temperatura” o che non abbia osservato che l’acqua evapora o che il vapore condensa, e così via. Stessa cosa se vogliamo spiegare il moto dei pianeti attorno al sole: la forza di newtoniana memoria ci viene in aiuto per giustificare rotazioni e rivoluzioni ed, ancora una volta, basta rivolgere il naso verso il cielo per ammettere che, si, i pianeti ci sono ed in qualche modo si muovono. Tutto bene, dunque.
Questa sorta di “sicurezza classica” viene notoriamente a mancare quando ci si arma di fantasiosi supermicroscopi per iniziare a scoprire le meraviglie del mondo atomico e subatomico. Quello che accade è che per parlare di queste piccolissime entità la meccanica classica non funziona e ci si deve rivolgere, in un modo o nell’altro, alle leggi della fisica dei quanti, alla meccanica ondulatoria, ai principi di esclusione e di indeterminazione, allo spin, e così via. Cose che non si vedono ma che sono necessarie se vogliamo capirci qualcosa su atomi e molecole. E se queste cose non si vedono non si capiranno mai più di un tanto. Questo preoccupa moltissimo una gran parte dei docenti di fisica che, spesso, si vedono costretti a rifugiarsi dietro a barriere protettive essenzialmente di due categorie: (a) non parlare di fisica moderna oppure (b) parlarne in termini più o meno classici. Dando per scontato che il caso (a) non è di interesse almeno in questo blocco di lezioni (ma è sicuramente un problema serio da affrontare a livello di programmazione dei curricula e nella formazione ed aggiornamento degli insegnanti), resta da spiegare il significato e la sostanza della strategia di tipo (b). Per questo è sufficiente aprire un qualunque testo di scienze (delle medie) o di fisica (delle superiori) per osservare che la via per giungere alla “conoscenza quantistica” passa (sempre) attraverso concetti classici. Atomi, molecole, nuclei ed altri oggetti di riferimento in questo settore sono trattati come porzioni piccolissime di materia, granellini di impalpabile estensione, con esotiche ed inenarrabili proprietà che, ad un “occhio classico”; si rifiutano di comportarsi coerentemente e “ragionevolmente”. Volendo evitare queste imbarazzanti situazioni, si preferisce appunto limitare la lettura di questo modo di essere della materia in termini classici in quanto “consueti” o “ragionevoli”. In una (apprezzabile per altri aspetti) rilettura della storia del modello atomico, ci si sofferma con insistenza (che risulterà fatale, vedremo) sull’atomo di Rutherford/Bohr perché, con la sua somiglianza almeno formale con il sistema planetario, ci rende tranquilli: si, perché il sistema solare è ben noto (vedi sopra) e se, almeno in parte, riusciamo a trasferire le nostre conoscenze da esso all’atomo, siamo sulla (buona) strada di chi vuole costruire un modello sensato della struttura atomica della natura, usando strumenti e concetti collaudati ed accettati. Dove sarebbe il problema, dunque? Forse che poi, già ci aspettiamo la critica, il modello planetario dell’atomo si rivela inadeguato ad affrontare problemi più complessi dell’idrogeno atomico? Fatto noto, questo, ma per una prima lettura o un avvicinamento alla fisica dei quanti dovrebbe essere sufficiente! Restano poche alternative: la rivisitazione storica passa necessariamente attraverso i primi tentativi classici, semiclassici, ibridi di descrivere la struttura atomica ed è giusto ripercorrerli, se il tempo lo permette ed, in ogni caso, un livello minimo di conoscenza dell’argomento lo si consegue fermandosi al modello planetario che, con tutti i suoi limiti, permette di affacciarsi almeno al mondo atomico con la ragionevole confidenza dovuta alla sunnominata trasferibilità di strumenti ed idee del mondo classico del sistema solare.
Questi ragionamenti non sono del tutto corretti, anzi, sono spesso causa di gravi carenze e fallimenti nei processi cognitivi o più banalmente nell’avvicinamento culturale al mondo degli atomi e delle molecole. Il modello di Rutherford/Bohr è sbagliato. Funziona per una serie di fortunate coincidenze e di somiglianze apparenti fra i sistemi solare ed atomico. Ma l’atomo non è un sistema solare in miniatura. Insistere a volerlo descrivere così conduce ad una sequenza interminabile di errori concettuali e di interpretazioni erronee o improprie di moltissime evidenze sperimentali. Una nota di cautela a questo punto è fondamentale. Quando qui si afferma che il modello è sbagliato si intende riferirsi al fatto che, alla luce delle attuali conoscenze della fisica dei quanti, la spiegazione fornita da questo modello sulla natura del sistema in esame non è tale da soddisfare – entro la sensibilità e risoluzione sperimentale oggi disponibile – ad un confronto fra teoria ed esperimento. Se “si chiude un occhio” sul dettaglio (sperimentale), è possibilissimo accontentarsi di un modello “debole”, o “approssimato”. Attenzione però a non confondere i “modelli” con le “leggi” della fisica. Non è (forse) il caso di aprire in questa sede un “caso epistemologico”. Una nota di attenzione però è appropriata. Spesso si confonde il fatto che, ad esempio, la dipendenza della forza di gravità dall’inverso del quadrato della distanza – una legge della fisica dovuta a Newton – sia riconducibile ad una descrizione “ad hoc”, modellistica, del comportamento specifico degli oggetti dotati di massa. Non è così. Un modello descrittivo (del tipo inverso quadratico o che altro) non ha nulla a che fare con una legge universale. Feynman scriveva nel 1964: “In generale noi cerchiamo una nuova legge col processo seguente. Innanzitutto la congetturiamo, dopo di che calcoliamo le conseguenze della congettura per vedere che cosa ne risulterebbe se tale legge fosse vera. Confrontiamo poi il risultato del calcolo con la natura, con l’esperimento o con l’esperienza, lo confrontiamo direttamente con l’osservazione, per vedere se funziona. Se l’ipotesi non concorda con l’esperimento è sbagliata. In questa semplice affermazione c’è la chiave della scienza. Non conta nulla quanto essa sia bella. Non conta nulla quanto sia intelligente chi ha fatto l’ipotesi, o come si chiami: se non concorda con l’esperimento è sbagliata”. Parole sante, forse da puntualizzare un pochino, con tutto il rispetto per Feynman. I modelli possono trovarsi d’accordo con un esperimento senza con ciò concretizzarsi (ovvero sublimare) in una Verità assoluta, totale, immutabile. Quello che deve fare una legge fisica. Un esempio che J.Gribbin riporta nel suo “Almost Everyone’s Guide to Science”. Le molecole d’acqua contenute nell’aria che respiriamo possono essere “modellizzate” in termini di palline dure, non strutturate, quando abbiamo bisogno di descrivere le proprietà puramente termodinamiche della mistura dei gas. Ovvero quando non ci interessa la struttura interna delle molecole. Siamo cioè in grado di ottenere un modello molto efficace del sistema fisico trattando le molecole come qualcosa che in realtà esse non sono. Il modello è “sbagliato”, i risultati che esso fornisce sono assolutamente degni di nota. Se poi non ci accontentiamo degli aspetti termodinamici, come ad esempio nel caso in cui la molecola d’acqua diventa protagonista del funzionamento di un forno a microonde, siamo costretti a raffinare ed approfondire il modello. La molecola non è più una pallina rigida, è qualcosa che ha “forma” e che può ruotare se sollecitata da forze esterne (le microonde). E questo modello funziona, oltre che in cucina, anche nello spazio cosmico, osservato e studiato dal radio-astronomo che cerca nelle emissioni elettromagnetiche tracce caratteristiche delle molecole in rotazione. Avanti così: se interessano anche le vibrazioni molecolari, il modello strutturato non può essere più rigido: deve permettere dei moti interni, ossia ci si deve immaginare che gli atomi siano legati fra loro con delle molle invece che con delle sbarrette rigide. Per non parlare di quando poi ci si interessa dei gradi di libertà interni, dovuti alla natura ed alla struttura del nucleo. Un mondo sempre più complesso e ricco di dettagli che vengono via via giustificati e supportati da modelli a loro volta di crescente complessità. Non c’è modello “migliore” o “peggiore”. Il modello è adatto a ciò che si vuole studiare. Se ci interessano più dettagli dobbiamo “spendere di più” in un modello sofisticato. Attenzione, ancora una volta però, a non mettere in discussione una legge fisica. Come quella dell’inverso del quadrato delle distanze di Newton. Non dipende dal modello. Fino a “nuova legge” (ovvero a contraddizioni o falsificazioni sperimentali) dobbiamo scrivere la suddetta dipendenza in qualsivoglia modello si adotti. Questa è la fondamentale differenza fra modello e legge. Ed con questa distinzione in mente ci muoveremo provando a considerare “strategicamente distinguibili” vari modelli.
Sicuramente è lecito porsi la domanda, a questo punto, se ci siano quindi alternative all’atomo “semiclassico” di Bohr ed, in ogni caso, se ed in quale misura sia davvero utile, in programmi di fisica che all’atomo e simili dedica poco tempo alla fine del corso, andare “oltre” questo modello.
Prima di cercare di rispondere a queste domande ci si fermi a riflettere su un altro fatto piuttosto importante: quando, poche righe sopra, si accennava alla “tranquillità classica” del docente nell’affrontare lo studio di tematiche portanti macroscopiche (dinamica, termodinamica, ecc). Quando parliamo di “forza universale di gravitazione” ci riferiamo alla grandezza newtoniana ben sapendo che (a) questa è stata rivisitata (pesantemente) dalle teorie della relatività generale di Einstein , (b) funziona benissimo a meno di correzioni (relativistiche, appunto) poco importanti a meno di non scivolare in un buco nero e (c) lascia una vera e propria voragine interpretativa e concettuale nello studente che (se siamo fortunati) si chieda “cos’è la forza?”. Se diciamo (dalle scuole medie in poi) che la forza gravitazionale mantiene la luna in orbita attorno alla terra e se con questa affermazione speriamo di aver costruito o fondato consapevolezza e comprensione scientifica forse siamo stati un po’ troppo ottimisti. La gente non può capacitarsi banalmente della natura di una forza. Dire “che forza!” fa parte troppo intensamente del parlato quotidiano per contribuire in modo consistente con il punto di vista “ufficiale” della scienza … come possiamo pensare o sperare che le nostre narrazioni sull’azione reciproca fra terra e luna siano qualcosa di più sostanziale di una favoletta per bambini o dei pensieri resi in parole dei filosofi della scienza dei secoli passati? Davvero siamo convinti che parlare di orbite celesti (eventualmente sostenendone la validità in termini di “coerenze formali” delle leggi di Keplero e di Newton) sia sinonimo e garanzia di efficacia didattica e comunicativa? Che la legge di attrazione gravitazionale vada come il reciproco del quadrato della distanza implica in qualche modo l’aver capito e recepito qualcosa sulla natura della gravitazione stessa? Per molti fisici (di mestiere) sicuramente no. Figuriamoci per gli studenti (soprattutto quelli che cominciano a pensare che la fisica non sarà parte integrante della loro vita – almeno apparentemente). Pensiamo poi alla termodinamica, ai suoi “calori” viaggianti ed alle sue confusioni permanenti fra di essi e la temperatura, o alle blasfeme mescolanze fra colori visti e colori reali nell’ottica, ed altri fatti e misfatti della fisica di ogni giorno. Tutti argomenti classici, “tranquilli” in quanto tali, che in realtà nascondono (e tramandano) grandi confusioni ed interpretazioni errate del mondo fisico. Ed abbiamo paura del mondo quantistico, perché mai?
Il punto – forse – può essere semplice. La fisica, come linguaggio per parlare del mondo che ci circonda, è un terreno intrinsecamente complesso. Pensare di riuscire a ricondurlo a poche, essenziali, non troppo impegnative ricette o racconti è davvero impresa ardua a dire poco. E questo è vero sia che si tratti di fisica quantistica che di fisica classica. La sostanza delle cose non è riconducibile a ricette o modelli banalmente codificabili ed in quanto tali trasferibili, comunicabili. Non illudiamoci che i modelli classici, in quanto classici siano semplici (e che quelli quantistici siano inarrivabili). Sono modelli, ci sono difficoltà specifiche e sistematiche che caratterizzano l’approccio scientifico alla descrizione della natura la quale, ricordiamocelo bene, non è mai classica o quantistica. Queste sono classificazioni di umana (dunque limitata) origine. Sicuro è, ad ogni modo, che ci piacerebbe (come insegnanti senza dubbio, ma anche come ricercatori e scienziati) riuscire a comunicare lo stupore e passione che ci travolge leggendo il libro della natura. E’ possibile farlo senza essere soffocati dalla complessità di questo apparato di conoscenze? La risposta è probabilmente affermativa se ci si arma, oltre che di curiosità e buona volontà, anche di onesta e correttezza culturale. I modelli teorici dell’atomo vanno riportati nella loro attualità, ovvero secondo i criteri e le ricette della fisica quantistica moderna. Non alla luce dei primi tentativi semiclassici sopra citati ad opera di Rutherford e Bohr. L’atomo è un oggetto che non può essere descritto secondo il vocabolario e le attese percettive che si possono applicare nei fenomeni classici. Elementi questi, si ribadisce, che in ogni caso continuano ad essere categorie “superiori” rispetto i modi diretti, “semplici”, con i quali ci si interfaccia e si interagisce con tutto ciò che l’esperienza quotidiana prevede ed implica. Così come non ci pare accettabile (né elaborabile in modo non mediato) l’idea di un elettrone delocalizzato, di un ruolo attivo dell’osservatore nella definizione dell’esito finale di una misura, ed altre “bizzarrie” della fisica dei quanti, allo stesso modo ricordiamo che una luna trascinata dalle onde di gravità che si instaurano reciprocamente con la terra non sono concetti categorizzabili secondo le nostre possibilità e pratiche cognitive e percettive “ordinarie”. Possiamo, anzi, dobbiamo affrontare il mondo quantistico con lo stesso coraggio (ed incoscienza) che usiamo per parlare di calore, luce, temperatura, gravità, massa, momento angolare, frequenza, e così via. Partendo da ciò che le fatiche e le conquiste di chi ci ha preceduto nell’avventura della ricerca scientifica ci permettono ora di conoscere con assestata sicurezza. Il mondo quantistico non è in effetti più misterioso di quello classico se, con dose appropriata di sfrontatezza concettuale, ci ricordiamo che la fisica sempre e comunque supera gli schemi percettivi, esplorativi e conoscitivi dei nostri sensi. La proposta che si intende sostenere in questa offerta vuole proprio partire dalla fisica dei quanti (quella oggi accettata e formalizzata) per iniziare a parlare di atomi e molecole. Dunque iniziando a parlarne in modo “corretto” (quantomeno attuale). Il modello planetario può – deve – venire dopo, se c’è tempo per una rilettura storica, perché è e deve restare un evento (concluso) che ha segnato una tappa ma non un punto d’arrivo della vicenda.
Non volendo in ogni caso cercare di sovvertire tradizioni e passioni assestate di molti, è chiaro che frasi che inizino con “tutto va come se … “ oppure “immaginando che questo oggetto sia fatto da … “ sono sempre state e sempre saranno modi assennati di rompere il ghiaccio e di creare connessioni virtuose con un mondo apparentemente ben conosciuto (quello classico). Attenzione però, per ripetere ed insistere, che non possiamo permettere che le incomprensioni di questo mondo si trasferiscano al mondo quantistico che, comunque, pressoché nulla ha da condividere con esso. La storia comincia in un altro modo e dovrà seguire nuove vie. La proposta qui è proprio questa. Che si inizi a parlare di atomi e molecole usando le idee ed i concetti quantistici ed ondulatori. Non quelli classici, qui non possono e non devono funzionare.
Queste pagine trattano di atomi e di molecole in termini espliciti di onde, funzioni d’onda, probabilità, transizioni, indeterminazione, spin e via dicendo. Proviamo a vedere se, imponendoci di “credere” a queste cose così come obblighiamo gli studenti a credere che la forza gravitazionale funzioni in un certo modo (e sia qualcosa di “comprensibile”!) ci conduca ad un apparato di modellizzazione consistente e ricco di stimoli e conseguenze.
Il modello atomico quantistico per tutti (o quasi)
Per iniziare a parlare di atomi e per rispondere alla domanda “cosa c’è in un atomo, com’è fatto?” non ci sono alternative: si tratta di entrare in un mondo davvero super-microscopico, nel quale le leggi ed il metro di misura validi nel mondo quotidiano si ritirano in buon ordine e lasciano spazio a nuove chiavi di lettura. Nessuno stupore, o non troppo, dunque, se ci si deve rimboccare le maniche ed iniziare ad usare nuovi strumenti! Anzitutto è importante chiarire quanto piccoli sono gli atomi. Vanno benissimo, in questo caso, i paragoni di scala con oggetti noti agli studenti: quanti atomi vanno messi in fila per riempire una tacca di un millimetro? Dieci milioni circa. Oppure dieci miliardi (circa) in un metro. Tantissimi. Ma siamo sicuri che gli studenti abbiano percezione “operativa” di numeri di questo tipo? Nel dubbio è meglio esagerare e proporre qualche analogia macroscopica: dieci milioni di telefonini messi in fila uno vicino all’altro fanno (circa) 1000 km. Come da qui in linea d’aria fino oltre alla Sicilia. Vi pare poco? Ma per arrivare ad un miliardo servono mille di queste lunghezze. Poche? Dipende. Un milione di chilometri è circa il triplo della distanza fra la terra e la luna! Dunque gli atomi sono davvero piccoli … questa dovrebbe essere la conclusione raggiungibile da chi ascolta racconti di questo tipo.
Fin qui tutto semplice. Il problema è come iniziare a raccontare qualcosa (nell’ottica sopra accennata) sulla struttura (e sulle conseguenti proprietà chimico-fisiche) dell’atomo. Benché, come già sottolineato, la linea guida storica sia inadeguata ad un approccio “rapido” a queste conoscenze, è in ogni caso utile spendere poche parole sulle evidenze sperimentali a disposizione degli studiosi non solo di oggi ma anche di più di un secolo fa relative alla sostanza essenziale degli atomi o meglio della materia ordinaria da essa (presumibilmente) costituita.
Alla fine del secolo XIX si è in grado di stabilire che:
A fronte di questo apparato di evidenze gli scienziati sono coinvolti in una intensissima attività di ricerca e di comprensione che conduce, come ben noto, a definire contributi essenziali per la fondazione della nuova fisica degli atomi e della radiazione elettromagnetica che con essi interagisce.
Senza ovviamente volere rinnegare la premessa operativa di questo corso, ovvero l’importanza didattica di un’impostazione non necessariamente storica, se il tempo per lo svolgimento di un corso lo permette è sicuramente auspicabile un’attenzione alla modellistica che ha anticipato la versione attuale (“corretta”) della struttura e della dinamica degli atomi e delle molecole. Ai fini di fornire gli elementi essenziali di questo percorso passato, ecco una versione compatta dei modelli in questione.
Modello di Thomson
Il primo modello di atomo prevede una struttura sferica omogenea di carica positiva, all’interno della quale si trovano distribuiti uniformemente gli elettroni, cariche negative puntiformi. La massa atomica è distribuita su tutta la sfera. Una semplice applicazione del teorema di Gauss permette di calcolare la forza di Coulomb subita dagli elettroni che risulta di tipo elastico, per cui gli elettroni oscillano e dunque emettono o assorbono in modo “risonante” la radiazione elettromagnetica. Il calcolo però dà frequenze differenti (molto) da quelle osservate. Il problema più grave di questo modello è comunque che esso non riesce a riprodurre le osservazioni ottenute in esperimenti di collisione con particelle cariche pesanti (particelle a, ossia nuclei di elio). Secondo il modello di Thomson, la carica positiva distribuita su tutto il volume atomico deve produrre una piccola deviazione ad ogni collisione. In un foglio di materiale di spessore molto piccolo ma finito, vi sono moltissimi centri diffusori (gli atomi, infatti) e conseguentemente il fenomeno diffusivo dei proiettili va trattato nel senso probabilistico o statistico del termine. Gli esperimenti indicano che vi è una probabilità relativamente elevata (comunque NON nulla) di osservare proiettili diffusi ad angoli elevati (fino a 180°). La trattazione statistica della diffusione multipla conduce invece ad una probabilità pressoché nulla per tali eventi. Evidentemente il modello a massa diffusa su tutto il volume è da rivedere. A tale scopo si introduce, sempre seguendo l’evoluzione storica e temporale degli eventi, il modello dovuto a Rutherford.
Modello di Rutherford
La correzione più rilevante riguarda proprio la distribuzione della massa dell’atomo, che ora è immaginata concentrata in un piccolissimo volume carico positivamente (il nucleo) immerso in una sfera leggera ed uniformemente carica negativamente (gli elettroni). Gli elettroni diffondono in modo elastico con gli atomi (senza perdita di energia cinetica). Si può ottenere (con fatica ragionevolmente contenuta, almeno a livello di una classe quinta superiore) che il numero di elettroni diffusi secondo l’angolo q nell’ipotesi di Rutherford è dato dalla legge omonima
,
in cui A è una costante opportuna, s è lo spessore del foglio interposto al cammino dei proiettili, Z è il numero atomico del materiale della lamina, T l’energia dei proiettili. Il modello è accettabile per quanto riguarda questi aspetti: (1) il conteggio è proporzionale allo spessore del foglio, ossia nel fenomeno conta il singolo evento di diffusione del proiettile, e non una sovrapposizione statistica di molti eventi di diffusione (come nel modello di Thomson, secondo il quale il conteggio risulterebbe proporzionale a s1/2). Il fatto che il nucleo sia tanto minuscolo, ed essendo il vero ed unico centro diffusore, è tale da giustificare un solo evento come causa di deviazione a grande angolo; (2) la dipendenza dal tipo del materiale (Z) e dalla velocità del proiettile (T) è riprodotta molto accuratamente; (3) il numero di conteggi varia con l’angolo di diffusione q anche di 5 ordini di grandezza, ed anche questo risultato è correttamente ottenuto nel modello. In conclusione, il modello “nucleare” (o a “sistema solare”) spiana la strada a successive e più sofisticate elaborazioni teoriche. Pur non spiegando i fenomeni di emissione ed assorbimento di radiazione, evidenzia con certezza che la struttura dell’atomo prevede la concentrazione della massa in un volume di dimensioni estremamente ridotte rispetto quelle atomiche (il raggio nucleare è 100000 volte più piccolo di quello atomico “tipico”. Ancora una volta, pronti a convincere il pubblico di cosa questo implichi in termini di proporzioni “reali”. Se l’atomo fosse grande come un campo da calcio, il nucleo si ridurrebbe ad un grano di un millimetro di diametro!), mentre la distribuzione di carica prevede i contributi negativi e positivi separati in regioni spaziali altrettanto differenziate. I problemi irrisolti restano quelli relativi ai fenomeni di interazione con la radiazione elettromagnetica che riassumiamo secondo le conoscenze sperimentali del tempo.
Spettri atomici: righe e non-righe colorate
La spettroscopia è la scienza e la tecnica dell’osservazione sistematica e classificazione delle emissioni ed assorbimenti ad opera o subiti da un qualche sistema fisico. Tipicamente ci si riferisce con questo termine ad emissione/assorbimento di radiazione elettromagnetica (di varie lunghezze d’onda), ma si potrebbe parlare anche di spettroscopica di massa (tecnica dominante in certe branche della fisica delle particelle elementari o delle alte energie). Esistono spettri continui in emissione (come quello osservato nella radianza di un corpo riscaldato) ma anche spettri a linee sia in emissione che in assorbimento. La classificazione è fatta in base al tipo di esperimento effettuato. Provocando scariche elettriche in un gas viene fornita energia (tramite la corrente elettronica) agli atomi del gas che emettono solamente certe frequenze (radiazioni di colore caratteristico per il gas – come la luce gialla delle lampade al sodio o quella rossa dei tubi al neon), che vengono analizzate con sistemi di dispersione cromatica (come un prisma o un reticolo di diffrazione). Investendo invece un gas con luce continua - bianca, essenzialmente- ed analizzando la radiazione trasmessa dal gas, si osservano frequenze mancanti, ossia linee nere nella luce trasmessa. Queste non-righe sono collocate esattamente nella stessa posizione di alcune linee osservate nell’esperimento di emissione dello stesso gas, che però usualmente presenta molte altre linee che sono assenti nello spettro in assorbimento. Lo studio sistematico compiuto nel XIX secolo di questi spettri aveva permesso di stabilire delle relazioni empiriche (dei modelli!) molto semplici ed altrettanto precise in grado di “indovinare” la posizione delle linee sia in assorbimento che in emissione. Tali relazioni sono tutte nella forma data da
l=lLIM/(1-n02/n2),
ossia le lunghezze d’onda vengono osservate in una sequenza regolare. Nella formula sopra scritta lLIM è detta limite di serie (ve ne sono diverse per un dato atomo, ed i vari atomi hanno differenti insiemi di tali lunghezze limite), mentre n cambia di passi interi a partire da n0+1. La prima serie storicamente importante è detta di Balmer ed è osservata nell’atomo di idrogeno:
lB=364.5/(1-4/n2) (nm), n=3,4,5, ... .
Si tratta di radiazione visibile ed osservabile soltanto in esperimenti di emissione. Esiste un’altra serie, detta di Lyman, osservabile anche in assorbimento ultravioletto secondo la relazione
lL=91.1/(1-1/n2) (nm), n=2,3,4, ... .
A titolo esemplificativo, ricaviamo che per questa serie le lunghezze d’onda osservate sono date da l1=91.1/(3/4)=121.5 nm, l2=91.1/(8/9)=102.5 nm, l3=91.1/(15/16)=97.2 nm … e le frequenze corrispondenti sono dunque così calcolate (a partire dalla n=c/l): n1=2.5´1015 Hz, n2=2.9´1015 Hz, n3=3.1´1015 Hz, … . Si osserva un’ulteriore regolarità, nota con il nome di principio di combinazione di Ritz: date due frequenze (osservate) in uno spettro atomico, è possibile che una terza frequenza osservata sia la somma algebrica delle prime due. E’ dunque auspicabile introdurre un modello di atomo che, oltre ai fenomeni di diffusione giustificati dal modello di Rutherford, spieghi anche tutta questa classe di fenomeni e regolarità. Attenzione ancora una volta: l’esigenza primaria operativa è quella di saper predire/confermare i dati sperimentali più che ottenerli a seguito di una conoscenza (a vari livelli di dettaglio) della struttura e del funzionamento del sistema fisico. E’ ovvio che il risultato ideale consisterà nell’ottenere soddisfacente comprensione del sistema e, conseguentemente, una descrizione altrettanto accurata delle osservazioni sperimentali in base alle predizioni del modello. Al fine di soddisfare queste richieste nella spettroscopia atomica di fine ottocento, si deve finalmente lasciare il passo al famoso atomo di Bohr.
Modello di Bohr
Nel 1913 N. Bohr estende il modello nucleare di Rutherford per spiegare gli spettri osservati di atomi “idrogenoidi”, ossia con un solo elettrone. L’idea principale del modello consiste nel descrivere l’elettrone come satellite del nucleo in orbite “stazionarie”, ossia quantizzate nelle loro dimensioni. L’elettrone è vincolato al nucleo positivo tramite la forza di Coulomb che fornisce l’accelerazione centripeta necessaria (questa è – come in tanti altri casi – un’ottima occasione per spiegare e/o ribadire che la forza è “solo” centripeta, e con essa l’accelerazione. E’ solo il punto di vista non inerziale, che caratterizza il mondo dell’elettrone orbitante, che prevede un effetto di tipo centrifugo. Apparente, ovviamente). La forza coulombiana, data da F=Ze2/(4pe0r2)=mv2/r, assieme all’energia elettrostatica del sistema nucleo/elettrone data da U=- Ze2/(4pe0r), permette di calcolare l’energia cinetica, T=mv2/2= Ze2/(8pe0r) e quella totale dell’elettrone:
E=-Ze2/(8pe0r).
Il punto fondamentale è che il modello “planetario” non permette di spiegare la stabilità dell’atomo: l’elettrone orbitante è accelerato e dunque deve emettere radiazione elettromagnetica e perdere gradualmente energia, fino a precipitare (in una frazione ridicolmente piccola di tempo) sul nucleo. Bohr introduce degli “stati stazionari elettronici” che prevedono invece che l’elettrone mantenga la sua orbita senza irradiare energia, e che questo sia possibile grazie ad un fenomeno di quantizzazione del momento angolare orbitale, che può possedere solo valori multipli interi di ħ, L=nħ, n=1,2, … . Si tenga presente che il modello di Bohr precede l’ipotesi ondulatoria di De Broglie (che rivoluziona tutto l’apparato modellistico dei sistemi fisici) e l’intero sistema della fisica quantistica, per cui l’idea della quantizzazione del momento angolare e della stazionarietà degli stati è decisamente rivoluzionaria e degna di attenzione, soprattutto in quanto essa permette una descrizione molto accurata degli spettri osservati (benché la visione di un elettrone orbitante secondo valori definiti di velocità e raggio orbitale non sia ammissibile alla luce dell’indeterminazione quantistica e della natura ondulatoria dell’elettrone stesso su queste scale submicroscopiche – ma su questo si tornerà in seguito).
La quantizzazione del momento angolare conduce immediatamente alla quantizzazione dei raggi orbitali e delle energie elettroniche: essendo L=mvr= nħ, dalla T=mv2/2= Ze2/(8pe0r)= n2ħ2/(2mr2) si ottiene r=rn=4pe0n2ħ2/(Zme2)=a0n2/Z, dove
a0=4pe0ħ2/(me2)=0.0529 nm
è detto raggio di Bohr. Per quanto riguarda l’energia totale dell’elettrone ricaviamo E=En=-Z2E0/n2, dove
E0=me4/(32p2e02ħ2)=2.18´10-18 J=13.6 eV.
Questo valore corrisponde all’energia necessaria per “costruire” un atomo di idrogeno (Z=1) nello stato stazionario più “basso” (n=1) a partire da un elettrone e da un nucleo positivo a distanza infinita, ovvero è l’energia da fornire all’atomo per ionizzarlo, ossia strappare l’elettrone dal campo elettrostatico del nucleo. I “livelli” stazionari dell’atomo “idrogenoide” hanno energie crescenti (ovvero sempre meno negative) con il crescere di n, unico numero quantico del sistema. Per eccitare l’atomo dallo stato di più bassa energia, -13.6 eV, al livello superiore (E2=-13.6/4=-3.4 eV), si deve fornire al sistema l’energia richiesta, data da
DE=Efin-Ein=-3.4 eV -(-13.6 eV)=10.2 eV.
Corrispondentemente l’elettrone passa da un’orbita di raggio a0 all’orbita più estesa di raggio r2=4a0=0.0212 nm.
Bohr impone, nel suo modello, che l’elettrone possa cedere ed assorbire energia nelle transizioni fra diversi stati stazionari tramite l’emissione e assorbimento di quanti di radiazione elettromagnetica, fotoni di energia regolata dalla relazione (detta di Bohr)
DEn1®n2=hn12=En1-En2=Z2E0(1/n22-1/n12),
per cui le lunghezze d’onda sono date dalla
.
La costante R¥=E0/hc=me4/(64p3e02ħ3c) vale 1.0974´107 m-1 e possiamo anche scrivere che le lunghezze d’onda dei fotoni emessi/assorbiti secondo il modello di Bohr sono date da
.
Le frequenze sono invece date da
.
Si usa il simbolo R¥ per sottolineare che tale grandezza viene ottenuta nell’approssimazione di massa infinita del nucleo. Tenendo conto della massa ridotta dell’atomo (sistema a due corpi di masse finite) si deve introdurre una correzione sulle energie calcolate del 5% circa. Scegliendo la transizione che ha come stato di arrivo n2=1, la relazione per l (Z=1, idrogeno) fornisce subito la serie di Lyman già considerata prima. Le altre serie sono altrettanto facilmente ottenute, avendo cura di distinguere fenomeni di assorbimento di fotoni (l’elettrone acquista energia, passando ad orbite più esterne) da quelli di emissione (l’elettrone “cade” verso il nucleo perdendo energia). Anche la regola di combinazione di Ritz è ricavata per il semplice fatto che si postula che i fotoni abbiano frequenze proporzionali al salto energetico (fissato, discreto) dell’elettrone atomico: n32+n21=n31.
Il fatto che gli spettri di assorbimento siano composti in generale da meno linee di quelli in emissione è spiegato in base alla breve durata (in condizioni normali) degli stati elettronici eccitati, mentre solamente il livello di minima energia è stabile nel tempo: l’emissione può avvenire da qualunque stato a qualunque altro, l’assorbimento richiede invece di partire da uno stato stabile, il più basso appunto.
Un’importante verifica sperimentale della consistenza dell’ipotesi di Bohr (relativamente al fenomeni di scambio quantizzato di energia elettromagnetica) è l’esperimento di Franck e Hertz che, nel 1914, riuscirono con misure di perdita di energia cinetica di elettroni su gas di mercurio ad ottenere conferma della natura discreta dei livelli energetici dell’atomo.
Il brusco salto dalla trattazione classica (perdente per i fenomeni di frenamento per irraggiamento continuo) a quella “discreta” richiede una connessione fra i due punti di vista secondo il quale, nel limite di una situazione macroscopica, classica appunto, tali punti di vista coincidano. Questo è formalizzato nel cosiddetto principio di corrispondenza, che prevede un atomo sufficientemente grande per il quale le orbite stazionarie si confondono con un moto classico a spirale degli elettroni: in questo caso le frequenze della radiazione calcolate secondo le due visioni risultano pressoché identiche (tanto più quanto maggiore infatti è il numero quantico n di eccitazione).
Cosa non funziona
Il modello di Bohr, pur nella sua semplicità e precisione nella predizione di molti aspetti spettroscopici, è un modello che non rispetta i criteri fondamentali della fisica ondulatoria, ossia della fisica quantistica che, un decennio dopo i lavori di Bohr, si rivela come approccio affidabile ed universale al mondo degli atomi ed altro. Ovviamente questa “accusa postdatata” non regge e non va certo portata ad elemento vessatorio nei confronti del lavoro di Bohr. In ogni caso, e proprio in prospettiva storica, questo fatto è sufficiente per limitare i percorsi didattici che fanno riferimento rigido ed monotematico a questo modello. Con un paragone forse un po’ forte, non ci permetteremmo certo di sostenere un modello geocentrico del sistema planetario solo perché è più semplice (non che lo sia, comunque) di quello eliocentrico! Di fatto, l’atomo di Bohr non permette il calcolo di strutture “fini” dello spettro osservato, non fornisce strumenti per calcolare l’intensità della radiazione emessa e non permette di affrontare lo studio di atomi con 2 o più elettroni. Per fare fronte a tutte queste difficoltà (e ad altre che cominciavano a farsi evidenti con l’aumentare della risoluzione sperimentale) non esistono alternative restando nell’ambito di questo modello. E’ necessario affrontare una modellistica più “fine” e basata sulla fisica ondulatoria. Il passaggio alla nuova fisica “ufficiale” non è, piuttosto ovviamente, immediato ma richiese molti tentativi e raffinamenti graduali, inclusi i modelli degli atomi. Non trattiamo in questa sede questa fase di passaggio, ma ci interessiamo direttamente all’atomo “secondo Schroedinger” (e De Broglie, Heisenberg, ed altri).
Il minimo indispensabile della meccanica ondulatoria: dai fotoni a De Broglie, da Heinsenberg a Schroedinger
In questo paragrafo vengono riassunte le informazioni essenziali per una lettura “semi-tecnica” della trattazione ondulatoria del modello atomico. I fondamenti, le interpretazioni ed il formalismo della fisica dei quanti vengono affrontati in un’altra sezione di questo corso. In questa parte si cerca piuttosto di fornire poco più di un “ricettario” fatto di concetti e di qualche formula per raccontare in modo corretto la storia di un atomo (e di una molecola) quantistici.
Anzitutto, ricordiamo che, secondo la nuova visione iniziata da Planck e formalizzata da Einstein, la radiazione elettromagnetica, negli esperimenti di storica rilevanza (misura della radiazione di corpo nero, effetto fotoelettrico, effetto Compton, ed altri) manifesta le seguenti proprietà:
Le differenze rispetto la trattazione ondulatoria della luce sono assolutamente drastiche. Resta comunque il fatto che in altre classi di esperimenti la radiazione elettromagnetica mantiene unicamente caratteristiche ondulatorie, come nell’esperienza della doppia fenditura di Young. A tale proposito, è essenziale sottolineare che in questo esperimento la visione corpuscolare di fatto prevede che il fotone passi o in una o nell’altra fenditura, mentre la visione ondulatoria richiede che la radiazione, per condurre ad interferenza, passi attraverso entrambe le fenditure.
E’ possibile stabilire che questa dualità onda-particella non è scindibile a seconda dell’esperimento effettuato, ma è una caratteristica intrinseca della radiazione: essa non è né onda né particella, ma di queste due nature presenta le caratteristiche a seconda del tipo di indagine su di essa effettuata separatamente ed incompatibilmente. Il termine più adatto per descrivere questa situazione (che sfugge alle possibilità percettive del senso comune) è complementarietà delle nature ondulatoria e corpuscolare.
E’ anche possibile pensare ai processi di emissione e rilevazione della radiazione in termini unicamente corpuscolari (interazione fotone/particella) ed al processo di propagazione ed eventualmente interferenza dalle fenditure in termini unicamente ondulatori. La conclusione è che l’osservazione delle figure di interferenza conducono alla corrispondenza fra intensità dell’onda elettromagnetica (proporzionale al modulo quadrato dell’ampiezza di campo elettrico dell’onda) con la probabilità di osservare fotoni sullo schermo. Questa connessione è alla base del funzionamento quantistico di tutti i fenomeni fisici, non solo quelli riguardanti la radiazione elettromagnetica e lega in modo esplicito gli aspetti ondulatori (intensità dell’onda) e corpuscolari (conteggio medio dei fotoni). La generalizzazione di questo schema richiede una serie di ipotesi alla base della fisica quantistica o ondulatoria.
L. De Broglie nel 1924 ipotizza che il dualismo onda/particella stabilito per la radiazione elettromagnetica vada esteso ad ogni forma di materia, per cui si associa ad ogni particella con momento p un’onda di lunghezza l=h/p, e l è detta lunghezza d’onda di De Broglie. Il salto concettuale è impegnativo, quanto meno: si tratta di accettare che la materia, in determinate circostanze, presenta le caratteristiche tipiche delle onde, ovvero può dare luogo ad effetti interferenziali, si delocalizza nello spazio e nel tempo, vi sono diffrazioni, riflessioni parziali, e così via. Sarà anche essenziale prepararsi ad affrontare argomentazioni di natura tipicamente statistica, se si vorranno conciliare in modo consistente i due estremi del dualismo di questa teoria. La lunghezza d’onda di De Broglie non è sperimentalmente accessibile per sistemi macroscopici a causa della piccolezza di h: una granello di polvere (m=10-9 g) che viaggia a 1 cm/s conduce a l=7´10-20 m. Un elettrone di energia 1 eV ha l=1.2 nm, che è una lunghezza sperimentalmente accessibile e, soprattutto, comparabile con le dimensioni tipiche dell’atomo.
E’ appropriato a questo punto chiedersi: cos’è l’onda di De Broglie? Qual è il suo significato fisico? Una prima riposta può essere: l’onda di De Broglie è quella che si manifesta ogni volta che effettuiamo su una particella un’esperimento che ne possa rilevare la sua natura ondulatoria. Visti i valori sopra citati, l’esperimento in questione dovrà riguardare oggetti submicroscopici: nell’esperienza di Young ci si aspettano massimi di interferenza spaziati come lD/d: siccome D/d è dell’ordine di al più 103-104, non sarà possibile osservare interferenza di De Broglie per un’automobile o per qualcosa comunque “meno ondulatorio” di un atomo.Fra le prima evidenze sperimentali dell’ipotesi ondulatoria della materia vanno sicuramente ricordate le misure di interferenza di elettroni su cristalli (usati come “reticoli” naturali) ad opera di Davisson e Germer (1926) e Thomson Jr. (1927). Si ottiene un valore di h in eccellente accordo con i dati relativi all’ipotesi corpuscolare della radiazione e/m (fotoelettricità, corpo nero …). L’ipotesi di De Broglie va estesa comunque a tutte le particelle (non solo gli elettroni). Le difficoltà per la realizzazione sperimentale di misure di interferenza da fenditura doppia sono state superate solo di recente. Ora si osservano interferenze di neutroni, atomi, o addirittura molecole e lo studio della diffrazione di particelle di varia natura è tecnica assestata di indagine della materia atomica e subatomica.
Vale un principio di complementarietà anche nel dualismo onda/corpuscolo di De Broglie: non è possibile osservare simultaneamente entrambe le nature della particella, ma entrambe contribuiscono a definire la “sostanza” del sistema. In un esperimento di Young per elettroni, nel momento in cui si cerchi di stabilire in quale delle due fenditure passino gli elettroni, si distrugge la figura interferenziale (stabilire la fenditura di passaggio equivale a rivolgere l’attenzione all’aspetto corpuscolare dell’elettrone). L’interferenza si osserva solo in condizioni di “assenza di interesse” per quest’ultimo aspetto (che dunque non può essere specificato oltre una certa misura o precisione, come vedremo fra poco parlando di principio di indeterminazione).
In un’onda piana la lunghezza d’onda (o il numero d’onda, k) sono perfettamente definiti, e l’onda è totalmente delocalizzata nello spazio. Non sembra dunque adatta a “descrivere” una particella nel senso di De Broglie. A prescindere da questo aspetto, è peraltro chiaro che sovrapponendo due onde piane di diversa lunghezza d’onda si assiste ad un fenomeno più o meno marcato di “battimento”: l’onda risultante tende periodicamente a “localizzarsi” in corrispondenza delle interferenze costruttive. Aggiungendo altre lunghezze d’onda la sovrapposizione tende sempre più a concentrarsi, fino ad assumere l’aspetto di un “pacchetto” localizzato in una zona di ampiezza Dx. La posizione viene determinata sempre meglio a spese della lunghezza d’onda, in modo che DxDk~1: se l’onda è poco “sparpagliata”, è difficile ottenere una stima precisa della sua lunghezza d’onda e viceversa. Lo stesso discorso è fattibile nel dominio del tempo: per un’onda viaggiante, la determinazione precisa della frequenza temporale richiede un tempo lungo di ripetizioni cicliche ovvero, se l’onda dura poco tempo, la sua frequenza sarà male determinata. Dunque DtDw~1. E’ ora possibile estendere queste regole di indeterminazione all’onda di De Broglie con fondamentali conseguenze nella comprensione fisica del modello ondulatorio della materia. Se si scrive p = h/l= (2ph)/( 2pl) = ħk; dalla DkDx~1 si ottiene Dp Dx ~ ħ. (analogamente, scrivendo E=hn=(2phn)/(2p)=ħw;, dalla DwDt~1 si ottiene DE Dt ~ ħ).
Queste due relazioni danno forma e sostanza (rispettivamente spazio-momento ed energia-tempo) al principio di indeterminazione di Heisenberg. In pratica esso stabilisce l’impossibilità di determinare simultaneamente con precisione assoluta posizione e velocità (energia e tempo) di una particella. Le implicazioni sono profonde: è facile accettare e comprendere l’indeterminazione spaziale di un’onda del mare (viste le argomentazioni classiche sulle onde piane sopra descritte), ma per una particella materiale questo è molto più complicato e comunque al di fuori della portata del senso comune. Di fatto è la natura stessa che impone un limite all’accuratezza con la quale possiamo effettuare misure. Considerando ad esempio un elettrone con velocità lungo x pari a 3.6´106 m/sec, nota con precisione dell’1%, la precisione nella posizione lungo x è stimata a partire da: px=3.3´10-24 Kg m/s, Dpx=3.3´10-26 Kg m/s, Dx~ħ/Dpx=3.2´10-9 m (circa 10 diametri atomici).
Per comprendere più a fondo la procedura associata all’applicazione dell’indeterminazione di Heisenberg richiamiamo l’idea fondamentale che a partire da un’onda piana (totalmente delocalizzata spazialmente) è possibile costruire un pacchetto localizzato su un’estensione Dx che di fatto stabilisce un’indeterminazione nell’assegnazione del momento, ossia della lunghezza d’onda tramite la relazione di De Broglie: l’indeterminazione richiede la costruzione di un pacchetto d’onde con dispersione in lunghezza d’onda. Partendo da due onde viaggianti con numeri d’onda k1, k2 e pulsazioni w1, w2, la loro sovrapposizione può essere scritta come inviluppo del tipo
y1+y2=cos[(xDk-tDw)/2]cos[(k1+k2) x/2-(w1+w2) t/2].
Si osserva che l’inviluppo avanza con velocità di gruppo vg=Dw/Dk, che nel limite della sovrapposizione continua di infinite onde diventa vg=dw/dk (ogni componente d’onda piana ha invece velocità di fase data da w/k). Nel caso del pacchetto d’onde associato alla rappresentazione di De Broglie, ricaviamo che
Per una particella non relativistica con solo energia cinetica, E=T=p2/(2m) e dunque vg=v, che dunque spiega il significato fisico primario della rappresentazione a “pacchetto” della particella. Se si “prepara” un sistema fisico in un certo modo, potremo misurare grandezze rilevanti entro la loro indeterminazione. Ripetendo la misura si otterranno valori differenti, anche se lo stato iniziale del sistema è lo stesso. Si evidenziano dunque forti connessioni con la teoria della probabilità e statistica: è impossibile prevedere il singolo evento, ma con tante misure (o con tanti sistemi eguali) si giunge ad una distribuzione di probabilità. La meccanica quantistica fornisce l’apparato matematico per calcolare tali distribuzioni. C’è una differenza critica fra statistica e meccanica quantistica: nella prima l’indeterminismo è causato dalla incompleta conoscenza del sistema all’inizio, nella seconda l’indeterminismo è intrinseco alla natura, insuperabile.
L’ampiezza dell’onda di De Broglie è collegata alla probabilità di trovare la particella: così come la probabilità di trovare il fotone di Planck è proporzionale al modulo quadro dell’ampiezza del campo elettrico dell’onda, la probabilità quantistica è proporzionale al modulo quadro dell’ampiezza d’onda di De Broglie.
Onde e probabilità
Lo studio delle proprietà di un sistema fisico nell’ambito di una trattazione ondulatoria è in un certo senso avvicinabile a quello operato nello schema classico, con delle differenze concettuali e di sostanza comunque essenziali. Nella visione classica l’interesse è rivolto alla relazione fra causa (forze agenti sul sistema) ed effetto (moti del sistema, traiettorie). Lo strumento utilizzato è la formulazione dinamica (leggi di Newton) o lagrangiana (equazioni di Hamilton e Lagrange). Nella visione quantistica ovvero ondulatoria i concetti di traiettoria perdono sostanza (in virtù del principio di indeterminazione) ed è dunque necessario costruire un nuovo apparato che consenta invece di ottenere informazioni sull’ampiezza di probabilità, ossia sull’onda di De Broglie associata al sistema fisico. Tale onda permette di calcolare la probabilità di ottenere determinati valori di grandezze fisiche di interesse (variabili osservabili). Come discusso prima, l’onda di De Broglie – d’ora in avanti chiamata (impropriamente) funzione d’onda del sistema, è collegabile alla densità di probabilità semplicemente prendendone il modulo quadrato,
P(x)=|j(x)|2.
La probabilità di osservare il sistema nell’intervallo spaziale dx è dunque dP(x)=|j(x)|2dx. La probabilità di osservare il sistema nell’intervallo di valori della coordinata compresi fra x1 e x2 è quindi data da
,
con l’unica avvertenza di aver adottato una normalizzazione appropriata per la densità di probabilità, ossia
.
Le estensioni in spazi a 2 o 3 dimensioni è immediata. Come le equazioni di Newton e Maxwell, l’equazione che permetterà la trattazione quantistica non sarà derivabile da principi primi, ma dovrà sottostare a verifiche sperimentali, leggi di conservazione, considerazioni di simmetria e teoriche di varia natura.
Nel 1926 E. Schroedinger introduce l’equazione per l’onda di materia (che prende il suo nome). L’idea di base consiste nella sequenza di passi qui elencati:
Seguendo questi principi di riferimento, possiamo costruire l’equazione guida nel caso di una particella libera ed estendere (con generalizzazione in questa sede gratuita) l’equazione così ottenuta a casi più generali.
Per una particella libera dobbiamo ottenere un’onda di materia di tipo viaggiante e piana nella forma consueta, y(x,t)=Asin(kx-wt). Consideriamo un’istantanea al tempo t=0 (che verrà reintrodotto in seguito) e concentriamo l’attenzione sull’onda j(x)= y(x,0)=A sin(kx).
Osserviamo che
,
con T=E-U, per cui
.
Questa equazione, che è evidentemente consistente con (a) la conservazione dell’energia, (b) le richieste di linearità ed unicità del valore e (c) fornisce l’onda piana di De Broglie per la particella libera (U=0), è l’equazione di Schroedinger indipendente dal tempo in una dimensione. Non è stata “dimostrata” (né è possibile farlo), ma solo “giustificata” sulla base della logica di consistenza sopra schematizzata. Si assume inoltre che possa venire applicata quando la particella non è libera. Sarà lo studio di qualche caso rilevante a fornire conferme a posteriori della validità della procedura qui delineata. In pratica, la risoluzione dell’equazione d’onda per un problema fisico assegnato può essere così schematizzata:
,
e quello di una grandezza generica f(x) è dato da
,
dove si considerano funzioni d’onda normalizzate all’unità.
Per avere un’idea un po’ più precisa del significato e del funzionamento di questi meccanismi, consideriamo rapidamente delle semplici realizzazioni di forme di potenziale per ottenere le corrispondenti funzioni d’onda.
Particella libera in una dimensione
L’equazione di Schroedinger è
Possiamo anche scrivere
dove k2=2mE/ħ2, ossia otteniamo l’equazione differenziale per un’onda piana con periodo spaziale dato da l=h/p. La soluzione è del tipo
j(x)=a sin(kx) + b cos (kx)
con energia data da E= ħ2k2/(2m) (tutti i valori sono ammessi con continuità, a seconda della quantità di moto della particella – o del suo numero d’onda), ovvero l’energia non è quantizzata, a valori discreti. E’ possibile (e conveniente) scrivere la funzione d’onda in forma equivalente complessa,
j(x)=A e+ikx + B e-ikx,
perché in questo modo la soluzione è “naturalmente” nella forma di sovrapposizione di due onde che, in una trattazione nella quale il tempo è esplicitamente inserito (qui non è necessario vista la stazionarietà temporale dell’onda), risultano viaggianti nelle direzioni positiva (termine A) e negativa (termine B) dell’asse x. In questo primo esempio i coefficienti dell’onda (A e B) non possono venire determinati per normalizzazione, e questo è in pieno accordo con il fatto che l’onda è completamente delocalizzata spazialmente (la quantità di moto della particella è perfettamente definita in termini della lunghezza d’onda) e dunque non ha significato porsi la domanda di stabilire la probabilità di collocare spazialmente la particella.
Particella in una “scatola” di energia con pareti infinitamente alte
Questo è un caso interessante perché è facilmente visualizzabile in un’analogia classica: la particella è vincolata da “pareti” meccaniche che ne limitano completamente il moto in una dimensione. Classicamente ci aspettiamo che la particella compia moti periodici fra le due “sponde” mantenendo la velocità (energia) inizialmente assegnata. Il risultato quantistico/ondulatorio è molto differente. Consideriamo una “buca” di larghezza L nella quale l’energia potenziale è posta arbitrariamente a zero. All’esterno della buca (per x<0 ed x>L) la particella non può essere trovata: dunque la corrispondente funzione d’onda si deve annullare identicamente. Questo è confermato dal fatto che l’equazione di Schroedinger per U=¥ può essere considerata valida solo quando j=0. All’interno della buca invece la soluzione sarà ancora del tipo ottenuto prima per la particella libera,
j(x)=a sin(kx) + b cos (kx)
E=ħ2k2/(2m)= n2ħ2p2/(2mL2).
L’energia è ora quantizzata, cioè può assumere (contrariamente al caso classico) solamente valori discreti, multipli interi (non equispaziati) di una energia minima [E0= ħ2p2/(2mL2) in questo caso]. L’energia acquista un indice (n) che è detto numero quantico per l’energia stessa. La quantizzazione dell’energia è tipica di una situazione di particella vincolata da una regione di potenziale attrattivo, o comunque ad energia totale negativa, e risulta automaticamente dalla trattazione offerta dall’equazione di Schroedinger. Notiamo infine che l’energia minima di questo sistema è comunque una quantità positiva, non nulla. Questo risultato, di nuovo sorprendente dal punto di vista classico (secondo il quale la particella è collocabile in uno stato di quiete relativa ad energia totale nulla), è conseguenza diretta del principio di indeterminazione spazio-momento. E’ facile verificare questo fatto partendo dall’indeterminazione spaziale della particella, pari a L, ed ottenere che l’energia non può risultare più piccola di E0, altrimenti questo condurrebbe ad una precisione nella definizione dell’energia cinetica, dunque del momento, in disaccordo con il principio d’indeterminazione. E’ anche possibile calcolare i valori d’attesa di grandezze fisiche d’interesse per il sistema, come già spiegato, nel caso specifico. Per quanto riguarda la posizione attesa della particella è necessario calcolare l’integrale
.
Il risultato indica che la posizione media della particella è, indipendentemente dallo stato energetico, nella posizione intermedia fra le pareti.
“Buca infinita” a due dimensioni
E’ un’importante estensione del caso precedente. Ora la particella è vincolata da una barriera di energia infinita a rimanere in un piano xy (ad esempio quadrato di lato L). La soluzione dell’equazione di Schroedinger segue la stessa strategia delineata nel caso in una dimensione, anche se ora si tratta di estendere lo schema ad un problema di due variabili:
,
U(x,y)=0 per 0<x<L, 0<y<L, ¥ altrove. La soluzione di quest’equazione richiede opportune tecniche di separazione delle variabili. Il buon senso ci suggerisce comunque di ammettere che la densità di probabilità fuori dalla buca sia identicamente nulla [j(x,y)=0]. All’interno si usa come soluzione “di prova” una funzione d’onda fattorizzata, j(x,y)=f(x)g(y), dove f e g sono funzioni esattamente del tipo ottenuto nel caso in una dimensione:
f(x)=Ax sin kxx + Bx cos kxy,
g(y)=Ay sin kyy + By cos kyy,
dove i numeri d’onda kx, ky sono ora richiesti separatamente perché la soluzione di prova sia accettabile. Applicando le condizioni di continuità ai bordi, j(0,y)= j(x,0)= j(L,y)= j(x,L)=0 si ottiene ancora una situazione di stazionarietà di onde in due dimensioni (analogamente al caso della vibrazione di una membrana piana vincolata ai bordi, come la pelle di un tamburo). In corrispondenza i numeri d’onda k risultano limitati a valori multipli di interi, e l’energia è ancora quantizzata ed assegnabile in funzione di due numeri quantici. La funzione d’onda normalizzata che si ottiene è
j(x,y)=(2/L) sin (nxpx/L) sin (nypy/L)
e l’energia
E =E(nx,ny)=ħ2p2( nx2+ ny2)/(2mL2)= E0( nx2+ ny2).
Osserviamo che vi sono coppie di numeri quantici differenti (dunque differenti funzioni d’onda) che danno la stessa energia. I valori (nx,ny)=(2,1) e (nx,ny)=(1,2) danno entrambi E=5E0. Questo è un primo esempio di degenerazione quantistica. Il caso appena citato è tutto sommato accettabile in quanto le due coppie di numeri quantici corrispondono ad uno scambio degli assi
(nx,ny)=(1,7)
Oscillatore armonico
Una situazione molto comune nei modelli fisici sia classici che quantistici è basata su forze di natura elastica, per la quale il moto è di tipo oscillatorio armonico (per piccoli angoli di oscillazione). L’utilità di proporre la soluzione quantistica per questo caso è che esso costituisce un valido punto di partenza per la modellizzazione di sistemi fisici di interesse reale (per piccoli spostamenti dall’equilibrio ogni energia potenziale ha andamento quadratico, U(x)=kx2/2). La soluzione dell’equazione di Schroedinger per questo potenziale è piuttosto complessa (ha andamento regolato da polinomi e da esponenziali), ma l’energia è quantizzata ed assegnata in termini di un unico numero quantico secondo la semplice relazione
E=E(n)=(n+1/2) ħw, dove w=(k/m)1/2 e n=0,1,2,… .
La sequenza di livelli energetici (lo spettro del sistema) è ora equispaziata (cosa che non accade per la particella in una scatola di energia infinita). Notare il minimo energetico per n=0: il valore risulta ovviamente compatibile con l’indeterminazione spazio-momento di Heisenberg.
Dipendenza dal tempo della funzione d’onda
Senza entrare nel dettaglio della trattazione, ci limitiamo ad affermare che la dipendenza temporale può essere introdotta nella trattazione ondulatoria partendo dalla funzione d’onda indipendente dal tempo, j(x), moltiplicata per il fattore complesso e-iwt, dove w=E/ ħ, ovvero la frequenza w è data dalla relazione di De Broglie:
y(x,t)= j(x)e-iwt.
Così facendo è possibile giungere ad una versione dell’equazione di Schroedinger dipendente dal tempo, nella forma
.
Il fattore temporale ad esponente complesso è conveniente nella rappresentazione del verso di moto dell’onda di materia: la funzione d’onda indipendente dal tempo
j(x)=A e+ikx + B e-ikx
diventa
y(x,t)=A e+i (kx-wt) + B e-i(kx+wt),
per cui l’onda viaggiante nel verso delle x positive ha intensità v|A|2 e quella nel verso delle x negative ha intensità v’|B|2, con v=p/m= ħk/m.
Barriere di potenziale, effetto tunnel: un nuovo aspetto “anticlassico” della meccanica quantistica
Si considerano i fenomeni di interazione quantistica di una particella in una dimensione che attraversa zone ad energia variabile a gradini. Anzitutto studiamo il caso di una particella viaggiante lungo l’asse x con energia potenziale data da U(x)=0 per x<0 e U(x)=U0 per x>0. L’equazione di Schroedinger associata va studiata in due casi diversi: energia della particella maggiore e minore del “gradino” di energia potenziale, U0. Per E>U0 la funzione d’onda dev’essere di tipo oscillatorio su tutto l’intervallo di valori di x, in quanto l’equazione di Schroedinger si spezza in due possibili forme:
per x<0 (zona I),
per x>0 (zona II).
Le soluzioni corrispondenti sono
jI(x)= A e+ikx + B e-ikx (zona I) e
jII(x)=A’e+ik’x + B’ e-ik’x (zona II),
dove
.
Prima di imporre le condizioni di continuità alle funzioni, osserviamo che, se supponiamo che la particella venga lanciata verso valori crescenti di x, la soluzione nella zona II non può avere componenti viaggianti verso valori decrescenti di x, per cui B’=0. Non rimane che imporre la continuità in x=0 delle funzioni e delle loro derivate prime, jI(0)= jII(0) e [djI/dx](0)= [djII/dx] (0). Si ottiene
, .
L’interpretazione del risultato è che nella zona I si ha sovrapposizione di un’onda viaggiante verso le x positive (l’onda incidente, con coefficiente 1) e di una verso le x negative (l’onda riflessa, con coefficiente (k-k’)/ (k+k’), mentre nella zona II si ha un’onda viaggiante verso x positive (l’onda trasmessa, con coefficiente 2k/(k+k’). L’onda di materia si differenzia nelle due zone per la diversa lunghezza d’onda di De Broglie, in quanto la particella si trova in zone di differente energia cinetica. Si parla di intensità riflessa R=(v|B|2)/(v|A|2)=(k-k’)2/ (k+k’)2, e di intensità trasmessa, T=(v’|A’|2)/(v|A|2)=4kk’/(k+k’)2. Notiamo anzitutto che T+R=1 (conservazione del flusso, l’onda è suddivisa nelle parti trasmessa e riflessa senza perdite). Un effetto notevole e puramente quantistico è comunque l’esistenza dell’onda riflessa: classicamente una particella proveniente da sinistra con energia cinetica assegnata, in corrispondenza del gradino di potenziale perderà semplicemente energia cinetica (rallentamento ad opera della forza istantanea al gradino) e proseguirà nel suo moto verso destra. Non può venire riflessa. Quantisticamente invece questo è possibile: il gradino causa un effetto reale di riflessione: ancora una volta, non si deve sottovalutare la natura essenzialmente ondulatoria del sistema in questa discussione.
Ancora più disarmante è il caso per E<U0. Nella zona I la soluzione dell’equazione di Schroedinger è eguale al caso precedente, per ovvi motivi. Nella zona II l’equazione si scrive
,
e dunque la soluzione deve prevedere esponenziali reali, ossia
jII(x)=A’’ek’’x + B’’ e-k’’x, con
.
Per impedire alla funzione d’onda di divergere per x crescenti imponiamo A’’=0 ed applichiamo le condizioni di continuità in x=0. Il risultato è che nella zona I l’onda di materia è stazionaria con numero d’onda k, come previsto, senza fenomeni particolari di bilancio (la particella è riflessa dalla barriera di potenziale). Ma la soluzione per la zona II, con un esponenziale decrescente, evidenzia che la particella penetra per un tratto nella zona “proibita”. E’ proibita dalla meccanica classica (l’energia cinetica è negativa), e contravviene al principio di conservazione dell’energia. Questo fenomeno è reale (anche se è impossibile osservare la particella nella zona II) ed è consentito dal principio di indeterminazione tempo-energia: affinché la particella possa penetrare per un certo tratto nella zona ad energia cinetica negativa, essa deve “prendere in prestito” energia sufficiente (che deve in realtà creare) per superare la barriera di potenziale. Se tale “prestito” avviene entro un tempo breve tanto da soddisfare la relazione Dt~ħ/DE, l’osservatore non potrà misurare il fenomeno in contrasto con il principio di conservazione dell’energia.
Il fenomeno di penetrazione nella zona classicamente proibita è causa di una serie di fenomeni che non trovano spiegazione al di fuori dello schema quantistico. Si consideri, a tale scopo, il caso di una particella che subisce l’effetto (sempre in una dimensione) di una barriera di potenziale di larghezza ed altezza finite ed assegnate. Se l’energia della particella è minore dell’altezza della barriera, la descrizione classica prevede solamente un fenomeno di inversione del moto (riflessione totale). Dal punto di vista quantistico, il fatto che la barriera abbia larghezza finita e che la particella possa penetrare tale barriera per un piccolo tratto fa sì che vi sia probabilità non nulla di attraversamento della barriera: una particella proveniente dal lato delle x negative potrà presentarsi (con onda di materia di lunghezza invariata, nell’esempio considerato) oltre la barriera di potenziale, ossia la barriera presenta una trasmissione puramente quantistica non nulla. Il risultato può essere dimostrato con le tecniche appena illustrate. La figura riporta l’andamento dell’intensità trasmessa in funzione dell’energia della particella normalizzata a quella della barriera: è evidente che la trasmissione per E<U0 non è identicamente nulla, come non è perfettamente unitaria per E>U0: vi sono fenomeni di riflessione “sopra barriera” analoghi a quelli presentati nell’esempio del gradino di energia. Questi risultati sono alla base della comprensione (e della corretta modellizzazione) di fenomeni nucleari di decadimento (trasformazione ed emissione) di particelle, che infatti vengono rilasciate con probabilità in ottimo accordo con lo schema di attraversamento di barriera, detto effetto tunnel. Il microscopio a scansione tunnel recentemente realizzato è anche basato su questo fenomeno.
In generale dovrebbe essere ora chiaro che la forma esplicita dell’energia potenziale (come accade nel caso classico) è sufficiente a fare previsioni sull’andamento della funzione d’onda della particella. Tipicamente, si potranno avere due situazioni generali, a seconda del segno dell’energia totale del sistema. Per energie positive, ossia particella “sopra barriera/buca di potenziale”, sarà sufficiente fissare un parametro arbitrario della funzione d’onda che presenterà caratteristiche di onda viaggiante, eventualmente “sfasata” (ossia parzialmente riflessa/trasmessa) da variazioni dell’energia potenziale, con possibili effetti di penetrazione quantistica in corrispondenza dei punti di inversione classica del moto. L’energia della particella non è quantizzata. Per energie negative, ossia “nella buca di potenziale”, l’equazione di Schroedinger obbliga a fissare due parametri, il che equivale a vincolare l’energia a valori discreti. Essa è dunque quantizzata.
Il formalismo della meccanica quantistica è stato sviluppato (da Schroedinger ed Heinsenberg) in dettaglio e seguendo regole e principi solidi e che vanno oltre le semplici considerazioni qui discusse e che sono infatti affrontate e discusse nelle altre parti di questo corso. Vale almeno la pena citare che l’equazione di Schroedinger nella forma canonica viene scritta Hj=Ej, dove H è l’operatore hamiltoniano definito in uno spazio di Hilbert di funzioni d’onda j. Nei casi sopra considerati H si riconduce alla forma -ħ2/(2m)(d2/dx2)+U(x). L’equazione conduce ad autovalori (osservabili, necessariamente reali e dunque gli operatori devono essere hermitiani) con autovettori (rappresentazione degli stati fisici del sistema). Per la dipendenza dal tempo è possibile estendere la trattazione includendo fenomeni di transizione (ad esempio radiative, ossia con scambi di fotoni), nelle quali il sistema non è stazionario, ossia evolve nel tempo. E’ possibile calcolare esplicitamente le probabilità di evoluzione di questi fenomeni.
L’atomo di idrogeno nella meccanica ondulatoria
Siamo ora attrezzati a sufficienza per affrontare, almeno a grandi linee, la “risposta ondulatoria” al modello di Bohr dell’atomo di idrogeno. Si tratta applicare l’equazione di Schroedinger al sistema elettrone/protone e di ottenere energie e funzioni d’onda. Ci si aspetta, viste le premesse, una descrizione “delocalizzata” dei moti elettronici, visto che ora possiamo ottenere solo distribuzioni di probabilità. Vedremo anche che la meccanica quantistica (in realtà solamente quella relativistica) propone una descrizione efficace di strutture “fini” dello spettro atomico non accessibili al modello ad orbite stazionarie di Bohr.
L’equazione di Schroedinger per l’idrogeno atomico fa uso dell’energia potenziale centrale di Coulomb, U(r)=-e2/(4pe0r2). La derivata seconda rispetto le coordinate cartesiane che realizza l’energia cinetica nell’equazione di Schroedinger è di fatto un laplaciano,
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che, in coordinate sferiche (le più appropriate per questo studio) conduce alla seguente forma dell’equazione di Schroedinger per la funzione d’onda j=j(r,q,f):
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Si applica la separabilità di j(r,q,f)= R(r)Q(q)F(f) nelle parti radiale, R(r), polare, Q(q), ed azimutale, F(f). La soluzione dell’equazione conduce ad una dipendenza da 3 numeri quantici per la classificazione completa del sistema. Tali numeri, detti principale (o radiale) n, di momento angolare orbitale l e magnetico ml, vengono associati alle funzioni d’onda secondo la scrittura jn,l,ml(r,q,f)= Rnl(r)Qlml(q)Fml(f) e con regole di “conteggio” date da n=1,2,3, …, l=0,1,2, … , n-1, ml=0,±1,±2, … ,±l. L’energia risulta dipendere (in prima approssimazione) soltanto dal numero quantico principale o radiale, n e risulta eguale a quella ottenuta nel modello di Bohr,
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In base a questi risultati, osserviamo che ciascun livello energetico discreto è fissato da n ed è n2 volte degenere. Tale degenerazione è importante per vari motivi. Anzitutto, modelli più sofisticati in parte rimuovono la degenerazione in certi livelli. Campi esterni (elettrici o magnetici) sono anche in grado di rimuovere la degenerazione dando così rilievo fisico specifico ad altri numeri quantici oltre ad n. Il fatto che la degenerazione sia elevata non impedisce comunque una grande differenziazione fra stati del sistema nonché, in una trattazione in grado di apprezzare accoppiamenti specifici, diversi stati degeneri conducono a linee spettrali di intensità molto differenziate (o addirittura all’assenza di talune transizioni).
La differenza fondamentale fra modello atomico di Bohr e la trattazione quantistica è, come più volte ripetuto, da rinvenirsi nella descrizione probabilistica della collocazione degli elettroni attorno al nucleo (si parla, specie in testi di chimica-fisica, di orbitali atomici per differenziare il concetto di orbita – traiettoria classica – da quello di onda di materia delocalizzata). Lo studio dettagliato dell’equazione di Schroedinger permette di ottenere le forme esatte delle funzioni d’onda. In particolare, un primo aspetto importante è la distribuzione radiale di probabilità, ossia indipendentemente dai valori degli angoli sferici (o, se si preferisce, si considera l’andamento dell’ampiezza di probabilità percorrendo gusci sferici di raggio variabile a partire dal centro di massa del sistema). Tale densità risulta pari a P(r)=r2|Rnl(r)|2 (le densità angolari sono integrate e normalizzate all’unità). Le funzioni radiali per i primi stati elettronici sono calcolate e risultano date da
A fianco sono riprodotte le corrispondenti densità di probabilità. Si osserva, in particolare, che lo stato n=1 è più localizzato in vicinità dell’origine (il nucleo) degli stati con n=2, come ci si aspetta dalla descrizione di Bohr per questa situazione. I due stati con n=2 hanno diversi valori di l, ma questo non modifica molto la loro localizzazione spaziale. Esistono invece differenze peculiari per quanto riguarda il dettaglio delle distribuzioni spaziali di tali stati con n=2: lo stato con l=0 presenta un piccolo massimo relativamente vicino al nucleo che lo stato con l=1 non possiede. Questa caratteristica può essere compresa solamente studiando il significato fisico del numero quantico di momento angolare orbitale (e di quello “magnetico”, ml).
Partiamo dall’analogo classico di orbite chiuse in campi di forze centrali, cioè ellissi di diversa eccentricità. L’energia della particella può essere fissata, mentre al variare dell’eccentricità varia il momento angolare. Più l’elisse è schiacciata, minore è il momento angolare del sistema, e viceversa. Un’elisse pronunciata presenta variazioni relative di distanza radiale altrettanto nette, che tendono ad annullarsi per orbite via via più circolari. Dunque in meccanica classica esiste corrispondenza fra piccoli valori del momento angolare e l’esistenza di due posizioni distinte di massimo e minimo avvicinamento radiale (afelio e perielio). La versione quantistica, seppure sostanzialmente differente da molti punti di vista, presenta delle corrispondenze almeno in questo senso e ciò giustifica le differenze fra le due densità radiali per n=2. La trattazione completa del momento angolare in meccanica quantistica prevede un nuovo aspetto – ancora una volta che esula dagli schemi classici – noto come quantizzazione spaziale. Il momento angolare è quantizzato, non come aveva ipotizzato Bohr (L=nħ), bensì secondo uno schema di proiezione discreta: il suo modulo vale
L=[l(l+1)]1/2ħ,
e dunque, per n assegnato, L assume i valori corrispondenti a l=0,1,2,…, n-1. Il vettore momento angolare ha proiezione sull’asse z quantizzata secondo la
Lz=mlħ, ml=0,±1,±2,….±l,
per cui il vettore L si proietta sull’asse z secondo un numero finito di angoli, secondo la
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l=2
ml=-2
ml=-1
ml=+2
ml=+1
ml=0
z
DLzDf~ħ.
Si può raffigurare la situazione in termini della rapida precessione di Lz attorno all’asse il cui angolo azimutale è f; essendo DLz=0 (pur con z arbitrariamente scelto), Lx e Ly non possono venire specificati con precisione (Df=¥). Questo spiega anche il motivo per il quale L non può essere “massimo”, ossia pari a lħ: se così fosse si avrebbe L orientato lungo z e Lx, Ly=0, il che non è permesso dall’indeterminazione spaziale.
A questo punto è possibile dare valenza fisica appropriata ai due nuovi numeri quantici (a parte l’aggettivo “magnetico” dato a ml, che verrà spiegato fra poco). E’ dunque conveniente cercare una rappresentazione efficace della distribuzione tridimensionale della densità di probabilità elettronica, ossia combinando la densità radiale già considerata con quella angolare, data da P(q,f)=|Ql,ml(q)|2|Fml(f)|2. Si osservano i seguenti fatti: (a) la simmetria della distribuzione è sempre cilindrica, ossia l’angolo azimutale non modifica la distribuzione stessa (in accordo con la precedente osservazione sulla quantizzazione spaziale che richiede un comportamento “precessionale” dell’elettrone attorno all’asse di quantizzazione scelto); (b) per l=0 la distribuzione ha simmetria sferica (sparisce anche la dipendenza dall’angolo polare q); (c) per l non nullo si hanno più gruppi di distribuzioni con caratteristiche simili : quando, ad esempio, l=1 si distingue la funzione d’onda con ml=0 – distribuita prevalentemente attorno all’asse z, in quanto l’elettrone ha momento orbitale nel piano xy – da quella con ml=1 – distribuita nel piano xy, in quanto l’elettrone ha momento (classico) parallelo all’asse. Le figure riportate illustrano queste idee e descrivono distribuzioni di probabilità estremamente importanti per la comprensione di situazioni più complesse, nelle quali si deve tenere conto di molti elettroni interagenti o di più atomi che si combinano per formare molecole. E’ infine possibile (e probabilmente utile, almeno nelle applicazioni numeriche) scrivere la relazione “esatta” che assegna la funzione d’onda dell’atomo idrogenoide termini espliciti dei numeri quantici n, l, e ml:
Questa relazione, dall’apparenza poco rassicurante, è però in sostanza riconducibile a semplici somme di funzioni razionali e trigonometriche. Si può calcolare esplicitamente avendo a disposizione, è ovvio, un computer programmato appositamente. In questa espressione, oltre ai numeri quantici, appaiono le variabili spaziali (in coordinate sferiche) e le grandezze fisiche Z (numero elettronico) ed a0 (raggio di Bohr, già descritto in precedenza). La proiezione del numero di spin, descritto nel paragrafo seguente, non modifica la funzione d’onda spaziale.
Momento angolare intrinseco elettronico (spin)
E’ possibile osservare sperimentalmente la quantizzazione spaziale applicando all’atomo un campo magnetico esterno non uniforme spazialmente. Nel 1921, Stern e Gerlach idearono un apparato in grado di operare in questo senso, e di evidenziare in laboratorio che il momento angolare orbitale degli elettroni segue le leggi di quantizzazione spaziale prima discusse. La sostanza dell’esperimento è quella di osservare le differenti componenti quantizzate di L basandosi sul fatto che l’elettrone, in quanto carica elettrica in moto, genera una corrente e dunque è riconducibile ad un momento magnetico, direttamente proporzionale al momento angolare orbitale. In quanto tale, è soggetto all’effetto di un campo magnetico esterno, secondo un’interazione scalare collegata semplicemente al valore del numero quantico ml (da qui l’aggettivo “magnetico”). Per elettroni con l=0, non ci si dovrebbe aspettare nessun effetto di quantizzazione spaziale, mentre con elettroni con l¹0 il campo magnetico dovrebbe evidenziare 2l+1 sottostati dovuti ai differenti valori di ml per quel dato l (in pratica, un fascio di atomi viene iniettato in un magnete che genera un campo non omogeneo e che separa gli atomi con elettroni quantizzati secondo ml in modo differente: su uno schermo si osserveranno tante “macchie” quanti sono i gruppi di atomi in un dato stato elettronico designato da ml). Quello che si osserva è molto differente: le “macchie”, ossia gli stati magnetici selezionati, sono raddoppiati, incluso lo stato con l=0, al quale dunque sono associati due stati distinti. Questo viene spiegato con l’introduzione di una nuova “coordinata” elettronica, il suo momento angolare intrinseco o di spin (analogo al moto di rotazione della terra attorno a se stessa, mentre il moto attorno al sole genera il momento orbitale. Attenzione, molta attenzione però a non insistere con questa analogia. E’ potenzialmente pericolosa, se poi si cercano conseguenze profonde o applicazioni più complesse basate sull’idea di spin. Basta pensare: come si fa ad assegnare ad una particella “puntiforme” un moto proprio di rotazione attorno al proprio asse?). Questo momento angolare (di origine quindi in realtà puramente quantistico-relativistica e confermato teoricamente da P. Dirac nel 1926), per potere spiegare l’effetto Stern-Gerlach, deve avere numero quantico fissato, pari a s=1/2. In questo modo, la quantizzazione spaziale richiede componenti lungo l’asse z date da ms=±1/2. Lo stato elettronico completo nell’atomo di idrogeno è dunque assegnato in base ai quattro numeri quantici (n,l,ml,ms). La notazione tecnica prevede di indicare, oltre al numero quantico principale n, quello orbitale secondo la convenzione l=0 ® stato s, l=1 ® stato p, l=2 ® stato d, l=3 ® stato f, l=4 ® stato g, … .
A questo punto siamo in grado di affrontare il passo successivo nella modellizzazione dei sistemi atomici: ciò che non era consentito nell’ambito dell’atomo di Bohr, ossia lo studio di elementi con più di un elettrone (dall’atomo di elio in poi), deve essere accessibile utilizzando gli strumenti messi a disposizione dalla fisica dei quanti. La tabella “periodica” degli elementi chimici, ossia la loro organizzazione secondo proprietà fisiche e chimiche in regolare variazione, può e deve essere spiegata in base ad una similare regolarità nella struttura interna degli atomi.
Atomi a più elettroni: verso il sistema periodico degli elementi chimici tramite il principio di Pauli
La trattazione basata sull’equazione di Schroedinger per gli atomi idrogenoidi (con un elettrone) non è esportabile a sistemi più complessi, atomi contenenti due o più elettroni. Di fatto, la meccanica quantistica non permette la soluzione esatta di problemi fisici con più di due corpi interagenti. E’ necessario adottare tecniche di tipo approssimato che comunque conducono a modelli estremamente precisi ed in eccellente accordo con i dati osservati sperimentalmente. Fra queste tecniche vanno citati gli approcci di tipo “variazionale” e “perturbativo”. Nei primi, si richiede che l’operatore Hamiltoniano conduca ad una situazione di minima energia del sistema fisico. A tale scopo, si adottano funzioni d’onda “di prova” che contengono uno o più parametri variabili a piacimento. La soluzione viene fissata dai valori dei parametri che minimizzano l’energia del sistema. Nei metodi perturbativi, il problema è tale da permettere una trattazione in termini di un modello “esatto”, di riferimento, al quale viene applicata una perturbazione, un piccolo termine di interazione, che descrive più correttamente la situazione realistica. Tecniche matematiche opportune permettono di ottenere la soluzione “perturbata” a partire da quella “di riferimento” (nota) in termini di espressioni semplici e convenienti. In ogni caso, l’applicazione di tecniche approssimate in meccanica quantistica richiede la conoscenza dei fenomeni alla base del comportamento ondulatorio dei sistemi a molti corpi considerati. Nel caso di atomi con due o più elettroni, la sola interazione elettrostatica fra le varie cariche atomiche non è sufficiente a descrivere il comportamento del sistema. Si potrebbe infatti pensare, ad esempio per l’atomo di elio neutro (due elettroni e due protoni, più due neutroni nel nucleo), che il sistema si comporti secondo una semplice estensione del modello idrogenoide: il secondo elettrone subisce l’attrazione da parte dei protoni nucleari secondo un’interazione coulombiana schermata dalla presenza del primo elettrone. Un bilancio grezzo di carica ci conduce a considerare che il secondo elettrone “sente” una carica positiva efficace data da Zeff=Z-1=1. E’ pur vero che i due elettroni si respingono, e questo fa sì che lo spettro energetico del primo elettrone viene distorto rispetto lo schema idrogenoide iniziale. In certa misura, ci aspettiamo comunque che, secondo questo ragionamento, l’atomo di elio debba avere uno spettro simile alla “somma” di due spettri idrogenoidi, il primo con Z=2, il secondo con Z=1. Entrambe gli elettroni devono stare nello stato fondamentale 1s, e questo deve valere anche per elementi con numero elettronico (atomico) via via crescente. Ragionando in questo modo ci si aspetta che le proprietà dei vari elementi cambino in modo molto graduale al variare del numero atomico. La situazione in natura è completamente diversa. Se si prende, ad esempio, l’atomo di fluoro (Z=9) e quello di neon (Z=10), nonostante essi differiscano solo (oltre che nella massa) di un elettrone, le loro proprietà chimiche sono radicalmente diverse. Il fluoro è uno degli elementi naturali più reattivi, il neon è pressoché inerte. Altre nette differenze fra elementi vicini nel numero atomico sono sistematicamente osservate, ed è dunque necessario chiamare in causa altre spiegazioni per queste differenze.
La soluzione è proposta da W. Pauli nel 1925, secondo il principio che prende il suo nome e che dice “in un singolo atomo non possono esistere due elettroni che occupino lo stesso stato”. Tradotto in termini che ricalcano la trattazione quantistica, il princpio afferma che due elettroni qualunque nello stesso sistema fisico devono possedere diversi numeri quantici. Per l’atomo di elio, i due elettroni con più bassa energia possono stare nel livello “fondamentale” (1s) purché differiscano (almeno) nel numero quantico della proiezione di spin. Richiamando la notazione precedentemente introdotta per i livelli idrogenoidi, (nlmlms), gli elettroni sono etichettati dai numeri quantici (100+1/2) e (100-1/2). Notiamo che per entrambe gli elettroni i numeri quantici principale, n ed angolare, l, sono gli stessi. Anche la proiezione del momento angolare (ml) è conseguentemente la stessa (essendo l=0 deve essere ml=0). Resta la proiezione dello spin, che può assumere solo i valori +1/2 e -1/2. Per il principio di Pauli, i due elettroni si “sistemano” con proiezioni di spin differenti. E’ anche consuetudine affermare (con intenti più che altro figurativi) che i due elettroni nello stato fondamentale dell’atomo di elio sono con “spin su” e “spin giù”, o con spin opposto, e che non possono avere spin paralleli. In realtà, il sunnominato principio dovrebbe essere visto come conseguenza particolare (nel caso di un modello a particelle indipendenti) di una richiesta “naturale” di valore assolutamente generale, secondo la quale la funzione d’onda totale di un sistema di elettroni deve risultare antisimmetrica (cambiare segno) rispetto lo scambio di qualsiasi coppia di elettroni (incidentalmente, questa richiesta equivale a poter scrivere per un sistema siffatto una funzione d’onda in termini di un determinante di una matrice). La trattazione rigorosa dell’atomo di elio è usualmente basata sul trattamento variazionale di una funzione d’onda data da
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In questa espressione, gli indici 1 e 2 indicano i due elettroni (rigorosamente indistinguibili perché quantisticamente eguali), mentre le etichette a e b si riferiscono agli stati occupati dagli elettroni stessi nell’atomo (incluso lo spin). Se la parte “orbitale” della funzione d’onda è simmetrica, quella di spin deve essere antisimmetrica e viceversa. L’atomo di elio esiste dunque in due “varietà”, note come ortoelio e paraelio.
Questo ragionamento va esteso agli elementi con Z via via più grande. Il terzo elemento è il litio, Z=3. I primi due elettroni si assestano come nell’atomo di elio. Per aggiungere il terzo elettrone, dobbiamo necessariamente cambiare un nuovo numero quantico. La scelta iniziale n=1non permette altri numeri quantici (si ricordi che l=n-1, n-2, … , 0). E’ dunque necessario scegliere n=2, per cui si ha l=0,1. Sperimentalmente, il livello a più bassa energia è l=0, per cui il terzo elettrone si sistema nel livello 2s, ossia con numeri quantici (200+1/2) oppure (200-1/2). Il berillio, Z=4, sarà tale da richiedere un quarto elettrone che ancora “trova spazio” nello stato 2s, ma con spin “opposto” rispetto quello del terzo elettrone. Dunque i quattro elettroni del berillio sono etichettati da (100+1/2), (100-1/2), (200+1/2), (200-1/2). Passando al boro (Z=5), si deve ancora applicare il principio di Pauli: il quinto elettrone non può occupare lo stato n,l=2,0 (già occupato dai precedenti due elettroni), per cui si dispone nel successivo livello (in energia), con n,l=2,1, livello 2p. I successivi elementi (Z=6,7,8,9,10) possono continuare a disporsi in questo gruppo di livelli, in quanto è ora possibile, per l=1, considerare tre livelli che differiscono per il numero quantico ml. Per l=1 si ha infatti ml=+1,0,-1, e per ciascuno di questi livelli è necessario considerare coppie di valori di ms=+1/2, -1/2. Gli elettroni da Z=5 a Z=10 sono etichettati dunque come (21+1+1/2), (21+1-1/2), (210+1/2), (210-1/2), (21-1+1/2), (21-1-1/2).
Prima di procedere con argomentazioni ancora più specifiche, notiamo fin d’ora che, ad esempio, gli atomi “vicini” berillio (Z=4) e boro (Z=5) sono in realtà molto differenti in termini di struttura elettronica: il primo ha elettroni in stati a momento angolare nullo, il secondo, oltre a questi, ha un elettrone anche in uno stato a momento angolare non nullo. Questo condurrà a differenti proprietà chimiche fra i due elementi.
La classificazione elettronica degli elementi naturali prevede l’organizzazione quantitativa delle energie dei vari livelli occupati dagli elettroni (si parla di aufbau elettronico). Questa viene effettuata (oltre che con tecniche numeriche di risoluzione dell’equazione di Schroedinger) tenendo conto di determinate regolarità nella successione dei livelli idrogenoidi. Si ricordi, dalla trattazione precedente, che l’ordinamento in energia dipende solamente dai numeri quantici n ed l. In assenza di campi esterni, livelli con diversi valori di ml ed ms sono degeneri. La differente distribuzione spaziale degli elettroni per diversi valori del momento angolare rende conto di una progressione specifica delle energie così riassumibile: gli stati 2s e 2p sono ordinati per energia decrescente (cioè un elettrone 2s è più legato di un elettrone 2p) in quanto, pur essendo n lo stesso per entrambi, l’elettrone 2s ha probabilità di trovarsi più vicino al nucleo dell’elettrone 2p, e dunque sente meno la schermatura degli altri elettroni. Lo stesso discorso vale per elettroni 3s e 3p. L’effetto penetrazione si manifesta ancora più vistosamente quando si confrontano questi due ultimi livelli con elettroni 3d: per questi la probabilità di trovarsi vicini al nucleo è molto bassa, a tal punto che i livelli 3d si trovano vicini ai successivi 4s e 4p. Una regola molto semplice per costruire la corretta sequenza dei livelli consiste nel seguire l’ordinamento n+l, e, per n+l fissato, prendendo prima i valori maggiori di l. Si ottiene dunque la sequenza: nl[n+l]=10[1], 20[2], 21[3], 30[3], 31[4], 40[4], 32[5], 41[5], 50[5], 42[6], 51[6], 60[6], 43[7], 52[7], 61[7], 70[7], corrispondenti ai livelli 1s, 2s, 2p, 3s, 3p, 4s, 3d, 4p, 5s, 4d, 5p, 6s, 4f, 5d, 6p, 7s … . La nomenclatura prevede la definizione di “gusci” elettronici (shell), associati a determinati valori di n (distanza media dal nucleo assegnata). Per n=1 si ha il guscio K, per n=2il guscio L e così via. I livelli con un dato valore di n ed l assegnati costruiscono un “sottoguscio” elettronico (subshell). In ogni sottoguscio vi possono stare, per il principio di Pauli, al più 2(2l+1) elettroni (notare il fattore 2 associato alla proiezione di spin e quello associato alla proiezione del momento angolare, 2l+1).
E’ molto importante infine ricordare che l’aufbau qui presentato vale solamente per gli elettroni esterni (di valenza): l’ordinamento energetico di gusci interni può essere molto diverso, e va considerato in funzione del particolare elemento in esame.
Costruzione della tabella periodica
L’applicazione sistematica del principio di esclusione e l’assunzione che i livelli disponibili vengono occupati da elettroni alla minima energia possibile permettono la costruzione di una tabella periodica degli elementi, ossia un’ordinamento delle specie atomiche che da un lato rispecchia i risultati di questi due principi teorici della meccanica quantistica e dall’altro raggruppa gli elementi rispettandone le affinità (o le differenze) di comportamento fisico e chimico. E’ fatto noto e rilevante, infatti, che tale tabella fu compilata prima della nascita dei modelli atomici della materia. La notazione per le “configurazioni elettroniche” (i livelli elettronici occupati per una data specie atomica) rispecchia strettamente quella già introdotta e prevede di indicare l’occupazione dei sottogusci rispettando l’aufbau prima discusso. In particolare, si indica con nla la configurazione con a elettroni nel sottoguscio nl. L’idrogeno ha configurazione 1s1, l’elio 1s2, il litio 1s22s1 oppure [He]2s1, in quanto questo elemento ha due elettroni che completano la configurazione dell’atomo di elio ed un elettrone aggiuntivo con configurazione 2s1. Ad esempio, il sodio (Z=11) ha configurazione [Ne]3s1, ossia 10 elettroni a completare i sottogusci del neon (Z=10) ed un elettrone aggiuntivo nel sottoguscio 3s.
La tabella periodica è suddivisa in gruppi (colonne) e periodi (righe). Elementi appartenenti allo stesso gruppo presentano simili proprietà chimiche, mentre i periodi, ordinati secondo la massa atomica dell’elemento, ripercorrono la sequenza di riempimento dei livelli elettronici. Nel primo periodo (H e He) si riempiono i livelli 1s, nel secondo periodo si hanno le due sequenze (Li , Be e Z da 5 a 10) associate rispettivamente ai livelli 2s e 2p. Nel terzo periodo vengono riempiti i sottogusci 3s e 3p. Nel quarto periodo si osservano i sottogusci 4s (Z=19,20), 3d (Z=21, …, 30) e 4p (Z=31, …, 36), e così via. Si noti che a partire dal sesto periodo la tabella prevede, dopo il sottoguscio 6s (Cs e Ba), la serie di elementi detti lantadini (terre rare) associati al riempimento del sottoguscio 4f (14 elementi, infatti), seguito dal sottoguscio 5d (10 elementi, Z=71, …, 80) ed infine dal sottoguscio 6p (6 elementi, Z=81, …, 86). Stesso discorso per gli elementi del settimo periodo. Gli elementi in un periodo sono messi in corrispondenza con elementi nei periodi precedenti o seguenti appartenenti allo stesso gruppo per affinità chimica. Così all’elemento potassio (Z=19, alcalino del IV periodo) si associano litio, sodio, rubidio, … (Z=3, 11, 37 …). Tutti questi elementi (alcalini) sono caratterizzati dalla configurazione elettronica [X]ns1, ossia hanno un elettrone singolo nel sottoguscio ns ed i rimanenti elettroni completano i sottogusci associabili agli elementi inerti, X, del periodo precedente. Gli elementi associati ai sottogusci nd (3d, 4d, …) sono detti metalli di transizione ed occupano un gruppo a parte, con caratteristiche fisico-chimiche a loro proprie. Le terre rare (sottogusci nf ) sono ancora una volta famiglia a sé stante per gli stessi motivi.
Proprietà degli elementi e regolarità nella tabella periodica
La regolarità ottenuta con il metodo di riempimento dei livelli elettronici, ovvero in base alle proprietà fisico-chimiche basate sulla classificazione di Mendeleev (1859), sono visualizzabili in vario modo. Di seguito si considerano alcuni fra i molti parametri che evidenziano detta regolarità. Deve risultare chiaro che non c’è nulla di “magico” nella costruzione della tabella e delle proprietà chimiche e fisiche associate ai vari elementi: queste ultime sono sempre il risultato di una particolare configurazione elettronica, l’unica responsabile (almeno per gli atomi isolati, come in un gas rarefatto, ma spesso anche in stati di materia condensata) del comportamento della specie atomica. In generale, vale il fatto che i sottogusci elettronici riempiti sono stabili (non cedono né acquistano facilmente elettroni). Parimenti, sottogusci con pochi elettroni sono più propensi a cederne a specie con pochi elettroni mancanti al completamento del sottoguscio. Ciò sarà alla base di molti meccanismi di formazione di legami chimici fra elementi diversi. Inoltre, nella maggior parte dei fenomeni di interesse chimico-fisico, sono gli elettroni esterni (di valenza) a dettare legge, mentre i sottogusci interni non giocano un ruolo interessante.
Nel caso del raggio atomico (calcolato), osserviamo una regolarità lungo i vari gruppi (il raggio aumenta con la massa della specie) mentre, in un dato periodo, all’aumentare del numero atomico il raggio diminuisce, ciò denotando un più efficace “impacchettamento” degli elettroni al crescere di Z. E’ importante comunque sottolineare che il raggio atomico è una proprietà di difficile definizione, in quanto la specie non si presenta quasi mai isolata ma in legame con altre specie o in strutture solide o liquide, per cui le dimensioni effettive dell’atomo possono risultare molto diverse da quelle calcolate sulla base di modelli atomici isolati, non interagenti.
Si può poi considerare l’energia richiesta per strappare un elettrone all’atomo singolo, detta energia di (prima) ionizzazione. Si possono ovviamente considerare energie di successiva (seconda, terza, …) ionizzazione per atomi con sufficienti elettroni. L’atomo di idrogeno ha solo energia di I ionizzazione (13.6 eV), mentre quello di elio ha energie di I ionizzazione (24.6 eV) e di II ionizzazione (54.4 eV, che corrisponde alla I ionizzazione dell’idrogenoide – singolo elettrone – con Z=2). Dalla tabella associata è evidente la sequenza regolare secondo la quale gli atomi più stabili per ionizzazione sono i gas rari (inerti) del periodo 18, mentre quelli più facilmente ionizzabili sono gli alcalini, gruppo 1, seguiti dalle terre alcaline, gruppo 2.
Si osservano regolarità di tipo “chimico”, come (ad esempio) la temperatura di ebollizione (i gas inerti vanno in ebollizione a temperature molto basse, in quanto sono monoatomici per la loro elevata inerzia chimica), di tipo elettrico (conducibilità, dielettricità, suscettività magnetica …), tutte riconducibili alla disposizione “strategica” nella tabella periodica ed al suo significato diretto in termini di configurazione elettronica. La conducibilità termica che, come vedremo, è legata a quella elettrica e dunque ai meccanismi di trasporto di energia nel mezzo tramite portatori di carica, presenta vistose variazioni in corrispondenza dei metalli di transizione rame (Cu), argento (Ag) ed oro (Au). Ciò è dovuto ad una particolare configurazione elettronica di questi tre elementi, nella quale, per soddisfare alla minimizzazione di energia totale, invece della configurazione ns2(n-1)d9 che competerebbe a questo gruppo, l’elemento preferisce la configurazione ns1(n-1)d10, per cui rimane un elettrone ns piuttosto libero di condurre elettricità (ed energia termica) nel sistema.
Fra le caratteristiche proprie dei vari sottogruppi osserviamo:
Spettroscopia X e spettroscopia ottica
Ci interessiamo alla possibilità di collegare in modo quantitativo determinate caratteristiche sistematicamente presentate dalla tabella periodica degli elementi con un’analisi basata su modelli microscopici. Ancora una volta, i metodi di indagine spettroscopica forniscono la risposta adeguata a questo problema. In precedenza è stato trattato l’argomento relativo alla produzione di fotoni energetici (raggi X, lunghezze d’onda da 0.01 a 10 nm, energie da 100 keV a 100eV) con processi di frenamento di elettroni nella materia (bremsstrahlung). Consideriamo ora la produzione di radiazione X tramite transizioni elettroniche (discrete) in atomi singoli. Si tratta di utilizzare gli elettroni di sottogusci interni, legati all’atomo appunto con energie nell’intervallo che arriva a decine di migliaia di eV. Se viene eliminato un elettrone interno (ad esempio nel guscio K, n=1), il livello reso disponibile può essere occupato da un elettrone di un livello superiore ottenendo l’emissione dell’energia corrispondente alla transizione sottoforma di un fotone X. E’ dunque necessario bombardare l’atomo con energia sufficiente a strappare elettroni interni (legami dell’ordine dei keV). Lo spettro che si ottiene, oltre ad un background continuo (radiazione di bremsstrahlung) presenterà dei picchi definiti in energia ed associati all’emissione X discreta. La spettroscopia X richiede la classificazione delle transizione osservate in base a due aspetti: il guscio reso disponibile tramite bombardamento dell’atomo bersaglio (il livello di arrivo) ed il livello di partenza. A seconda del guscio di arrivo (n=1,2, …) si parlerà di serie K, L, M, … . A seconda del (sotto)guscio di partenza si parlerà di serie Ka, Kb, … La, Lb, … Ma, Mb, … e così via. L’importanza storica (e non solo) di questo metodo di indagine consiste nella possibilità di ricavare indirettamente il numero atomico dell’atomo emettitore a partire dalle frequenza osservate della radiazione X. Consideriamo infatti che, per una transizione sul guscio K, nel livello 1s, dove si libera uno stato per emissione di un elettrone 1s, la carica efficace del nucleo passa da Z-2 a Z-1. Questa è la carica sentita dall’elettrone che, da un guscio superiore, transisce per giungere ad occupare il guscio K. In prima approssimazione, utilizzando la relazione di Bohr per l’atomo di idrogeno, possiamo prevedere che la frequenza risulterà proporzionale al quadrato della carica efficace. Un grafico della radice quadrata delle frequenze osservate in vari elementi per le serie K di raggi X dovrà dunque avere andamento lineare in Z. Questo permette, oltre alla determinazione di Z, anche l’individuazione di regolarità o anomalie (elementi mancanti) nella sequenza della tabella. Proprio in questo senso Moseley operò all’inizio del 1900 per consolidare la nuova teoria atomica che stava nascendo ed affermandosi.
Come già discusso parlando di atomi idrogenoidi, lo strumento di indagine per eccellenza nella fisica atomica è la spettroscopia. Il suo utilizzo per atomi a più elettroni richiede ovviamente l’applicazione degli schemi di classificazione e collocazione dei livelli energetici discussi in questo capitolo. L’idea di fondo resta comunque immutata, in quanto si tratta pur sempre di considerare gli elettroni esterni, meno legati, per i quali l’energia di legame è dell’ordine degli eV, e dunque associata a transizioni nel visibile. Gli elettroni interni, responsabili delle transizioni X, non giocano ruoli particolarmente rilevanti in questa situazione. Lo studio delle transizioni ottiche per atomi alcalini è riconducibile anche quantitativamente, almeno in prima approssimazione, ai risultati ottenuti per gli atomi idrogenoidi, in quanto la configurazione ns1 conduce ad un unico elettrone nel campo elettrostatico di una carica Ze schermata da (Z-1) elettroni interni. Vale la regola di selezione per il momento angolare già chiamata in causa per l’idrogeno, ossia Dl=±1. Nel disegno sono riportati gli spettri semplificati per le transizioni nel visibile di litio e sodio, assieme ai livelli dell’atomo di idrogeno. Si nota la somiglianza di questi livelli, ma anche la struttura più complessa degli atomi alcalini (e dunque uno spettro corrispondentemente più ricco). Molti fenomeni della spettroscopia sia visibile che non (fluorescenza ultravioletta, ad esempio) sono immediatamente spiegati adottando lo schema ed il modello dei livelli elettronici qui presentato.
Li
Consideriamo ad esempio l’atomo di carbonio, Z=6, configurazione 1s22s22p2. I due momenti angolari (l=1) si combinano secondo lo schema sopra spiegato per dare il momento angolare totale L=0,1,2. Lo spin totale è (sempre, per due elettroni) dato da S=0,1. In linea di principio, queste (3´2=6) configurazioni di momento angolare totale distinto sono tutte permesse e corrispondono a 36 configurazioni diverse per i due elettroni: per ogni L vi sono 2L+1 proiezioni (in totale 1+3+5=9) e per quanto riguarda lo spin le possibilità sono 4 (il singoletto, S=0, ed il tripletto, S=1). In realtà, tenendo conto del principio di Pauli, non tutte le configurazioni sono permesse. Ad esempio lo stato L=2 è dato necessariamente da stati con proiezioni dei momenti angolari entrambe eguali a 2. Dunque la componente di spin dei due elettroni non può essere la stessa, cosa che accade quando S=1. Quest’ultima configurazione è dunque proibita, e per L=2 c’è solo S=0.
Resta inoltre da stabilire, fra i vari stati accessibili, quale sia il candidato a fondamentale in energia (il più basso). Questo può venire stabilito con la regola dovuta a Hund: si trova prima la massima proiezione del momento di spin compatibile con il sistema (in altre parole, si cercano di “allineare” gli spin di tutti gli elettroni nei vari orbitali), e si prende S eguale a questo valore. Per il dato MS poi si prende la massima proiezione del momento angolare compatibile con il principio di esclusione di Pauli. Il valore di L da scegliere è proprio dato da questa proiezione massima. Nel caso del carbonio, ad esempio, il valore massimo di componente di spin è necessariamente dato da +1/2+1/2=1 (vi sono tre orbitali 2p disponibili). Dunque S=1. Per questa scelta, troviamo il massimo valore di proiezione di momento angolare. Per ciascun elettrone il valore massimo è +1. Siccome già gli spin sono allineati, uno dei due elettroni deve avere un altro numero quantico (la proiezione del momento angolare) diverso. Il primo disponibile è 0, per cui ML=1+0=1 e si sceglie L=1. Il fondamentale del carbonio è dunque dato da L, S=1,1.
He
Gli approfondimenti potrebbero proseguire senza fine, spaziando dalla spettroscopia elettronica agli effetti sui livelli atomici dovuti a campi magnetici (Zeeman, Paschen-Bach) o a campi elettrici (Stark). Per quanto riguarda il presente corso, è più importante ora considerare dei cenni di struttura e spettroscopia molecolare, ovvero affrontare il problema di cosa siano e come si comportino gli aggregati di atomi che costituiscono la più piccola porzione di materia con assegnate caratteristiche chimiche, ossia le molecole.
Molecole: cosa sono, come si comportano. Il caso più semplice.
Ci interessiamo ora alle modalità secondo le quali due o più atomi si combinano fra loro per formare molecole. Le evidenze sperimentali sono tali che la maggior parte delle molecole sono stabili e l’interazione legante fra gli atomi è dovuta a forze di natura elettrica. In particolare, viste le energie in gioco e le spaziature fra gli atomi, sono gli elettroni con le loro densità di carica che forniscono la chiave di lettura di questo problema. Ancora una volta, la soluzione esatta, diretta dell’equazione di Schroedinger risulta spesso un’impresa disperata, visto il numero di variabili coinvolte. E’ comunque possibile giungere a risultati numerici con approssimazione eccellente in accordo con le osservazioni sperimentali. La prima molecola che consideriamo è la più semplice: un atomo di idrogeno nel livello fondamentale di energia che si associa ad un protone (nucleo di un altro atomo di idrogeno) per formare uno “ione molecolare” (una molecola elettricamente carica). Nonostante la sua (relativa) semplicità, questa molecola permette di comprendere le basi concettuali e pratiche della formazione e della sostanza del legame atomico nelle molecole più complesse.
Il sistema costituito da due protoni e da un elettrone può risultare “legato” (ossia stabile rispetto la dissociazione) solamente se si chiama in causa l’azione appunto “legante” dell’elettrone. L’atomo di idrogeno è elettricamente neutro, per cui, di per sé, non può esercitare forze nette sul secondo protone. Immaginando però di avvicinare il secondo protone all’idrogeno neutro da una distanza molto grande, possiamo pensare che le forze coulombiane fra le tre cariche agiscano nel senso di provocare una ridistribuzione della densità di carica (la probabilità di trovare cioè le particelle). I due protoni, che pur si respingono, possono trovare “giovamento energetico” (ossia diminuire l’energia totale del sistema) se l’elettrone si trova “condiviso” (sempre nel senso probabilistico del termine, ossia della meccanica ondulatoria) fra di essi. Può comunque anche capitare che il sistema sia compatibile con le leggi che ne governano il funzionamento quando l’elettrone favorisce la repulsione tra i protoni, anche se in questo caso non si potrebbe avere una molecola stabile. In ogni caso, dobbiamo riuscire a ricostruire questo schema adottando una descrizione quantistica.
A tale scopo, consideriamo il sistema dato dai due protoni e dall’elettrone secondo uno schema di sovrapposizione ondulatoria. Ammettendo che l’elettrone possa venire descritto come un’onda di materia localizzata nei pressi o di uno o dell’altro dei due protoni, e decidendo di scrivere queste due situazioni (compatibili) secondo le funzioni d’onda jA e jB, la funzione d’onda della molecola si dovrà scrivere come combinazione lineare del tipo jA±jB. In quest’espressione, il doppio segno indica la possibilità di “sfasamento quantistico” che è assolutamente proprio della descrizione ondulatoria del sistema fisico. Stiamo utilizzando l’equazione di Schroedinger che è lineare nella soluzione ondulatoria, e dunque se abbiamo due (o più) soluzioni, anche le loro combinazioni lineari devono essere ammesse come soluzioni. Le soluzioni “singole” A e B rappresentano localizzazioni complete della carica negativa attorno ad uno dei due protoni. La loro combinazione lineare rappresenterà la condivisione della carica messa in opera dall’interazione coulombiana con i protoni. In pratica, si dovrebbe procedere con lo studio formale fornito da un operatore hamiltoniano nella forma H=TA+ TB+ Te+ UeA+ UeB+ UAB, dove sono incluse le energie cinetiche dei protoni e dell’elettrone (T) e le energie potenziali elettrone/protone A, B e protone/protone. La soluzione di questo esercizio, piuttosto elaborato, conduce a risultati in pieno accordo con la descrizione semplificata accennata sopra.
La soluzione “simmetrica”, jG=jA+jB, è tale che l’elettrone è “visto” nello spazio che divide i due protoni, mentre nella “antisimmetrica”, jU=jA-jB, l’elettrone tende a “scomparire” da questa zona. Ciò è reso evidente dall’andamento delle rispettive densità di probabilità, PG=|jG |2 e PU=|jU |2 (G e U indicano funzioni o stati rispettivamente “pari” [gerade] e “dispari” [ungerade]).
La funzione pari spiega l’esistenza e la stabilità dello ione-molecola di idrogeno: da un punto di vista strettamente energetico, se l’elettrone tende a rimanere concentrato fra i due protoni, al diminuire della loro distanza l’energia elettrostatica dell’elettrone E+ è destinata a diminuire (rendendo il sistema più stabile, per quanto riguarda il suo contributo). Se la distanza fra i protoni tende ad annullarsi, ci ritroviamo un elettrone concentrato attorno ad un nucleo di carica doppia (idrogenoide con Z=2, energia pari a -54.4 eV). Quando i protoni si allontanano l’energia dell’elettrone si annulla. A questa energia va aggiunta la repulsione coulombiana Up fra i protoni (presi come infinitamente pesanti rispetto l’elettrone, buona approssimazione in questo caso). La somma dell’energia elettrostatica dell’elettrone e della repulsione dei protoni dà un andamento che presenta un minimo di energia minore dell’energia totale di un atomo di idrogeno, ossia del sistema “dissociato” idrogeno+protone a distanza infinita. Tale minimo, situato a circa 0.1 nm sul grafico che riporta la distanza dei protoni, è pari a -16.3 eV. Visto che l’energia dell’atomo di idrogeno è pari a -13.6 eV, l’energia di legame dello ione-molecola è pari a -13.6 eV-(-16.3 eV)=2.7 eV.
Se si considera invece il caso “dispari”, ossia il caso dell’elettrone che tende a “sfuggire” all’abbraccio dei protoni (che continuano ad interagire secondo la curva UP), quando la loro distanza tende ad annullarsi troviamo un nucleo di carica doppia con un elettrone la cui probabilità è nulla in corrispondenza del nucleo stesso. Un calcolo esatto ci permette di stabilire l’andamento dell’energia per l’elettrone in questo caso, E-, e la somma con la repulsione fra i protoni fornisce una curva che non presenta minimi ed è comunque sempre meno negativa dell’energia di -13.6 eV: in questa situazione lo ione-molecola non è stabile. Una rappresentazione efficace che riassume i due casi è tale da chiamare in causa due tipi di legame atomico. Gli orbitali atomici utilizzati si combinano linearmente, come abbiamo visto, per formare due tipi di orbitali molecolari, il tipo simmetrico o legante ed il tipo antisimmetrico o antilegante. Lo ione molecola esiste in virtù dell’azione di un orbitale molecolare legante, per il quale gli orbitali atomici si combinano con un massimo di concentrazione localizzato fra i due nuclei.
Legame covalente: la molecola di idrogeno, H2
Avvicinando due atomi di idrogeno si può ottenere una molecola secondo lo schema appena descritto per lo ione-molecola. In particolare, a partire da grandi distanze fra gli atomi, con un’energia totale pari a 2´(-13.6 eV)=-27.2 eV, l’avvicinamento conduce ad un mescolamento delle nubi elettroniche, ovvero ad una sovrapposizione lineare delle rispettive funzioni d’onda, secondo modalità simmetriche o antisimmetriche: anche in questo caso è possibile considerare combinazioni leganti o antileganti, nelle quali gli elettroni (ora sono due) tendono a concentrarsi fra i protoni ovvero a delocalizzarsi esternamente ad essi. L’unica, fondamentale differenza è che ora dobbiamo tenere conto dell’universalmente valido principio di esclusione, per il quale nello stato molecolare elettronico gli elettroni non possono avere lo stesso insieme di numeri quantici. Di conseguenza i loro spin dovranno risultare antiparalleli (diverso numero di proiezione di spin). Ciò stabilito, si osserva che la molecola può esistere in uno stato stabile, ossia con energia totale più negativa della somma delle energie dei due atomi separati, purché la combinazione delle funzioni d’onda atomiche sia simmetrica o pari, insomma concentrata tra i due nuclei. Il caso antisimmetrico o dispari non dà luogo ad una molecola stabile. Questo è il primo caso di legame covalente: quando i due atomi sono eguali, il modo secondo il quale essi si legano in una molecola è di “democratica condivisione” degli elettroni, che vengono appunto “utilizzati” da entrambe gli atomi, senza preferenze, per costruire la “colla” che li tiene uniti. Dalla figura si vede che, rispetto il caso dello ione-molecola, la molecola di idrogeno è più strettamente legata (minore è la distanza di equilibrio e più grande l’energia di legame, pari a -27.2 eV-(-31.7 eV)=4.5 eV). Questo è spiegabile in quanto ora gli elettroni (la “colla”) sono due. E’ anche maggiore il contributo repulsivo dovuto al fatto che ora due cariche negative si fronteggiano, ma lo fanno rispettando l’esclusione quantistica di Pauli, fatto che comunque contiene l’effetto repulsivo complessivo. E’ anche importante notare che, nel caso ad esempio di due atomi di elio (configurazione atomica 1s2), la molecola covalente non esiste. Questo perché ora vi sono quattro elettroni nell’orbitale molecolare, e due di essi si dispongono nell’orbitale legante (di più non è permesso dal principio di esclusione), e gli altri due nell’unico altro orbitale a disposizione, quello antilegante. Il risultato netto è a sfavore di una configurazione stabile. Il caso dello ione-molecola He2+ è invece stabile, in quanto due elettroni vivono nell’orbitale legante ed il terzo in quello antilegante.
Legami covalenti pp, sp ed ibridi
Non solo gli orbitali s conducono alla formazione di orbitali molecolari. E’ possibile ovviamente considerare la struttura molecolare di sistemi che prevedono la combinazione lineare di orbitali atomici di momento angolare non nullo (p, d, f). La situazione è più complessa in quanto tali orbitali hanno particolari orientazioni spaziali e sono degeneri. La sovrapposizione di orbitali p, ad esempio, è tale che esistono due differenti possibilità di legame lungo l’asse interatomico. Si ricordi che gli orbitali p sono tre, uno con lobi di massima densità allineati lungo l’asse z, due con i lobi che giacciono nel piano perpendicolare all’asse z (denotati con x ed y). Se gli atomi vengono avvicinati lungo l’asse x, gli orbitali p associati (px) potranno formare orbitali molecolari leganti o antileganti secondo lo stesso schema discusso per gli orbitali s (sovrapposizioni simmetriche/antisimmetriche). Allo stesso tempo, gli orbitali py e pz, perpendicolari all’asse x, potranno anch’essi contribuire ad orbitali molecolari leganti/antileganti, anche se di minore efficacia rispetto l’orbitale x, per questioni di semplice geometria ed orientazione spaziale. Ad esempio, le molecole N2, O2 ed F2 vengono realizzate tutte con orbitali molecolari pp, in quanto hanno elettroni di valenza 2p. La molecola di azoto è composta da atomi con configurazione 1s22s22p3. Gli orbitali s contribuiscono sia ad orbitali leganti che antileganti (ce ne sono quattro nella coppia 1s e quattro nella 2s). I sei elettroni 2p si distribuiscono nei tre orbitali molecolari leganti, per cui la molecola risulta molto stabile. Nel caso dell’ossigeno, con atomi in configurazione 1s22s22p4, gli otto elettroni 2p vanno ad occupare i tre leganti ed un antilegante, per cui la molecola risulta meno stabile. Nel caso del fluoro, configurazione atomica 1s22s22p5, i dieci elettroni riempiono i tre leganti e due antileganti, per cui la molecola risulta ancora meno stabile (può essere dissociata semplicemente dalla radiazione elettromagnetica visibile).
In modo del tutto simile è possibile considerare la combinazione di orbitali atomici s e p (ad esempio la molecola diatomica HF). La molecola di acqua, H2O, è un altro caso di combinazione lineare sp: l’ossigeno atomico ha 4 elettroni 2p, dei quali 2 spaiati per la regola di Hund. Questi elettroni formano due orbitali molecolari sp con gli orbitali atomici degli atomi di idrogeno, che sono necessariamente perpendicolari (sempre per la regola di riempimento di Hund). L’angolo fra i legami OH nella molecola di acqua è leggermente maggiore di 90° a causa della repulsione elettrica fra i protoni degli atomi di idrogeno.
E’ necessario infine considerare dei casi (estremamente importanti) di molecolari orbitali nei quali il carattere specifico degli orbitali atomici coinvolti è cancellato: la sovrapposizione è tale da modificare la distribuzione spaziale originaria delle nubi elettroniche. Ad esempio, nel caso dell’atomo di carbonio (Z=6), i due elettroni 2p tendono a mescolarsi con gli orbitali 2s per costruire orbitali atomici ibridi, che non sono più né di tipo p né di tipo s. Nella molecola di acetilene (C2H2, HCCH), gli atomi di carbonio legano con gli idrogeni con un orbitale ibrido sp e fra di loro con un secondo orbitale ibrido sp, oltre al doppio legame perpendicolare all’asse molecolare e dovuto agli orbitali atomici p lungo y e z. Nella molecola di etilene (C2H4), ciascun carbonio lega con due atomi di idrogeno e l’altro atomo C con orbitali ibridi sp2. Nel metano (CH4) l’ibridizzazione è di tipo sp3 e il carbonio lega con quattro atomi di idrogeno. La geometria specifica di queste molecole è dovuta proprio alla natura della particolare ibridizzazione coinvolta: l’acetilene è lineare, l’etilene è piano (con gli atomi di idrogeno a coppie legati ai due carboni), il metano è tetraedrico. L’importanza delle ibridizzazioni del carbonio è data dal fatto che esse permettono una grande varietà di configurazioni e geometrie, le quali sono a loro volta alla base della ricchezza della chimica organica, basata infatti su molecole contenenti atomi di carbonio.
Legami ionici ed elettronegatività
Le molecole omonucleari, cioè formate da atomi eguali, sono unite da legami covalenti, nei quali gli elettroni non “appartengono” ad uno o all’altro atomo, ma sono egualmente condivisi da entrambi. Se gli atomi sono differenti è però possibile che, a seconda del bilancio di cariche in gioco, gli elettroni tendano a concentrarsi più in prossimità di un atomo che dell’altro. In casi come questi si parla di legame ionico. Si consideri ad esempio la costruzione della molecola di NaCl. Il sodio è un alcalino con un elettrone singolo spaiato (3s), il cloro è un alogeno con 5 elettroni nel sottogiuscio 3p. Per strappare l’elettrone 3s al sodio servono 5.1 eV, mentre collocare un elettrone nel sottoguscio 3p del cloro libera un’energia di 3.6 eV. Dunque, con un’energia di 5.1 eV-3.6 eV=1.5 eV è possibile trasferire l’elettrone dal sodio al cloro, ottenendo un legame di natura puramente elettrica, avendo ora a che fare con due ioni di segno opposto (Na+ e Cl-). Questa energia in difetto è recuperata semplicemente avvicinando a sufficienza i due ioni, proprio perché sono di carica opposta e ciò comporta un guadagno in energia. Non è possibile però avvicinarli oltre un certo limite, in quanto le orbite interne (1s, 2s, 2p e 3s) sono complete: la loro compenetrazione richiederebbe, per il principio di esclusione di Pauli, la promozione di elettroni ad orbitali più eccitati, con conseguente aumento dell’energia del sistema. Ciò implica che il bilancio energetico deve presentare un minimo ad una distanza di equilibrio, che è proprio quella di formazione stabile della molecola. Come raffigurato, i vari termini energetici tengono conto sia dell’attrazione coulombiana che della repulsione quantistica, termine di Pauli.
Va sottolineato il fatto che una molecola realistica non si comporterà mai in modo puramente covalente o ionica. Vi sarà predominanza di uno dei due caratteri, a seconda degli atomi coinvolti (anche nel caso di NaCl, fortemente ionico, le “code” di distribuzione elettronica danno luogo a combinazioni di orbitali e dunque a condivisione, seppure debole, di tipo covalente degli elettroni). Una misura quantitativa (anche se non rigorosa) del carattere ionico/covalente di un legame fra atomi in una molecola è data dall’elettronegatività. Si tratta di sommare (confrontare) l’energia di ionizzazione (richiesta per togliere un elettrone all’atomo) e “l’affinità elettronica” (l’energia guadagnata aggiungendo un elettrone). Se due atomi hanno elettronegatività molto simili, ci si aspetta una predominanza del carattere covalente nel legame. Elettronegatività differenti daranno luogo alla predominanza del carattere ionico. E’ infine possibile ottenere una misura ragionevole del carattere ionico di un legame calcolando il momento di dipolo della molecola, ossia il prodotto Rq, dove R è la distanza di equilibrio e q è la carica elettrica netta. Se il legame è puramente ionico il momento di dipolo deve risultare eguale a quello osservato sperimentalmente. In casi realistici (legame ionico non puro), il momento misurato è minore di Rq. Si osserva una ragionevole correlazione fra il carattere ionico così definito e la differenza fra le elettronegatività dei partner atomici nella molecola.
Vibrazioni e rotazioni molecolari
A differenza degli atomi, le molecole possono interagire con la radiazione elettromagnetica in virtù di gradi di libertà interni oltre a quelli elettronici. Si tratta di considerare le possibilità di moti relativi degli atomi rispetto le loro posizioni di equilibrio: tali moti sono rotazioni e vibrazioni atomiche, che risultano ancora una volta quantizzate, per cui ci si aspettano spettri discreti per assorbimento o emissione di radiazione in seguito all’eccitazione o diseccitazione di questi modi. Anche se in questi appunti ci limitiamo a considerare i casi più semplici, è fin d’ora importante sottolineare che la spettroscopia molecolare che coinvolge modi di vibrazione e rotazione permette l’analisi quantitativa e strutturale di molecole con strutture estremamente complesse. In molti casi, è addirittura possibile ottenere informazioni esaustive sulla geometria molecolare unicamente dall’analisi di spettri rotazionali e vibrazionali.
Per quanto riguarda le vibrazioni, consideriamo il caso più semplice di una molecola biatomica. E' possibile e conveniente separare il moto traslazionale del centro di massa dal moto di vibrazione relativo ad esso dei due atomi, riducendo così il sistema al moto vibrazionale della massa ridotta rispetto alla coordinata relativa fra gli atomi. Si tenga presente che il moto vibrazionale ha ragione di esistere in quanto gli atomi, allontanati dalla posizione di equilibrio elettrostatico, risentono di na forza di richiamo (sempre dovuta alle interazioni elettriche). In effetti, una trattazione dettagliata del problema dovrebbe tenere conto anche del moto degli elettroni. A causa della loro piccola massa rispetto a quella dei nuclei, è possibile trascurare del tutto la presenza degli elettroni nello studio delle vibrazioni (e delle rotazioni). Si parla in questo caso di approssimazione di Born-Oppenheimer. E’ importante comunque non dimenticare che gli elettroni hanno comunque il ruolo di stabilire, assieme alle cariche nucleari, la forma dell’energia di interazione fra i nuclei atomici stessi. La forza di richiamo che si instaura è in prima approssimazione di tipo armonico (presentando un minimo in corrispondenza della coordinata di equilibrio). La quantizzazione di un sistema armonico, già considerata in precedenza, ci conduce ad uno spettro discreto con livelli equispaziati in energia secondo la relazione E= ħw(v+1/2), v=0,1,2, … dove w=(k/m)1/2 è la pulsazione classica corrispondente associata alla massa ridotta m=m1m2/(m1+ m2). L’assorbimento/emissione di energia da parte della molecola avviene dunque per quanti secondo la regola di selezione Dv=±1. A partire dalla curva di interazione fra i nuclei, è possibile stimare il valore della “costante elastica” k per la molecola e dunque le energie per i livelli vibrazionali. Per la molecola di idrogeno, ad esempio, si trova che i livelli sono spaziati di circa 0.5 eV. Si tratta di un’energia associata a fotoni dell’infrarosso. Volendo considerare però l’eccitazione di livelli ad energia relativamente elevata, l’approssimazione armonica non è più valida ed è necessario correggere il modello includendo termini di anarmonicità. In generale, si ottiene che lo spettro vibrazionale non è più equispaziato, ma vale una relazione comunque semplice per la sequenza delle energie, usualmente scritta nella forma
E(v)= ħw(v+1/2)+x(v+1/2)2+y(v+1/2)3+ …,
dove i termini x, y, … tengono conto infatti di correzioni di ordine superiore alla sequenza armonica di livelli. La regola di selezione armonica sopra introdotta viene rilasciata per transizioni anarmoniche, quando si tenga conto di fenomeni di “anarmonicità elettrica”: la distribuzione di carica responsabile degli scambi energetici con l’onda elettromagnetica incidente (o emessa) può giustificare transizioni fra livelli che distano per più di un singolo salto quantico. Quando la molecola è poliatomica (nel senso che è formata da più di tre atomi), la situazione diventa molto complessa, ed è necessario affrontare il problema caso per caso, a seconda della particolare geometria molecolare coinvolta. Una tecnica generale per inquadrare la situazione prevede l’introduzione di modi normali di vibrazione, in termini dei quali le complesse vibrazioni molecolari vengono riscritte come sovrapposizioni lineari di modi armonici in fase con frequenze diverse. Già una molecola triatomica come l’acqua presenta tre modalità di vibrazione. In una molecola quadriatomica (come l’ammoniaca, NH3) le vibrazioni diventano 6 e la situazione si complica rapidamente.
Un discorso analogo può essere fatto per le rotazioni di una molecola. Prendendo ancora una volta il caso più semplice di un diatomo, la rotazione può essere descritta a partire dalla dinamica del corpo rigido. L’energia rotazionale (puramente cinetica) si scrive K=Iw2/2, avendo introdotto il momento d’inerzia associato all’asse rotazionale scelto, che nel nostro caso vale semplicemente mReq2 (si assume che la molecola in rotazione rimanga nella configurazione di equilibrio, ossia non sia eccitata vibrazionalmente. Questa è un’approssimazione il più delle volte debole ed è necessario includere schemi di eccitazione simultanea di vibrazioni e rotazioni, con le rispettive interazioni reciproche). Utilizzando la relazione L=Iw per il momento angolare, per cui K=L2/(2I), ed applicando la quantizzazione spaziale dello stesso, L2=l(l+1)ħ2, l’energia rotazionale risulta quantizzata secondo la
E(l)=l(l+1)ħ2/(2mReq2).
Osserviamo anzitutto che la spaziatura dei livelli rotazionali di energia non è uniforme, come nel caso armonico vibrazionale. Tale spaziatura è stimata a partire dai valori tipici delle grandezze coinvolte e si ottengono livelli rotazionali dell’ordine di centesimi di eV, ossia nella zona del lontano infrarosso e delle microonde dello spettro elettromagnetico. Come accennato nel caso delle vibrazioni, anche per le rotazioni la situazione si complica notevolmente non appena si considerano molecole con più di due atomi. Una molecola diatomica possiede due modi rotazionali associati agli assi perpendicolari alla linea congiungente gli atomi (la rotazione attorno all’asse molecolare non dà contributi energetici rilevanti in quanto, rispetto questo asse, il momento d’inerzia è molto piccolo). La molecola di acqua possiede tre gradi di libertà rotazionali (rispetto i tre assi principali di inerzia). Le molecole lineari sono ancora più complesse, in quanto per esse certi gradi di libertà rotazionali e vibrazionali sono indissolubilmente mescolati. Per i modi rotazionali è possibile giungere a regole di selezione analoghe a quelle accennate nel caso delle vibrazioni. Più in dettaglio, è possibile verificare che in un rotatore quantistico vengono scambiati quanti di energia collegati dalla regola Dl=±1. Uno spettro rotazionale realistico come quello riportato presenta delle differenze rispetto il modello ora introdotto. In particolare, si osservano variazioni di intensità dei picchi di assorbimento, causate dal fatto che i livelli rotazionali coinvolti non sono tutti egualmente popolati e dunque egualmente efficaci nel contribuire alle transizioni. Sarà lo studio statistico della popolazione a fornire un modello quantitativo da questo punto di vista. Anche la spaziatura dei livelli non è esattamente quella prevista dal modello semplice introdotto. Quando le rotazioni sono molto rapide, nasce un effetto centrifugo che aumenta il momento d’inerzia della molecola, causando così un infittimento della spaziatura dei livelli energetici rotazionali. Le “doppie punte” evidenti nello spettro riportato sono dovute alla presenza di due specie isotopiche (masse diverse degli atomi).
Riassumendo, la spettroscopia molecolare è il risultato di un assieme di transizioni che coinvolgono interazioni a livello elettronico (energie da pochi eV a molte migliaia di eV, se si considerano gli elettroni atomici più interni) e nucleare – vibrazioni e rotazioni (energie dell’ordine degli eV o di frazioni di eV). Una transizione in generale può coinvolgere simultaneamente cambi di stato elettronico, vibrazionale e rotazionale, sempre in osservanza delle regole di selezione discusse.
Fonte: http://www-phys.science.unitn.it/lcosfi/dispense%20modelli%20atomici%20e%20molecolari.doc
Sito web da visitare: http://www-phys.science.unitn.it/
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