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LA GUERRA SECONDO KUBRICK
di Alessio Trerotoli
- INTRODUZIONE
- LA GUERRA NEL CINEMA AMERICANO
- FEAR AND DESIRE: L’UOMO CONTRO SE STESSO
- ORIZZONTI DI GLORIA: LA POLEMICA ANTIMILITARISTA
- IL DOTTOR STRANAMORE: LA GUERRA FREDDA COME PARTITA A SCACCHI
- FULL METAL JACKET: LA “MECCANIZZAZIONE” DELL’UOMO
- LA GUERRA NEGLI ALTRI FILM DI KUBRICK
- CONCLUSIONI
- BIBLIOGRAFIA
- FILMOGRAFIA
INTRODUZIONE
Stanley Kubrick nasce a New York, nel Bronx, il 26 luglio 1928, da una famiglia ebrea, di origine austriaca. Poco propenso allo studio, il giovane Kubrick rivolge tutti i suoi interessi alla fotografia, agli scacchi e alla musica jazz. All’età di tredici anni riceve in dono dal padre una macchina fotografica, che gli permette di sviluppare la sua più grande passione di quel periodo: la fotografia. Nel 1945 ritrae un venditore di giornali affranto per la morte del presidente Roosevelt; la rivista «Look» acquista la fotografia per 25 dollari e poco dopo assume Kubrick come fotografo. Durante l’adolescenza il futuro regista si appassiona al cinema e alla letteratura, le sue passioni spaziano dai film di Ophüls, Bergman e Kazan alle letture dei classici della teoria cinematografica, in particolar modo Ejsenštejn e Pudovkin.
L’esperienza nel campo della fotografia è stata fondamentale per lo sviluppo del cineasta newyorkese; John Baxter, il suo biografo europeo, afferma infatti che «studiare fotografia fu indubbiamente la chiave di svolta nell’arte di Stanley Kubrick» . A tal proposito appare interessante anche un’altra affermazione dello stesso Baxter: «In qualche modo Kubrick è stato sempre un fotografo ed è rimasto un fotografo. Secondo me ciò che lo affascinava non era tanto la continuità della narrazione ma la dignità dell’immagine, nelle esatte dimensioni in cui l’aveva visualizzata. Amava sopra ogni altra cosa la composizione dell’immagine» .
Durante i suoi anni da fotografo per «Look», Kubrick condivide il suo amore per il cinema con l’amico Alexander Singer, fattorino per il giornale di attualità cinematografiche «March of Time»; insieme i due danno vita ad alcuni esperimenti in ambito cinematografico, ed è così che Kubrick, dopo aver lasciato il lavoro, decide di girare cortometraggi. Nel 1951 realizza, autofinanziandosi, Day of the fight, un documentario su una giornata del pugile Walter Cartier, seguito da Flying Padre (1952), dove un prete percorre in aereo la sua enorme parrocchia e The Seafarers (1952), incentrato sulle vicende di un sindacato di marinai. Nel 1953 Kubrick gira il suo primo lungometraggio, Fear and desire, dove si avvicina per la prima volta al tema della guerra. Da quel momento girerà soltanto tredici film (molti dei quali sono divenuti pietre miliari della storia del cinema), fino al giorno della sua morte avvenuta il 7 marzo 1999, durante la post-produzione della sua ultima pellicola, Eyes wide shut (1999).
Il tema sul quale verte questo scritto è quello della guerra, vista dagli occhi di Stanley Kubrick, uno dei registi più influenti ed amati di sempre, il quale più volte ha affrontato questo tema nella sua immensa (a livello qualitativo) filmografia, indagando sui risvolti della personalità dell’essere umano, sull’inutilità della guerra e della violenza.
Quello bellico è il genere portante di buona parte della filmografia di Kubrick; oltre al già citato Fear and desire, dove il regista indaga sulla «crudeltà (auto)distruttrice degli uomini» in una guerra astratta, questo tema si sviluppa in altri tre capitoli fondamentali della produzione kubrickiana: Orizzonti di gloria (1957), manifesto antimilitarista ambientato durante la Grande Guerra, Il Dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964), feroce satira sulla guerra fredda, e Full Metal Jacket (1987), in cui il conflitto del Vietnam è lo sfondo sul quale rappresentare la distruzione e la conseguente “meccanizzazione” della personalità umana. Ma la guerra, la violenza, il dualismo dell’uomo e la distruzione della personalità, sono tutti temi che trovano riscontro in molte altre pellicole di Kubrick, in film come Il bacio dell’assassino (1955), Rapina a mano armata (1956), Spartacus (1960), Lolita (1962), 2001 Odissea nello spazio (1968), Arancia Meccanica (1971), Barry Lyndon (1975), Shining (1980), Eyes Wide Shut (1999) e nei suoi progetti incompiuti, tra cui Napoleon, The German Liutenant (sulla Seconda Guerra Mondiale) e Aryan Papers (sull’Olocausto), dei quali parleremo in seguito.
Secondo Enrico Ghezzi: «appare chiaro che (per quanto casuale possa essere stata la scelta del soggetto) nello spazio del cinema americano “il genere” di Kubrick è, per elezione, il film bellico, scelto proprio in quanto esaspera i caratteri fondanti di qualsiasi genere» . Lo stesso regista, in un’intervista del 1959 , spiega i motivi per cui è stimolato a realizzare film sulla guerra:
«Per cominciare, uno degli elementi che attraggono in una storia di crimini di guerra è l'opportunità quasi unica di mettere un individuo della società contemporanea di fronte ad una solida cornice di valori accettati, di cui il pubblico prende piena coscienza e che fa da contrappunto ad una situazione umana, individuale, legata all'emotività. Inoltre, la guerra è come una serra in cui far crescere velocemente e forzatamente attitudini e sentimenti. Le attitudini si cristallizzano e affiorano in superficie. Il contrasto in questo scenario è un fatto naturale, mentre in una situazione meno critica dovrebbe essere costruito ad arte e apparirebbe quindi forzato, o peggio falso.»
Kubrick ribadisce il suo fascino per questo tema in un’altra intervista, rilasciata dieci anni più tardi, dove dichiara:
«Evidentemente la guerra crea situazioni altamente drammatiche e traducibili in immagini per una sceneggiatura. In una battaglia le persone attraversano un fantastico periodo di tensione in un breve lasso di tempo e ciò, in una storia vissuta in tempo di pace, parrebbe veramente artificioso e forzato in quanto tutto scorrerebbe troppo rapidamente per risultare credibile. Il film di guerra permette dunque di descrivere con straordinaria concisione l’evoluzione di un atteggiamento, di un personaggio. Così i problemi arrivano a una soluzione più rapidamente» .
Prima di addentrarci nell’analisi di questo tema nelle varie opere di Stanley Kubrick, è doveroso inserire il suo lavoro all’interno del contesto più ampio del cinema di guerra americano, un genere cinematografico che vanta una quantità innumerevole di titoli, dai primi anni del secolo scorso sino ai giorni nostri.
LA GUERRA NEL CINEMA AMERICANO
Un personaggio del film di François Truffaut Finalmente domenica! (1983), parlando di Orizzonti di gloria, afferma che nei film di guerra «c'è amore, ci sono battaglie, cannoni, sentimenti e compagnia bella». Chiaramente quella di Truffaut è una provocazione, poiché sarebbe estremamente riduttivo definire un intero filone cinematografico in poche, generiche, parole. Il cinema americano infatti, in tutta la sua storia, ha trattato il genere bellico sfaccettandolo nelle più disparate tipologie; in quell’immensa macchina produttrice che è Hollywood, sono stati prodotti film di guerra di ogni tipo: da quelli che puntavano semplicemente a sfruttare la spettacolarità della guerra e il suo enorme impatto visivo ed emotivo, a film militaristi, veri e propri mezzi di propaganda con il fine di esaltare la guerra; oppure film storici con l’intento di documentare e testimoniare un periodo o un evento particolare, o film satirici per condannare la violenza e la guerra; e ancora, film di denuncia, veri e propri manifesti antimilitaristi, sino alle guerre fantascientifiche, chiara metafora di una minaccia esterna (anche se qui si va a toccare un genere del tutto diverso).
Il film di guerra canonico, dalla metà degli anni‘20 in poi, è tradizionalmente suddiviso in tre fasi: l’addestramento, l’arrivo al fronte con la seguente “perdita dell’innocenza” e la rigenerazione attraverso la violenza . Il personaggio tipico del war-movie è la recluta giovane e inesperta che, alla fine del film, riesce a trasformarsi in un vero combattente, in un veterano. Esempi rappresentativi di questo tipo di eroe li troviamo in pellicole come Platoon (Stone, 1986) e Full Metal Jacket, ma ovviamente, come vedremo più avanti, non mancano le eccezioni (su tutte Apocalypse Now di Coppola, del 1979).
Lo sfondo storico è la base caratterizzante di ogni film del genere; i campi di battaglia sui quali sono ambientati tali film variano dalla Grande Guerra al secondo conflitto mondiale, dalla guerra del Vietnam a quella del Golfo, fino a conflitti “minori” come per esempio quello in Corea oppure in Somalia; si spazia dunque dalle trincee protagoniste della Prima Guerra Mondiale alla giungla vietnamita, sino alle dune del medio oriente e alla sabbia africana. A proposito della guerra del 1914-18, Giaime Alonge spiega bene come «il modo in cui il cinema si confronta con la Grande Guerra sia segno più in generale del modo in cui esso si confronta con il sorgere del mondo moderno, un fenomeno storico-culturale in cui il cinema stesso è parte integrante, essendone al contempo una conseguenza e un potente agente catalizzatore» . In un certo senso la Grande Guerra si è imposta come metafora di ogni ipotetica guerra: se la Seconda Guerra Mondiale (nonostante tutti i suoi orrori, dai campi di sterminio alla bomba atomica) è apparsa come una guerra “necessaria”, un’indispensabile crociata contro il Male, il primo conflitto mondiale «si configura come uno scontro politicamente ambiguo, senza una netta opposizione tra aggressori e aggrediti, in cui nessuna delle parti ha il monopolio della ragione» .
La filmografia sulla Grande Guerra vanta alcuni titoli contemporanei al conflitto, il più importante dei quali è probabilmente Cuori del mondo (1918) di David Wark Griffith, un melodramma di propaganda commissionato al regista dal governo inglese e francese: il protagonista, un giovane scrittore francese in procinto di sposarsi e di ricevere un premio per il suo romanzo, va a difendere il suo Paese dagli invasori tedeschi; qui: «il dovere patriottico viene prima dei sogni d’amore e delle aspirazioni letterarie, per quanto forti siano entrambi» . La gran parte dei film americani riguardanti il primo conflitto mondiale comincia dagli anni’20 con I quattro cavalieri dell’Apocalisse (1921) di Rex Ingram, dove resiste ancora sullo sfondo il tema di propaganda antitedesca, seppur accompagnato da un senso di sgomento generale per le barbarie e le distruzioni provocate dalla guerra. Ma la vera svolta nel modo di raccontare il conflitto arriva pochi anni dopo, con tre film che condannano la brutalità della guerra attraverso il loro pacifismo di fondo: La grande parata (Vidor, 1925), Gloria (Walsh, 1926) e Ali (Wellman, 1927), i quali «trovano il loro centro ideale in All’Ovest niente di nuovo (Milestone, 1930) e che smontano completamente l’impianto retorico griffithiano» . Il film di Milestone racconta gli orrori nelle trincee del fronte franco-tedesco e rappresenta tuttora uno dei film di Hollywood maggiormente capaci di esprimere un messaggio antimilitarista. Proprio per il modo di trattare questo argomento All’Ovest niente di nuovo è stato facilmente accostato ad Orizzonti di gloria, ma tra i suoi temi principali troviamo anche un’altra tematica cara a Stanley Kubrick, ovvero la spersonalizzazione dell’uomo, con la trasformazione di giovani ragazzi in “macchine di guerra” che avviene attraverso un training già accennato in Ali, ma che diverrà celebre in seguito a Full Metal Jacket. La pellicola di Milestone riesce per la prima volta a raccontare con realismo lo scenario bellico della Grande Guerra, con le sue trincee e la vacuità del campo di battaglia (la cosiddetta “terra di nessuno”).
Tra i vari film ambientati durante il primo conflitto mondiale vanno citati Angeli dell’inferno (1930), kolossal di Howard Hughes, banale nella trama ma imponente e spettacolare nella messa in scena (che Martin Scorsese ha ben rappresentato in The Aviator nel 2004), Addio alle armi (Borzage, 1932), una storia d’amore ambientata sul fronte italiano e Il sergente York (Hawks, 1941), la storia vera di un uomo che da solo catturò 132 nemici, ultimo titolo statunitense di una certa importanza ad occuparsi della Prima Guerra Mondiale, fino all’arrivo di Kubrick nel 1957 con Orizzonti di gloria.
Per quanto riguarda il secondo conflitto mondiale, il cinema hollywoodiano si è soffermato moltissimo sull’argomento; gli interventisti erano infatti convinti che film bellici o antinazisti avrebbero in qualche modo incoraggiato gli americani a partecipare alla guerra. I film girati durante il conflitto sono stati una moltitudine, le vicende belliche venivano inserite anche sullo sfondo di pellicole noir o drammatiche: ad esempio Il prigioniero di Amsterdam (Hitchcock, 1940), chiaramente antinazista, o addirittura Casablanca (Curtiz, 1942), nel quale il richiamo al tema della resistenza contro i tedeschi e la spinta all’agire, col fine di sensibilizzare le coscienze del pubblico, appare evidente. A film di propaganda strettamente legati al genere bellico, come ad esempio Destinazione Tokyo (Daves, 1943), Obiettivo Burma! (Walsh, 1944) o Gli eroi del Pacifico (Dmytryk, 1945) si contrapponevano film satirici di matrice antimilitarista, come il capolavoro di Chaplin Il grande dittatore (1940) o Vogliamo vivere (1942) di Lubitsch.
Nonostante la grande mole di pellicole prodotta durante gli anni’40, i film più importanti sulla Seconda Guerra Mondiale hanno cominciato ad apparire dagli anni’60 in poi; il cinema contemporaneo al conflitto sembrava avere, come già detto, perlopiù un accento propagandistico, invece: «il cinema dedicato al secondo conflitto mondiale, negli anni che vanno dal’68 a oggi, sembra sempre tornare sull’interrogativo primario della “logica” della guerra, della possibilità di un conflitto per il mondo moderno, della sensatezza di un concetto di immanente follia quale è appunto quello di “guerra”» , ma ciò che si vuole raccontare varia da titolo a titolo. In Quella sporca dozzina (Aldrich, 1967) ad esempio, un gruppo di galeotti è incaricato di conquistare un castello tedesco; il film sembra demistificare l’eroismo dell’impresa bellica, poiché descrive la guerra come materia per psicopatici e delinquenti, che la combattono meglio dei soldati normali, in quanto già preparati (i marines invece devono prima essere trasformati in killer). Altro capitolo fondamentale della filmografia bellica è Patton, generale d’acciaio (Schaffner, 1970), la storia del generale americano George Patton, protagonista di numerose vittorie contro la Germania; non appartiene al filone dei film prettamente antimilitaristi, in quanto il regista non sembra prendere posizione pro o contro la guerra, e lo fa «non per essere imparziale, ma per dare al film un andamento originale, volutamente anti-epico» .
Tra i tanti titoli meritevoli di citazione, da Duello nel Pacifico (Boorman, 1968) a La sottile linea rossa (Malick, 1998), passando per Ardenne ’44: un inferno (Pollack, 1969) e Il grande uno rosso (Fuller, 1981), va incluso anche quello che è considerato «il massimo grado di realismo rappresentabile al cinema» , ovvero quello mostrato da Salvate il soldato Ryan (1998), in cui Spielberg mostra la guerra in tutte le sue crudeltà; la sua guerra però «non è un caos impazzito, ma finisce con l’assumere un senso superiore» (non manca infatti chi ha considerato il film addirittura guerrafondaio).
Altro capitolo fondamentale del cinema di guerra americano è quello riguardante il conflitto in Vietnam; riguardo ad esso l’opinione pubblica statunitense era nettamente divisa tra interventisti e pacifisti, questa spaccatura fu uno dei motivi principali per cui Hollywood non si avvicinò mai a questo scottante argomento se non al termine delle ostilità, nel 1975. Unica eccezione, che infatti scatenò un mare di proteste, fu Berretti Verdi (1968) di John Wayne, il primo film americano sul Vietnam, dove la guerra viene presentata come un’azione necessaria per fermare l’avanzata del comunismo nel mondo. Ma è sul finire degli anni’70 che il conflitto del Sudest asiatico arriva di prepotenza nei cinema, dopo esser stato mostrato per anni in televisione (come è noto, quella in Vietnam è stata la prima guerra ad entrare nelle case dal piccolo schermo); sono gli anni de Il cacciatore (1978) di Michael Cimino e Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola. Entrambi i film si differenziano dallo schema classico dei war-movies, i loro protagonisti non sono reclute inesperte mandate a ricevere il “battesimo del fuoco” direttamente sul campo, ma sono eroi già pronti: Mike, il cacciatore di Cimino, pur non essendo un soldato esperto è un uomo che conosce bene la durezza della vita, mentre il capitano Willard descritto da Coppola è un combattente che preferisce la vita da guerrigliero piuttosto che tornare a casa. L’enorme successo di questi due film determina, nel decennio successivo, una grande produzione di pellicole sul Vietnam: oltre a Rambo (Kotcheff, 1982), Fratelli nella notte (ancora Kotcheff, 1983) e Rambo 2 – la vendetta (Cosmatos, 1985), troviamo anche le firme di tre grandi registi a capo di altrettante grandi opere: Platoon di Oliver Stone (1986), Vittime di guerra di Brian De Palma (1989) e, naturalmente, Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, sul quale ci soffermeremo ampiamente in seguito. Platoon, in particolare, rappresenta il modello tipico del film di guerra, sia nella struttura drammaturgica che nella rappresentazione dei personaggi, presentando gli archetipi del war-movie classico come la giovane recluta, il sergente “buono”, quello “cattivo”, il veterano che si preoccupa dei soldati inesperti e via dicendo .
Altri conflitti militari sono stati toccati dalla produzione hollywoodiana: la guerra in Corea è stata raccontata in particolare da Samuel Fuller in Corea in fiamme (1950) e Figli della gloria (1951), e in modo grottesco da Robert Altman in M.A.S.H. (1970); la guerra del Golfo sta alla base de Il coraggio della verità (Zwick, 1996) e di Three Kings (Russell, 1999); la guerra in Somalia ha invece mobilitato un regista del calibro di Ridley Scott, nel recente Black Hawk Down (2001).
L’opera di Kubrick, a proposito del cinema di guerra americano, da un lato si colloca all’interno della tradizione classica del genere, basti osservare la struttura tripartita di Full Metal Jacket e il messaggio antimilitarista di Orizzonti di gloria, accostabili ad Ali o All’Ovest niente di nuovo, dall’altro però si confronta con il cinema di guerra mettendo in discussione e ridefinendo i canoni sui quali il genere stesso si fonda, una costante che ha reso tutti i film di Kubrick opere uniche nel loro complesso.
FEAR AND DESIRE:
L’UOMO CONTRO SE STESSO
Nel 1953, Stanley Kubrick gira il suo primo lungometraggio, Fear and desire. Nonostante lo stesso regista lo abbia definito in un'intervista del 1962 «a pretentious, inept and boring film, a youthful mistake costing about 50,000 dollars» («un film pretenzioso, inetto e noioso, un errore di gioventù costato circa 50.000 dollari») e in altra sede «un maldestro esercizio di cinema amatoriale» , Fear and desire è senza dubbio un’opera prima complessa e molto matura per l’allora ventiquattrenne Kubrick, sia per la ricerca tecnica che per i contenuti.
Il film è un racconto allegorico ambientato durante una guerra indefinita; narra le vicende di quattro soldati che, dopo esser sopravvissuti ad un incidente aereo, riescono a trovare rifugio in una foresta situata in territorio nemico. I quattro cercano di costruire una zattera per risalire il fiume e tornare nel proprio territorio, ma si imbattono in una donna, subito uccisa dal soldato Sidney, che aveva precedentemente cercato di violentarla. Dopo l'omicidio, Sidney, come impazzito, fugge nella foresta mentre Corby, l'ufficiale in carica, e il soldato Fletcher, si imbattono in un generale nemico e i suoi soldati: i due uccidono i nemici, ma si accorgono che questi hanno le loro stesse sembianze. Intanto il quarto soldato, Mac, prova a discendere da solo il fiume in zattera, ma viene ferito e si ritrova in preda al delirio. Corby e Fletcher fuggono in aereo, per poi attendere a valle l'arrivo della zattera: su di essa ci sono Mac, privo di coscienza, e Sidney, che, impazzito, canta nenie insensate.
In questo suo primo film, Kubrick tratta il tema della guerra con l'intenzione di sottolineare «l'assoluta inutilità della violenza e lo stretto rapporto tra violenza e follia» , per mezzo di una storia che vuole raccontare in modo universale l'assurdità della guerra; un'interpretazione in un certo senso suggerita dalla voce fuori campo che introduce il film:
«C'è la guerra in questa foresta. Non una guerra che sia stata combattuta o una che lo sarà, ma una qualsiasi guerra e i nemici che lottano qui non esistono finché non li chiamiamo a esistere. Questa foresta, allora e tutto quello che adesso vi accade, è al di fuori della Storia, solo le immutabili forme della paura, del dubbio e della morte provengono dal nostro mondo. Questi soldati che voi vedete parlano la nostra lingua e vivono il nostro tempo, ma non hanno altro paese che la mente» .
In Fear and desire, Kubrick introduce a chiare lettere uno dei temi principali della sua filmografia, quello dell'uomo contro se stesso, e lo fa attraverso una scena che, se il regista non avesse fatto sparire tutte le copie esistenti del film, sarebbe entrata senz’altro nell'immaginario collettivo della società attuale: quella in cui i protagonisti uccidono i soldati nemici, scoprendo poi che essi hanno i loro stessi volti. Il tema del doppio in qualche modo richiama quello degli scacchi, altro motivo ricorrente del cinema di Kubrick; la scena appena descritta incarna l'essenza stessa degli scacchi: un gioco di guerra dove si concentrano la paura di perdere (fear) e il desiderio di vincere (desire), e in cui ciascun pezzo ha il suo doppio nel campo avversario . La battaglia simulata dal gioco non è soltanto una guerra tra eserciti contrapposti ma si può interpretare anche come la metafora dell’incessante lotta tra la vita e la morte, quella come già detto dell’uomo contro se stesso, ma anche tra il conscio e l’inconscio, la cui disputa mina l’integrità dell’individuo con la minaccia della follia.
Il tema dell'uomo che uccide se stesso torna ad esempio in Orizzonti di gloria, dove i soldati francesi vengono giustiziati dal loro stesso esercito, oppure in 2001 Odissea nello spazio, dove gli uomini-scimmia, appena “scoperta” la violenza, si scagliano contro un loro simile, copia identica di loro stessi. Nel suo doppio l'uomo trova «la proiezione delle proprie paure e della propria ferocia» , ma al di là di questo l’interesse del regista è anche quello di mostrare il modo in cui la mente dell’uomo, sotto la pressione della guerra, si trasformi in uno strumento di morte: «la violenza, l’ira, il desiderio di vendetta penetrano sempre più nei combattimenti dopo che il conflitto divampa e inasprisce: è esso stesso a scatenare quegli impulsi che lo guidano e lo stimolano. Così è la guerra a produrre il combattente, il conflitto a creare il nemico» . In Fear and desire l’impulso violento dei soldati è sottolineato nella gratuita ferocia con la quale si scagliano contro i nemici indifesi (essi vengono colti di sorpresa mentre sono intenti a mangiare e bere) e nel tentativo di stupro da parte di Sidney nei confronti della ragazza («vittima d’un sacrificio decretato dalla repressione degli istinti erotici durante la guerra, completamente votata alla sete di morte »); allo stesso tempo l’instabilità e il senso di smarrimento interiore dei soldati è accentuato dall'ambientazione del film, la foresta, uno spazio ampio dalla struttura però incerta, labirintica (come nelle trincee di Orizzonti di gloria e nei corridoi dell'Overlook Hotel di Shining), dove i quattro si trovano a vagare e che rappresenta quindi un «corrispettivo fisico e spaziale di una situazione interiore» ; un senso di smarrimento caratterizzato anche dai dialoghi, nei quali uno dei protagonisti afferma: «voglio restare vivo, ma sono sicuro di non sapere perché». Smarrimento esistenziale, quindi, ma anche uno smarrimento nella follia e nel delirio, come quello in cui si ritrovano a vagare i soldati Mac e Sidney nella parte finale del film; l’uno privo di coscienza dopo il vaneggiamento, l’altro regredito allo stato infantile in cui la follia l’ha condotto e che lo porta a cantare nenie prive di significato (non si può non citare in tal senso la scena di 2001 Odissea nello spazio in cui il computer Hal 9000, mentre viene disinserito, canta una filastrocca per bambini, o il finale di Full Metal Jacket, in cui i soldati marciano nell'ombra intonando il ritornello di Mickey Mouse). Fear and desire quindi si può interpretare come una metafora della condizione umana, secondo il regista caratterizzata da smarrimento, solitudine e persistente quanto indefinibile minaccia.
L’uso della musica, infine, componente mai casuale nel cinema di Kubrick, consente di aggiungere un'altra interpretazione a Fear and desire: «si tratta d'una solenne meditazione sulla guerra, che nasce sottovoce, come un canto desolato mormorato da un oboe, e dopo un inciso lacerante e rabbioso sfocia in una perorazione rassegnata che si smorza lentamente» .
Questo film d'esordio come abbiamo visto, rappresenta una sorta di “big bang” dell'opera kubrickiana; un coacervo dei temi e delle ossessioni che caratterizzeranno il cinema del regista newyorkese negli anni a venire: l’ambiguo rapporto tra paura che si nutre di desiderio e desiderio che si nutre di paura, la razionalità che si riversa nella follia, l’impulso della violenza come legame estremo tra amore e morte, i topoi della scacchiera e del labirinto.
ORIZZONTI DI GLORIA:
LA POLEMICA ANTIMILITARISTA
Nel 1957 Kubrick realizza Orizzonti di gloria, tornando così ad occuparsi del tema della guerra dopo averlo trattato, come abbiamo visto, nel suo film d’esordio Fear and desire.
Un titolo come Orizzonti di gloria richiama immediatamente uno spirito epico, quasi a far intendere che si tratti di un film eroico, ma in realtà è un titolo sarcastico: Paths of glory (il titolo originale della pellicola) infatti, non è altro che l’inizio di un verso tratto dalla settecentesca Elegia scritta in un cimitero campestre di Thomas Gray: «Paths of glory lead but the grave» (“i sentieri di gloria non conducono che alla tomba”). Allo stesso modo appare ironica anche la Marsigliese che apre il film, l’inno della libertà tradotto in introduzione all’oppressione: siamo nel 1916, sulle note dell’inno francese una macchina porta il generale Mireau a colloquio con il generale Broulard. Quest’ultimo persuade il primo, promettendogli un avanzamento di carriera, a sferrare un attacco contro il “Formicaio”, una postazione strategica tedesca. Nonostante l’attacco sia prevedibilmente suicida, Mireau accetta l’incarico, accecato dall’ambizione. Egli si reca quindi nella trincea francese per ispezionare i soldati e impartire l’ordine al capo del reggimento, il colonnello Dax. Nonostante le sensate rimostranze che questi mostra di fronte all’impossibilità della missione e all’alto numero di vittime pronosticato dal generale, Dax deve comunque accettare l’incarico, dal momento che, in ogni modo, i suoi uomini verranno utilizzati per l’attacco. Come previsto la missione si rivela suicida e alcuni soldati, bloccati dalla pioggia di fuoco nemico, non riescono neanche ad uscire dalle trincee. Mireau cerca di far uscire i battaglioni dalle loro postazioni ordinando, inutilmente, di aprire il fuoco contro di essi. L’attacco fallisce e il generale, non potendo far giustiziare tutta la truppa, suggerisce a Broulard di far fucilare almeno un soldato di ognuno dei tre reggimenti come esempio per tutti gli altri. Dax si oppone e ottiene di fare da avvocato difensore dei tre soldati scelti come capri espiatori: Paris (vittima della coscienza sporca del suo superiore Roget), Ferol (scelto perché “socialmente indesiderabile”) e Arnaud (tirato a sorte). I tre vengono condannati a morte per codardia, e nonostante i tentativi fatti da Dax per salvarli, vengono fucilati. Nel finale, in un’osteria, i soldati sopravvissuti si commuovono davanti al canto di una ragazza tedesca; per loro sono gli ultimi istanti di svago, prima della nuova partenza per il fronte.
Pur trattandosi di un film di guerra, peraltro accostato a pellicole antimilitariste come All’Ovest niente di nuovo (Milestone, 1930) o al francese La grande illusione (Renoir, 1937), ciò che più colpisce ad una prima visione di Orizzonti di gloria è la totale assenza del nemico: il fantomatico Formicaio è spesso nominato, ma di fatto lo vediamo solo da lontano, apparentemente privo di vita; nessuna inquadratura ci mostra un solo soldato tedesco, di essi sentiamo soltanto il fuoco scagliato contro i soldati francesi durante l’attacco. L’unico “nemico” che ci viene mostrato è la ragazza tedesca che compare nel finale (interpretata da Christiane Harlan, futura moglie del regista), una sorta di “preda bellica” inizialmente da umiliare e schernire, con la quale però poi i soldati francesi condivideranno le lacrime. Una scena che Marcello Walter Bruno interpreta come una sorta di «vittoria morale dello sconfitto, che si rivela marxisticamente fratello nello sfruttamento» . Questo finale quindi rappresenta una «fraternizzazione sempre possibile, perché siamo uomini soprattutto per la facoltà che abbiamo di uscire da noi stessi per cercarci, ritrovarci e riconoscerci negli altri» .
Il nemico tedesco non compare di fatto in nessuna inquadratura, di conseguenza il nemico è interno: è il tenente francese Roget che, ubriaco e impaurito, uccide con una bomba a mano il soldato Lejeune con il quale era di pattuglia insieme a Paris; il generale Mireau che durante l’attacco ordina all’artiglieria di sparare contro i soldati francesi per farli uscire dalle trincee, fino al plotone di esecuzione che fucila i proprio commilitoni condannati per vigliaccheria. È ancora il tema dell’uomo contro se stesso che torna in modo secco e diretto nell’opera di Kubrick, il quale non risparmia tutto il suo astio verso l’istituzione militare: essa vuole basarsi sui valori astratti di Patria, ma usando il colonnello Dax come suo “portavoce”, il regista afferma che «il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie» (citando una massima di Samuel Johnson). L’istituzione militare per Kubrick «si rivela un meccanismo disumano fondato sul potere che un’élite ha di ordinare a grandi masse di persone sia di uccidere che di essere uccise» , un modo di vedere riassumibile in un noto aforisma: «la guerra è il massacro di persone che non si conoscono, per conto di persone che si conoscono ma non si massacrano». Il regista fornisce ulteriore conferma del suo punto di vista nella sequenza in cui Dax va a trovare Broulard per convincerlo ad annullare l’esecuzione; il generale spiega che non può farlo per la questione del morale delle truppe: «Questa fucilazione sarà un tonico per tutta la divisione. Ci sono poche cose più incoraggianti e stimolanti di veder morire gli altri. Colonnello, i soldati son come bambini, per i bambini ci vogliono padri energici e per i soldati la disciplina, e un modo per mantenere la disciplina è fucilare un uomo ogni tanto».
La polemica antimilitarista di Kubrick è quindi nella trasformazione del nemico di guerra in un nemico situato all’interno stesso della struttura militare e chi la comanda, ma, nel contesto del film, questa polemica va ad inserirsi all’interno di una riflessione più ampia: come in tutti i suoi film, l’intenzione di Kubrick è quella di esprimere tematiche riscontrabili universalmente in ogni genere, e non solo in questo caso nel film di guerra; in tal senso il problema centrale del film non è più l’attacco all’istituzione militare, ma il rapporto tra individuo e società: «la microstruttura sociale dell’esercito diviene in questo modo paradigma dell’intera macrostruttura sociale, (…) con una rigida divisione in gradi che corrispondono alle divisioni sociali in classi» . Uno dei tratti maggiormente sottolineati dal regista è l’autoreferenzialità della struttura sociale, ovvero la tendenza di quest’ultima a rendersi indipendente, dotata di una propria logica e di proprie regole, una struttura autonoma da ogni cosa, con i propri riti e un proprio linguaggio . Questo, nella struttura militare, è ricco di termini retorici, patriottici, paternalistici, dove il significato delle parole si piega a nuovi scopi e intenti: ad esempio il generale Broulard chiama «figliolo» Dax con il fine, non raggiunto, di accattivarsi le sue simpatie; Mireau durante l’ispezione in trincea consiglia ad un soldato di curare la manutenzione del suo fucile («È il tuo migliore amico; abbi cura di lui, e lui avrà sempre cura di te»), cercando di stimolare la combattività dell’uomo, o ancora Dax che fa presente a Mireau di aver definito il Formicaio «abbordabile», come se stesse parlando di una donna di facili costumi. Ma l’autoreferenzialità della struttura appare in modo evidente nella «logica del potere che rende gli uomini non soggetti pensanti, ma oggetti pensati. Una reificazione che riduce i soldati anonimi combattenti, insetti all’assalto di un “Formicaio”» . Si tratta di «una logica implacabile, una logica del calcolo e della convenienza che non lascia spazio alcuno alle ragioni della coscienza e che, in particolare, annulla il valore intrinseco della vita umana» . Le vite dei soldati (quindi la classe sociale più bassa) diventano così oggetto di scambio (Mireau accetta la missione suicida pur di ottenere la promozione), di contrattazione (seduti a tavolino Mireau e Broulard decidono il numero di soldati da processare e fucilare) e soprattutto di freddo calcolo, attraverso il folle discorso di Mireau a Dax, quando il generale illustra al colonnello il numero di perdite previste durante l’attacco:
«Diciamo 5% uccisi dal loro stesso sbarramento, una concessione molto generosa. Un altro 10% nell’attraversare la terra di nessuno, e un 20% nel passare i reticolati. Resta un 65%, con la parte peggiore superata. Diciamo un altro 25% nella conquista vera e propria del Formicaio. Ci restano ancora forze più che sufficienti per tenerlo».
A proposito della ritualità e della rappresentatività della struttura militare (o sociale), il film propone una ripetizione di atteggiamenti, ruoli e rituali in cui nessun elemento della struttura può venir meno: «la macchina rappresentativa deve avere la meglio sull’individuo e sulla sua “naturalità”; gli istinti di sopravvivenza dell’individuo vengono rinnegati, cancellati, rimossi, censurati e deformati di fronte alle esigenze della messa in scena bellica dell’eroismo» . Ed è questo che fa Mirau, ad esempio durante l’ispezione alle trincee, quando rimprovera a un soldato in preda a shock da bombardamento che questo «non esiste», oppure nella scena del processo, dove il pubblico ministero interrompe con disprezzo la testimonianza di uno degli imputati, dicendogli che la corte non è interessata a ciò che egli ha visto, ma solo a ciò che lui ha fatto (in questo caso il soldato si stava difendendo affermando di essersi ritirato quando ha visto tornare indietro i suoi compagni di reparto). Un altro esempio è nel rituale dell’esecuzione, dove i soldati vengono invitati a nascondere la loro angoscia e la loro disperazione («Ci saranno giornalisti e personalità là fuori. Tu hai moglie e famiglia, come vuoi essere ricordato? »). Tutto questo prende la forma di un macabro spettacolo per la classe alta, i generali, che seduti a colazione non possono fare a meno di commentare con soddisfazione l’esito dello show che hanno preteso: «Questo genere di cose è sempre opprimente, però questa aveva un certo suo splendore, (…) sono morti meravigliosamente». Secondo Bruno: «l’ipotesi di Kubrick è che il soldato semplice non desidera essere ucciso e, quando combatte, lo fa perché costretto dall’istituzione totale; mentre l’ufficiale è trascinato da un immaginario in cui Eros e Thanatos si confondono fino a sovrapporsi» .
Orizzonti di gloria presenta un netto contrasto tra l’eroe principale, il colonnello Dax, e il contesto nel quale è costretto ad agire. Dax rappresenta il difensore della giustizia e dell’umanità ed il suo punto di vista è anche quello di Stanley Kubrick; il regista sembra a tratti “usare” il personaggio per lanciare le sue accuse verso la società, in particolare è eloquente la frase con la quale Dax apre il suo monologo difensivo alla fine del processo: «Vi sono occasioni in cui mi vergogno di appartenere al genere umano, e questa è una di quelle». Il film mostra tutta l’impotenza di un personaggio “normale” all’interno di un contesto assurdo, che cerca infine di inglobarlo nella sua struttura: ciò è evidente nel finale del film, quando Broulard, dopo essersi liberato di Mireau, propone a Dax il posto del generale, convinto che questo fosse il vero obiettivo della crociata difensiva del colonnello. Dax, indignato per aver visto equivocare le sue giuste intenzioni, rifiuta duramente («Vuole che le dica brutalmente cosa può farci con quella promozione?»), cosa che sorprende sinceramente Broulard, totalmente assuefatto al sistema: «Colonnello Dax, lei è una delusione per me. Lei ha rovinato l’acume della sua mente sguazzando nel sentimentalismo. Lei voleva salvare quegli uomini? E non aspirava al comando di Mireau? Lei è un idealista e la compiango come un minorato». L’attacco di Kubrick al sistema militare emerge ancora dall’identificazione del regista con il protagonista della pellicola, lo vediamo attraverso lo sfogo di Dax al generale Broulard nella scena medesima: «Le chiedo scusa, Signore, per non averle detto prima che lei è un vecchio, sadico e degenerato, e può andare al diavolo! ».
Il lavoro fatto dal regista in fase di sceneggiatura, a proposito della caratterizzazione del personaggio principale, viene fuori attraverso un confronto con il romanzo omonimo di Humphrey Cobb dal quale è stato tratto il film: qui infatti non è il colonnello a difendere i tre soldati al processo, né a cercare di salvarli davanti a Broulard. Oltre che per ragioni “divistiche” (la star Kirk Douglas, produttore del film, mai avrebbe permesso che il suo personaggio avesse un ruolo non da protagonista assoluto) «Kubrick rimodella il carattere dei personaggi dando maggiore estensione al lato giudiziario della vicenda, in modo da mostrare la logica perversa e le tragiche meschinità della vita militare» .
Come abbiamo visto, in Orizzonti di gloria i generali e i soldati si muovono in universi fisici e mentali antitetici; a proposito di questo Alonge ci fa notare un particolare molto interessante, ovvero come la contrapposizione tra queste due fazioni sia inscritta graficamente nella scenografia della sala dove si svolge il processo:
«il pavimento presenta una griglia di quadrati bianchi e neri, analoga a una scacchiera, la cui geometria è però rotta da un grande cerchio nero, all’interno del quale siede uno degli imputati (…). Il décor della sala dove si esplicita lo scontro tra i generali e i soldati esprime fisicamente l’opposizione tra due concezioni diametralmente opposte della guerra: da un lato l’idea – del tutto teorica – della battaglia come partita a scacchi, come attività pienamente razionale, dall’altro l’esperienza vissuta dai combattenti, in base alla quale lo spazio-tempo della battaglia è un “buco nero”, un flusso ininterrotto di orrore che non è né misurabile né controllabile» .
A proposito del paragone tra la guerra e gli scacchi, un motivo già incontrato in Fear and desire, anche Orizzonti di gloria presenta affascinanti elementi di paragone tra le vicende del film e il gioco. Come abbiamo visto poc’anzi, il pavimento della sala dove si svolge il processo sembra un’enorme scacchiera e questo motivo avvolge simbolicamente tutto il film, in quanto il generale è pronto a sacrificare i suoi soldati-pedoni pur di raggiungere il suo scopo: Mireau quando impartisce l’ordine a Dax ragiona esattamente come un giocatore di scacchi («Metà dei suoi uomini periranno ma avranno permesso all’altra metà di prendere il Formicaio»). Un richiamo si può fare anche a proposito della struttura labirintica della trincea, laddove il percorso interno obbligato può essere accostato al percorso dei pezzi degli scacchi, dei pedoni in particolare. Inoltre «alla fine del film si scopre che i francesi hanno catturato la “regina” avversaria: magra consolazione, poiché la regina non ha per nulla il valore del re, e dunque la partita continua, con i suoi massacri» .
Marcello Walter Bruno riporta un’altra suggestiva interpretazione di Orizzonti di gloria, secondo cui la presenza di un processo truccato al centro del film è un chiaro riferimento ai processi falsati tenuti dall’HUAC (la commissione per le attività antiamericane) negli anni‘50 del senatore anticomunista McCarthy, con un conseguente richiamo alla “caccia alle streghe” ancora in atto nel periodo in cui fu realizzato il film .
Un elemento curioso di Orizzonti di gloria riguarda alcuni nomi che il regista ha scelto per i personaggi: il narcisismo di Mireau è sottolineato dall’assonanza con la parola francese miroir (“specchio”), Broulard ricorda il termine brouillard (“nebbia”), il comandante di batteria che si oppone all’ordine del generale di far fuoco contro le truppe rintanate nelle trincee si chiama Rousseau, come il filosofo («a simboleggiare una ragione settecentesca che tenta di opporsi all’irrazionalismo bellicista del XX secolo» ) e infine il capo di uno dei reggimenti si chiama Renoir, evidente omaggio al regista de La grande illusione.
Orizzonti di gloria, come quasi tutti gli altri film di Kubrick, ha l’aria di essere un film intellettuale, cosa che si denota in modo particolare dalle scelte stilistiche del regista. Lo stesso Kubrick in un’intervista già citata in precedenza affermò a proposito: «Non posso riassumere verbalmente in modo preciso il significato filosofico di un film, ad esempio, Orizzonti di gloria. Il suo scopo è coinvolgere il pubblico in un’esperienza. I film hanno a che fare con le emozioni e riflettono la frammentarietà delle esperienze. Quindi è fuorviante cercare di riassumerne verbalmente il significato». Tuttavia, nonostante la tendenza di Kubrick a prendere le distanze da ogni richiesta di spiegare o definire un suo film, all’interno di questa pellicola il messaggio portato avanti dal cineasta americano è così diretto e lampante che appare difficile non poter catalogare Orizzonti di gloria come un film di guerra antimilitarista (la cui proiezione fu però censurata in Francia per più di quindici anni). Un film splendido dal punto di vista tecnico e tematico e sarebbe doveroso per questo ringraziare l’attore-produttore Kirk Douglas, quando a suo tempo si convinse a realizzarlo, dicendo a Kubrick: «Stanley, non credo che questo film potrà mai guadagnare un soldo, ma noi dobbiamo farlo» .
IL DOTTOR STRANAMORE:
LA GUERRA FREDDA COME PARTITA A SCACCHI
Dopo aver girato nel 1962 il film Lolita, Stanley Kubrick si interessa alla corsa agli armamenti nucleari e alla seria possibilità di un conflitto atomico: è il periodo della guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica; la convinzione sovietica che il conflitto tra il mondo capitalista e il mondo comunista dovesse ancora venire, fu uno dei motivi per cui l’Armata Rossa mantenne sul piede di guerra un numero imponente di divisioni nel periodo successivo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Da questa situazione derivò la seguente politica di dissuasione tra i due blocchi, basata sulla comune corsa agli armamenti nucleari, per cui ad ogni eventuale offensiva da parte di una delle potenze sarebbe corrisposta una mossa egualmente distruttrice da parte dell’altra (dottrina della “risposta graduale”). Kubrick diviene in breve tempo un esperto sull’argomento e ispirato da un’affermazione del presidente Kennedy di fronte all’ONU («Oggigiorno, ogni abitante della terra deve considerare l'idea che questo pianeta possa non essere più abitabile. Ogni uomo, donna e bambino vive sotto la spada di Damocle del nucleare, la quale è attaccata al più sottile dei fili che può essere reciso in ogni momento da un incidente, un errore di calcolo o un eccesso di follia» ), prende come riferimento il thriller Red Alert di Peter George per girare un film drammatico, accorgendosi ben presto che il registro più adatto alla pellicola è quello satirico:
«Ho iniziato a lavorare alla sceneggiatura con tutte le intenzioni di fare del film una seria trattazione del problema di una guerra nucleare accidentale. Ma appena incominciavo ad immaginare in che modo sarebbero dovute andare le cose, mi venivano in mente idee che ero costretto a scartare in quanto ridicole. Ma in seguito mi resi conto che le cose che non prendevo in considerazione erano proprio le più verosimili. Dopo tutto cosa vi potrebbe essere di più assurdo dell’idea di due superpotenze che decidono di spazzare via ogni forma di vita umana a causa di un banale incidente, alimentato da divergenze politiche che tra un centinaio di anni sembreranno tanto prive di senso quanto oggi a noi le dispute teologiche medievali?» .
In una prima bozza il film, inizialmente intitolato The delicate balance of terror (“Il delicato equilibrio del terrore”), comincia con degli extraterrestri che osservano la Terra in seguito all’olocausto nucleare, il regista però si rende conto che la storia dovrebbe presentare le assurdità in una cornice realistica; Kubrick, stesura dopo stesura, stava per giungere alla realizzazione di un altro dei suoi capolavori: Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, uscito nel 1964. Il film comincia con il paranoico generale Jack D.Ripper che ordina al capitano Mandrake, dalla base dell’aviazione militare di Burpelson, un attacco nucleare contro l’Unione Sovietica. Il presidente degli Stati Uniti, appresa la situazione, riunisce nel centro operativo (la War Room) i vertici militari e politici. Il generale Turgidson vorrebbe approfittare della situazione per debellare definitivamente i sovietici, ma il presidente Muffley decide di attaccare la base di Burpelson per ottenere da Ripper il codice segreto per richiamare i bombardieri. Muffley convoca l’ambasciatore russo Sadesky, insieme al quale telefona al presidente sovietico Kissoff; il presidente americano gli suggerisce il modo di abbattere gli aerei americani, poiché è venuto a sapere che se anche solo una bomba dovesse cadere sull’URSS, automaticamente scatterebbe l’ordigno “Fine del Mondo”, che distruggerebbe l’intero pianeta. Mentre i B-52 si avvicinano all’Unione Sovietica, la base dell’aviazione viene presa, ma Ripper si suicida. Mandrake riesce però a dedurre il codice segreto da alcuni appunti del generale e a comunicarlo al presidente: i bombardieri vengono richiamati, altri sono stati abbattuti; solo quello comandato dal maggiore Kong, poiché danneggiato, non ha ricevuto l’ordine di richiamo, e così egli si getta a cavalcioni della bomba sulla base di Laputa. Lo scienziato di origine tedesca, il dottor Stranamore, il cui braccio meccanico ne rivela il passato nazista, espone al consiglio la sua teoria per continuare la vita umana in miniere sotterranee e ripopolare in futuro il pianeta (con dieci donne per ogni uomo), mentre intanto funghi atomici devastano il mondo sulle note della canzone We’ll meet again (“ci incontreremo ancora”).
Ne Il Dottor Stranamore ritroviamo temi cari alla cinematografia di Kubrick, come l’antimilitarismo, l’irrazionalità dell’uomo, folle nemico di se stesso e ancora il tema degli scacchi: torna quindi la guerra, che il regista utilizza per realizzare un film definito fantapolitico. Ma stavolta la guerra, a differenza di Fear and desire e Orizzonti di gloria, è nettamente presentata come un sistema di mosse e contromosse, un gioco matematico, logico, determinato da calcoli e controcalcoli, da azioni e reazioni, giocata su una scacchiera metaforicamente inscritta nel netto contrasto tra il bianco e il nero della fotografia e dove il terreno di gioco è rappresentato dagli enormi pannelli presenti nella War Room. La guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica è allora un conflitto inteso come una grande partita a scacchi, attraverso la dottrina della “risposta graduale” già citata in precedenza, in cui ogni mossa da parte di una fazione apre una serie di opzioni possibili per l’altra: «La guerra diviene quindi un reticolo logico di possibilità governato da un meccanismo che, a determinate mosse, fa immediatamente corrispondere delle contromosse già previste, con un grado massimo di prevedibilità e di automatismo» . A giocare questa guerra sono sì gli uomini, ma soprattutto le macchine, programmate in modo tale da effettuare autonomamente determinate contromosse, come l’ordigno “Fine del Mondo”, capace di innescarsi automaticamente alla prima offensiva avversaria. La bravura di Kubrick sta tutta nel rendere la guerra metafora del gioco, rappresentando l’aspetto razionale della strategia, della tattica e allo stesso tempo trasformando la realtà drammatica della situazione in un gioco tra potenti: in questa guerra «non ci sono più degli uomini che combattono e muoiono, ma delle pedine che si affrontano sulla scacchiera di un mondo divenuto teorico, con l’esiziale possibilità, però, che esploda veramente nella sua cieca fiducia verso le macchine» . Come il generale Mireau in Orizzonti di gloria, abbiamo anche ne Il dottor Stranamore un personaggio che ragiona come un giocatore di scacchi; non a caso è ancora un generale, Turgidson, a volere il sacrificio degli uomini-pedoni, i civili in questo caso, pur di avere la meglio sul nemico; è la scena in cui egli suggerisce al presidente americano di non fermare l’attacco atomico, in modo da sfruttare l’effetto sorpresa: «vinceremmo subendo perdite modeste e accettabili fra i civili, mentre il nemico riporterebbe perdite dalle quali non potrebbe risollevarsi. (…) Io non dico che non ci costerà proprio niente, però io dico non più di dieci-venti milioni di morti, massimo». Kubrick pensa alla guerra fredda come ad un grande gioco (abbiamo detto gli scacchi, ma come non pensare anche al noto gioco da tavola «Risiko») e «il fatto che in questo war game non possono esistere vincitori, non costituisce la morale del film ma piuttosto il suo presupposto; la morale è che gli uomini di potere, anche se il gioco distruggerà l’umanità, lo giocheranno lo stesso» . Lo stesso regista pretese dallo scenografo Ken Adam che il tavolo della War Room fosse dipinto di verde, anche se il film sarebbe stato girato in bianco e nero: «Voglio che i trentasei personaggi seduti intorno a questo tavolo stiano facendo una gigantesca partita a poker per decidere le sorti del mondo» . Lo scontro è però ideologico (capitalismo contro comunismo) e giocato a distanza: al telefono, mediante la pressione di un pulsante o attraverso un codice segreto che può scatenare l’attacco atomico. É per questo che il presidente Muffley non sopporta il litigio fisico tra Turgidson e l’ambasciatore russo Sadesky nella War Room ed è costretto a rimproverarli: «Signori, non potete fare a botte in centrale operativa!» (battuta che rende molto meglio nella versione originale, dove prende la forma di un ossimoro: «Gentlemen, you can’t fight in here, this is the War Room!»).
Anche ne Il dottor Stranamore il nemico dell’uomo è interno; vediamo soldati americani combattere contro altri soldati americani (durante la presa della base di Burpelson), e ancora, il presidente Muffley che suggerisce ai sovietici il modo di abbattere i bombardieri americani. I soldati americani che attaccano Burpelson vengono scambiati per sovietici travestiti da americani («Guarda quei camion, tali e quali ai nostri!», afferma un soldato), nel tentativo subconscio di voler trasferire il nemico al di fuori dei propri confini. Ma non è solo il sistema ad implodere, sono anche gli uomini a perdere il controllo di loro stessi, basti pensare alla folle paranoia che porterà il generale Ripper (che accusa i russi di avergli «avvelenato i fluidi vitali») al suicidio; a Turgidson che si esalta (aprendo le braccia per imitare il volo di un aereo) nel commentare la bravura dei suoi piloti nel saper nascondere il B-52 ai radar nemici, anche se tale bravura porterà alla distruzione del pianeta; al maggiore Kong che, a cavalcioni della bomba atomica in caduta libera sull’obiettivo, si lascia andare a urla di entusiasmo sventolando il suo cappello da cowboy (come se partecipasse ad un rodeo); e ovviamente al braccio meccanico del dottor Stranamore, che cerca di colpirlo e strangolarlo (ritroviamo una scena simile in Full Metal Jacket, quando l’istruttore Hartman ordina al soldato Palla di Lardo di strangolarsi da solo), fino allo stesso “miracolo” finale in cui lo scienziato si alza in piedi dalla sedia a rotelle (con la celebre esclamazione: «Mein Führer, io cammino!»), in coincidenza con l’esplosione della bomba: «I corpi divengono dunque simili a marionette impazzite, i cui centri di coordinamento sono stati lesionati in modo irreversibile» . Una perdita della razionalità che si dimostra insanabile, dalla quale gli uomini non riescono a sfuggire; anche se il mondo intorno a loro sta per finire, essi continuano comunque ad essere loro stessi, con le loro ossessioni: l’ambasciatore russo nella confusione finale continua a scattare fotografie di spionaggio (che senso ha farlo se il pianeta sta per essere distrutto?), così come Turgidson trasferisce nel futuro teorizzato da Stranamore tutte le sue fobie anticomuniste:
«Saremmo degli ingenui, signor Presidente, se pensassimo che questa situazione del tutto transitoria possa cambiare la politica sovietica di espansione. Voglio dire che dobbiamo ancora stare più sul chi vive per impedirle di portarci via le miniere, con le quali si potrebbero moltiplicare molto più rapidamente di noi e così, tra cent’anni, fregarci col numero. Signor Presidente noi dobbiamo assolutamente impedire un “vuoto minerario”!».
Secondo Kubrick quindi l’uomo non riesce in nessun caso a cambiare la propria natura, non imparando mai dai propri errori e da tutti quegli errori che la storia insegna; l’uomo continuerà sempre ad essere l’artefice della propria fine, fino a quando non resterà più nulla: «Il problema atomico – dice il regista – è il solo in cui non c’è la possibilità che qualcuno apprenda qualcosa dall’esperienza. Il giorno che succedesse qualcosa, resterebbe tanto poco del mondo che conosciamo, che l’esperienza non servirebbe a nessuno» .
Quella in cui è ambientato il film universalmente è conosciuta come guerra fredda, ma in realtà Kubrick ci ha mostrato come invece quella guerra fosse più calda di quanto si potesse immaginare e di come la deterrenza («l’arte di instillare nella mente del nemico la paura di attaccare» ci spiega lo stesso Stranamore) fosse sì presente, ma pericolosamente scavalcabile tramite un qualunque gesto di follia, quella stessa follia che, secondo il regista, si cela all’interno dell’istituzione militare. In una scena del film il generale Ripper, rivolto all’ufficiale Mandrake, cita un aforisma dello statista francese Clemenceau, secondo il quale «la guerra è troppo importante per farla fare ai generali». Il personaggio continua affermando che: «quando diceva questo, forse avrà avuto ragione; oggi invece è troppo importante per farla fare agli statisti». Kubrick con il suo film sembra suggerire che la guerra non dovremmo lasciarla fare né agli uni né agli altri.
Ma oltre alla drammaticità di fondo, ciò che fa de Il dottor Stranamore un film unico nel suo genere è l’impronta grottesca del film, data, oltre che dai superbi dialoghi e dalla straordinaria interpretazione di Peter Sellers (nel triplice ruolo di Mandrake, Muffley e Stranamore), anche dai nomi che Kubrick ha scelto per i personaggi e per i luoghi; la lista è ricca di esempi: il presidente americano Murkin Muffley (“sporca vagina”), Jack D. Ripper (Jack lo squartatore), Strangelove (Stranamore), Sadesky (“cielo sadico”), Kissoff (“vaffanculo”), Turgidson (“figlio del turgido”), Bat Guano (“cacca di pipistrello”), King Kong, Mandrake, il B-52 Leper Colony (“colonia di lebbrosi”), le basi di Burpelson (“figlio del rutto”) e Laputa (“la prostituta”). Kubrick utilizza questo gioco di nomi e nomignoli «per essere satirico, ingiurioso e volgare» (come da lui stesso dichiarato ), e nel film questa ricerca di un grottesco sfrenato e volgare lo rende immediatamente satirico; Enrico Ghezzi sottolinea come «l’accusa sempre rivolta alla farsa, anche alla più geniale, di non riuscire a contestare realmente ciò di cui si parla (…), qui cade non appena il “contenuto” farsesco viene a confronto con la strutturazione accuratissima dell’insieme (della “denuncia”)» .
Il dottor Stranamore è un film satirico, grottesco, ma incredibilmente realistico; tale realismo nel film trova riscontro come abbiamo visto in precedenza nelle parole del presidente americano Kennedy, ma anche nelle caratterizzazioni dei personaggi: il generale Turgidson sembra ricalcato sulla figura del capo di stato maggiore dell’aviazione statunitense Curtis LeMay, un uomo capace nel 1957 di dire che, in caso di attacco da parte dei sovietici, lui avrebbe dato loro «una mazzata in testa prima che avessero il tempo di decollare» e, nel 1968, che gli Stati Uniti dovevano «rimandare il Vietnam del Nord all’età della pietra a suon di bombe» . Inoltre, le previsioni del personaggio kubrickiano sulle perdite che avrebbero subito gli USA in caso di attacco, riflettono le reali previsioni degli esperti di guerra nucleare di quegli anni, citate quasi alla lettera; il personaggio di Stranamore invece fa immediatamente pensare alla figura di Henry Kissinger, consigliere di origine tedesca dell’allora presidente Kennedy. La visione di Kubrick influenzò a tal punto le alte sfere che negli anni’80 Ronald Reagan, appena eletto presidente degli Stati Uniti, chiese al capo di stato maggiore di fargli visitare la War Room della Casa Bianca. Il capo dello staff gli rispose che non esisteva alcuna War Room; Reagan, stupito, disse: «Ma io l’ho vista in quel film... Il dottor Stranamore!» .
Stanley Kubrick in un’intervista del 1963 , racconta il suo punto di vista a proposito del film e della minaccia nucleare:
«É spesso difficile non avere una visione cinica dei rapporti umani. Ma penso che in un soggetto come questo il cinismo potrebbe servire alla fine per uno scopo costruttivo. Mi è sembrato che, dal momento che questa è una tragedia che non è ancora avvenuta, ogni sguardo in profondità che può essere fornito, ogni senso di realtà che può essere attribuito ad essa per non farla sembrare solo un’astrazione, sarebbe stato davvero utile».
FULL METAL JACKET:
LA “MECCANIZZAZIONE” DELL’UOMO
Due anni dopo la realizzazione di Shining, del 1980, l’attenzione di Stanley Kubrick ricade sul racconto The Short Timers di Gustav Hasford, in cui alcuni giovani marines vengono addestrati in un campo di addestramento per poi essere mandati in Vietnam a combattere. Affascinato dai vari risvolti della storia («Quando ho letto il libro ho trovato irresistibili l’originalità, la bellezza dello stile, la semplicità» , ha detto il regista), Kubrick acquistò i diritti del libro, cominciando così a lavorare alla sceneggiatura di Full Metal Jacket, uscito nel 1987. Michael Herr, co-sceneggiatore del film, ricorda lo scambio di battute tra lui e Kubrick alla “nascita” di Full Metal Jacket; il regista disse di voler fare un film di guerra, Herr gli fece notare che aveva già fatto Orizzonti di gloria, al che Kubrick rispose: «Quello è contro la guerra. Voglio fare un film di guerra solo per considerarne il soggetto, senza una posizione morale o politica, ma come fenomeno» .
Il termine “full metal jacket” (letteralmente “copertura piena di piombo”), che non compare in nessuna parte del racconto, descrive il rivestimento di un tipo di proiettile e in un certo senso richiama alla metaforica corazza di metallo (come quella degli automi) nella quale venivano avvolti i marines per essere trasformati in killer.
L’intenzione del regista, attraverso questo film, è di inserire alcuni temi già affrontati nelle sue opere precedenti in un contesto bellico moderno, come quello vietnamita: «Il Vietnam è stata probabilmente l’unica guerra dominata dai falchi intellettuali che manipolavano i fatti e perfezionavano la realtà, ingannando sia loro stessi che il pubblico» .
Ma il tema che più di altri Kubrick intende affrontare con Full Metal Jacket è quello della “meccanizzazione” dell’uomo, ovvero del rendere automatico un qualcosa di naturale, un tema nel quale il regista si era addentrato esplicitamente, già dal titolo, in Arancia meccanica, nel 1971.
Le vicende di Full Metal Jacket si svolgono in due segmenti ben delineati: l’addestramento a Parris Island e il Vietnam. La scena d’apertura del film mostra un gruppo di ragazzi a cui stanno radendo a zero le teste: ci troviamo nel campo d’addestramento di Parris Island; il sergente istruttore Hartman si presenta ad un gruppo di reclute, destinate a diventare marines, “macchine da guerra”. Il linguaggio dell’istruttore è offensivo e osceno; egli mostra immediatamente tutta la sua severità nei confronti di chi non si è ancora inquadrato nella disciplina imposta dalla procedura militare. In questa fase iniziale di presentazione emergono i personaggi di Joker, un giovane dall’aria intellettuale e scherzosa, di Cowboy e in particolare di Palla di Lardo, un ragazzo goffo e imbranato, sul quale Hartman riversa tutta la sua crudele offensività. Le scene che seguono mostrano il training al quale vengono sottoposte le varie reclute, dove agli esercizi fisici si alternano fasi in cui l’istruttore cerca di plagiare le menti dei futuri soldati mediante riti collettivi inneggianti alla guerra e alle armi. Joker, nonostante i continui rimproveri subiti, diventa caposquadra, mentre Palla di Lardo, messo continuamente alla berlina, viene emarginato dai suoi stessi compagni di camerata, costretti da Hartman a pagare per ogni errore del loro compagno. Una notte il ragazzo subisce un pestaggio da parte di tutti gli altri soldati, Joker compreso (anche se inizialmente esitante); nei giorni seguenti Palla di Lardo mostra segni di instabilità, la sua “trasformazione” in macchina da guerra è quasi completa, per la soddisfazione del suo istruttore. L’ultima notte a Parris Island è però tragica: Palla di Lardo è sorpreso da Joker nel bagno mentre sta caricando il suo fucile con pallottole «blindatissime» (“full metal jacket” appunto); all’arrivo di Hartman il giovane gli spara e poi si uccide.
Una dissolvenza ci porta nel Vietnam; Joker è corrispondente di guerra per il giornale dell’esercito «Stars and Stripes». Durante l’offensiva del Tet, nella quale i vietcong attaccano l’esercito statunitense, Joker viene mandato al fronte a fare un reportage con il suo amico Rafterman. Qui ritrova il compagno di corso Cowboy e si unisce alla sua squadra; il gruppo riesce a liberare una città con poca difficoltà, l’entusiasmo aumenta con l’arrivo degli inviati televisivi che intervistano i vari marines. I soldati partono per una nuova missione verso la città di Hue, ma perdono l’orientamento e si ritrovano sotto il tiro di un cecchino, che uccide due di loro e in seguito lo stesso Cowboy. I rimanenti soldati individuano la posizione del cecchino e lo sorprendono alle spalle: si tratta di una giovane ragazza, alla quale Joker prova a sparare, non riuscendo poiché gli si inceppa il fucile. Mentre sta per essere ucciso, Rafterman giunge a salvarlo, sparando al cecchino; la ragazza è agonizzante, circondata dai soldati: Joker pone fine alle sofferenze della giovane, uccidendola. Il gruppo si allontana nella notte intonando il ritornello di Mickey Mouse.
Il tema kubrickiano che vediamo immediatamente riemergere in Full Metal Jacket è quello che mostra il sistema e la struttura dell’istituzione militare: «l’esercito affiora come struttura rigida e asettica, impersonale, funzionale; (…) una struttura violenta, costruzione ossessivamente minuziosa finalizzata alla distruzione e psicologicamente distruttrice e autodistruttrice di se stessa» . Il fine dell’esercito si concentra quindi nella distruzione della personalità umana, con l’obiettivo di possedere il controllo assoluto sull’individuo, attraverso la sua “meccanizzazione”. Lo stesso Hartman, presentandosi alle reclute, sottolinea questo passaggio fondamentale da essere naturale a essere meccanico: «Se voi signorine finirete questo corso e se sopravviverete all’addestramento, sarete un’arma, sarete dispensatori di morte, pregherete per combattere». Ma trasformare uomini in armi è possibile? Secondo Stanley Kubrick la risposta è affermativa: «Sì, trasformare esseri umani in armi è possibile. Come dice il sergente nel mio film: “Un’arma è solo un utensile, è il cuore duro che uccide”» (nella versione italiana del film è in realtà tradotto: «Il vostro fucile è solo uno strumento, è il cuore di pietra quello che uccide»). Il duro training al quale si sottopongono i soldati è finalizzato a distruggere la paura della morte e per distruggere questa è necessario distruggere la personalità: già nella primissima scena tale distruzione è inscritta nelle immagini dei giovani dal barbiere, dove vengono tutti quanti rasati a zero, primo elemento del processo di meccanizzazione ad accomunare i ragazzi, ognuno reso una sorta di “clone” dell’altro; in questa scena vediamo il barbiere militare “operare” sulle loro teste, quasi a presagire quel lavaggio del cervello al quale verranno sottoposti in seguito. In Full Metal Jacket: «il cervello è il vero campo di battaglia, il vero Vietnam, presupposto e posta in gioco della guerra. Parris Island è il luogo (isolano - isolato - isolante) del lavaggio del cervello e delle lavate di testa, è il luogo in cui s’interviene direttamente sulla testa» ; non a caso sulla locandina del film è presente un elmetto, ovvero la “testa” del soldato.
Joker, voce narrante del film, descrive in poche parole il luogo in cui si trova: «Parris Island, Carolina del Sud, campo di addestramento reclute del corpo dei marines degli Stati Uniti. Corso di otto settimane per falsi duri e pazzi furiosi». In questa bipartizione la giovane recluta mostra la sua lucidità, autoescludendosi di fatto dalla categoria dei “pazzi furiosi” e inserendosi quindi in quella dei “falsi duri”. Joker per tutto il film non è altro che questo, poiché sembra sfuggire alla disumanizzazione della sua personalità: quando alla fine è chiamato alla battaglia, fallisce, perché in lui è ancora acceso il lume dell’umanità e dell’intelligenza, perché non è un vero killer e il suo primo omicidio è causato dalla compassione e non dall’odio. Di conseguenza va osservato come ne Il dottor Stranamore e in Orizzonti di gloria la follia della guerra fosse dovuta all’orgoglio e all’ambizione dei generali, in Full Metal Jacket, invece, si basa essenzialmente sul tentativo del soldato Joker di restare sano in un ambiente folle.
Come sottolinea Magnisi: «Tutto il primo atto della pellicola sarà una lunga introduzione (un vero addestramento anche per gli spettatori) alla sottocultura dei marines, osservata con iperrealismo clinico dall’occhio di Kubrick, all’interno di un’ossessione per la geometria e la regola, l’ordine e la disciplina» . L’obiettivo dell’istruttore Hartman (peraltro interpretato da un vero istruttore dei marines, Lee Ermey) è standardizzare tutte le reclute secondo canoni prestabiliti, omogeneizzare il gruppo, escludendo ogni tipo di diversità, motivo per cui il soldato Palla di Lardo risulta il più difficile da “meccanizzare”, poiché la sua diversità è evidente nelle caratteristiche fisiche (la grassezza) e motorie (la goffaggine), che lo portano inevitabilmente ad essere il bersaglio prediletto del suo istruttore, che non risparmia oltraggi e offese per cercare di motivare (quindi standardizzare) il ragazzo: «Ma tu ci sei nato sotto forma di viscido sacco di merda, Palla di Lardo, o ci hai studiato per diventarlo? (…) Perché tu sei un ciccione ributtante e fai schifo, Palla di Lardo!».
Gli esercizi fisici, nonostante la durezza, risultano essere la parte d’addestramento più innocua e meno importante, è l’indottrinamento psicologico, invece, la parte fondamentale per plagiare le giovani reclute; il linguaggio usato da Hartman è esplicito e aggressivo, e le vittime di esso non possono che subirlo passivamente. L’istruttore cerca continuamente di costruire un rapporto di intimità e complicità tra la recluta ed il fucile, sottolineando l’importanza di questo connubio (ed è immediato il richiamo alle ispezioni del generale Mireau nelle trincee di Orizzonti di gloria): «Stanotte vi porterete a letto il vostro fucile e darete al vostro fucile un nome di ragazza, perché sarà quello l’unico buco che voialtri rimedierete qui dentro. (…) Siete sposati al fucile, quel coso fatto di legno e di ferro, e rimarrete fedeli soltanto a lui!». E ancora: «La più micidiale combinazione del mondo: un marine col suo fucile. Ma è sulla volontà di uccidere che bisogna concentrarsi. (…) Il vostro fucile è solo uno strumento, è il cuore di pietra quello che uccide». Joker, in uno dei rari interventi della sua voce fuori campo, dice che: «Il corpo dei marines non vuole dei robot, il corpo dei marines vuole dei killer, il corpo dei marines mira a creare uomini indistruttibili, uomini senza paura»; per cancellare la paura della morte dai soldati, il sistema deve quindi cercare di vendere un’immortalità “a basso costo”: «Un marine può morire, siamo qui per questo, ma il corpo dei Marine vivrà per sempre e questo significa che voi vivrete per sempre», dice Hartman e tutte le marcette e i ritornelli che fa intonare ai suoi soldati non sono altro che un accumulo di elementi che rappresentano una procedura (per un istruttore militare è la prassi) che ha come fine ultimo quello di plagiare le menti delle reclute. Tra tante situazioni, è piuttosto eloquente in questo caso la preghiera che i soldati devono recitare, fucile in mano, prima di andare a dormire:
«Questo è il mio fucile, ce ne sono tanti come lui, ma questo è il mio. Il mio fucile è il mio migliore amico, è la mia vita. Io devo dominarlo come domino la mia vita. Senza di me il mio fucile non è niente, senza il mio fucile io sono niente. Devo colpire il bersaglio; devo sparare meglio del mio nemico che cerca di ammazzare me. Devo sparare io prima che lui spari a me e lo farò. Al cospetto di Dio giuro su questo credo: il mio fucile e me stesso siamo i difensori della patria, siamo i dominatori dei nostri nemici, siamo i salvatori della nostra vita e così sia, finché non ci sarà più nemico, ma solo pace. Amen».
Un aspetto particolare che troviamo in Full Metal Jacket, ma che già abbiamo incontrato in Orizzonti di gloria, è il continuo tentativo della struttura militare di provare a piegare alla propria logica ogni tipo di azione ed ideologia, inglobandola nel proprio sistema: nella prima parte del film Joker dice al suo istruttore di non credere in Dio, nonostante le ripetute ed insistenti affermazioni del sergente riguardo al valore ideologico della religione cattolica; in un primo momento Hartman sembra infuriato, ma invece di punire il ragazzo lo nomina caposquadra, dicendo che: «Il soldato Joker è ignorante e senza dio, ma ha fegato e il fegato è tutto». In questo modo, come nota Eugeni, l’esercito dimostra: «la terribile capacità di ricondurre ai propri parametri ogni opposizione, non contrastandola, ma semplicemente privandola del proprio senso originario» . Un comportamento simile lo aveva assunto anche Broulard in Orizzonti di gloria, ritenendo la nobile azione difensiva di Dax niente più che una tattica per ottenere una promozione. Inoltre, come abbiamo visto nelle pellicole trattate in precedenza, dove gli eserciti combattono e uccidono i loro stessi soldati, anche in Full Metal Jacket il sistema finisce per implodere, per combattere contro se stesso: gli sforzi fatti da Hartman per rendere Palla di Lardo un killer vengono “premiati” nel finale della prima macrosequenza del film, dove il soldato, divenuto una macchina impazzita (come il computer Hal in 2001), uccide il suo istruttore, divenendo di fatto il killer che il duro addestramento doveva creare: «Quando Palla di Lardo scarica su [Hartman] i suoi proiettili blindati, nessuno tira sospiri di sollievo, ma anzi si resta agghiacciati, perché è chiaro che la morte di Hartman lascia viva e intatta l’istituzione; non arriva ad espiazione di alcuna colpa, ma a conferma dell’efficacia di un insegnamento» .
L’esperienza di Palla di Lardo incarna alla perfezione il tema dell’uomo come nemico di se stesso; già nelle prime scene del film l’ordine di Hartman alla sua recluta («strangolati da solo!», autocitando Stranamore) non era che il preludio all’omicidio-suicidio commesso dal soldato nell’ultima scena ambientata a Parris Island: «[Palla di Lardo] lobotomizzato da brutalità e umiliazioni, interiorizza la violenza dell’ambiente in cui è stato costretto a calarsi, discendendo nel cuore di tenebra della sua follia. (…) L’apprendista stregone Hartman è stato la vittima del suo Frankenstein che, come quella creatura riplasmata, rifiuta di vivere in questo mondo ultra-violento» .
Qui si chiude la prima parte del film, quella dedicata alla fase di addestramento; a proposito di questa è interessante citare un articolo del 1987 comparso sui «Cahiers du Cinéma»:
«I film di Kubrick descrivono il mondo come un cervello, inevitabilmente soggetto a disfunzioni (per ragioni a volte esterne, a volte interne). Full Metal Jacket illustra in modo ammirevole questa tesi. Il microcosmo del campo di addestramento di Parris Island in effetti è organizzato come un cervello composto da cellule umane che pensano e reagiscono nello stesso modo, fino a quando il suo buon funzionamento si disintegra: dall’interno nel momento in cui una cellula singola (Palla di Lardo) comincia ad eseguire inesorabilmente le direttive di istinto di morte che regolano l’organo nella sua interezza; dall’esterno con l’offensiva del Tet, rappresentazione esteriorizzata di un’identica forza» .
La morte di Palla di Lardo chiude il cerchio della violenza apertosi nel campo di addestramento, ma è solo il prologo alla guerra vera: terminata la rappresentazione dell’inferno interiore all’uomo (Parris Island), una breve dissolvenza ci porta nell’inferno esteriore, il Vietnam, che vede Joker come anello di congiunzione tra le due parti. Se nella prima grande sequenza la struttura dell’esercito costruisce i suoi killer, le sue macchine da guerra, mostrando la propria capacità di controllo sulle reclute (ad eccezione della “cellula impazzita” Palla di Lardo), la seconda parte del film svela la debolezza e la precarietà di questo processo di “meccanizzazione”; a contatto con la guerra saltano tutti i meccanismi di controllo e i suoi protagonisti si perdono: «La macchina militare si trova ad affrontare un territorio labirintico, complesso e smarrisce le coordinate: coordinate morali, coordinate militari (tutti i “gialli” possono essere nemici, il nemico non è più identificabile), coordinate fisiche (la pattuglia dispersa nello spazio labirintico di Hue)» .
Il Vietnam di Kubrick è iconograficamente un Vietnam inedito: non ci sono le giungle che i viet-movie precedenti avevano mostrato al pubblico; il regista rifiuta di ambientare il film attorno ad uno stereotipo e sfrutta una fabbrica in disuso sulle rive del Tamigi per realizzare il “suo” Vietnam: «L’architettura degli stabilimenti dell’ex fabbrica era l’architettura funzionale degli anni Trenta, esattamente uguale a quella di quartieri industriali delle città vietnamite come Saigon o Hue. L’ambientazione si prestava idealmente al soggetto del film» .
La prima scena, della parte ambientata in Vietnam, ci mostra subito Joker; di conseguenza lo spettatore mette a fuoco la sua figura come figura-chiave del film: qui ritroviamo il soldato nelle vesti di giornalista per «Stars and Stripes», nonostante la disapprovazione mostrata in precedenza a Parris Island da Hartman («Ti sei messo in testa di essere un cazzo di scrittore? (…) Non sei qui come scrittore, qui sei un killer!»). Nella redazione del giornale campeggia la scritta con il motto «First to go Last to know» (“primi ad andare, ultimi a sapere”), a sottolineare il fatto che la verità non era l’elemento primario di un giornale di guerra, che anzi doveva scrivere storie fasulle per accattivarsi il consenso dell’opinione pubblica sull’impiego dei soldati americani in Vietnam; a questo proposito è esemplare il discorso che il caporedattore di «Stars and Stripes» rivolge a Joker: «Noi pubblichiamo due tipi di storie: marines che spendono la paga per comprare ai gialli dentifrici e deodoranti, tipo “arte di sedurre i cuori”, okay? ..E storie di combattimenti con un sacco di morti, tipo “come vincere la guerra”». Lo stesso Kubrick ha spiegato come, quella del Vietnam, sia stata la prima guerra ad esser condotta negli Stati Uniti soprattutto come una campagna pubblicitaria: «La manipolazione della verità attraverso i mezzi di comunicazione di massa del governo fu uno degli obiettivi di questa campagna. Ciò ha condotto al fatto che l’opinione pubblica americana ha avuto un’immagine falsa e manipolata dell’intera guerra» . Kubrick sapeva che il conflitto vietnamita era stato il primo ad essere seguito dai media televisivi, per questo non ha risparmiato nel film i riferimenti all’iconografia tracciata dagli stessi media: quando uno dei soldati, Animal Mother, domanda a Joker se avesse mai visto il fronte, questi gli risponde: «Accidenti se l’ho visto: in televisione»; o ancora il soldato Cowboy, quando in un’intervista televisiva parla della guerra: «Quando siamo a Hue, noi entriamo in città, no? E lì è proprio come una guerra, capito? Come quello che... quello che io pensavo che deve essere una guerra vera, come io pensavo, come io... come me l’ero immaginata»; di conseguenza: «La guerra è già vista, è già registrata nell’archivio mnemonico di chi vi combatte grazie a cinema e televisione» . La presenza televisiva è in ogni dove, come i riferimenti dei soldati ai miti cinematografici americani, su tutti il genere western: Joker imita e cita più volte John Wayne, gli altri soldati paragonano i vietcong agli indiani, i “cattivi” per eccellenza nei western hollywoodiani del passato («Ma gli indiani chi li fa?» «Tocca ai musi gialli fare gli indiani»).
Dopo l’ennesima risposta beffarda rivolta al suo caporedattore, Joker viene spedito insieme a Rafterman (“l’uomo della zattera”, un richiamo a Fear and Desire) nella “zona calda”; è qui che incontra per la prima volta il reale orrore per la guerra, i suoi occhi si posano su una fossa comune e la sua indignazione lo porta ad una conclusione apparentemente ovvia («I morti sanno soltanto una cosa: che è meglio essere vivi»), ma che riassume appieno una delle verità che il regista vuole mostrare nella seconda parte del film: i soldati che vengono mandati a combattere in guerra, non lottano per niente se non per restare vivi, né per ideali né per fama quindi, ma solo per la sopravvivenza. Una verità che sottolinea il contesto mentale e non fisico del conflitto mostrato da Kubrick:
«In guerra è meglio esser vivi che morti e tutto il resto non conta. Dirlo a parole è semplice, “spiegarlo” con un film molto difficile. Spiegarlo crudelmente e virilmente come fa Full Metal Jacket, poi, richiede un’estrema precisione di tono, perché l’orrore di Full Metal Jacket non è negli schizzi di sangue e negli arti amputati ma nella dimensione mentale del combattimento, nella meccanizzazione della barbarie: il prodotto coerente della propedeutica di Hartman» .
Subito dopo questa scena, troviamo un elemento fondamentale della seconda parte del film, ovvero la spiegazione che Joker fornisce ad un ufficiale, dopo che questi ha notato sull’uniforme del soldato la presenza del distintivo della pace e della scritta “Born to Kill” (“nato per uccidere”) sull’elmetto: «Io volevo soltanto fare riferimento alla dualità dell’essere umano, signore, l’ambiguità dell’uomo, una teoria junghiana, signore». È l’ennesimo sberleffo di un buffone (in inglese “joker”, per l’appunto) che cerca di contrastare gli orrori della guerra mediante l’ironia e lo scherzo, oppure si tratta del tentativo di un uomo di elevarsi e di differenziarsi da una massa di automi tutti uguali tra loro, tutti standardizzati, attraverso l’uso dell’intelletto e della cultura? Sembra che la risposta si trovi a metà strada tra le due parti: Joker da un lato si ribella al sistema (come Palla di Lardo anche lui è un personaggio diverso dalla massa, ma molto meno vulnerabile) grazie alla sua coscienza e alla sua personalità, ma dall’altro sa stare al gioco dell’istituzione militare, comportandosi da perfetto integrato (partecipa al pestaggio collettivo contro Palla di Lardo, afferma alla televisione di voler essere il primo ragazzo del suo palazzo «a fare centro dentro qualcuno»): «Joker ha un ruolo di focalizzatore omodiegetico assai marcato, ma spesso assente e in chiara distonia con quanto concretamente fatto dal personaggio. Egli alterna momenti di lucidità osservativa ad altri di complicità irriflessa» .
Lo stesso Kubrick spiega la presenza del distintivo della pace sull’uniforme del protagonista: «Si tratta di un simbolo che indica dualismo. Il soldato Joker dice infatti al suo superiore che gli chiede cosa voglia significare quel bottone: che gli esseri umani sono divisi fra odio e diffidenza da una parte, amicizia e disponibilità dall’altra» . La dualità dell’essere umano evidenziata dal regista trova riscontro anche nei comportamenti degli altri personaggi: su tutti il soldato Animal Mother, presentato inizialmente come una sorta di Rambo dispensatore di morte (sul suo elmetto c’è scritto: “I am become death”, “sono diventato morte”), è colui che invece ha la lucidità di riconoscere che quella alla quale stanno assistendo in Vietnam è «una strage», inoltre contraddice gli ordini e si espone al fuoco del cecchino pur di andare a salvare i compagni feriti.
Kubrick, nella scena in cui l’ufficiale chiede spiegazioni a Joker, evidenzia la follia e l’ottusità delle alte sfere del sistema militare; la sua critica per questo tipo di personaggi si nota nella frase finale messa in bocca all’ufficiale in questione, che dice al soldato: «È un mondo spietato, figliolo, bisogna tener duro fino a quando non passerà questa mania della pace». Il regista sembra voler dire che quello al quale stiamo assistendo «è un universo alla rovescia, di pazzi al comando, con la voce pensante di Joker unico sguardo lucido. (…) Il Vietnam, come ogni guerra, è il regno del militarismo, l’obbligo dell’impiego universale della violenza come mezzo ai fini dello Stato» ; un concetto di violenza gratuita che emerge dalle parole dei vari soldati, per esempio da quelle del capopattuglia di Cowboy, Crazy Earl: «Siamo i giganti verdi dei detersivi, solo che noi andiamo in giro a ripulire il mondo col mitra. Quelle che abbiamo fatto fuori oggi sono le persone più meravigliose del mondo: quando torneremo a casa di sicuro non troveremo più gente a cui valga la pena di sparare». La violenza è quindi l’unica realtà:
«Gli uomini non possono governarla, sono loro a essere guidati dai processi conduttivi di quest’energia che hanno scatenato e che ora li sovrasta. Le battaglie non si decidono da uomini che calcolano e riflettono, ma tra soldati ormai depredati delle facoltà razionali, cieche forze che non sono che impeto. È il segreto ultimo della guerra: la riduzione della persona umana a materia inerte, dominata dall’istinto crudele della preda o del cacciatore» .
Nell’ultima parte del film, la pattuglia si perde nello spazio labirintico di Hue, un corrispettivo fisico e spaziale della situazione interiore dei personaggi, che il regista ama spesso delineare nelle sue pellicole, da Fear in Desire, fino ad Eyes Wide Shut («Kubrick sembra interessato a offrire un ulteriore esempio di quella poetica della perdita di controllo sulle coordinate spaziali e temporali già operativa in gran parte della produzione filmica precedente» ). In questo spazio, nel pieno dello smarrimento, un cecchino uccide prima il soldato Eightball, quindi Doc Jay, che era corso ad aiutare il compagno. Cowboy vuole far ripiegare il gruppo e abbandonare i compagni, ma Animal Mother si oppone e si lancia in avanti, riuscendo a far guadagnare terreno alla sua squadra: anche Cowboy però viene ucciso dal cecchino. Decisi nel voler vendicare i compagni, i rimanenti soldati si mettono alla ricerca del nemico; è Joker a trovarlo per primo e a scoprire che si tratta di una ragazzina armata. Il fucile del soldato si inceppa ed egli è costretto a rifugiarsi dietro ad una colonna, mentre le pallottole dell’avversaria si scagliano contro la sua postazione. Rafterman giunge sul posto e colpisce la ragazza, quindi si lascia andare ad urla di entusiasmo di fronte alla sua prima vittima: «Sono un duro, sono uno che fa fuori i nemici, sono un killer!». La ragazza però è ancora viva, agonizzante; Animal Mother intende lasciarla lì («Che marcisca qui»), mentre Joker vorrebbe aiutarla. Kubrick, dopo aver concesso a Joker la possibilità di uscire da ogni situazione precedente in modo ironico e sarcastico (conformemente al soprannome del soldato), in questa sequenza finale mette il suo protagonista faccia a faccia con l’orrore, con la possibilità di «far centro dentro qualcuno» che il soldato, sarcasticamente, aveva desiderato di avere. Joker dà il colpo di grazia alla ragazza, mosso da pietà, sicuramente, ma allo stesso tempo: «volente o nolente Joker si è trasformato in una killing machine: una piccola rotella senza volto nell’ingranaggio della morte. Hartman, probabilmente, sorride nella tomba. La tragica ironia finale di Full Metal Jacket è che la guerra ha preso in giro anche il suo giullare» . Dopo questo “battesimo di morte”, Joker raggiunge gli altri soldati e si unisce alla marcia nell’oscurità; le sue ultime parole: «Sono proprio contento di essere vivo, tutto d’un pezzo, prossimo al congedo. Certo, vivo in un mondo di merda, questo sì, ma sono vivo e non ho più paura». Ora che non ha più paura, anche il soldato Joker, lo scrittore che difendeva la verità giornalistica, è divenuto una macchina per uccidere? Anche lui, l’intellettuale che citava Jung di fronte ai suoi superiori, ha raggiunto il suo punto di non ritorno, come avevano fatto in precedenza Palla di Lardo e Rafterman? In quest’ottica «Full Metal Jacket è un’opera disperata, dilaniata, che sancisce la fine di ogni residua illusione kubrickiana sulla natura dell’uomo e sulle sue possibilità di salvezza» .
Tutti i marines si uniscono in un canto: intonano la Marcia di Topolino. Stavolta non si tratta del finale umanista di Orizzonti di gloria, ma di una regressione dei soldati allo stato infantile: «Quegli uomini in marcia, cui la guerra ha rivoluzionato ogni scala di valori, dei bambini condividono la crudeltà amorale, l’assenza di scrupoli etici, la aggressività necessaria, l’assenza di principi che non siano quelli naturali ed elementari, l’immunità da ogni ipocrisia; infine la noncuranza stessa della propria morte» .
Partono i titoli di coda, in contemporanea ai versi della splendida Paint it black (“dipingilo di nero”) dei Rolling Stones; Mick Jagger canta: «I see a red door and I want it painted black; no colors anymore I want them to turn black» (“vedo una porta rossa e voglio dipingerla di nero; non voglio più colori ma tutto dipinto di nero”), proprio quando le immagini sono finite e lo schermo è diventato nero; «It’s not easy facing up when your whole world is black (“non è facile restare a testa alta quando il mondo intero è nero”); e ancora: «I look inside myself and see my heart is black» (“guardo dentro me stesso e vedo che il mio cuore è nero”). Il messaggio del pessimista Kubrick, anche durante i titoli di coda, è vivo, diretto, lucido, spietato e soprattutto definitivo.
LA GUERRA NEGLI ALTRI FILM DI KUBRICK
Dopo aver analizzato il tema della guerra nei quattro film di Stanley Kubrick in cui essa è affrontata direttamente, è fondamentale ora occuparsi anche del resto della filmografia del regista newyorkese, nella quale ritroviamo molte delle tematiche già osservate in precedenza, affrontate in generi differenti da quello bellico.
Già durante la sua carriera di fotografo per la rivista «Look», Kubrick comincia ad indagare su un tema che troviamo continuamente nelle sue opere, quello dell’uomo contro se stesso: il servizio fotografico Prizefighter (pubblicato nel 1948) fu probabilmente il più importante tra i servizi realizzati dal giovane Kubrick, a punto tale da esser ripreso e trasformato, tre anni dopo, nel suo primo cortometraggio, Day of the fight. In questo servizio il regista documenta la giornata del boxeur Walter Cartier fino ad un incontro dello stesso pugile sul ring e senza dubbio non c’è sport che incarni meglio del pugilato il concetto di uomo contro uomo: «Tutta la violenza di questo sport (e della stessa futura poetica cinematografica di Kubrick) esplode nelle immagini che testimoniano la vittoria di Cartier e il suo avversario steso al tappeto» .
Dopo aver realizzato Fear and Desire nel 1953, Kubrick gira, nel 1955, Il bacio dell’assassino, film che in un certo senso si ricollega al cortometraggio d’esordio, visto che anche qui il protagonista (Davy) è un pugile: «Dalle stesse immagini del suo combattimento possiamo risalire all’assunto che vede nella boxe una sorta di guerra in miniatura, a due. Kubrick razionalizza e formalizza l’esplodere della violenza sottomettendola alle regole di un’attività codificata come il pugilato» .
La storia de Il bacio dell’assassino si può racchiudere nel tentativo di un pugile fallito di scappare con la donna che ama lontano dalla città e dai malviventi che danno loro la caccia. Il film è ambientato nei bassifondi di New York, dove l’unica legge vigente sembra essere quella della violenza; la lotta in questi quartieri della malavita (dove parte dei suoi abitanti esercita la violenza come “professione”) si presta ad un’altra interpretazione di guerra in miniatura e culmina nel finale con lo scontro tra Davy e Rapallo, l’antagonista del film. Abbiamo visto in precedenza che un altro punto fondamentale della produzione kubrickiana è il tema del potere visto come gioco in cui si decide della vita di altre persone: ne Il bacio dell’assassino questo è accennato soprattutto nella scena in cui Davy viene disarmato grazie ad un mazzo di carte e inoltre i rapitori della protagonista femminile, Gloria, giocano a carte durante la sua sorveglianza.
In questa pellicola risultano dunque evidenti alcuni riferimenti a tutto il futuro cinema di Kubrick; fatto sta che il lieto fine tra Davy e Gloria a conclusione di questo noir fa pensare più ad un regista come Hitchcock, nel quale la soluzione dell’intreccio spesso portava alla ricostituzione della coppia amorosa (vedi ad esempio Il pensionante del 1926 o Intrigo Internazionale del 1959), che a Stanley Kubrick. Come nota anche Bruno: «Non ci saranno più, nei film del nostro, né famiglie felici né sentimenti ricambiati che non siano di odio» .
Nel 1956 esce Rapina a mano armata e già il titolo originale (The killing, “il colpo”, ma anche “l’uccisione”), come nel film precedente (Killer’s kiss), è una declinazione del verbo inglese to kill, “uccidere”. Il regista affronta nuovamente il genere noir, raccontando la storia di una rapina perfetta dove è la gestione della riuscita a portare al fallimento: la banda viene uccisa a causa di una debolezza sentimentale (uno dei componenti rivela il piano del colpo alla moglie che non lo ama), mentre il capo, Johnny Clay, è la causa indiretta della propria rovina: compra una valigia usata che nel finale si aprirà per colpa dell’intervento casuale di un cagnolino, che la ribalterà facendo fuoriuscire i soldi del bottino sotto lo sguardo di due poliziotti.
Torna in Kubrick il tema del gioco: è in una sequenza all’interno di un club di scacchi, è il puzzle temporale costruito dal montaggio della pellicola nella sequenza della rapina (il regista mostra più volte lo stesso evento cambiandone però il punto di vista mediante l’uso di flashback e flashforward), ma è soprattutto il meccanismo di mosse e calcoli sui quali si basa il piano di Clay: «Ci troviamo di fronte a una rappresentazione meticolosa, simile a una partita a scacchi, di come, passo dopo passo, tutto ciò che gli uomini fanno è destinato a fallire a causa dei loro impulsi autodistruttivi» . In Rapina a mano armata troviamo un concetto che ricorre in gran parte della filmografia del regista: «L’idea che i soggetti siano mossi da forze decisionali incalcolabili e incoercibili, che vanificano e ridicolizzano i tentativi dell’uomo di sostituirsi ad esse nella pianificazione dell’esistenza» . Di conseguenza, ciò che finalmente emerge dalla visione del film è il dato che vede Johnny Clay essere un altro esempio di quell’archetipo kubrickiano per cui la perdita della razionalità è la causa di un’inevitabile autodistruzione: «Il ridicolo cagnolino del finale (…) è il deus ex machina di una tragedia della casualità, la tragedia che colpisce l’uomo di genio quando abbandona il calcolo razionale (basato sul rapporto causa/effetto) per un comportamento casual» .
Orizzonti di gloria, del 1957, vede la collaborazione tra il regista e l’attore Kirk Douglas; in seguito, sarà proprio Douglas a fare pressioni su Kubrick per far sì che prenda il posto del regista iniziale Anthony Mann per la direzione di Spartacus, del 1960. Questo peplum si colloca in maniera anomala nella filmografia di Stanley Kubrick: è l’unico caso in cui il nostro non ebbe il controllo assoluto sull’opera ed essendo subentrato ad un altro regista fu costretto a mettere in scena un soggetto già completo, senza la possibilità di rielaborarlo. Ciononostante Spartacus costituisce comunque una tappa importante nel processo di formazione di questo autore, che in ogni modo riuscì a imprimere anche su questo film il suo genio: «al di là della pletora di dichiarazioni di disconoscimento del film, Kubrick riesce a sfruttare ogni piega del soggetto per imprimere a Spartacus una sua impronta inconfondibile» .
Il film racconta la rivolta degli schiavi e le battaglie contro Roma guidate dal gladiatore Spartaco nel I secolo a.C., al tempo in cui la civiltà romana dominava gran parte del mondo conosciuto. Spartacus denuncia la follia del potere della dittatura romana, presa come metafora di tutti i regimi dittatoriali del secolo scorso; ancora una volta un film di Kubrick si rivela quindi: «una riflessione sui meccanismi della violenza moderna, sugli orrori delle dittature novecentesche: quasi il seguito metaforico di Orizzonti di gloria, visto che lì si mette in scena la Prima Guerra Mondiale e qui si allude al primo dopoguerra, con le sue rivolte sociali e le feroci repressioni» . Va notato nel film come le dichiarazioni che fa il personaggio di Crasso su Roma ricordino da vicino l’idea di Germania intesa da Hitler: «Nessuno resiste a Roma: nessuna nazione può resisterle (…). Non c’è che un modo di trattare con Roma: devi servirla, devi abbassarti davanti a lei, devi strisciare davanti ai suoi piedi e devi amarla». Inoltre Spartacus offre un altro esempio kubrickiano della lotta dell’uomo contro l’uomo; in questo caso il tema ricorre nelle battaglie tra i gladiatori nelle arene. Ma se gli uomini di potere (come i generali di Orizzonti di gloria o Hartman in Full Metal Jacket) costringono gli schiavi-gladiatori a mettere continuamente in gioco le proprie vite, ne consegue che in essi l’istinto dominante è quello di sopravvivenza; si fa ancora più forte in quest’ottica il parallelo tra i gladiatori e i soldati, che come abbiamo visto nel capitolo precedente hanno in comune lo stesso fine: quello di sopravvivere (le parole conclusive di Joker, in Full Metal Jacket, fanno da eco a questo concetto). A differenza però dei soldati “meccanizzati” dal sistema militare, gli schiavi sembrano invece essere ben consci della loro situazione, così Spartaco afferma che: «L’uomo perde se muore e tutti moriamo, ma uno schiavo e un uomo libero perdono cose diverse: l’uomo libero perde il piacere della vita, lo schiavo ne perde la pena. Ed è l'unica libertà concessa allo schiavo, perciò non ne ha paura». Lo stesso Spartaco, uomo illuminato, mostra il suo lato umano facendo affiorare allo stesso tempo anche quello del regista: «A un animale piace combattere, ma gli uomini dovrebbero avere altre aspirazioni che quella di scannarsi». Il condizionale è d’obbligo, visto che Kubrick nei suoi film ci ha mostrato come invece la disumanità degli uomini ha portato loro stessi a condurre un’esistenza fatta di continui combattimenti e di inutile violenza.
Infine troviamo anche in Spartacus il tema della guerra come metafora di una partita a scacchi, il campo di battaglia è così paragonabile ad una grande scacchiera: «La partita a scacchi è un progetto la cui esecuzione può essere guardata solo dall’alto, non dal centro della mischia: per questo Spartaco, eroe del “corpo a corpo”, è destinato a perdere contro il freddo Crasso che si limita a controllare il campo di battaglia dall’alto della collina» .
Kubrick nel suo film successivo si confronta per la prima volta con un grande romanzo, portando sullo schermo nel 1962 il libro di Nabokov Lolita . In realtà, oltre agli scacchi (presenti fisicamente anche in questo film), l’unico motivo che collega la storia dell’amore del professor Humbert per la giovane Lolita al resto della filmografia kubrickiana, è il tema dell’ossessione e della progressiva perdita di razionalità dello stesso Humbert, che arriverà ad uccidere un uomo, Quilty, per amore della ragazza: «Kubrick filma la storia di una follia, di un desiderio furioso che di allucinazione in allucinazione conduce la sua vittima alla malattia, all’assassinio, alla morte. Questa passione divorante interessa il cineasta indipendentemente dall’oggetto del desiderio» . Il genio del regista è nello stravolgere la cronologia lineare del romanzo, aprendo il film con la sequenza dell’uccisione di Quilty: «Così facendo, non solo sposta la suspense dal terreno di Eros a quello di Thanatos (la domanda diventa: quando, come e perché questo intellettuale raffinato diventerà capace di uccidere?) ma trasforma una storia di ossessione sessuale “letteraria” in una storia che ha come tema centrale la morte nel suo rapporto col ridicolo» .
Dopo Lolita il regista gira Il Dottor Stranamore, dopodiché arriva l’incontro tra Stanley Kubrick e la fantascienza: 2001 Odissea nello spazio, uscito nel 1968, capovolge i canoni del genere fantascientifico diventando secondo molti il più grande capolavoro di Kubrick: «2001 è in effetti “il film” degli anni’60 che segna una data non solo o non tanto nella storia del cinema ma nell’evoluzione storica e sociale e (in specie) del costume» .
Il film traccia l’evoluzione dell’uomo dalla preistoria sino ad un possibile futuro; nell’odissea kubrickiana ritroviamo tutti i temi e gli elementi che permeano l’opera del cineasta. Nella prima delle quattro parti di cui si compone 2001, Kubrick individua nella scoperta della violenza l’inizio dell’evoluzione dell’uomo: una delle scimmie antropomorfe che popolano la prima parte del film, influenzata da un misterioso monolito nero, capisce di poter usare un osso come clava; Kubrick ci mostra la nascita della prima arma, la nascita della violenza. Le scimmie si mettono contro un altro gruppo di scimmie per la conquista di una pozza d’acqua e si accaniscono contro quello che sembra essere l’elemento di spicco dell’altra fazione, colpendolo a ripetizione con le loro “nuove” armi; la stessa identica scena tornerà in Full Metal Jacket nel pestaggio notturno di Palla di Lardo: il regista sembra dirci che miliardi di anni di evoluzione non sono serviti a nulla, l’uomo sarà sempre la causa dei propri mali, sarà sempre il nemico di se stesso.
In questa alba dell’uomo Kubrick mostra la differenza tra l’aggressività e la violenza; la prima è l’istinto ad attaccare quando qualcosa o qualcuno minaccia i nostri interessi vitali, la seconda invece è un’aggressività gratuita, crudele, distruttiva: «Se l’aggressività è un riflesso dell’istinto di sopravvivenza o di protezione del territorio, che si trova ugualmente sia fra gli uomini che fra gli animali, la violenza è un fenomeno puramente umano» .
A proposito della violenza Sofsky afferma:
«La violenza è strumentale nella misura in cui è il mezzo per raggiungere uno scopo. Lo scopo dirige la violenza e giustifica il suo utilizzo; canalizza le attività, attribuisce direzione e fine, limita l’impiego e la quantità. (…) Se il fine è raggiunto e il nemico sottomesso, ogni ulteriore violenza è inutile. (…) L’enigma incomincia quando questo rapporto si inverte, quando la razionalità stessa si pone al servizio della violenza, quando l’intelletto è solo un mezzo per incrementarla. (…) Il legame con scopi esterni è saltato. La violenza diviene infondata, assoluta: non è altro che se stessa. La violenza assoluta non ha bisogno di alcuna giustificazione. Non sarebbe assoluta, se fosse vincolata a motivi; mira solo al suo proseguimento e all’incremento di se stessa. (…) Ha gettato la zavorra dello scopo e ha sottomesso a sé la razionalità. (…) È pura praxis: violenza per la violenza. Non vuole raggiungere nulla. Ciò che conta è l’azione stessa. Nella misura in cui la violenza si libera da qualsiasi considerazione e diviene completamente se stessa, si trasforma in crudeltà» .
Nel film è il monolito a indurre questi ominidi primitivi all’uso della prima arma, portandoli a commettere il primo omicidio e a muovere una sorta di prima guerra: «È l’inizio di una conquista che conduce l’uomo sino al firmamento, com’è sottolineato dal montaggio ellittico che associa l’osso-clava volteggiante nel cielo all’astronave che danza nella stratosfera: Kubrick ci racconta la storia (e il successo) della violenza» .
Secondo Eugeni, 2001 «è da considerare un grande poema epico della Ragione» , in cui Kubrick, però, tende ad esaltare le caratteristiche che portano i suoi protagonisti alla perdita di essa: innanzitutto la ragione, la razionalità, viene mostrata come una capacità trasmessa all’uomo da un’intelligenza extraterrestre (il monolito), che guida l’umanità attraverso il suo civilizzarsi: «L’uomo appare così come una specie di marionetta, spesso inconsapevole di quanto accade, sempre prossima a disarticolarsi perdendo del tutto il controllo dei propri movimenti» (e abbiamo visto come queste stesse parole si potrebbero associare ai film già analizzati, Il dottor Stranamore e Full Metal Jacket in particolare). Il concetto di ragione intesa come sinonimo di intelletto pacifico e civile viene demitizzato dal fatto che il suo emergere porti alla nascita della violenza e conseguentemente della guerra; così come l’idea di razionalità associata a quella di maturità crolla nel momento in cui colui che la possiede la perde: l’elaboratore elettronico Hal 9000 («l’ultimo e più perfetto ritrovato della scienza umana, emblema del definitivo degenerare della razionalità nella più pura follia distruttrice» ), che nella parte centrale del film impazzisce («instaura una sorta di guerra con la razza che lo ha creato» ), è sì una macchina, ma sempre e comunque un prodotto dell’uomo e in quanto tale imperfetto. La sua perdita di razionalità conduce questo “personaggio”, il più kubrickiano tra quelli presenti in 2001, alla distruzione e alla regressione allo stato infantile; mentre viene disinserito dall’astronauta Bowman, Hal intona la filastrocca infantile Daisy Bell (nella versione italiana è Giro, girotondo): «Indice di regresso alle origini, per l’elaboratore, ma forse anche segreta allusione alla nuova infanzia nella quale Bowman stesso sta muovendo inconsapevolmente i primi passi» . Infatti, nel finale del film l’astronauta, nel momento dell’incontro col monolito, morirà per rinascere immediatamente come “feto spaziale”, sulle note di Così parlo Zarathustra di Richard Strauss: «La coincidenza che il brano musicale sia lo stesso usato per l’alba dell’uomo (l’intuizione da parte della scimmia dell’utilizzabilità del femore come arma mortale) allude al fatto che la nascita di ogni nuova intelligenza, anche quella del feto astrale (…), è comunque la nascita di una nuova mente assassina» .
2001 pone la questione di come la nascita e l’evoluzione della civiltà umana sia legata alla violenza, nel film successivo invece, Arancia Meccanica (1971), Kubrick mostra come la società attuale provi a risolvere scientificamente il problema della violenza: al protagonista, Alex, dopo esser stato arrestato in seguito all’uccisione di una donna (oltre a vari altri crimini commessi con i suoi compagni, i “drughi”) è concessa l’opportunità di essere riabilitato nella società per mezzo della cosiddetta “cura Ludovico”, un trattamento basato su una serie di stimoli audiovisivi che porta i pazienti al totale rifiuto del male e della violenza (tra le immagini imposte ad Alex troviamo anche scene della Seconda Guerra Mondiale). Un simile trattamento priva l’uomo della possibilità di scelta, piega la sua volontà “meccanizzando” la sua natura; Kubrick a proposito del film disse: «É necessario che l'uomo possa scegliere tra bene e male e che ci sia il caso in cui egli scelga il male. Privarlo di questa possibilità di scelta, significa renderlo qualcosa di inferiore all'umano, un'arancia meccanica appunto» .
Il cappellano che fa da mentore ad Alex durante la carcerazione del ragazzo afferma: «Quando un uomo non ha scelta, cessa di essere un uomo». Il film suggerisce che estirpare la scelta dell'uomo non significa redimerlo, ma semplicemente soggiogarlo; da un simile trattamento si otterrebbero arance, organiche, apparentemente naturali, ma che operano come congegni meccanici. Il cambiamento, se sorretto da valori morali, deve essere motivato dal di dentro piuttosto che imposto dal di fuori; Kubrick lascia al pubblico la possibilità di comprendere cosa è sbagliato e perché, cosa si dovrebbe fare e come lo si dovrebbe fare.
Subito dopo la sua uscita Arancia Meccanica scatenò i media, che montarono un caso contro il regista accusandolo di incitamento alla violenza. In seguito ad alcune minacce giunte alla sua famiglia, Kubrick si convinse a ritirare il film dai cinema (dove tra l’altro stava avendo un enorme successo), ma non evitò di replicare alle accuse:
«Non esistono prove certe che la violenza rappresentata nei film o alla televisione sia causa di violenza sociale. Focalizzare l'attenzione su questo aspetto della violenza significa ignorare le cause principali, che vorrei elencare come: 1. Peccato originale: punto di vista religioso; 2. Ingiusto sfruttamento economico: punto di vista marxista; 3. Frustrazione emotiva e psicologica: punto di vista psicologico; 4. Fattori genetici basati sulla teoria del cromosoma "Y": punto di vista biologico; 5. Uomo, scimmia assassina: punto di vista evolutivo. Tentare di attribuire ogni responsabilità all'arte come causa di vita, rappresenta una soluzione sbagliata della questione. L'arte consiste in un rimodellamento della vita, ma non crea, né è causa di vita in sé. Inoltre, l'attribuire potenti e suggestive capacità al cinema è contrario all'affermata conclusione scientifica per la quale, anche dopo una profonda ipnosi, in uno stato post-ipnotico, l'uomo non riesce a compiere atti contrari alla propria natura» .
Kubrick ha quindi tentato di spiegare che il suo film non rappresenta una “cura Ludovico” alla rovescia e sembra sostenere l’idea che ogni individuo sia in grado di esercitare libero arbitrio, in Arancia Meccanica però l’impressione è che dalle tematiche del film emerga tutto il pessimismo del regista circa l’impossibile autodeterminazione dell’uomo nei confronti del proprio scegliere e del proprio agire.
Nel 1975 Kubrick realizza Barry Lyndon: «Un grande affresco dell’Europa del Settecento, secolo dei lumi (dunque inizio di quella ideologia della razionalità la cui contestazione è al centro del pensiero kubrickiano) ma anche secolo di guerre e rivoluzioni» . Le avventure che raccontano l’ascesa e la caduta del protagonista Redmond Barry nel tentativo di guadagnarsi una posizione nella società, hanno come sfondo la guerra dei sette anni (1756-1763), alla quale partecipa anche Barry. Tuttavia, gli avvenimenti di guerra sono relegati alla voce narrante, che li accenna in superficie: «Ci vorrebbe un grande storico e filosofo per spiegare le cause della famosa guerra dei sette anni che aveva impegnato l’Europa e verso la quale il reggimento di Barry stava dirigendosi. Contentiamoci di dire che l’Inghilterra e la Prussia erano alleate e in guerra contro i francesi, gli svedesi, i russi e gli austriaci». Come osserva Bruno: «Barry Lyndon non è un film storico quanto piuttosto un film sulla Storia, sul carattere violento della storia. La storiografia è la più tragica delle scienze umane, perché il suo contenuto è il Passato inteso come l’ineluttabile già accaduto, dunque la vicenda umana vista sotto il segno della Morte» .
Il tema della guerra in Barry Lyndon è introdotto dai tamburi e dalla marcia dell’esercito britannico nell’aperta campagna irlandese, con la voce narrante delegata ad “incorniciare” le immagini: «In quel periodo il Regno Unito era in uno stato di grande agitazione. (…) Gli allarmi di guerra facevano vibrare tutto il paese, nei tre Regni risuonavano le fanfare militari». Su questo sfondo, sin dalla sequenza iniziale del film, avvengono però altre forme private di guerre, ovvero i duelli: «Kubrick tratteggia il duello in modo da catturare il rituale e l’estetica della barbarità del XVIII° secolo, la sua convenzionale formalizzazione della violenza» .
In Barry Lyndon la guerra è rappresentata come un’imponente e spettacolare messa in scena, “meccanizzata” nel sincronismo delle marce tra le opposte fazioni. Le battaglie venivano combattute secondo regole d’onore e in seguito all’accordo tra le due parti (l’elemento sorpresa era considerato disonorevole); il comportamento dei soldati sul campo di battaglia era simile a quello usato nelle parate. Prima di dedicarsi alla produzione di Barry Lyndon, Kubrick disse:
«Penso sia estremamente importante comunicare l’essenza di queste battaglie allo spettatore, perché hanno tutte una brillantezza estetica che non richiede una mentalità militare per essere apprezzate. (…) C’è una strana disparità tra la pura bellezza visuale e organizzativa di battaglie storiche sufficientemente lontane nel tempo e le loro conseguenze umane. È abbastanza simile a guardare da lontano due aquile reali librarsi nel cielo; potrebbero star facendo a pezzi una colomba, ma se sei abbastanza lontano la scena è nondimeno bellissima» .
Il film dunque «offre l’esempio di una società in cui la violenza, a tutti i livelli, viene contenuta dal rispetto di regole precise. Le contese tra gli individui sono risolte dal duello. Il passaggio da una classe sociale all’altra è mediato dall’acquisizione di un codice di comportamento. Anche il corteggiamento (…) passa attraverso un preciso rituale» .
In Barry Lyndon c’è una totale omologia tra l’istituzione militare e l’istituzione familiare, le varie scene mostrate sui campi di battaglia trovano il loro corrispettivo nelle sequenze in famiglia (Barry nella prima parte fa a pugni con gli altri soldati e nella seconda picchia il figliastro, subisce le frustate del reggimento prima e le infligge allo stesso figlio poi, tradisce l’esercito e la moglie): «L’esercito è una famiglia in cui i padri mandano al massacro i figli (come già in Orizzonti di gloria, come poi in Full Metal Jacket), la famiglia è un esercito in cui i figli tentano di ribellarsi agli ordini dei padri (come già in Lolita, come poi in Shining): la vita è una guerra che oscilla fra il parricidio e l’infanticidio» .
A questo discorso si collega pienamente il film successivo, Shining, uscito nel 1980. Qui la guerra si svolge privatamente all’interno dell’Overlook Hotel, tra lo scrittore fallito Jack Torrance e i suoi familiari, la moglie Wendy e il piccolo Danny.
Jack rappresenta il tipico personaggio kubrickiano, lo vediamo gradualmente perdere ogni capacità razionale e sprofondare negli abissi della follia. Per sfuggire alla sua impotenza creativa e al senso d’isolamento (è il custode dell’albergo durante il periodo di chiusura invernale) perde ogni controllo e cerca di distruggere la vita che ha attorno: «Egli trasforma l’Overlook in un campo di battaglia, che ci consegna un’idea della famiglia come zona di guerra» . La violenza guida Jack Torrance in ogni azione, in un crescendo insaziabile dove “violenza chiama violenza”: prima si accanisce contro la moglie (nella memorabile sequenza del bagno, dove il ghigno malefico di Jack Nicholson è divenuto una delle icone del cinema di Kubrick), quindi uccide il cuoco, giunto in soccorso di Wendy e del bambino, infine insegue Danny nel labirinto, dove la razionalità del piccolo (percorre a ritroso i suoi stessi passi nella neve, facendo perdere le sue tracce) avrà la meglio sulla foga assassina del padre. La conclusione del film ci mostra una foto datata 4 luglio 1921, in cui è ben visibile la figura di Jack Torrance in smoking: l’immagine conferma l’imbuto temporale mostrato dal film, dove nel presente vengono immessi di continuo elementi del passato (i fantasmi dei personaggi passati dall'albergo); l’intenzione di Shining è di mostrare l’eterno ritorno dell’orrore, a rafforzare quella tesi kubrickiana secondo la quale nella società umana il male e la violenza sono sempre esistiti e sempre esisteranno.
Shining è seguito, dopo sette anni, da Full Metal Jacket; bisognerà aspettare altri tredici anni per il film successivo, Eyes Wide Shut, uscito nel 1999, stesso anno della morte di Stanley Kubrick. Il tema della guerra in questo film è metaforicamente inserito nel conflitto tra reale e immaginario: l’odissea notturna del dottor Bill Harford, che perde le sue certezze di fronte alla confessione della moglie Alice (durante una vacanza ha desiderato di scappare con un altro uomo). Bill si ritrova a combattere con la sua immaginazione, con il sogno ricorrente in cui vede Alice a letto con un altro e comincia così un labirinto notturno alla ricerca di nuove esperienze dove reale e immaginario si mescolano e la razionalità del protagonista vacilla. Eyes Wide Shut riassume due tra le parole-chiave del cinema di Kubrick, Paura e Desiderio; la paura di Bill di fronte al tradimento (immaginario) di Alice è mista al desiderio di far affiorare le sue fantasie, il rimosso, in sostanza i suoi desideri legati al principio del piacere. La presenza nel film delle maschere (lo stesso Bill ne indossa una per entrare in una festa privata) rimanda al tema kubrickiano dello smarrimento, della perdita d’identità e dell’allontanamento da una norma quotidiana codificata, andando così a chiudere il cerchio della sua intera opera.
Kubrick, come abbiamo visto, amava indagare sui risvolti della personalità umana all’interno di un contesto di forte pressione, in modo particolare quello bellico. Il regista si avvicinò al tema della guerra anche nelle sue opere incompiute, soprattutto in tre di esse: The German Liutenant, Napoleon e Aryan Papers.
The German Liutenant (“Il tenente tedesco”) è un progetto basato sulle memorie di un veterano della guerra in Corea, Richard Adams; Kubrick aveva deciso però di ambientare la storia durante la Seconda Guerra Mondiale (come è raccontato dallo stesso regista in un’intervista del 1959 a «Film Quarterly» ). Il film fu scritto nel 1959, in seguito ad Orizzonti di gloria, ma si arenò durante la fase di produzione; il soggetto, diffuso su Internet nel 2003 , racconta le ultime fasi della guerra: due amici, i tenenti tedeschi Kraus e Dietrich, nonostante l’ormai imminente sconfitta tedesca, sono costretti ad un’ultima missione dal loro comandante. Disgustati dalle rovine provocate dalla guerra, i due vorrebbero rifiutare, ma non osano opporsi agli ordini ricevuti e vengono così paracadutati, insieme ai loro soldati, dietro le linee nemiche degli alleati per cercare di distruggere un ponte, luogo di passaggio strategico. Il morale è basso a causa delle perdite subite, nonostante ciò i soldati continuano verso il loro obiettivo: un combattimento sanguinoso e terribile conclude il viaggio delle truppe tedesche contro gli americani. Il film si chiude con una sequenza ambientata a dieci anni di distanza dalla fine della guerra.
Il progetto più ambizioso di Kubrick, cominciato nel 1968, riguarda la realizzazione di un film sulla vita di Napoleone Bonaparte: «La follia umana è sempre stato uno dei temi più cari al regista, che era affascinato dal grande condottiero perché questi aveva determinato da solo la propria distruzione» . La pre-produzione era in fase di completamento (per il ruolo di protagonista era stato scelto Jack Nicholson), ma il film non venne più girato a causa di un cambiamento di proprietà della MGM che costrinse Kubrick a riversare il suo interesse storico nella realizzazione di Barry Lyndon. Per Napoleon il regista aveva previsto una durata di circa tre ore «nelle quali coprire l’intero arco della vita di Napoleone, dall’ascesa alla caduta, partendo dalla sua infanzia, seguendolo durante l’educazione da soldato ed esaminando i complessi fattori sociali, politici e militari che lo portarono a diventare imperatore della Francia, senza trascurare le ragioni della definitiva sconfitta, non solo bellica» . Una ricerca monumentale, fatta attraverso cinquecento libri e con l’aiuto di vari esperti del periodo napoleonico, aveva portato Kubrick a dichiarare di sapere quello che l’imperatore aveva fatto e dove si trovasse in ogni singolo giorno della sua esistenza; Napoleon purtroppo rimase l’ossessione incompiuta del regista.
Dopo Full Metal Jacket, Kubrick elaborò una storia di fantascienza intitolata A.I. Intelligenza Artificiale, con l’intenzione di produrla lasciando il compito di girarla all’amico Steven Spielberg. Era il 1991 e Kubrick era consapevole che se avesse aspettato qualche anno in più sarebbe riuscito ad approfittare appieno delle tecniche digitali che stavano nascendo in quel periodo. Nel 1995 il progetto fu ulteriormente rimandato a causa degli impegni dei due registi, con la morte di Kubrick però rimase il solo Spielberg ad occuparsi della realizzazione del film (A.I. uscì infine nel 2001, casualmente “l’anno” kubrickiano).
Tornando al 1991, dopo aver rimandato il progetto di A.I., Kubrick lavorò ad Aryan Papers: «Una storia ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale che parlava di una donna e di un ragazzo ebreo che cercavano di sopravvivere all’occupazione nazista della Polonia facendosi credere ariani» . Le riprese sarebbero dovute iniziare nell’agosto del 1993 e il film avrebbe dovuto essere lanciato nel Natale del 1994: Kubrick si accorse però che il soggetto era troppo simile a quello di Schindler’s list (Spielberg, 1993) e decise quindi di rinunciare. Christiane, la moglie del regista, ricorda un’affermazione di Kubrick a proposito di Aryan Papers e della Shoah: «Se davvero voglio mostrare ciò che ho letto e che è successo, come posso filmarlo? Come posso far finta?» . Christiane Kubrick nella stessa occasione racconta che il regista era molto depresso durante la lavorazione di questo film e fu contenta quando vi rinunciò, perché il marito stava davvero soffrendo.
La storia del mondo vista da Stanley Kubrick è un’immagine pessimistica del genere umano e delle sue istituzioni sociali: nella preistoria (quella di 2001 Odissea nello spazio) l’homo sapiens evolve grazie alla scoperta delle armi; nell’antichità (di Spartacus) la potenza politica e militare degli imperi presuppone la diseguaglianza tra gli individui e la schiavitù; nell’età moderna (di Barry Lyndon) i rituali del potere aristocratico nascondono aggressività e violenza. Si arriva al Novecento, dove gli orrori si susseguono nei decenni: gli anni’10 sono il periodo dei massacri di massa in nome della Patria (Orizzonti di gloria), gli anni’20 e ’30 sono il periodo in cui si sviluppano le grandi dittature politiche (l’imperialismo nazi-fascista alluso da Spartacus); negli anni’50 la società si basa sullo sfruttamento e sull’aggressione (Il bacio dell’assassino, Rapina a mano armata, Lolita e Fear and desire); negli anni’60, sotto la lotta per la democrazia, si nascondono l’aggressività militare (Full Metal Jacket) e il pericolo della fine del mondo (Il dottor Stranamore); gli anni’80 e ’90 segnano una fine delle certezze anche all’interno dei nuclei familiari (Shining ed Eyes Wide Shut). Il futuro è ancor meno roseo: la società sarà aggressiva tanto quanto gli individui che la comporranno (Arancia Meccanica) e le tecnologie saranno violente come gli uomini che le creeranno (2001 Odissea nello spazio): «In questa visione integralmente atea del mondo, nessuna funzione salvifica può essere assegnata alla religione e dunque tantomeno alla politica, alla scienza, alla tecnologia, alla cultura, all’arte: nulla di per sé salva il mondo e questo segna la responsabilità totale di ogni individuo» .
CONCLUSIONI
Il percorso attraverso il labirinto di scene ed immagini di guerra e di violenza all’interno dell’opera di Stanley Kubrick è giunto alla conclusione. Come abbiamo osservato, l’intento del regista è nel raccontare al mondo il suo punto di vista, secondo il quale la violenza sembra il triste destino della specie umana, un filo conduttore che passa attraverso i secoli, i luoghi, ma è sempre presente nella storia dell’umanità (e lo sarà sempre): «Nell’epoca del trionfo della disumanità diviene evidente e i film di Kubrick ci aiutano a capirlo, che tutto ciò che è stato creato dalla violenza si rivela inutile e insensato, esiste solo per lasciare una lunga traccia di sangue» .
Al giorno d’oggi si ascoltano leader politici sostenere l’idea che viviamo in un’epoca di progresso della civiltà, ma si tratta di una sorta di “leggenda moderna”, una presuntuosa e pretestuosa propaganda del potere che domina quest’epoca degli interessi e del denaro; le cronache di guerra, i crimini di massa (e i film di Kubrick) contribuiscono tutti i giorni a smentire questo concetto di progresso e di civiltà: tutti i film di guerra di Kubrick «hanno anche trasceso l’analisi storica contingente del conflitto che andavano a descrivere, per trasformarsi in una messa in scena, un’anatomia, della distruttività umana, il cieco darwinismo che ci fa “homo homini lupus”, dalla Preistoria all’antichità romana, fino al secolo dei Lumi e le contemporanee guerre fra macchine» .
Dalle parole di critici e amici di Kubrick emergono molti dei punti fondamentali della sua opera. John Calley, ex-presidente della Warner Bros, dice a proposito del regista: «era una delle persone che sapeva cosa non andava nel mondo ed era capace di trasformarlo in arte» . Il critico Michel Ciment afferma: «Alcuni dicono che non c’è umanità in Kubrick. Io invece penso che ci sia una profonda umanità, perché i suoi film creano una grande angoscia, perché lui stesso è angosciato dagli orrori che l’umanità infligge agli uomini. (…) Crede che sia l’uomo stesso a creare il suo male. L’uomo è il peggior nemico di se stesso» . Sulla stessa sintonia di Ciment si trova Alexander Walker, critico ed amico di Kubrick:
«La curiosità, l’interesse di Stanley nei confronti dell’uomo non sta semplicemente nel fatto che centinaia, migliaia di persone potevano essere uccise in nome di ideali che erano probabilmente falsi o egoistici. (…) Pensava che fosse una caratteristica precipua dell’animale umano: la maggior parte degli animali non commette suicidio, ma l’animale umano lo commette frequentemente. Per Stanley questa era una caratteristica fondamentale degli esseri umani: che sono abbastanza pazzi da uccidersi» .
Le parole di Walker sembrano fare da eco a quelle rilasciate dallo stesso Kubrick nel 1968:
«La distruzione di questo pianeta sarebbe insignificante, in prospettiva cosmica: per un osservatore sito nella nebulosa di Andromeda, il segno della nostra estinzione non sarebbe più appariscente di un fiammifero che si accende per un secondo nel cielo; se quel fiammifero arderà nel buio, non ci sarà nessuno a piangere una razza che usò il potere che avrebbe potuto mandare un segnale di luce verso le stelle per illuminare la sua pira di morte» .
Il 6 marzo 1999, l’ultimo film di Kubrick, Eyes Wide Shut, venne proiettato in un’entusiastica anteprima per la Warner Brothers e per gli interpreti Tom Cruise e Nicole Kidman. Il giorno dopo, domenica 7 marzo 1999, Kubrick morì nel sonno per un attacco di cuore. Aveva settant’anni, pochi giorni dopo fu sepolto accanto al suo albero preferito nella sua residenza di Childwickbury, in Inghilterra.
Il ricordo dei suoi colleghi registi mette in evidenza l’importanza di Kubrick nella storia del cinema: Woody Allen lo metterebbe «nel Pantheon dei migliori registi in assoluto che il mondo abbia mai visto» , secondo Steven Spielberg «nessuno in assoluto può girare un film meglio di Stanley Kubrick» . Martin Scorsese propone invece un suggestivo paragone: «Guardare un film di Kubrick è come guardare la cima di una montagna. Voi alzate gli occhi e vi chiedete come ha fatto qualcuno a salire così in alto» .
Le parole dell’ultimo attore ad aver lavorato con il regista, Tom Cruise, sono secche, dirette e terribilmente veritiere: «Stanley non c’è più. Non ci sarà più un altro film di Kubrick, non ci sarà mai più un film così» .
Lasciamo la chiusura di questo scritto alle parole dello stesso Stanley Kubrick:
«L’aspetto più spaventoso dell’universo non è il fatto che esso sia ostile, ma che sia indifferente. Se riusciamo a fare i conti con questa sua indifferenza e se accettiamo le sfide della vita nei limiti imposti dalla morte – per quanto l’uomo li possa modificare – la nostra esistenza, come esistenza della specie, può avere un senso e uno scopo autentici» .
Kubrick conclude poi così il suo intervento: «However vast the darkness, we must supply our own light», “per quanto vaste siano le tenebre, sta a noi procurarci la luce”.
BIBLIOGRAFIA
Monografie su Kubrick:
- Bassetti Sergio, La musica secondo Kubrick, Torino, Lindau, 2003.
- Baxter John, Stanley Kubrick - La biografia, Torino, Lindau, 1999.
- Bisoni Claudio e Menarini Roy, Stanley Kubrick Full Metal Jacket, Torino, Lindau, 2002.
- Bruno Marcello Walter, Stanley Kubrick, Roma, Gremese, 2003.
- Ciment Michel (a cura di), Stanley Kubrick, Venezia-Milano, La Biennale di Venezia-Mondadori, 1997.
- Costarella Livio e Magnisi Davide, Gli orizzonti del cinema di Stanley Kubrick, Bari, Adda, 2003.
- Duncan Paul, Stanley Kubrick, Colonia, Taschen, 2003.
- Eugeni Ruggero, Invito al cinema di Kubrick, Milano, Mursia, 1995.
- Ghezzi Enrico, Stanley Kubrick, Milano, Il Castoro Cinema, 2005.
- Giuliani Pierre, Stanley Kubrick, Recco, Le Mani, 1996.
- Greco Federico (a cura di), Stanley and us, Torino, Lindau, 2001.
- Toffetti Sergio, Stanley Kubrick, Milano, Moizzi, 1978.
Saggi di carattere generale:
- Alonge Giaime, Cinema e Guerra, Torino, Utet Libreria, 2001.
- Alonge Giaime, Menarini Roy, Moretti Massimo, Il cinema di guerra americano 1968-1999, Genova, Le Mani, 1999.
- Mereghetti Paolo, Dizionario dei film 2002, Milano, Baldini & Castoldi, 2001.
- Sofsky Wolfgang, Saggio sulla violenza, Torino, Einaudi, 1998.
Opere letterarie di riferimento:
- Burgess Anthony, Un’arancia a orologeria, Torino, Einaudi, 1969.
- Clarke Arthur C., 2001: Odissea nello spazio, Milano, Longanesi, 1975.
- Cobb Humphrey, Orizzonti di gloria, Roma, Editori riuniti, 1964.
- Fast Howard, Spartacus, Milano, Mondadori, 1959.
- George Peter, Il dottor Stranamore, Milano, Bompiani, 1974.
- Hasford Gustav, Nato per uccidere, Milano, Bompiani, 1999.
- King Stephen, Shining, Milano, Bompiani, 1977.
- Nabokov Vladimir, Lolita, Milano, Mondadori, 1959.
- Schnitzler Arthur, Doppio sogno, Milano, Adelphi, 1982.
- Thackeray William Makepeace, Le memorie di Barry Lyndon, Milano, Garzanti, 1976.
- White Lionel, Rapina a mano armata, Milano, Garzanti, 1956.
Interviste:
- Bean Robin, How I learned to stop worrying and love the cinema, in «Films and Filming», vol. IX, n.9, giugno 1963.
- Halberstadt Michèle, Kubrick, at Last!, «Première», n.127.
- Houston Penelope e Strick Philip, Modern Times: An interview with Stanley Kubrick, «Sight & Sound», vol. XLI, n.2, primavera 1972.
- Karasek Hellmut, Sì, trasformare esseri umani in armi è possibile, «Panorama», 8 ottobre 1989.
- Nordern Eric, Playboy Interview: Stanley Kubrick, «Playboy», settembre 1968.
- Rose Lloyd, Stanley Kubrick: at a distance, «Washington Post», 28 giugno 1987.
- Young Colin (a cura di), The Hollywood war of independence, in «Film Quarterly», Vol.12, n.3, primavera 1959.
Articoli:
- Ferrario Davide, Hello Vietnam, «Cineforum 269», novembre 1987.
- Krohn Bill, Le film-cerveau, «Cahiers du Cinéma», n.400, ottobre 1987.
- Zambetti Sandro, La caserma e il mondo, «Cineforum 269», novembre 1987.
SITOGRAFIA
- www.archiviokubrick.it
- www.terrysouthern.com/archive/SKint.htm
FILMOGRAFIA
Filmografia generale:
- Addio alle armi (A farewell to arms, Frank Borzage, USA 1932)
- A.I. Intelligenza Artificiale (A.I. Artificial Intelligence, Steven Spielberg, USA 2001)
- Ali (Wings, William A.Wellman, USA 1927)
- All’Ovest niente di nuovo (All quiet on the western front, Lewis Milestone, USA 1930)
- Angeli dell’inferno (Hells’s angels, Howard Hughes, USA 1930)
- Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, USA 1979)
- Ardenne ’44: un inferno (Castle keep, Sydney Pollack, USA 1969)
- Berretti Verdi (The Green Berets, John Wayne, USA 1968)
- Black Hawk Down (Ridley Scott, USA 2001)
- Casablanca (Michael Curtiz, USA 1942)
- Corea in fiamme (The steel helmet, Samuel Fuller, USA 1950)
- Cuori del mondo (Hearts of the world, David Wark Griffith, USA 1918)
- Destinazione Tokyo (Destination Tokyo, Delmer Daves, USA 1943)
- Duello nel Pacifico (Hell in the Pacific, John Boorman, USA 1968)
- Figli della gloria (Fixed bayonets, Samuel Fuller, USA 1951)
- Finalmente domenica! (Vivement dimanche!, François Truffaut, Francia 1983)
- Fratelli nella notte (Uncommon valor, Ted Kotcheff, USA 1983)
- Gli eroi del Pacifico (Back to Bataan, Edward Dmytryk, USA 1945)
- Gloria (What price glory?, Raoul Walsh, USA 1926)
- Il cacciatore (The deer hunter, Michael Cimino, USA 1978)
- Il coraggio della verità (Courage under fire, Edward Zwick, USA 1996)
- Il grande dittatore (The great dictator, Charlie Chaplin, USA 1940)
- Il grande uno rosso (The big red one, Samuel Fuller, USA 1981)
- Il pensionante (The lodger, Alfred Hitchcock, Gran Bretagna 1926)
- Il prigioniero di Amsterdam (Foreign correspondent, Alfred Hitchcock, USA 1940)
- Il sergente York (Sergeant York, Howard Hawks, USA 1941)
- Intrigo Internazionale (North by northwest, Alfred Hitchcock, USA 1959)
- I quattro cavalieri dell’Apocalisse (The four horsemen of Apocalypse, Rex Ingram , USA 1921)
- La grande illusione (La grande illusion, Jean Renoir, Francia 1937)
- La grande parata (The big parade, King Vidor, USA 1925)
- La sottile linea rossa (The thin red line, Terrence Malick, USA 1998)
- M.A.S.H. (M*A*S*H, Robert Altman, USA 1970)
- Obiettivo Burma! (Objective, Burma!, Raoul Walsh, USA 1944)
- Patton, generale d’acciaio (Patton, Franklin J.Schaffner, USA 1970)
- Platoon (Oliver Stone, USA 1986)
- Quella sporca dozzina (The dirty dozen, Robert Aldrich, USA 1967)
- Rambo (First blood, Ted Kotcheff, USA 1982)
- Rambo 2 - La vendetta (Rambo: first blood Part II, George Pan Cosmatos, USA 1985)
- Salvate il soldato Ryan (Saving private Ryan, Steven Spielberg, USA 1998)
- Schindler’s list (Steven Spielberg, USA 1993)
- The Aviator (Martin Scorsese, USA 2004)
- Three Kings (David O.Russell, USA 1999)
- Vittime di guerra (Casualties of war, Brian De Palma, USA 1989)
- Vogliamo vivere (To be or not to be, Ernst Lubitsch, USA 1942)
Documentari:
- Inside Dr.Strangelove or: how I learned to stop worrying and love the bomb (David Naylor, USA 2000)
- Stanley Kubrick: a life in pictures (Jan Harlan, USA 2001)
Filmografia analitica:
FEAR AND DESIRE (USA 1953)
Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Howard O.Sackler e Stanley Kubrick; fotografia: Stanley Kubrick; musica: Gerald Fried; montaggio: Stanley Kubrick; interpreti: Frank Silvera (Mac), Kenneth Harp (Corby), Virginia Leith (la ragazza), Paul Mazursky (Sidney), Steve Coit (Fletcher), David Allen (narratore); produttore: Stanley Kubrick e Martin Perveler per la Stanley Kubrick Productions; distribuzione: Joseph Burstyni; durata: 68’.
ORIZZONTI DI GLORIA (PATHS OF GLORY, USA 1957)
Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Stanley Kubrick, Calder Willingham, Jim Thompson; fotografia: George Krause; scenografia: Ludwig Reiber; musica: Gerald Fried; montaggio: Eva Kroll; suono: Martin Mueher; interpreti: Kirk Douglas (colonnello Dax), Ralph Meeker (caporale Paris), Adolphe Menjou (generale Broulard), George Macready (generale Mireau), Wayne Morris (tenente Roget), Richard Anderson (maggiore Saint-Auban), Joseph Turkel (soldato Arnaud), Timothy Carey (soldato Ferol), Peter Capell (il colonnello della Corte Marziale), Suzanne Christian (la giovane tedesca), Bert Freed (sergente Boulanger), Emile Meyer (il cappellano), John Stein (capitano Rousseau), Kem Dibbs (Lejeune), Jerry Hausner (Meyer), Frederic Bell (soldato ferito), Harold Benedict (capitano Nichols); produttore: James B.Harris per Harris-Kubrick Productions e Byrna Productions; distribuzione: United Artists; durata: 86’.
IL DOTTOR STRANAMORE, OVVERO COME IMPARAI A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA BOMBA (DR. STRANGELOVE OR: HOW I LEARNED TO STOP WORRYING AND LOVE THE BOMB, USA 1964)
Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Stanley Kubrick, Terry Southern, Peter George; fotografia: Gilbert Taylor; scenografia: Ken Adam; arredamento: Peter Murton; effetti speciali: Wally Veevers; titoli: Pablo Ferro; costumi: Bridget-Sellers; consulente per le sequenze aeree: Capitano John Crewdson; musica: Laurie Johnson (la canzone We’ll meet again è cantata da Vera Lynn); suono: John Cox; montaggio: Anthony Harvey; interpreti: Peter Sellers (capitano Lionel Mandrake, presidente Muffley, dottor Stranamore), George C. Scott (generale Turgidson), Sterling Hayden (generale Jack D.Ripper), Keenan Wynn (colonnello “Bat” Guano), Slim Pickens (maggiore T.J. “King” Kong), Peter Bull (l’ambasciatore russo Sadesky), Tracy Reed (miss Scott), James Earl Jones (tenente Lothar Zogg), Jack Creley (Staines), Frank Berry (tenente H.R. Dietrich), Glenn Beck (tenente W.D.Kivel), Shane Rimmer (capitano G.A. “Ace” Owens), Paul Tamarin (tenente B.Goldberg), Gordon Tanner (generale Faceman), Robert O’Neil (ammiraglio Randoiph), Roy Stephens (Frank), Laurence Herder, John McCarthy, Hal Galili (membri del Corpo di Difesa della base di Burpelson); produttore: Stanley Kubrick (produttore associato Victor Lyndon) per la Hawk Films; distribuzione: Columbia Pictures; durata: 94’.
FULL METAL JACKET (USA 1987)
Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Stanley Kubrick, Michael Herr, George Hasford; fotografia (Kodak colore): Douglas Milsome; musica: Abigail Maid e canzoni dell’epoca; scenografia: Antonio Furst; costumi: Keith Denny; montaggio: Martin Hunter; effetti speciali: John Evans; suono: Edward Tise; interpreti: Matthew Modine (Joker), Adam Baldwyn (Animal Mother), Vincent D’Onofrio (Palla di Lardo), Lee Ermey (sergente istruttore Hartman), Dorian Harewood (Eightball), Arlise Howard (Cowboy), Kevin Major Howard (Rafterman), Ed O’Ross (tenente Touchdown), John Terry (tenente Lockhart), Kirk Taylor (Payback), Ian Tayler (tenente Cleves), Papillon Soo Soo (prima prostituta), Tan Hung Francione (il protettore), Costas Dino Chimino (Chili), Peter Merrill (giornalista tv), Kierson Jecchinis (Crazy Earl), John Stafford (Doc Jay), Gay London Mills (Donlon), Ngoc Lee (la ragazza cecchino), Leanne Hong (seconda prostituta), Gil Kopel (Stork), Herbert Norville (Daytona Dave), Bruce Boa (colonnello Poge), Tim Colceri (il mitragliere dell’elicottero), Sal Lopez (T.H.E. Rock), Peter Edmund (Biancaneve), Marcus D’Amico (Hand Job), Nguyen Hue Phong (il ladro); produzione: Stanley Kubrick per Warner Bros; distribuzione: Warner Bros; durata: 116’.
Cortometraggi di Stanley Kubrick:
- Day of the fight (1951)
- Flying Padre (1952)
- The Seafarers (1952)
Altri film di Stanley Kubrick:
- Il bacio dell’assassino (Killer’s kiss, 1955)
- Rapina a mano armata (The killing, 1956)
- Spartacus (1960)
- Lolita (1962)
- 2001 Odissea nello spazio (2001: a space odissey, 1968)
- Arancia Meccanica (A clockwork orange, 1971)
- Barry Lyndon (1975)
- Shining (The shining, 1980)
- Eyes wide shut (1999)
Fonte: http://www.archiviokubrick.it/risorse/saggi/La-guerra-secondo-SK.doc
Sito web da visitare: http://www.archiviokubrick.it
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