Cinema e psicoanalisi

Cinema e psicoanalisi

 

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Cinema e psicoanalisi

La finestra sull’inconscio: dal sogno surrealista alla “vertigo”hitchcockiana
- Il cinema come arte e la psicoanalisi come scienza nascono negli stessi anni: fra il 1892 e il 1895 vengono pubblicati gli Studi sull’isteria di Freud e Breuer (L’interpretazione dei sogni di Freud esce nel 1900); la sera di sabato 28 dicembre 1895, al Grand Café di Parigi avviene la prima proiezione pubblica di brevi spezzoni di film realizzati dai fratelli Lumière. Tra questi i famosi Uscita degli operai dalle officine Lumière a Lione e L’arrivo di un treno a la Ciotat). Nasce così il cinematografo come spettacolo e fonte di intrattenimento per le masse in una società percorsa dai profondi rivolgimenti della rivoluzione industriale.
- Il cinema e la psicoanalisi hanno mantenuto sempre, nonostante possano
sembrare appartenenti ad ambiti culturali assai lontani, dei rapporti e degli
intrecci piuttosto stretti, viaggiando in parallelo: entrambi, nel corso del tempo,
hanno tratto profitto da questo rapporto, in una doppia prospettiva: 1) La
psicoanalisi si è servita del cinema come strumento in grado, per la sua enorme
capacità di raggiungere facilmente un vasto pubblico(come nessun altro mezzo
era stato capace di fare in passato), di portare all’attenzione delle masse le
complesse tematiche psicoanalitiche. 2) Il cinema si è servito della psicoanalisi
come strumento in grado non solo di fornire argomenti e soggetti da trasporre
in immagini che catturassero l’attenzione del pubblico(e lo portassero in
sala), ma anche - soprattutto - di fornire teorie attraverso le quali il cinema
potesse spiegare se stesso e il proprio funzionamento. In questo senso il cinema
ha molto sfruttato - come vedremo - la teoria relativa al funzionamento dei
sogni elaborata da Freud.
- Per quanto concerne la prospettiva più propriamente cinematografica, esistono
fondamentalmente tre modalità di utilizzo della psicoanalisi all’interno di un
film, che ci conducono rispettivamente a: 1) Film che ci raccontano e in cui si
rispecchiano le personali problematiche psicologiche del suo autore. Es:
2) Film che ci raccontano, visualizzandole, le particolari nevrosi o psicosi
di cui sono preda i personaggi all’interno della diegesi(cioè della storia
narrata). Es: Hitchcock, Bergman, Kubrick.
3) Film che si servono di alcuni concetti mutuati dalla psicoanalisi per
raccontare e svelare, attraverso le immagini, il funzionamento del dispositivo
cinematografico, soprattutto per quanto riguarda le dinamiche del suo rapporto
con noi spettatori. Es: Il Surrealismo e il concetto di sogno elaborato dalla
teoria freudiana.
- Il cinema come sogno. Molto di frequente, dalle prime opere teoriche sul cinema
ai giorni nostri, la visione di un film è stata paragonata all’atto del sognare.
Lo stesso famoso mito della caverna raccontato da Platone nel settimo libro della
Repubblica(i prigionieri incatenati all’interno di un antro oscuro, costretti a
fissare un muro sul quale il riverbero di un fuoco alle loro spalle proietta ombre e
immagini fantasmagoriche) è stato interpretato, a posteriori, come una metafora
del sogno e, con la nascita della nuova arte visiva, del cinema.
Christian Metz, semiologo e teorico del cinema, nel suo libro Cinema e psicanalisi
si è occupato, in particolare, di approfondire il problema dei rapporti tra le due
discipline, chiarendo il fenomeno del voyeurismo spettatoriale, dei meccanismi di
proiezione e identificazione suscitati dal dispositivo cinematografico, del cinema
come feticcio.
Metz ha anche messo in luce le principali affinità come le differenze tra la visione
filmica e il sogno. Se, infatti, il buio della sala di proiezione, la condizione di
relativa immobilità e di leggera suggestione ipnotica dello spettatore, provocata dal
flusso di immagini sullo schermo bianco, avvicinano la situazione cinematografica
a quella onirica, è anche vero che cinema e sogno si diversificano per almeno tre
caratteri fondamentali: 1) Il sognatore non sa di sognare, mentre lo spettatore, da
uomo sveglio, è consapevole di trovarsi al cinema, quindi di fronte ad uno
spettacolo “realistico” ma illusorio. 2) Le immagini del sogno sono interamente un
prodotto dell’inconscio di chi sogna, mentre quelle cinematografiche provengono
tutte da una fonte esterna. 3) Il film è, di conseguenza, molto più “logico” e
strutturato rispetto al sogno, progettato - a differenza di quest’ultimo - per una
fruizione collettiva.
- Il Sogno surrealista. Fra tutte le Avanguardie artistiche del novecento il
Surrealismo cinematografico, nato a Parigi nel 1924 sulle ceneri del Dadaismo,
entrato irreversibilmente in crisi, è il movimento che più si avvicina ai concetti di
sogno e di inconscio, fondando su di essi il punto di partenza di una nuova poetica
intesa come “Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia
verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del
pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla
ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”(André Bréton,
Manifesto del Surrealismo, 1924).
Già Futurismo(il Manifesto La cinematografia futurista di Martinetti, 1916; Vita
Futurista di A.Ginna, 1916) e Dadaismo(1920; Entr’acte, di René Clair, 1924),
con la loro predilezione per “le parole(e le immagini) in libertà”, avevano
contribuito alla nascita di un’esperienza cinematografica libera dai
condizionamenti estetici e formali del passato; con il Surrealismo questa volontà
di evasione dagli schemi e di sperimentazione viene messa in atto anche sul piano
dei contenuti e spinta sino ai limiti più estremi.
Un chien andalou, di Luis Bunuel e Salvador Dalì(1928) costituisce l’espressione
concreta di quanto abbiamo appena detto, oltre a rappresentare, insieme con L’age
d’or(1930), il punto più alto del Surrealismo cinematografico.
- Proiezione di Un chien andalou(12.55 m.)
- Un chien andalou è un film atipico: non segue le classiche convenzioni narrative
(già a quell’epoca comunemente accettate), la trama è esile, le immagini sono
Sconnesse fra loro, i nessi logici allentati, come in un sogno.
Il senso di oppressione e straniamento prodotto dal film è dato, in parte, anche
dall’assenza del sonoro(che fu introdotto solo negli anni 30’), ma soprattutto dalla
celebre scena del taglio dell’occhio, alternata a quella di una nuvola che passa
davanti alla luna(l’uomo col rasoio è lo stesso Bunuel).
Tenendo presente che, come tutte le Avanguardie, anche il Surrealismo si poneva
direttamente contro ogni tipo di oppressione ideologica e di conformismo
culturale, soprattutto quello della borghesia, questa scena è stata interpretata come
un invito a guardare le cose in una prospettiva nuova, “accecandosi”, per così dire,
e quindi rinunciando a una visione convenzionale e non libera della realtà.
Il simbolo dell’occhio che guarda, e che cerca, appunto, di aprirsi ad una visione
nuova, più consapevole, ci accompagnerà lungo tutto il viaggio di questo
seminario.
Altre metafore del film: l’uomo che trascina il pianoforte a cui, da un lato, sono
legati due seminaristi(uno di essi è Dalì), dall’altro un bue morto; simbolo dell’
ostacolo creato all’azione dell’uomo da Chiesa, stato consumista e cultura elitaria.
L’uomo privo di bocca: simbolo dell’impossibilità umana di esprimersi
liberamente in una società ipocrita e perbenista.
In realtà Bunuel e Dalì non desideravano realizzare un film piacevole, che
risultasse gradevole agli spettatori, ma proprio un’opera disturbante, fastidiosa ed
irritante, come in effetti è stato. Per questo motivo, la sera della prima del film, a
Parigi, Bunuel se ne stava dietro lo schermo con un grammofono(da cui
risuonavano tanghi argentini e il Tristano e Isotta di Wagner) e dei sassi nelle
tasche, pronti ad essere scagliati sul pubblico. Il film, invece, a differenza di altre
opere surrealiste(La coquille et le clergyman di Germaine Dulac), venne accolto
con favore, e le pietre rimasero nelle tasche di Bunuel.
- Citazioni da Bunuel (Dei miei sospiri estremi) e Dalì. “Pierre Batcheff aveva
esattamente il fisico che avevo immaginato per il mio eroe. Già allora si drogava
e faceva uso di stupefacenti. Qualche tempo dopo la fine delle riprese del nostro
film si suicidò. Un chien andalou era il film dell’adolescenza e della morte che io
affondai come un pugnale nel cuore della Parigi elegante, delicata e
raffinata”(Salvador Dalì). “Questo film lo avevamo realizzato metà per uno. Per
esempio, io escogitai la scena dell’occhio tagliato e quella delle formiche nella
mano. Dalì ideò la scena del campanello che suona come lo shaker per il cocktail.
In realtà non avevamo un vero e proprio soggetto. Ci limitavamo ad applicare la
pratica psicanalitica: cercavamo di ricordare quello che avevamo sognato e
selezionavamo alcune immagini da inserire nel film.[…]Questo film nacque dall’
incontro fra due sogni”(Luis Bunuel, “Dei miei sospiri estremi”).
- La psicoanalisi e Hitchcock. La lezione del Surrealismo cinematografico ha
rappresentato per le generazioni di artisti a venire una fonte pressoché inesauribile
di tematiche, di immagini e di espedienti tecnici con cui dare forma alle proprie
opere(ai sogni, come agli incubi personali). Alfred Hitchcock, “il genio del
thriller”, come è stato definito, si colloca fra i registi che più hanno saputo
appropriarsi di quella lezione e adattarla alla propria personalità e ai fini artistici
personali. Nei film di Hitchcock le tematiche psicoanalitiche ricorrono molto
spesso, tanto che non c’è quasi alcuna sua opera che non possa venire interpretata
con questa chiave di lettura.
Ma, possiamo domandarci, che ruolo gioca la psicoanalisi in questi film? Che
immagine Hitchcock ci restituisce di questa disciplina? E, infine, quale genere di
psicoanalisi Hitchcock mette in campo?
Lo psicologo Salvatore Cesario, nel suo libro La psicoanalisi e Hitchcock,
evidenzia come il regista nei suoi film faccia riferimento ad un particolare genere
di psicoanalisi, che Cesario chiama “una protopsicoanalisi di tipo ipnotico-
catartico”: cioè, per dirla in termini più semplici, una tecnica psicoanalitica di
vecchio stampo, basata sul ricorso all’ipnosi come mezzo per impostare una terapia
a breve termine, e con risultati immediati.
In realtà, da un punto di vista prettamente cinematografico, ciò che più interessava
a Hitchcock non era tanto approfondire nelle sue opere l’argomento psicoanalitico,
quanto servirsi della psicoanalisi come strumento per evocare la suspence,
mantenendo alto il livello di attenzione dello spettatore.
La psicoanalisi diventa, così, più che altro una riserva di trame, di tecniche e di
espedienti a cui attingere per catturare l’interesse e la partecipazione emotiva di chi
guarda, decretando in questo modo il successo del film.
In questo senso, Hitchcock svolge nei confronti del suo pubblico la funzione di un
vero e proprio ipnotizzatore: di colui che conosce bene la psicologia dello
spettatore, e sa soddisfarne i bisogni e le aspettative. Come dice lui stesso, a
proposito di Psycho: “Allora[…]bisogna dirigere completamente i pensieri dello
spettatore[…]Si gira e rigira il pubblico[…]La costruzione di questo film è molto
interessante ed è l’esperienza più appassionante che ho fatto di gioco con il
pubblico. Con Psycho, mi comportavo come fa un direttore con la sua orchestra,
era proprio come se stessi suonando l’organo.[…]E’appassionante per me
adoperare la macchina per ingannare il pubblico.[…]La mia più grande
soddisfazione è che il film ha avuto un effetto sul pubblico, ed era la cosa alla
quale tenevo di più”(François Truffaut, “Il cinema secondo Hitchcock”).
- Proiezione della scena dell’omicidio nella doccia da Psycho(3.12 m.)
- Di Psycho (1960) Hitchcock disse: “Se si volesse fare un film serio con Psycho, si
mostrerebbe un caso clinico; non bisognerebbe introdurvi né mistero né suspence.
Bisognerebbe che costituisse la documentazione di una storia e, come abbiamo già
detto, a forza di verosimiglianza e di plausibilità, si finirebbe per girare un
documentario”.
Trama e analisi del film. Marion Crane è una giovane impiegata di un’agenzia immobiliare di Phoenix. In un momento di debolezza fugge dalla città portando con sé un’ingente somma di denaro sottratta ad un cliente. E’, in realtà, intenzionata a restituire il tutto al più presto, ma, dopo aver fatto una sosta in un motel isolato lungo la strada, viene uccisa da Norman Bates, il proprietario, che soffre di una grave forma di psicosi: ha, infatti, già eliminato la vecchia madre autoritaria, anni prima, inglobandola a far parte della sua personalità malata. Tassidermia: arte di impagliare gli uccelli. Norman ne è appassionato e impaglia la vecchia madre.
Scena dell’omicidio nella doccia. Una settimana di riprese, 80 movimenti di macchina per riprendere l’omicidio da più angolature possibili, e senza mai far vedere il coltello che penetra nella carne di Marion. E’l’omicidio più famoso della storia del cinema, una scena che risulta estremamente violenta senza che questa violenza, in realtà, venga messa in campo. A noi interessa non tanto la rappresentazione dell’omicidio in sé, piuttosto l’attenzione insistente della macchina da presa sull’occhio ormai cieco e immobile di Marion, il cui motivo è anticipato dall’inquadratura dello scarico della doccia, un altro occhio, un abisso oscuro in cui Hitchcock fa precipitare il nostro sguardo. Facendo morire Marion, il personaggio in cui ci siamo identificati, a metà del film, Hitchcock provoca in noi spettatori uno strano spaesamento, dovuto al fatto che ora non sappiamo più in chi identificarci, e ci sentiamo come dei fantasmi che aleggiano sullo schermo. Ripresa dell’immagine surrealista dell’occhio.
- Proiezione della scena del sogno di Ballentine e della scena del bicchiere di latte da
Io ti salverò(3.38 m. e 1.47 m.)
- Di Io ti salverò Hitchcock disse: “Era il romanzo ad essere veramente folle…La mia
intenzione era più ragionevole, volevo solo girare il primo film di psicoanalisi. Ho
lavorato con Ben Hecht che aveva frequenti contatti con psicoanalisti famosi[…]Si
tratta ancora una volta di una storia di caccia all’uomo, presentata qui in un
involucro di pseudo-psicoanalisi”.
Spesso Hitchcock, come già visto in Psicho, intreccia l’argomento psicoanalitico a
una indagine poliziesca.
Trama e analisi del film. Titolo originale: Spellbound: incantato, affascinato, come
ipnotizzato(da Spell-binden). Riferimento allo stato patologico di Ballentine nel film
e al rapporto terapeutico con la psichiatra Costance.
Costance Petersen è una giovane psichiatra in una clinica per malattie mentali, dove
si attende l’arrivo del dott. Edwardes, il nuovo direttore.
Costance, prima molto ligia alle regole e attenta a non confondere il lavoro con la
vita privata, ben presto si innamora di Edwardes, scoprendo, però, che dietro la sua
identità fittizia si nasconde un uomo in preda a una misteriosa nevrosi: è, infatti,
ossessionato dalle righe e dal colore bianco. Grazie all’amore e all’aiuto del suo
maestro, lo psichiatra Brulov, Costance risolverà il mistero, scagionando John
Ballentine dall’accusa di aver ucciso il vero dott. Edwardes, liberandolo dalla sua
nevrosi, risalente all’infanzia, e scoprendo il vero assassino, il vecchio direttore
della clinica, dott. Murchinson. Scena del sogno di Ballentine. Da una scenografia di Salvador Dalì. Una delle prime inquadrature riproduce ed omaggia la scena del taglio dell’occhio di Un chien andalou. Hitchcock vuole riprodurre un sogno in immagini in maniera diversa dai film tradizionali, perciò si rivolge a Dalì, che a sua volta gli ricorda De Chirico. In realtà Spellbound non è il primo film sulla psicoanalisi, ce ne sono stati altri prima(Il mistero di un’anima, Pabst, 1926, per cui si richiese la collaborazione di Freud, che rifiutò). Il film propone anche una velata critica ai limiti della psicoanalisi: infatti Costance risolve il caso non tanto grazie al suo acume di psichiatra, ma attraverso il suo istinto di donna innamorata(“La mente non è tutto. Il cuore vede più lontano alle volte”). Scena del bicchiere di latte. Trasposizione in immagini di una nevrosi: Ballentine è preda della sua patologia, lo schermo diventa bianco(metodo espressionista). Film del 1944.
- Proiezione della scena del sogno di Marnie da Marnie(6.30 m.)
- Trama e analisi del film. Con Marnie(1964) era nelle intenzioni di Hitchcock di
mostrare “un amore feticista”, cioè l’attrazione del protagonista Mark per una ladra,
evidentemente il regista ha poi cambiato idea. Marnie è una giovane donna affetta
da frigidità e cleptomania. L’origine delle sue nevrosi risiede in un’esperienza
vissuta durante l’infanzia, a Baltimora, e in particolare alla figura della madre.
Marnie, però, ha rimosso dai suoi ricordi quel trauma, che si affaccia alla sua
coscienza solo sotto forma di un incubo ricorrente, ancora una volta visualizzato da
Hitchcock sullo schermo attraverso l’uso del colore, il rosso, che finisce per
invadere l’inquadratura(ancora l’espressionismo). Dopo l’ultimo colpo a Filadelfia,
Marnie viene smascherata da Mark, il suo principale, che se ne innamora e, anziché
denunciarla, la sposa e la aiuta a capire e superare le sue nevrosi, facendo le veci di
vero e proprio terapeuta, oltre che interpretando quel ruolo materno che Marnie
non ha mai sperimentato. Per la guarigione di Marnie fondamentale sarà il
confronto con la madre. Scena del sogno di Marnie. Espressionismo nell’uso del
colore. Leggera ironia del regista nella ricostruzione del settino psicoanalitico tra
Marnie e Mark.
- Proiezione della sequenza dei titoli di testa da La donna che visse due
volte(Vertigo): [2.38 m.]
- Vertigo(1958) è il titolo originale del film, uno fra i più complessi di Hitchcock,
soprattutto per la quantità dei riferimenti psicoanalitici che contiene. La “vertigo”
del titolo fa riferimento alla fobia di cui soffre il protagonista, Scottie (si tratta di
acrofobia, la paura dell’altezza) e alle vertigini che lo colgono ogniqualvolta si trovi
in luoghi alti che gli rammentino il trauma da cui questa paura ha avuto origine.
Nello stesso tempo, non più a livello di storia e di trama, ma di discorso del film,
il senso di vertigine evocato e messo in scena è, in realtà, quello provato dallo
spettatore nel momento in cui getta il proprio sguardo oltre la superficie di ciò che
appare, su se stesso e sulla propria interiorità(una tematica che sarà ripresa anche da
Stanley Kubrick, di cui parleremo la prossima volta).
Emblematica è, in questo senso, la sequenza d’apertura del film, mentre ancora scorrono i titoli di testa: un vero e proprio film nel film, dall’evidente valore simbolico. Ancora una volta l’inquadratura è dominata dal primo piano di un occhio, su cui si riverberano delle sfumature rossastre. Da questa inquadratura, per circa due minuti, si diparte tutta una serie di figure(soprattutto spirali), che non solo ricordano le “immagini in libertà”dei film futuristi, ma che, soprattutto, sono la visualizzazione della tematica del film, la vertigo. E’un movimento emblematico, questo, che dall’occhio parte e all’occhio ritorna. Come dire che l’essenza di tutto il discorso risiede in massima parte nel meccanismo della visione. Parafrasando un celebre libro di Milan Kundera potremmo dire: l’insostenibile vertigine del vedere.

Oltre la visione: l’odissea di Kubrick nell’inconscio e nell’uomo
- Introduzione. Lo scorso incontro ci siamo lasciati con la visione di quella che è una vera e propria introduzione visiva al film di Alfred Hitchcock Vertigo (in italiano La donna che visse due volte, 1958). Ricorderete che l’immagine chiave di quella scena, sullo scorrere dei titoli di testa, era data dall’occhio inquadrato in primissimo piano, da cui si dipartivano (e a cui tornavano nel finale) tutta una serie di figure (vortici, spirali) che, in qualche modo, richiamavano questo simbolo e l’idea della vertigine ad esso associata. Abbiamo detto che il senso di vertigine, al di là della storia raccontata da Hitchcock nel film, deriva dall’esperienza di noi spettatori, ogni volta che il cinema, anche grazie all’ ausilio della psicoanalisi, ci conduce a gettare uno sguardo nelle profondità del nostro inconscio, sia individuale che collettivo. Per fare questo, però, e sia la psicoanalisi che il cinema ce lo insegnano, è necessario andare oltre la superficie delle cose, al di là di quella patina illusoria che ricopre la nostra realtà interiore come quella esterna: in sostanza, come ci ha insegnato la grande lezione surrealista, dobbiamo cercare di spingerci, come dice il titolo del nostro seminario e dell’incontro di oggi, oltre la visione, abbandonando per un attimo il nostro tradizionale modo di guardare, con tutti i suoi schematismi. Dobbiamo “accecarci” in senso metaforico, come nel mito di Edipo; sezionare il nostro sguardo come Bunuel ci propone di fare in Un chien andalou.
- Lo stile. Stanley Kubrick è, tra i registi contemporanei, colui che più si è confrontato con l’esperienza della visione e che ha cercato di raccontarla, esplorandone al tempo stesso limiti e possibilità, sino ad approdare, verso la fine della sua lunga carriera cinematografica, agli estremi confini della rappresentabilità attraverso le immagini. Annette Michelson, una studiosa che si è occupata a lungo del cinema di Kubrick, in un articolo dal titolo Corpi nello spazio: il cinema come “conoscenza carnale”, scrive: “La sua narrazione […] mediante una tattica di continui spostamenti che agiscono a vari livelli e una costante, intensiva reinvenzione delle possibilità della percezione delle immagini, esplora le potenzialità strutturali del disorientamento in quanto veicolo di conoscenza. […] La dialettica del piacere e dei principi di comportamento(espressa dalla radicale ristrutturazione dell’ambiente operata dalla macchina da presa), la creazione di una serie di cambiamenti nella luce, nelle grandezze, nel ritmo, innalzano fino a trasformarle le condizioni stesse dell’esperienza filmica. La visione del film diventa (come sempre, ma mai prima d’ora) la scoperta, mediante la coscienza del disorientamento, di che cosa significa veramente guardare, imparare, conoscere, vedere”. Nella scelta di Kubrick, che assegna alla conoscenza visiva il primato su tutte le altre modalità del conoscere e ritiene che questo sapere possa essere raggiunto attraverso lo spaesamento dello spettatore e il completo ribaltamento, all’interno dell’intero film come della singola inquadratura, delle tradizionali prospettive spazio-temporali, si riflette in larga misura la lezione della scuola surrealista (il conoscere passa attraverso la visione). Tra l’altro, Kubrick nasce proprio nel 1928, che come ricorderete è l’anno in cui viene presentato Un chien andalou di Bunuel e Dalì. Nei suoi film Kubrick, che era un appassionato cultore della psicoanalisi freudiana, ripercorre, però, non solo la lezione surrealista, ma soprattutto quella espressionista (specie nei due film “noir” degli esordi, Il bacio dell’assassino, 1955, e Rapina a mano armata, 1956), da cui trae un ricco repertorio di tecniche, come le distorsioni o le anomale angolazioni della macchina da presa. Queste tecniche permettono a Kubrick di introdurre nella visione “classica”, rigidamente strutturata e centrata dal punto di vista prospettico, quelle sfasature e quegli scarti che indicano allo spettatore come la visione possa essere, a volte, un oggetto ambiguo e sfuggente; che molteplici sono le possibilità di interpretazione di un singolo quadro o di una singola scena; che, in definitiva, è necessario, per noi spettatori, trasformarci da soggetti passivi a soggetti attivi, che trasformano il film guardandolo e che si trasformano guardando il film. Dobbiamo prendere coscienza, insomma, di non saper vedere, per arrivare a cogliere la differenza che passa tra il semplice guardare e la capacità di vedere. Ciò conduce Kubrick, che inizia la sua carriera a sedici anni, nel 1945, come fotografo di cronaca (la sua foto di un venditore di giornali in lacrime per la notizia della morte di Roosvelt viene acquistata dalla rivista “Look”), ad elaborare nei propri film una vera e propria teoria dell’occhio, e questo ancora una volta ci riporta al motivo conduttore del nostro seminario. L’esperienza da fotografo di Kubrick si riflette nelle immagini che lui costruisce con maniacale precisione, sempre protese verso una ossessionante ricerca di perfezione formale: si tratta di veri e propri tableaux vivants, quadri viventi, che rimangono statici pur nel loro fondamentale dinamismo; molto vicini (soprattutto nel caso di un film come Barry Lindon, 1975) a una certa pittura di paesaggio europea del 700’ (Reynolds, Gainsborough), il secolo a cui Kubrick si è sempre sentito più vicino. Come dicevamo prima, però, in tanta perfezione formale Kubrick spesso introduce degli scarti, delle fratture (uso della camera a mano, della “steadicam”) che servono a sconvolgere l’ordine prestabilito, predisponendo lo sguardo dello spettatore ad una visione nuova. Nei film di Kubrick, perciò, al visto si sostituisce il visibile (come sostiene lo studioso Sandro Bernardi nel suo libro Kubrick e il cinema come arte del visibile): non tanto la visione come esperienza compiuta, ma la possibilità di vedere, come accadeva nel cinema delle origini, quando il lavoro sulle immagini era privilegiato rispetto alla storia da raccontare.
- Gli argomenti. Nel suo cinema perennemente in bilico fra tradizione e innovazione (soprattutto sul piano delle immagini), Kubrick, che è nato e cresciuto in America da una famiglia originaria dell’Europa orientale, si pone al crocevia di due differenti tradizioni e culture, che nell’ambito della sua poetica confluiscono in una più generale riflessione sulla cultura occidentale del 900’, specie per quanto concerne le arti visive. Nella continua dialettica tra immagini e parole che caratterizza la scarna produzione kubrickiana (solo 13 film in circa 40 anni di carriera, se si escludono i due cortometraggi e il documentario dei suoi esordi), l’interesse per la letteratura del regista è dimostrata dal fatto che, a partire da Rapina a mano armata, 1956, tutti i suoi film successivi nascono non da soggetti originali, ma dalla trasposizione di veri e propri romanzi, ovviamente adattati di volta in volta alle sue esigenze artistiche. Kubrick esplora, rielabora e sperimenta nelle sue pellicole tutti i generi “classici” del cinema hollywoodiano, dal film di guerra (Orizzonti di gloria, 1957, Il dottor Stranamore, 1964, Full Metal Racket, 1987) al peplum, il film storico in costume (Spartacus, 1960), al film horror (Shining, 1980), alla fantascienza (2001. Odissea nello spazio, 1968). Kubrick riserva, però, ai generi lo stesso trattamento relativo alle immagini: li modifica, li trasforma, facendo assumere loro un’identità nuova, in modo da disattendere, ancora una volta, le aspettative dello spettatore (è il metodo opposto rispetto a quello utilizzato da Hitchcock, che cercava di fornire al suo spettatore, soprattutto sul versante emozionale, ciò di cui aveva bisogno). In un’intervista che possiamo leggere nella biografia di Michel Ciment Kubrick, 1980, il regista dichiara: “La civiltà e la scienza moderne escludono ogni mitologia dalla nostra concezione del mondo, servono esclusivamente il principio di realtà e l’istinto di morte. Per il regista conviene allora creare il più gran numero di opere archetipiche - rimescolate tutte le società e le classi - portatrici di miti in cui gli spettatori troveranno un sollievo per i loro tormenti e i loro desideri”. Il viaggio di conoscenza che Kubrick, come un moderno Ulisse, compie all’interno dell’uomo e della civiltà da lui creata trova, però, una conclusione pessimista e drammatica: l’artista si ritrova a mettere in scena (e a fotografare) la crisi di quella ratio su cui la civiltà occidentale ha basato nei secoli la propria esistenza. Alla luce di questa crisi, dunque, la Storia collettiva viene percepita e raffigurata come minacciosa, perennemente attraversata da quella mancanza di senso e da quella violenza che poi si rispecchiano nel disgregarsi delle memorie e delle storie individuali (vedi lo stratificarsi delle storie in Shining). All’origine della parabola umana, come mostrato in 2001. Odissea nello spazio, c’è, ancora una volta, un atto violento (la scena della scimmia umanoide che impugna l’osso a mo’ di clava): e millenni di evoluzione non hanno dato come risultato che un uomo duale, diviso, che ha perso il controllo sul proprio agire e sul mondo circostante; un uomo ancora preda e vittima di quegli istinti primordiali che il cosiddetto “progresso” e la tecnologia non sono riusciti a cancellare (opposizione Natura/Cultura). L’uomo kubrickiano (e qui i riferimenti alla psicoanalisi sono d’obbligo) è un essere scisso, frantumato, alla ricerca di un’identità che ha, ormai irrimediabilmente, perduto; in altalenante oscillazione fra l’erompere della follia e la mediocrità del vivere quotidiano (vedi il Jack Torrance di Shining e il Bill Hartford di Eyes Wide Shut, “uomini senza qualità”). Alla luce di tutto questo, ecco che entrano in scena quelle tematiche che costituiscono il fondamento del cinema di Kubrick: la violenza, la pazzia, le personalità multiple (da Stranamore al programmatore elettronico Hal 9000), l’ossessione del doppio (tutti i “doppi” di Shining; i doppi dell’astronauta Bowman in 2001), gli esseri umani ridotti a maschere e manichini (se non ad automi, vedi Hal 9000 e il progetto, poi realizzato da Steven Spielberg, di AI. Intelligenza artificiale, 2001), sperduti tra corridoi e labirinti in una Storia più grande di loro, o governati da forze irrazionali (e spesso ripresi in campi lunghi o lunghissimi, per sottolineare la loro piccolezza). Una fra le poche, forse addirittura l’unica via d’uscita da questo “pessimismo cosmico” è, secondo Kubrick, la consapevolezza della realtà e, nello stesso tempo, la capacità umana, rivelata dal cinema, di andare oltre la superficie del reale; di aprirsi ad uno sguardo nuovo, il solo in grado di rigenerare il mondo.
- I film. Proiezione, analisi e commento delle due scene di sguardo verso il fuori campo da Vertigo di Alfred Hitchcock (1958, 1.56 m.) e Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick (1999, 45 s.). Riprendiamo la visione delle nuove scene da dove ci eravamo interrotti la volta precedente, cioè da una fra le più complesse opere di Hitchcock, a causa della molteplicità dei riferimenti psicoanalitici che vi possiamo ritrovare: dal tema del doppio all’acrofobia, alla necrofilia (sino, addirittura, a quello della circolarità del tempo e dell’eterno ritorno, tema, peraltro, affrontato anche da Kubrick in Shining). Da Vertigo vediamo una scena che, al di là della trama, ha per protagonista uno sguardo: lo possiamo definire “lo sguardo verso l’Altrove”, dove per Altrove il linguaggio cinematografico intende lo “spazio cieco del fuoricampo”, secondo la definizione che ne dà Pascal Bonitzer. Il fuoricampo è uno spazio esattamente speculare a quello che si trova in campo, cioè all’interno dell’inquadratura, e che noi vediamo sullo schermo. Secondo Bonitzer “lo spazio fuoricampo è dato da tutto ciò che si muove all’esterno o sotto la superficie delle cose, come lo squalo dell’omonimo film. Se tali film ‘funzionano’ è perché siamo presi nella tensione-oscillazione tra questi due spazi. Se lo squalo fosse sempre nel campo diverrebbe presto un animale domestico. Ciò che terrorizza è che non è lì! Il culmine dell’orrore sta nello ‘spazio cieco’.” Ora metteremo a confronto lo sguardo di Madeleine in Vertigo con un altro sguardo, altrettanto elusivo e sfuggente, quello di Alice in Eyes Wide Shut di Kubrick. Scopriremo così come le opere di due autori radicalmente diversi, a distanza di anni l’una dall’altra, si servano della stessa tecnica per indicare simbolicamente quell’Altrove, quello spazio al di qua dello schermo dove si trovano sia lo spettatore che la macchina da presa, il punto di origine di ogni verità e di ogni illusione. Necessità di andare oltre la visione. Lo sguardo verso il fuoricampo, anche quello di Alice, non è rivolto allo spettatore e neppure alla mdp, che tenta di eludere. E’un rinvio all’Altro, all’assenza, volto ad esplorare i meandri della psiche; un ponte tra visibile e invisibile. La presenza dello specchio serve solo a rafforzare questa duplicità. Possiamo adattare a questi sguardi ciò che Alain-Robbe Grillet dice a proposito dello sguardo in Antonioni: “…la camera, in Antonioni, guarda qualcuno che guarda altrove. E quando ci sono più personaggi la situazione si complica, perché ciascuno guarda altrove! E l’altrove in questione non è affatto un controcampo che si potrebbe dare in seguito, per mostrare cosa guarda questo sguardo. No, è lo sguardo ad essere diretto verso qualcosa che è fuori campo, che voi dunque non vedete, ma che si può supporre che il personaggio non veda più di voi. Semplicemente egli è, lui stesso, come la rappresentazione del proprio immaginario”.
- Proiezione, analisi e commento della scena del sogno di Alice da EWS (1999, 3.44 m.). EWS è l’ultimo film di Kubrick, scomparso il 7 marzo 1999, prima di poterne terminare il montaggio definitivo. E’un’opera complessa, irrisolta e a tratti perturbante, che pare girare a vuoto sino a sfiorare l’assurdo. In realtà, l’intenzione di Kubrick (che ne accarezzava il progetto sin dagli anni 70’), era probabilmente proprio quella di dar vita a un film al di fuori di ogni schema e di ogni logica, avente come tema dominante la sottile linea di confine tra realtà e fantasia, tra verità e sogno. Eyes Wide Shut (il cui titolo emblematico, “occhi aperti chiusi”, riferendosi all’attività del vedere, sembra porsi una domanda sostanziale: “è meglio tenere gli occhi aperti sulla realtà delle cose oppure serrarli nell’irrealtà del sogno?”) è tratto da Doppio sogno (Traumnovelle) di Arthur Schnitzler, una breve novella composta dallo scrittore ebreo tra il 1921 e il 1925. Schnitzler, laureato in medicina, era estremamente interessato alle tematiche psicoanalitiche (conosceva Freud, alla cui attenzione aveva sottoposto le sue opere: lo stesso psichiatra riconosceva che lo scrittore aveva raggiunto, per via poetica, alcuni risultati nella conoscenza dell’inconscio che lui stesso non aveva ottenuto che dopo anni di studi). In questo contesto Schnitzler mette in rilievo una zona particolare della psiche, che lui chiama medioconscio o semiconscio, a suo parere molto importante e spesso trascurata dagli scienziati: “Si scopre poi - e questa era forse la cosa più importante - una specie di territorio intermedio fluttuante fra conscio e inconscio. La soglia dell’inconscio non è così vicina come si crede, o talvolta si finge per comodità di credere (un errore non sempre evitato dagli psicoanalisti). Tracciare quanto più decisamente è possibile i limiti fra conscio, semiconscio e inconscio, in ciò consisterà soprattutto l’arte del poeta”. Delimitare i confini di questa “terra di nessuno” della nostra psiche è ciò che Schnitzler si propone di fare nella sua novella e così Kubrick nel film, che racconta la crisi di Bill ed Alice, una giovane coppia, benestante e di successo (Bill è un medico affermato), che senza rendersene conto scivola in un pericoloso gioco fatto di incontri proibiti (più immaginati che reali), sogni, incubi che si trasformano in realtà, iniziando a sgretolare le loro vite. Ews è, ancora una volta, un’amara considerazione di Kubrick (quella definitiva) sulla dissoluzione della civiltà occidentale, rappresentata dalla New York scintillante in cui è ambientata la storia (Vienna nella novella); una società malata e corrotta, che al di sotto della rassicurante superficie, nasconde mille scheletri e, soprattutto, una cronica incapacità di amare. Il racconto da parte di Alice del sogno. Anche qui, come la scorsa volta in Marnie, il sogno viene raccontato e non visualizzato. Notiamo: il contrasto di sfumature tra la luce notturna blu che rischiara la camera da letto e quella diurna, come a tracciare la linea di confine tra realtà e sogno. Il contenuto del sogno si presta all’interpretazione psicoanalitica: i due protagonisti nudi, il marito che scappa via, la donna prima vergognosa poi felice della sua nudità nel prato, l’uomo che ride di lei, ecc.
- Proiezione, analisi e commento della scena di dialogo tra Halloran, il cuoco dell’Overlook Hotel, e il piccolo Danny, da Shining (1980, 4 min. ). Film tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, e sottoposto da Kubrick a una notevole condensazione, oltre che a qualche variazione (introduzione della figura del labirinto e della famosa, ossessiva frase battuta da Jack alla macchina per scrivere. Italiano: Il mattino ha l’oro in bocca. Inglese: All work e no play make Jake a dull boy - Solo lavoro e niente gioco fanno di Jack un ragazzo ottuso). King non apprezzò granché il film. Elaborazione e rivisitazione del racconto gotico e dell’orrore in chiave psicologica; viaggio contraddittorio nelle tenebre della psiche (ma qui l’horror non dà luogo, come spesso accade nei film di genere, ad una fotografia scura, inquietante e “notturna”; Kubrick immerge, invece, l’orrore, per contrasto, in una luminosità intensa e falsamente rassicurante). Fiaba horror, sabba della psiche, con temi canonici: la casa infestata, l’eterno ritorno (nel dettaglio della fotografia datata 4 luglio 1921 che Kubrick ci propone alla fine del film scopriamo che Jack è sempre stato lì, all’Overlook Hotel), il patto col diavolo, la necrofilia, la doppia vista. Riferimenti nel film alle fiabe di Cappuccetto Rosso, Pollicino, Peter Pan (la moglie di Jack si chiama Wendy), Barbablù (la camera 237). Overlook: lett. guardare oltre, o dall’alto, ma anche controllare, dominare. Hotel come luogo di convergenza e di sovrapposizione di molteplici storie e di molteplici tempi: il cimitero indiano, la spedizione Donner in Sienna Nevada del 1846/47, gli anni 20’ e il massacro ad opera di Delbert Grady, il vecchio custode. Ciclicità del tempo; coazione a ripetere (D. Grady e Jack Torrance). Il concetto freudiano di Perturbante, presente sia in Ews che in Shining: “Ci troviamo esposti a un effetto perturbante quando il confine fra fantasia e realtà si fa labile, quando appare realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico” (Sigmund Freud, Il perturbante). La Storia come minaccia; la distruzione della Famiglia; l’Uomo disgregato, diviso, soggiogato da un Destino oscuro. La follia, lo stato catatonico di Jack, come vittima di un incantamento, ipnotizzato. Kubrick diceva di Jack: “E’vero che il personaggio di Jack […] mi rassomiglia in certi punti. Certamente traspaiono dal film alcuni dei miei fantasmi, ma tutto è trasformato dalla caricatura. Se si accetta questa prospettiva, in ciascuno dei miei film c’è qualcosa di me”. Il richiamo di Kubrick al mito di Edipo; al mito di Abramo e Isacco. Il mito del labirinto: struttura di difesa, luogo sacro per iniziati; simbolicamente, rappresentazione dell’inconscio, paragonabile al cervello umano e “metafora del ventre materno” secondo Michel Ciment, biografo di Kubrick. Riferimento, a detta di Kubrick, al Castello di Kafka (anche in EWS). Uso della “steadicam”, la prima volta in un intero film, da parte dell’operatore Garrett Brown, che la brevettò nel 1974. Il tema del doppio: il proliferare dei doppi nel film; Danny e Tony, Jack Torrance e Delbert Grady, le due gemelle fantasma. Temi del dialogo fra Halloran e Danny: il compagno immaginario; le parole di Ornella, 9 anni e sei mesi: “Con lei si andava nel tempo a vedere altre cose, nel futuro o nel passato” (da T. Giani Gallino, Il sistema bambino). Il tema dello shining: facoltà extra sensoriale relegata nella sfera dell’inconscio (i bambini spesso sanno riconoscerla e usarla perché hanno meno sovrastrutture degli adulti); ricordo del cinema delle origini, quando le macchine di proiezione vecchio stampo (sino al 1909) davano vita a immagini “luccicanti”, piene di bagliori e scintillii; metafora del cinema, che è capace di proiettarci nel passato e nel futuro, superando le leggi spaziali e temporali (cinema come passato e futuro). Psicoanalisi dei luoghi: luoghi come catalizzatori di energie, di memorie e stati d’animo collettivi.
- Proiezione, analisi e commento della visione di Danny, da Shining (27 s. ). Statuto ambiguo dell’immagine: che natura ha questa immagine, che Danny vede proprio mentre i suoi genitori stanno litigando a causa sua? E’ un sogno ad occhi aperti, una fantasticheria elaborata dalla sua mente? Oppure si tratta di una premonizione (anticipazione di un evento futuro)? O della memoria di un evento passato? Tecnica espressionista di Kubrick (come già in Hitchcock) nell’uso del colore rosso, che invade il quadro. Ancora una volta ritorna il tema dell’occhio, che si sottrae alla visione.
- Proiezione, analisi e commento della sequenza finale (il viaggio intergalattico dell’astronauta Bowman) del film 2001. Odissea nello spazio [1968, 8. 57 m.]. La pellicola più “filosofica” di Kubrick, che, rielaborando a suo piacimento le regole e le convenzioni della fantascienza, affronta una serie di grandi tematiche: l’origine del genere umano, la sua evoluzione (intesa in negativo, come storia di un progresso mancato; di una totale incapacità di affrancarsi dal dominio degli istinti), il suo possibile futuro. “Poema della conoscenza visiva” (Ruggero Eugeni, Invito al cinema di Kubrick): il tema dell’occhio ricorre per tutto il film, e particolarmente nel finale (la pupilla dilatata di Bowman, lo sguardo del feto astrale). Un film costruito più sulle immagini, su inquadrature piuttosto statiche e lunghe, su di un ritmo lento che consenta allo spettatore di goderne, che sui dialoghi, scarsi. Musiche che ricordano le origini europee di Kubrick (“Sul bel Danubio blu” di Johann Strass; “Così parlò Zarathustra” di Richard Strass), a scandire gli snodi cruciali del film. Rumori. I silenzi del film, l’uso frequente delle didascalie, richiamano il cinema delle origini. Il monolite: simbolo di un ipotetico Altrove; di un’intelligenza extraterrestre (fu introdotto nel film dopo che i modellini di extraterresti che si pensava di usare vennero giudicati inadeguati da Kubrick); di Dio; del cinema stesso (nero, lucido, ipnotico, come lo schermo cinematografico). Il viaggio astrale di Bowman: espressionismo nell’uso del colore. Viaggio metaforico di un nuovo Ulisse alla ricerca della conoscenza finale di tutte le cose; approdo in un luogo al di là del tempo e dello spazio, probabilmente l’inconscio dell’uomo. Tema del doppio: i doppi di Bowman, che rappresentano a livello simbolico le varie stagioni della vita. La circolarità del tempo: dall’immagine del vecchio Bowman morente si passa a quella del feto astrale. Il gesto del voltarsi indietro: ripresa del gesto compiuto dall’attore Nicolaj Cercassov in Ivan il Terribile di Ejzenstejn (1944); un gesto “lento e meraviglioso”, secondo Kubrick, ripreso dal Cristo del Giudizio di Michelangelo, che lo riprese a sua volta dal gruppo statuario del Laocoonte. Gesto trapassato, poi, nella ritrattistica settecentesca (Reynolds). Kubrick lo interpreta simbolicamente come il rivolgersi dello spettatore verso il proiettore, il punto di origine della visione. Solo prendendo coscienza dell’illusorietà della rappresentazione, smascherandone il meccanismo, potremo salvarci, cioè approdare ad una visione nuova, più consapevole. Solo accecandoci potremo andare oltre la visione. Soltanto allora, finalmente, il cinema potrà aiutarci a ri-generare il nostro sguardo (Bowman sul letto di morte che indica il monolite; lo sguardo in macchina, quindi rivolto a noi spettatori, del feto astrale).
- Conclusione. Citazione di Kubrick: “La cosa più terrificante dell’universo non è la sua ostilità, ma la sua indifferenza; se riusciamo però a venire a patti con quell’indifferenza e ad accettare le sfide della vita entro i limiti mortali - per quanto sia in grado di fare l’uomo volubile - la nostra esistenza in quanto specie può avere un senso e un compimento reali. Per esteso che sia il buio, dobbiamo fornire noi le nostre luci”.

Frenzy e Monster : anatomia di una violenza
Vorrei iniziare questo intervento con una frase della filosofa francese Simone Weil, che nei Cahiers de Marseille introduce un’importante riflessione sul tema della violenza e della colpa.
La Weil afferma che “La violenza è una spada a due punte”, nel senso che, paradossalmente, ha il potere di contaminare non solo chi la mette in atto, ma anche chi la subisce.
A questo proposito, la cronaca ogni giorno continua a raccontarci drammatiche storie di violenza, soprattutto sulle donne, e la stessa Festa della Donna è, in realtà, il ricordo di una violenza, quella subita nel 1908 dalle 129 operaie dell’industria tessile Cotton di New York, che proprio quel giorno morirono nel rogo che venne appiccato allo stabilimento in cui scioperavano per rivendicare i propri diritti di lavoratrici.
Questa sera vorrei mettere a confronto con voi due film, Frenzy, di Alfred Hitchcock e Monster, della regista americana Patty Jenkins, che affrontano entrambi il tema della violenza di cui le donne sono vittime e, in qualche caso, protagoniste attive, in maniere diverse e, nello stesso tempo, speculari, approdando infine ad un discorso sulla violenza molto più vasto e articolato, capace di spingersi oltre le sue specifiche declinazioni, la violenza contro le donne, ad esempio.
Il nostro intento, però, al di là dei contenuti e degli argomenti trattati dai singoli film, sarà soprattutto quello di mostrare come esistano modi differenti e paralleli da parte del cinema di rappresentare il medesimo genere di violenza.
Partiamo da Monster. E’ un film del 2003 in cui la regista Patty Jenkins, che è anche autrice del soggetto e della sceneggiatura, ricostruisce liberamente la vicenda di cronaca di Aileen Wuornos, la prostituta americana considerata, forse impropriamente, la prima serial killer della storia e condannata alla pena di morte per gli omicidi, compiuti tra il 1989 e il 1991, di sette uomini, probabilmente suoi clienti.
Aileen, detta Lee, è stata giustiziata tramite iniezione letale il 9 ottobre del 2002, dopo aver trascorso dodici anni nel braccio della morte della prigione di Raiford, in Florida.
Per raccontare questa storia la Jenkins, che è al suo esordio come regista, si documenta sulle centinaia di lettere che Lee ha scritto durante la detenzione, mentre, per interpretare la vera Aileen, di cui aveva studiato la fisionomia e la gestualità in un documentario, l’attrice Charlize Theron utilizza le tecniche dell’Actor’s Studio, ingrassando di quindici chili e sottoponendosi ad un pesante trucco.
Lo sforzo di verosimiglianza è evidentemente notevole, ma, al di là del punto di vista personale che la regista imprime alla storia - condensato nel titolo: Monster, Mostro, con riferimento alle responsabilità della famiglia, della società e della cultura di massa nel favorire la nascita di forme psicopatologiche come quella di cui è preda Lee (ma Il Mostro è anche una giostra su cui lei andava da ragazzina) - quello che vorrei evidenziare è il modo in cui nel film viene rappresentata la violenza, di natura omicida e sessuale.
A questo proposito vedrei subito una scena da Monster, quella in cui Lee, violentata da un cliente particolarmente sadico, lo uccide per legittima difesa. Vediamo questa scena. (durata della scena: 2 minuti e 10 secondi)
Ecco, avete visto come in questa scena la violenza subita da Lee e poi l’omicidio del cliente da lei commesso vengano restituiti con estremo realismo, con un linguaggio incisivo, “forte” e crudo, che non tralascia di mostrare anche i particolari più efferati.
Questo stile di regia, asciutto, sintetico, privo di inutili abbellimenti e di tutto ciò che potrebbe risultare superfluo alla narrazione, è tipico del nuovo corso del cinema indipendente americano degli ultimi anni, e nasce da una precisa volontà di rappresentare il reale per quello che è, con meno filtri possibile.
Lo si vede bene anche in un’altra scena di Monster, quella in cui Lee uccide un altro suo cliente, stavolta spinta solo dalla sua furia omicida: come se la donna avesse inglobato e fatto propria tutta la violenza di cui è stata vittima in passato e ora fosse pronta a scaricarla sul mondo esterno. E’ una scena in cui, tra l’altro, assistiamo al completo ribaltamento dei ruoli della vittima e del carnefice.
Vediamo. (durata della scena: 1 minuto e venti secondi)
E questo è il modo in cui una regista americana contemporanea, una donna, rappresenta sullo schermo la violenza di cui il femminile è, nello stesso tempo, vittima ma anche creatrice: come avete visto, la scelta stilistica è quella di rendere la violenza con l’uso di un linguaggio affine, anch’esso, quindi, estremamente duro e diretto.
Ma, se torniamo indietro di qualche anno, per la precisione al 1972, troviamo un film come Frenzy, di Alfred Hitchcock, che partendo inizialmente dalla medesima scelta stilistica di Monster, approda in seguito, come vedremo, a una soluzione diversa.
Frenzy è il 52esimo e penultimo film della carriera cinematografica di Hitchcock, il primo che il regista gira in Inghilterra, sua terra d’origine, dopo aver trascorso oltre vent’anni sui set americani.
E’ tratto dal romanzo di Arthur La Bern Arrivederci Piccadilly, addio Leicester Square, e racconta la storia di Bob Rusk, uno psicopatico dalla sessualità deviata, ex pilota della RAF e commerciante di frutta, molto legato alla figura materna(Hitchcock introduce, così, un velato riferimento al complesso di Edipo), che terrorizza la Londra popolare dei mercati e dei pubs violentando e strangolando le proprie vittime con una cravatta, sua firma distintiva.
Frenzy è anche, però, la storia della caccia all’uomo sbagliato, e di uno scambio di persona, perché degli omicidi viene accusato Richard Blaney, ex collega e amico di Rusk, eroe dell’aviazione inglese durante la guerra, e ora in crisi esistenziale(ha perso il lavoro; la moglie ha chiesto il divorzio da lui per “crudeltà mentale”).
In questo modo Hitchcock riprende due grandi motivi già trattati in alcuni suoi film precedenti: quello dell’assassino psicopatico (è il caso, ad esempio, di The Lodger/ Il pensionante, del 1926, e del più recente Psycho, 1960), e quello dell’uomo ingiustamente accusato (come in Il club dei 39, 1935, Io confesso, 1952, o nel famosissimo Intrigo internazionale, 1959).
Il titolo del film, la parola Frenzy, allude ad uno stato momentaneo di estrema agitazione mentale, di delirio e frenesia, appunto, che evoca la patologia mentale di cui soffre Bob Rusk.
A questo proposito, il film riporta tutta una serie di stereotipi e luoghi comuni relativi alla violenza sulle donne: vengono pronunciate battute come “Certo che, però, ci sono donne che lo vanno a cercare, quel che gli succede”, oppure “Anche le cose peggiori hanno un lato positivo”, riferito agli stupri che precedono gli omicidi del maniaco.
Hitchcock sembra voler dire che spesso la violenza non è un’esclusiva prerogativa della singola personalità malata(il caso di Rusk), ma percorre in maniera sotterranea un’intera società, come quella maschilista e patriarcale descritta nel film. C’è anche da dire che la visione dei rapporti fra i sessi proposta da Frenzy non è affatto rosea, gli uomini sono dipinti come frustrati e violenti(lo stesso Richard Blaney), le donne, invece, autoritarie e castratrici, spesso con una posizione sociale migliore di quella dei loro compagni, ma ormai prive di quel fascino da icone del femminile che caratterizzava le protagoniste dei classici di Hitchcock girati a Hollywood, incarnate da attrici come Grace Kelly o Kim Novak.
Da Frenzy vediamo subito una sequenza che ancora una volta, come abbiamo già sperimentato in Monster, rappresenta la violenza sessuale e l’omicidio in maniera estremamente franca e diretta: si tratta del momento culminante dell’assassinio di Brenda, la ex moglie di Richard Blaney, da parte del maniaco della cravatta.
Vediamo (durata della scena: 4 minuti e 47 secondi)
Ecco, avrete notato come in questa scena Hitchcock descriva la violenza e il delitto in modo fortemente realistico, con ricchezza di dettagli e addirittura con una certa ferocia, senza lasciare nulla all’immaginazione (tra l’altro questo è il primo film di Hitchcock in cui compaiano scene di nudo: il regista, nel 1972, aveva maggiore libertà dalla censura), e insistendo sulle caratteristiche fisiche della morte per strangolamento(l’inquadratura finale della donna): avrete anche notato la tecnica del fermo immagine, che fissa sulla pellicola il momento della morte di Brenda.
La violenza, quindi, come già accadeva in Monster, viene resa, attraverso un procedimento analogico, tramite un linguaggio e uno stile altrettanto aggressivi e diretti.
Adesso vediamo, invece, un’altra sequenza da Frenzy, che ci racconta l’ennesimo omicidio compiuto da Bob Rusk, quello di Babs Mulligan, amica ed amante di Richard Blaney: noteremo come il modo di rappresentare questa scena, la tecnica di regia siano completamente diversi rispetto alla prima sequenza.
Vediamo (durata della scena: 2 minuti e 58 secondi)
Avete visto quanto quest’ultima sequenza risulti differente da tutte quelle che abbiamo analizzato in precedenza.
Hitchcock rinuncia a mettere in scena la violenza, l’omicidio (questa scelta da parte del regista può venire interpretata come un’esplicita volontà di distacco da un’azione giudicata riprovevole, ma è stata compiuta anche per non saturare il film con troppa violenza) e ce li lascia semplicemente intuire, attraverso quello straordinario movimento di macchina, un carrello all’indietro, attraverso il quale il narratore, e gli spettatori insieme a lui, abbandonano il luogo del delitto per uscire in strada, in mezzo alla folla che va e che viene, immersa nei suoi traffici e ignara di quel che sta accadendo nell’appartamento di Rusk.
La macchina da presa, come avete visto, ridiscende le scale con un lento movimento a ritroso, supera la porta d’ingresso per andare a posizionarsi proprio di fronte al palazzo e alle finestre corrispondenti all’abitazione del maniaco, dove si sta consumando la violenza.
L’orrore stavolta è assente dalla scena, ma - grazie a questa soluzione di regia - comunque ben presente all’immaginazione di noi spettatori.
La violenza non viene esplicitata, come nella prima sequenza di Frenzy, ma - al contrario - è resa indirettamente, per sottrazione, raggiungendo comunque un altissimo livello di suggestione scenica e di impatto emotivo su chi guarda.
L’effetto spettacolare è raddoppiato da un procedimento che opera per contrasto rispetto a ciò che si vuole rappresentare: si nasconde la violenza al fine di metterla ancora più in evidenza.
Questa sera grazie a due film - Monster e Frenzy - abbiamo compiuto un breve viaggio nella rappresentazione della violenza cinematografica, soprattutto quella che coinvolge, come protagoniste e vittime, le donne.
Abbiamo visto che esistono modalità differenti di raccontarla e metterla in scena, sia per analogia che per contrasto, corrispondenti a diverse scelte stilistiche.
Ciò che, comunque, emerge, dall’analisi dei film trattati, è che la violenza, il vero mostro da abbattere e contro lottare, può avere svariate declinazioni, non solo violenza sessuale, ma anche psicologica o verbale, e spesso si manifesta come fatto collettivo, male che si ramifica in maniera sotterranea all’interno di un’intera società o cultura, non caso isolato imputabile esclusivamente al singolo soggetto deviato o alienato.
Spesso, però, per prendere le distanze dalla violenza può essere necessario raccontarla, come hanno tentato di fare Monster e Frenzy, ovviamente purché la sua messa in scena non si trasformi in una rappresentazione del tutto gratuita e fine a se stessa.
Sempre sul tema della violenza contro le donne,vi lascio con un breve brano tratto dal libro Mille splendidi solidi Khaled Hosseini, l’autore di Il cacciatore di aquiloni, di cui recentemente è stata realizzata una trasposizione cinematografica: “Distesa sul divano, con le mani tra le ginocchia, Mariam fissava i mulinelli di neve che turbinavano fuori dalla finestra. Una volta Nana le aveva detto che ogni fiocco di neve era il sospiro di una donna infelice da qualche parte del mondo. Che tutti i sospiri che si elevavano al cielo si raccoglievano a formare le nubi, e poi si spezzavano in minuti frantumi, cadendo silenziosamente sulla gente.
‘A ricordo di come soffrono le donne come noi ’ aveva detto. ‘ Di come sopportiamo in silenzio tutto ciò che ci cade addosso ’.”
Grazie.

Incontri col vampiro: proiezioni cinematografiche di un archetipo dell’inconscio
- Introduzione. Le ragioni di quest’argomento. Il ritorno in auge della figura del Vampiro, che in realtà non è mai interamente scomparsa dal nostro orizzonte culturale. L’interesse e l’attrazione degli adolescenti per questa figura, capace di esercitare su di loro, come da tradizione, un notevole potere ipnotico (del resto, una delle straordinarie facoltà del Vampiro è proprio quella della suggestione ipnotica, resa particolarmente evidente dal cinema, e senza dubbio interpretabile a livello psicoanalitico). Il “fenomeno Twilight”: già saga di successo della scrittrice Stephenie Meyer (4 libri), ora anche film “mitico” della regista Catherine Hardwicke, di cui già si sta progettando il sequel. Twilight: crepuscolo. Pellicola, in effetti, molto crepuscolare, intrisa di romanticismo, che immerge la storia dell’innamoramento tra un giovane vampiro, Edward, e una sua coetanea, Bella, nel fascino malinconico di atmosfere nebulose, piovose, dentro una luminosità fioca e appena suggerita. Romanzo e film rivolti agli adolescenti, pensati in loro funzione: piacciono per il porre l’accento su una storia d’amore “impossibile” che, per una volta, diventa possibile; i ragazzi possono identificarsi nel protagonista, una figura con le loro stesse inibizioni e paure, ma anche con le qualità eccezionali che ogni Mostro ha (il volo, un’enorme forza fisica, la lettura del pensiero, ecc.), senza, però, quel lato malvagio e terrificante che rendeva così spaventose le precedenti versioni cinematografiche dello stesso mito. Anche le ragazze possono identificarsi in Bella, nella sua timidezza, nelle sue difficoltà di socializzazione, ma anche nel suo desiderio di innamorarsi di una figura maschile che costituisce, senza dubbio, un’alternativa rispetto a quelle che sono le caratteristiche comuni dell’adolescente medio. Il vampiro Edward Cullen, con la sua pelle che, al sole, diventa dorata, la sua capacità di non farsi trascinare dagli istinti e, soprattutto, di amare, è il prodotto finale di quella lunga fase di trasformazione dell’immagine del Vampiro, operata dal cinema, che ha avuto inizio con il Nosferatu di Werner Herzog (1978), e che è poi proseguita con il Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola (1992). Come avremo modo di vedere, il Vampiro si è “umanizzato” rispetto ai primi film sull’argomento: è venuto a patti con se stesso, con la propria natura, ha desiderato e poi scoperto il piacere dell’amore, e della vita scandita non attraverso il filtro dell’eternità, bensì del tempo quotidiano. Ha imparato a “cogliere l’attimo”. Allora, poiché in fondo noi siamo ben consapevoli, come diceva lo stesso Freud a proposito del Perturbante, che spesso i racconti dell’orrore mettono in scena un pericolo che ci è familiare, che sta dentro di noi, più che fuori, possiamo dire che, forse, negli ultimi anni siamo venuti a patti, come il Vampiro, con il nostro lato oscuro.
- Origini mitiche, archetipiche, letterarie della figura del Vampiro. La figura del Vampiro, del mostro proveniente dal mondo infero che rapisce le proprie vittime per succhiar loro il sangue è presente nell’immaginario e nei miti di quasi tutte le culture mondiali, dall’Oriente all’Occidente, e perfino nella lontanissima Australia. Del resto, la metafora del sangue come fonte di energia vitale, poi trapassata nella cultura cristiana ( la frase “Il sangue è la vita”, che ritorna a più riprese nei film sul Vampiro, è una citazione della frase biblica: “Ma assicurati di non mangiare il sangue; perché il sangue è la vita; e non mangerai la vita con la carne”, Deuteronomio, 12: 23), era presente già nelle antiche culture antropofaghe. Inoltre, se guardiamo al mondo naturale, troviamo una particolare specie di pipistrello sudamericano (il pipistrello-vampiro) che si nutre del sangue delle proprie vittime, e ricordiamo anche la leggenda relativa al pellicano, che si squarcia il petto per nutrire la propria prole. L’immagine del pipistrello è stata, poi, automaticamente associata a quella del Vampiro. Esistono, poi, malattie, come la porfiria, una grave mancanza, per lo più congenita, di un enzima del sangue, i cui sintomi ci riportano ad alcuni dei tratti caratterizzanti il Vampiro: ad esempio, l’avversione per la luce, oppure il progressivo assottigliamento delle gengive, che rende i denti più prominenti. La sindrome di Renfield (così chiamata dal nome di uno dei personaggi del Dracula di Bram Stoker), invece, è una particolare forma di psicosi che costringe chi ne è preda al bisogno ossessivo di bere il sangue umano, ed è probabilmente riportabile a traumi subiti durante l’infanzia. Spesso capita anche di parlare, nell’ambito della vita di relazione, di rapporti vampirizzanti, cioè di quei legami morbosi stabiliti con una data persona che non ci permettono di evolverci e di esprimere pienamente la nostra personalità; o di persone che, come i vampiri, prosciugano con i loro atteggiamenti le nostre energie psichiche. L’immagine moderna del Vampiro, nasce, però, nel 1897, con la pubblicazione del Dracula dello scrittore irlandese Bram Stoker: non a caso, anche questo romanzo dai molti risvolti psicologici, viene alla luce negli stessi anni della nascita della teoria psicoanalitica freudiana nonché del cinema, e del Vampiro si è detto che “non è nato a Hollywood, ma l’ha raggiunta con inesorabile rapidità” (David J. Skal. Hollywood Gothic, 1990). In effetti, la figura del Vampiro, la cui origine sembra perdersi nella notte dei tempi e la cui essenza è costituita dalla velocità con cui può spostarsi per il mondo, ha trovato nel cinema un luogo assai congeniale in cui prendere dimora. Stoker scrisse Dracula elaborando e componendo in maniera originale sia gli spunti offerti dalla storia (con il riferimento alla figura realmente esistita, nel XV secolo, del principe di Valacchia Vlad Tepes, l’impalatore, ribattezzato Dracul-a, cioè figlio del diavolo o del drago, dall’insegna del suo casato. Vlad, di natura particolarmente feroce con i propri nemici, combatté attivamente contro i turchi); sia quelli offerti dal mito ( le leggende dell’Europa orientale relative al cosiddetto Nosferatu, il non-morto) e dalla letteratura precedente. Infatti, anni prima dell’uscita del romanzo di Stoker, nel 1819, il medico personale di lord Byron, John William Polidori, diede alle stampe Il vampiro,che fu considerato il primo racconto inglese di questo genere. Nel racconto la figura del protagonista, lord Ruthven, adombra quella dello stesso Byron, con cui Polidori aveva un rapporto di amore-odio e al quale il medico avrebbe sottratto l’idea per la sua storia (storia dell’incontro fra Polidori, Byron e i coniugi Shelley sul lago di Ginevra, e della relativa gara letteraria per l’ideazione di un racconto dell’orrore). Il nome del vampiro di Polidori è ripreso da quello del protagonista del romanzo di Caroline Lamb Glenarvon (1816), ispirato alla figura di Byron. Lo stesso Byron compose un poema nel 1813, Il giaurro, che già proponeva la storia di un uomo che si trasforma in vampiro dopo la sua morte. Nel 1847, poi, uscì un lungo romanzo a puntate dal titolo Varney il Vampiro, di James Malcom Rymer; infine, nel 1871, venne pubblicato un racconto di Sheridan Le Fanu, Carmilla, con protagonista una giovane vampira. L’insieme di questi motivi confluì nel Dracula di Bram Stoker. Numerose sono state le interpretazioni di questo sfaccettato romanzo: l’immagine negativa del Vampiro è stata letta come una proiezione dell’antisemitismo che era diffuso in Europa all’epoca di Stoker (il vampiro come l’ebreo, senza un’origine definita e accumulatore di capitali); come l’immagine stessa degli effetti deleteri del capitalismo (lo stesso Marx nel Capitale aveva scritto: “Il capitale è lavoro morto che, come un vampiro, sopravvive solo succhiando il lavoro vivo, e vive tanto più a lungo quanto più lavoro succhia”). L’interpretazione più interessante del romanzo, però, rimane quella psicoanalitica, che lo legge come l’esplicazione attraverso la storia della rigida mentalità vittoriana, estremamente repressiva nei confronti della condotta sessuale e di quanto vi si riferiva. Argomenti “proibiti” come l’omosessualità e l’incesto sarebbero celati nel romanzo: due scene, in particolare, quella dell’incontro di Jonathan Harker con tre vampire mentre è ospite nel castello di Dracula, e quella in cui Dracula si apre una ferita nel petto, costringendo Mina a bere il suo sangue, avrebbero una forte valenza erotica. Del resto, lo stesso morso del vampiro è l’espressione dello scatenarsi di una rabbia di tipo orale e infantile (dal succhiare al mordere il seno materno), con implicazioni di tipo sessuale. Secondo alcuni, infine, il romanzo di Stoker rappresenterebbe le ansie e le frustrazioni dell’uomo vittoriano incapace di accettare il percorso di emancipazione delle donne, che vengono percepite come una minaccia, e quindi descritte come complici, alleate del vampiro.
- La figura del Vampiro nel cinema. Chris Vogler, sceneggiatore e story analist hollywoodiano, nel suo libro Il viaggio dell’eroe: la struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e cinema, sostiene che in qualsiasi tipo di narrazione sia possibile evidenziare una struttura di base già presente nel mito, in cui la storia si configura come un viaggio simbolico di un protagonista, un eroe, alla ricerca di un qualcosa che gli manca, o che ha perduto. In questo viaggio l’eroe dovrà passare attraverso varie fasi o prove, e incontrerà diverse figure archetipiche, cioè rappresentazioni simboliche dell’inconscio collettivo. Vogler si riallaccia, in questa sua teoria, all’opera di uno studioso del mito americano, Joseph Campbell (L’eroe dai mille volti), che a sua volta riprende la definizione di archetipo fornita da Jung. Secondo questa prospettiva, la figura del Vampiro è chiaramente riconducibile a due archetipi fondamentali: quello dell’Ombra (ovvero la personificazione del lato oscuro, sconosciuto e minaccioso che risiede dentro ciascun individuo) e quello del Mutaforme (cioè la personificazione dell’animus o dell’anima secondo Jung, rispettivamente il lato maschile che risiede nell’inconscio di una donna e il lato femminile che fa parte dell’inconscio di un uomo).
- Proiezione, analisi e commento della scena del primo attacco di Nosferatu a Thomas Hutter e del sonnambulismo di Ellen, da Nosferatu, una sinfonia dell’orrore, di F. W. Murnau (1922, 3.18 m.). Si tratta della prima versione cinematografica del romanzo di Bram Stoker. Lo sceneggiatore Henrik Galeen adattò il libro trasformando parzialmente alcune situazioni (soprattutto la parte finale: nel film, a differenza del romanzo, Nosferatu viene sconfitto tramite il sacrificio di Ellen/Mina, anziché attraverso l’intervento della “squadra della luce” guidata dal prof. Van Helsing), e soprattutto - poiché si trattava di una versione non autorizzata - cambiando tutti i nomi dei personaggi. L’azione è ambientata a Brema. Il primo Nosferatu della storia del cinema diventa il conte Orlok, un essere magro e allampanato, calvo, con i denti da topo e lunghi artigli al posto delle dita. La figura di Orlock è fortemente caratterizzata dalla presenza dell’attore Max Schreck (schreck in tedesco significa terrore), dalla sua particolare fisicità, accentuata, naturalmente, dal trucco di scena. Il film si lega a quel filone fantastico che era molto in voga negli anni dell’espressionismo, di cui riproduce le scenografie distorte, le atmosfere gotiche e irreali. Rimane l’unico prodotto della Prana Film, che si indebitò per realizzarlo al punto di fallire poco tempo dopo. La vedova di Bram Stoker, Florence, a cui non erano stati pagati i diritti per lo sfruttamento dell’opera del marito, pretese che il negativo e le copie del film venissero distrutte. Qualcuna fra queste, per nostra fortuna, non venne rintracciata. In questa scena l’assalto del vampiro viene associato a un incubo, una sorta di premonizione, avuto da Ellen, la moglie di Thomas, e al suo sonnambulismo. Influsso ipnotico del vampiro, che pare capace di suggestionare le sue vittime anche da lontano. La stessa apparizione di Orlock viene presentata come una visione o un sogno.
- Proiezione, analisi e commento della scena dell’ingresso di Dracula in camera di Mina e del racconto che la donna fa al prof. Van Helsing del suo strano sogno, da Dracula di Tod Browning (1931, 3 m.). A quasi un decennio di distanza dal Nosferatu di Murnau, e dalle sue atmosfere gotiche, la casa di produzione hollywoodiana Universal riuscì ad ottenere in esclusiva sia i diritti per lo sfruttamento del romanzo di Stoker sia quelli relativi ai tre diversi adattamenti teatrali che, nel frattempo, erano stati realizzati tra Inghilterra e Stati Uniti (le due versioni inglesi: quella di Hamilton Deane, andata in scena il 5 agosto 1924, e quella di Charles Morrell, il 24 settembre 1927; la versione americana di John Balderston, presentata il 5 ottobre 1927). La regia del film fu affidata a Tod Browning, noto a causa della sua predilezione per le storie grottesche e bizzarre (come Freaks, 1932, in cui mette in scena le deformità e le mostruosità degli individui). Per interpretare Dracula venne scelto Bela Lugosi, l’attore ungherese che già aveva interpretato il Vampiro in teatro a Broadway, ma solo come ripiego dopo la rinuncia di Conrad Veidt (il sonnambulo del film Il gabinetto del dottor Calidari, di Robert Wiene, 1919) e l’improvvisa morte di Lon Chaney, amico di Tod Browning. Bela Lugosi, con il suo tipico accento straniero e l’intensità del suo sguardo, contribuì in modo notevole alla caratterizzazione del personaggio di Dracula e al successo del film, anche se Skal lo definisce: “Un Valentino un po’ andato a male” (Hollywood Gothic, pag. 85). Con le versioni teatrali del Dracula di Stoker e la prima versione cinematografica americana, per la regia di Tod Browning, si afferma una nuova rappresentazione del Vampiro, molto diversa da quella del libro: Dracula diventa un “vampiro da salotto”, distinto, elegante e seducente, lontano dall’essere mostruoso e sgradevole che era in origine. L’identificazione di Lugosi con il suo personaggio fu talmente esasperata che l’attore cominciò a confondere la finzione con la realtà e perfino la sua morte venne strumentalizzata a scopo pubblicitario. Nella scena in esame, dopo l’attacco di Dracula a Mina, è interessante notare il racconto dello strano “sogno” fatto dalla donna al prof. Van Helsing (che chinandosi su di lei per esaminarle il collo pare assumere la stessa posizione del Vampiro). Confusione tra sogno e realtà: la visione di Dracula è reale o soltanto una fantasia onirica? Il sogno di Mina, in ogni caso, è riprova del fatto che ormai la figura di Dracula si è impossessata stabilmente del nostro immaginario.
- Proiezione, analisi e commento della scena in cui il prof. Van Helsing registra al fonografo alcune considerazioni su Dracula, mentre quest’ultimo entra in camera di Lucy, dal film Dracula, il vampiro, di Terence Fisher (1958, 2 m.). Film prodotto dalla piccola casa indipendente inglese Hammer, fondata nel 1948. La Hammer produceva soprattutto film fantastici e dell’orrore, in opposizione alla tradizione realista del cinema inglese. Dopo aver riscosso un grande successo con il film La maschera di Frankestein (1957), la Hammer decise di realizzare Dracula, affidando la regia a Terence Fisher e le due parti principali (il Prof. Van Helsing e Dracula) agli stessi protagonisti del film precedente, Peter Cushing e Christopher Lee. Il film di Fisher, perfettamente in linea con lo stile delle altre pellicole prodotte dalla Hammer, si avvale, per raccontare la storia del Vampiro, di una fotografia costruita su contrasti cromatici accesi, di musiche intense e a effetto, oltre che di scenografie ricostruite in studio. L’orrore, come avviene in gran parte del cinema moderno, viene messo in scena con estremo realismo e crudezza. Il Dracula di Christopher Lee (la prima raffigurazione del Vampiro con i canini aguzzi) ha dalla sua un certo fascino, come quello di Bela Lugosi, anche se il critico Harry Ringel lo definisce: “Una spanna sopra la sanguisuga e una spanna sotto il Don Giovanni”. Nella scena in esame interessante è la definizione, data da Van Helsing, del vampirismo come di una vera e propria malattia e la sua messa in relazione con gli effetti delle droghe. Interessante anche la reazione di Lucy all’arrivo di Dracula, tutta giocata sul contrasto fra il desiderio e la paura.
- Proiezione, analisi e commento delle due scene di dialogo tra Dracula e Jonathan Harker; Dracula e Lucy, dal film Nosferatu, principe della notte, di Werner Herzog (1978, 1.17 m; 2.5 m.). Werner Herzog è stata una tra le figure più importanti del Nuovo Cinema Tedesco. Nel 1978 decise di realizzare un film sulla figura del celebre Vampiro come atto di esplicito omaggio alla pellicola girata da Murnau nel 1922, e alla grande tradizione cinematografica (quella tedesca degli anni 20’) cui essa apparteneva. Nelle vesti di Nosferatu compare Klaus Kinski, l’eccentrico attore prediletto da Herzog, che, senza l’ausilio di alcun effetto speciale o artificio, come nei precedenti film della serie, da vita per la prima volta ad un Vampiro “umano”, dolente, sprofondato nella profonda malinconia che gli procurano la consapevolezza dell’eternità e la mancanza d’amore. Il passo fra questo vampiro “doloroso” ed il romanticismo di quelli portati in scena da Coppola, nel 1992, e, ultimamente, dalla Hardwicke, è veramente breve. Le due scene in esame raccontano proprio questo nuovo lato del Vampiro, che fisicamente richiama quello interpretato da Max Schreck nel 1922. Diverso è solo il finale del film: nonostante il sacrificio di Lucy la storia non si conclude con il lieto fine, perché Jonathan, trasformatosi in vampiro, fugge a cavallo dalla cittadina di Wismar in preda alla peste, per diffondere ovunque il contagio.
- Proiezione, analisi e commento della scena dell’incontro di Dracula e Mina al cinematografo, e della scena del viaggio in treno di Jonathan Harker verso la Transilvania, dal film Dracula di Bram Stoker di F. Ford Coppola (1992, 1.40 m; 1.20 m.). Prestigioso esponente della Nuova Hollywood negli anni 70’ e 80’, Coppola volle, nel 1992, girare un film che si accostasse il più possibile alla struttura del romanzo di Bram Stoker. Per questo, ambientò il prologo del film nel 1462, collegando l’antefatto e le ragioni della storia alla figura storica di Vlad Tepes, la cui figura aveva in parte ispirato lo scrittore irlandese. Il Dracula di Coppola (interpretato da Gary Oldman), sembra essere la sintesi di tutti i vampiri che hanno popolato sino ad allora il grande schermo: è un personaggio proteiforme, in grado di superare i limiti spaziali e temporali, e di trasformarsi ora in un mostro orripilante, ora in un vecchio aristocratico, ora in un dandy elegante e raffinato (come nella scena che vedremo tra poco). Ciò che più lo caratterizza, però, è il suo essere un vampiro “innamorato”, come quello di Herzog profondamente dolente per la perdita dell’amata moglie, che continua a cercare attraverso i secoli. Coppola stabilizza, così, l’evoluzione e l’umanizzazione della figura del Vampiro, che ha avuto origine da Nosferatu, principe della notte. Nel finale, infatti, contrariamente al libro, sarà proprio Mina, la donna che Dracula associa, per la sua somiglianza, alla moglie morta, a liberare il vampiro dalla dannazione eterna, decapitandolo, e permettendogli, così, di riunirsi a lei nel mondo ultraterreno. Il film di Coppola è quello che più recupera la dimensione erotica e i riferimenti alla sessualità presenti nel libro di Stoker; come pure, attraverso tutta una serie di trucchi scenici risalenti alle origini del cinema, quell’atmosfera che lo caratterizzava ai suoi esordi. Proprio per questo, la figura dell’occhio ricorre molto spesso nel corso del film, come vedremo nella seconda scena in esame, che vuol essere anche un modo “cinematografico” per salutarci. La prima scena, invece, l’incontro tra Dracula e Mina al cinematografo, è un modo da parte del regista di recuperare la dimensione originaria dei primi spettacoli cinematografici, rendendo omaggio a quella tradizione. Delle due scene che scorrono sul grande schermo durante il dialogo dei due protagonisti, una è tratta da L’arrivo del treno alla stazione (1895), fra le prime pellicole dei fratelli Lumière, mentre l’altra, non ben riconoscibile, con il suo nudo esibito, pare essere l’ennesimo riferimento del film alla tematica sessuale, sottesa al romanzo di Stoker. L’altro aspetto interessante di questa scena è che mostra l’essenza proteiforme del Vampiro: dapprima, nel dialogo con Mina, gentiluomo elegante e raffinato; subito dopo, invece, sopraffatto dai suoi istinti, creatura mostruosa.
- Conclusioni. Tre incontri, un unico viaggio nell’inconscio, attraverso lo sguardo del cinema e della psicoanalisi. Delle scelte filmiche non convenzionali, come non convenzionale dovrebbe arrivare ad essere, alla fine, la nostra visione. Scelte che inducono a riflettere sul fatto che è possibile ritrovare elementi psicoanalitici anche in quelle trame, dentro quelle storie, in quelle pellicole che ci sembrano le più lontane da questo argomento. Forse perché alla fine, il centro di tutto rimane, sempre e comunque, l’uomo. Citazione finale da Danza macabra, di Stephen King (Sperling Paperback, 2006): “L’immaginazione è un occhio, un meraviglioso terzo occhio che fluttua in libertà. Da bambini, quell’occhio ha una vista di dieci decimi. Man mano che cresciamo, essa comincia a offuscarsi…E un giorno il tizio accanto alla porta ti lascia entrare nel bar senza chiederti alcun documento di identità; e se vuoi capire capisci: ormai sei dall’altra parte. E’negli occhi. Qualcosa che è nei tuoi occhi. […] “E’la più bella scatola di trenini elettrici che un bambino abbia mai visto”, Orson Welles disse una volta del far cinema; lo stesso si può dire dello scrivere romanzi e racconti. E’la possibilità di allargare la visione, di dilatarla facendo volare in aria tutte le pietre delle pareti, cosicché, almeno per un attimo, si apra dinanzi a noi un paesaggio onirico di meraviglie e di orrori, che abbia la stessa limpidezza e tutta la magica realtà di ciò che vedemmo da bambini nel nostro primo giro sulla ruota panoramica al luna park. […] Non è affatto una danza di morte, no davvero. E’una danza dei sogni, in fondo. E’un modo di risvegliare quel bambino che è in noi, quel bambino che non muore mai, dorme soltanto sempre più profondamente. […] Bene, è magia, non è vero? Sì. Forse è con questa parola, piuttosto che con il bacio della buonanotte, che voglio congedarmi da te; questa parola che i bambini rispettano istintivamente, questa parola la cui verità riscopriamo da adulti soltanto nelle storie…e nei sogni: Magia”.
Fine

Fonte: http://www.psyeco.altervista.org/barbara_ross__psicanalisi.doc

Sito web da visitare: http://www.psyeco.altervista.org

Autore del testo: Barbara Rossi

Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.

 

Cinema e psicoanalisi

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

Cinema e psicoanalisi

 

"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco

www.riassuntini.com dove ritrovare l'informazione quando questa serve

 

Argomenti

Termini d' uso, cookies e privacy

Contatti

Cerca nel sito

 

 

Cinema e psicoanalisi