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Gli indiani nordamericani nel cinema italiano
Matteo Sanfilippo
(Università della Tuscia)
Nell'Italia del secondo dopoguerra gli indiani nordamericani divengono una figura ricorrente della cultura di massa. Le ragioni di questo fenomeno sono molteplici: in particolare l'importazione di film, fumetti e romanzi, nonché di modelli culturali americani s'innesta sulla tradizione del romanzo salgariano e ne moltiplica le suggestioni. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo passato gli indiani assumono così un ruolo precipuo quali deuteragonisti, e persino come protagonisti, di quel settore dell'immaginario italiano, che prende il nome di "selvaggio West" e che gode di una piccola, ma spiccata, autonomia dall'originario Wild West americano. In particolare, a partire dagli anni Sessanta, la sinistra italiana vede in essi le vittime di un genocidio, prefigurazione di tutti i massacri scatenati dal capitalismo, e inoltre esalta i guerrieri che non si sono inchinati allo strapotere economico-militare statunitense. Gli indiani divengono allora il prototipo delle lotte di liberazione novecentesche e si guadagnano un posto nel pantheon dei “dannati della terra” . Tuttavia il loro successo varia a seconda del medium utilizzato: nei fumetti possono infatti dominare la scena, mentre nel cinema devono tenersi in secondo piano perché mancano gli attori in grado di interpretarli .
Nel fumetto all’italiana gli indiani si trasformano dunque in comparse di lusso, mentre nello spaghetti western sono sempre visti con grande simpatia, ma non sono quasi mai i protagonisti delle pellicole girate tra le colline di Tolfa e quelle dell’Almeria . I registi hanno infatti a disposizione attori e comparse che possono passare per messicani, mentre manca loro chi possa impersonare un vero indiano. Per esempio, il capo apache di Johnny Oro (Sergio Corbucci, 1966), interpretato da un cascatore di Anzio, ha un’andatura e una pronunzia da bullo del litorale, inoltre è bianchiccio, “panzuto” e peloso: i suoi guerrieri sono poi fotografati soltanto di sguincio, perché probabilmente ancora meno credibili.
I pellerossa sono dunque tenuti ai margini dei western italiani e le loro parche apparizioni sono contraddistinte da piccoli trucchi. In alcune pellicole, ad esempio, si parla senza sosta dell'incombente minaccia indiana, ma gli spettatori non vedono mai gli inafferrabili guerrieri, oppure li scorgono di sfuggita. È questo il caso di molte co-produzioni italo-spagnole: in Per un dollaro di gloria (Fernando Cerchio, 1967), per esempio, i guerrieri nativi si intravedono appena, pur essendo l'elemento scatenante della vicenda: una loro scorreria lungo il Rio Bravo obbliga infatti una pattuglia di dragoni francesi (siamo negli anni dell'impresa di Massimiliano d'Asburgo in Messico) a rifugiarsi in un forte confederato. In quest'ultimo la tensione tra i due gruppi di soldati, esasperata dalla possibilità di un attacco, cresce sino al redde rationem finale. Analogamente misteriosi pellerossa danno la caccia a due casse d'oro in concorrenza a banditi di vario genere in ... e alla fine lo chiamarono Jerusalem l'implacabile (Toni Secchi, 1972). In altri casi i nativi americani sono meri comprimari, come in Sette ore di fuoco (Joaquín Luis Romero Marchant, 1965) in cui Buffalo Bill strapazza coloro che vendono armi agli indiani. Infine alcuni autoctoni di celluloide sono inseriti in contesti così lontani dalla tradizione cinematografica statunitense che nessuno bada alla loro verosimiglianza. In ... e lo chiamarono Spirito Santo (Roberto Mauri, 1971) abbiamo addirittura uno sceriffo dalla pelle rossa. Nel seguito (Bada alla tua pelle Spirito Santo!, Roberto Mauri, 1972) il nostro recupera l'oro depredato da alcuni banditi grazie all'aiuto del padre di una bella autoctona.
Un escamotage prediletto dai registi e dagli sceneggiatori italiani è quello di ricorrere alla figura del mezzosangue, che può essere interpretata da un attore un po' abbronzato. In genere questo personaggio va d'accordo con i nativi e finisce per sconfiggere i bianchi malvagi. Così in Navajo Joe (Sergio Corbucci, 1967) Burt Reynolds castiga i banditi che terrorizzano una riserva indiana; in Valdez il mezzosangue (Duilio Coletti e John Sturges, 1973), coproduzione italo-americana, Charles Bronson punisce i bianchi che lo avversano, perché commercia con i pellerossa e ama la sorellastra di un proprietario terriero. Infine in Keoma (Enzo G. Castellari, 1976) Franco Nero ripulisce la città natale, con l’appoggio del padre bianco e di un amico nero.
Al di là dei trucchi prescelti, tutti i western all'italiana mostrano i nativi come vittime della violenza euro-americana. Per esempio Il piombo e la carne (Fred Wilson, alias Marino Girolami, 1965) descrive come una ricca famiglia di taglialegna perseguiti gli cherokee per impossessarsi del loro bosco sacro. In questa simpatia per i nativi americani c'è un evidente collegamento con quanto scritto da scrittori famosi che in quegli anni visitano gli Stati Uniti (Parise e Calvino, per esempio), ma è anche l'occasione per qualche bella scena splatter: esemplare in tal senso quella dell'indiano scalpato al rallentatore in Se sei vivo, spara (Giulio Questi, 1967). Senza giungere a questi estremi, numerosi film mostrano o parlano di indiani ingiustamente accusati e/o perseguitati. In La vendetta è un piatto che si serve freddo (Pasquale Squitieri, 1971) sono sospettati, per esempio, di aver massacrato la famiglia del protagonista, mentre la colpa è ovviamente di alcuni bianchi.
Questa predisposizione a parteggiare per gli autoctoni americani spiega anche il grande impatto che ha avuto sullo spaghetti western Soldato blu (Ralph Nelson, 1970). Neanche un anno dopo Al di là dell’odio (Alessandro Santini, 1971) riscrive il film americano raccontando di due fratelli separati dopo la distruzione della loro casa: una è allevata tra gli indiani, l’altro tra i bianchi. Il secondo, ferito, è curato dalla sorella, ma poi non rinuncia a guidare l’esercito contro la tribù che l’ha ospitato. Sempre sulla stessa lunghezza d’onda, con in più una spruzzata di soft-core, Una donna chiamata Apache (George McRoots, alias Giorgio Mariuzzo, 1976), nel quale un giovane ufficiale di cavalleria si innamora di un’indiana.
La simpatia filo-indiana si esprime talvolta in termini scherzosi, parodiando apertamente il western classico. Questa scelta permette d’altronde di divertire lo spettatore e di superare la mancanza di attori in grado di recitare da pellerossa: l'inverosimiglianza degli indiani diviene infatti motivo comico quando un'improbabile tribù è raggirata da Ugo Tognazzi e Walter Chiari, prestidigitatori truffaldini, in Un dollaro di fifa (Giorgio Simonelli, 1962).
In modo ancora più sottile Bruno Bozzetto si serve degli stereotipi del western tradizionale nel lungometraggio a disegni animati West and Soda (1965). Nei titoli di testa un cowboy è lentamente trasformato in porcospino dalle frecce di invisibili pellerossa. Inoltre, per tutta la pellicola, la famosa diligenza di Ombre rosse, inseguita dagli indiani a loro volta incalzati dal settimo cavalleggeri, appare all'improvviso, sbloccando situazioni chiave. Così, quando Johnny, l'eroe della pellicola, è semi-sepolto dai cattivi per essere dato in pasto alle formiche rosse, arriva la diligenza con tutto il seguito. Il nostro si afferra agli assali ed è portato in paese, dove la diligenza, gli indiani e i cavalleggeri si fermano per permettergli di scendere e poi riprendono la folle corsa. Lo scatenato corteo irrompe persino nella casa del cattivo, dove rapisce la sciantosa francese del saloon: la rivedremo in seguito - con coperta, piume e pupo indiani - trascinata nella cavalcata senza fine.
Non è tutto dozzinale nel western all'italiana, anzi nella sua fase più tarda produzione si staglia Non toccare la donna bianca (Marco Ferreri, 1974), un film d'autore dalle forti finalità politiche. Il regista utilizza infatti temi e stilemi del genere western per una riflessione sui rapporti di classe nel capitalismo maturo. I motivi di simpatia per gli indiani sono evidenti già nella pellicola, ma nel 1975 Ferreri li esplicita, presentando al lettore la sceneggiatura:
Quando io penso ai Pellirosse, io penso al proletariato e al sottoproletariato che si lascia schiacciare e umiliare. [...] L'opera di distruzione contro i Pellirosse era un etnocidio, la distruzione di un popolo, di una nazione. [...] La cosa comica in questo film, come nella storia, è che coloro che si credono forti, invece di parlare come noi di genocidio, parlano di "diritto alla conquista". E diventa veramente comico quando i conquistatori sono schiacciati, perché i conquistati, loro, parlano di diritto alla resistenza e alla vittoria. È quello che è accaduto a Little Big Horn e accadrà, io spero, domani dappertutto .
Nel film l'identificazione tra indiani e proletariato è stabilita apertis verbis dagli attori che rappresentano il capitalismo. I personaggi che compongono il consiglio di amministrazione della metropoli, nella quale è ambientata la vicenda, lamentano che ogni attività economica è paralizzata da un branco di "selvaggi". I sette consiglieri ritengono che si è perso troppo tempo per civilizzare questi ultimi e che l'unica soluzione sia lo sterminio di uomini, donne e bambini. Decidono quindi di chiamare il generale Custer (Marcello Mastroianni), affinché proceda alla bisogna, dolorosa ma necessaria. Gli indiani non sono, però, disposti a farsi massacrare e si riuniscono nel grande scavo delle Halles - il film, come è noto, è stato girato a Parigi durante la ristrutturazione di quel quartiere. Le varie tribù sono raffigurate con i nomi tradizionali, ma hanno le caratteristiche fisiche dei gruppi regionali di immigrati nel Nord Italia, ribadendo così il parallelo con il proletariato. I loro esponenti, dopo l'opportuno e colorito dibattito, trovano un accordo e decidono di battersi.
La narrazione prosegue quindi in parallelo, mostrando i preparativi degli indiani e quelli dei bianchi. La telecamera indugia tuttavia soprattutto sulle crudeltà di questi ultimi. Mostra, per esempio, alcuni indiani impiccati senza processo per aver scagliato pietre contro i soldati. I cadaveri dei condannati sono evirati, imbalsamati e impagliati, mentre i bambini della scuola indiana sono minacciati di fare la stessa fine. Inoltre Ferreri descrive insistentemente come Custer tiranneggi il suo scout indiano. Nell'ambito di una lettura esclusivamente politica del film, quest'ultimo simboleggia il sottoproletariato, usato come pezza da piedi e come strumento anti-proletario dagli agenti del grande capitale. Tuttavia il personaggio è interpretato da Ugo Tognazzi, che, sul piano della cultura cinematografica, collega l'opera di Ferreri alle parodie tipo Un dollaro di fifa. Inoltre Tognazzi si presenta come un abietto pulcinella e ci lascia immaginare che fine farà il suo ancor più abietto padrone, secondo il più tipico meccanismo della "comédie italienne". Mentre i capitalisti perdono tempo, indulgendo nei loro vizi, i pellerossa organizzano collette per comprare armi. Quando sono infine pronti, si appostano nello scavo delle Halles e tendono un'imboscata a Custer. Quest'ultimo cade nella battaglia, mentre lo scout indiano si gode da un collina l'agonia del suo generale e dei suoi ex commilitoni. Il sottoproletario (e comunque uno dei più tipici pulcinella cinematografici) ha avuto la sua vendetta sul padrone.
Non toccare la donna bianca non riscosse l'applauso di tutti gli spettatori, neanche di quelli politicamente vicini. Goffredo Fofi, direttore di "Ombre rosse", rivista dal titolo ovviamente evocativo, commentò che il film era interessante, che l'idea delle Halles era geniale ("una buca-canyon degna in tutto della Monument Valley"), ma che la sceneggiatura si risolveva in un teatrino didascalico, dove i personaggi non avevano spessore psicologico ed erano soltanto emblemi di funzioni sociali . La critica è in fondo giusta: il film è troppo monocorde e l'umorismo macabro di alcune scene non salva lo spettatore dalla noia. Tuttavia bisogna riconoscere a Ferreri che Non toccare la donna bianca è il primo tentativo italiano di raffigurare i pellerossa in un modo più attualizzato, pur senza fuoriuscire dalla tradizione cinematografica locale. Il film offriva in fondo agli autoctoni nordamericani di campeggiare dignitosamente al centro degli schermi italiani. Certo Toro Seduto e i suoi sembrano figurine di Épinal (il capo coraggioso, il vecchio saggio, ecc.), ma lo scout interpretato da Tognazzi corregge questa impressione. In ogni caso l'approccio di Ferreri riesce ad abbinare i due elementi chiave dei film precedenti, cioè la comicità e la vittimizzazione, e a rifonderli con un certo pathos.
Negli anni successivi l'esempio di Ferreri non trova imitatori. Comicità e vittimizzazione sono dunque nuovamente scissi, mentre sono imitate opere di successo, straniere o italiane. In particolare si sviluppa un genere comico-western, che ripete all'infinito la formula dei Trinità (1970 e 1971) di E.B. Clucher con Bud Spencer e Terence Hill, mettendo davanti alla macchina da presa, se possibile, proprio questi due attori. In Un genio, due compari, un pollo (Damiano Damiani, 1975), coproduzione italo-franco-tedesca, Joe Thanks (Terence Hill) convince l'indiano Locomotiva Bill a derubare il maggiore Cabot, che si è tenuto 300.000 dollari destinati ai pellerossa. Tutti imbrogliano tutti, ma alla fine i buoni vincono. In Occhio alla penna (1981), di Michele Lupo, Bud Spencer organizza rapine e truffe aiutato dall'apache Gennaro. Quest'ultimo è vile e astuto, biascica in simil-ciociaro e si porta dietro un totemino pieghevole, davanti al quale si genuflette prima di andare a dormire: parodia decontestualizzata del crocefisso pieghevole che Fernandel contrabbandava in Russia nel Compagno don Camillo (1965) di Comencini. Dopo ogni rapina Bud e il suo compare si imbattono nei mescaleros e devono scappare a perdifiato, finché, alla fine della pellicola, il grosso pistolero, stanco di tante fughe, gira il cavallo e sbaraglia l'intera tribù.
Occhio alla penna è una variazione sul tema che vede Bud Spencer interagire con un partner più magro. L'indiano Gennaro serve quindi a condire in modo un po' diverso una pietanza ben nota, mentre i mescaleros fungono da siparietto e da tormentone. In altre pellicole gli indiani hanno un ruolo apparentemente più centrale, ma alla fine sono silouette appiattite dal registro comico-basso scelto dai registi. Basti pensare ad Arrapaho (1984) di Ciro Ippolito, costruito sulla poetica volgar-demenziale degli Squallor, gruppo musicale dei tardi anni Settanta. L'operina narra le avventure del giovane Arrapaho, dell'omonima tribù, e della giovane Ascella Pezzata, figlia del capo Palla pesante, promessa a Cavallo Pazzo della tribù dei Frocheyenne. Alla fine la fanciulla fugge con il suo vero amore e al povero innamorato respinto non resta che consolarsi con i compagni.
Già questo breve sunto indica il tenore di tutto il film, che chiude la serie dei film comici sugli o con gli indiani. L'anno seguente questi ultimi fa, però, ancora ridere in Tex e il signore degli abissi di Duccio Tessari, omaggio al grande personaggio dei fumetti bonelliani. Sennonché l'effetto comico non è voluto, ma nasce da evidenti problemi di sceneggiatura: i pellerossa sono infatti rappresentati come brutti e scemi, anche quando dovrebbero incutere timore. L'unica eccezione è costituita dal fido Tiger, braccio sinistro di Tex Willer, ma i navajo, come sanno i lettori di fumetti, sono quasi bianchi grazie alla presenza tra loro del nostro ranger.
Meno risibili, ma comunque di serie B e per giunta evidente scopiazzatura del Rambo (1982, 1985, 1988) di Sylvester Stallone, sono i tre Thunder (Larry Ludman, alias Maurizio De Angelis, 1983, 1987, 1989). Questa coproduzione italo-statunitense si incentra su un giovane indiano che si oppone alla prepotenza dei bianchi, utilizzando la propria forza e abilità. Nel primo l'eroe impedisce a una banda di speculatori edilizi di cancellare un cimitero della propria gente. Nel secondo entra nella polizia ed è incastrato da un collega corrotto: è perciò ingiustamente condannato e spedito in un'orribile prigione, ma si salva a forza di botte. Nel terzo cavalca una moto rombante e brandisce arco e fucile automatico per sconfiggere un ex-colonnello dei berretti verdi che ha organizzato un gruppo di fanatici della sopravvivenza. Le tre pellicole sono una tarda ripresa di un tema già sfiorato in Un uomo dalla pelle dura (Franco Prosperi, 1971), nel quale un pugile di origine cherokee scappa inseguito dalla polizia perché ingiustamente sospettato di aver ucciso il proprio manager.
Thunder è un'operazione dozzinale, concepita per circuiti di secondo ordine o forse direttamente per le videocassette. Tuttavia propone una definitiva attualizzazione degli indiani di celluloide, che viene recepita anche da produzioni maggiori. Nel 1985, per esempio, Bud Spencer e Terence Hill girano in Florida Miami Supercops, diretto da Bruno Corbucci. In questo film non sono più due pistoleri del selvaggio West, bensì due poliziotti, che nella lotta contro i mafiosi sono aiutati da un indiano un po' tonto, ma onesto e robusto.
Otto anni dopo Spencer interpreta e produce, tramite il figlio, un film televisivo di circa un'ora e mezza dal titolo assai esplicito: Io sto con gli indiani (regia di Alessandro Capone). Si tratta dell'ennesima storia sugli attacchi mafiosi ai diritti indiani. Un boss di Cosa Nostra vuole incrementare il business del gioco d'azzardo in Florida. Una ditta controllata dalla mafia, la South Company, prepara quindi un progetto di mega centro commerciale per gli indiani, nel quale cela un casinò. Avuto sentore della cosa Thomas, capo dei Mikkosukee, si oppone, ma viene ucciso da un poliziotto corrotto, che finge di essere stato aggredito. Una cronista televisiva indaga sul caso e viene licenziata, ma trova l'aiuto del detective privato Jack Costello (Bud Spencer), amico del padre di Thomas. Costello, che conosce bene gli indiani locali, tanto da parlare il loro idioma, sventa ovviamente il complotto e arresta l'assassino e i mandanti.
La trama di Io sto con gli indiani riutilizza gli elementi dei vari Thunder (speculatori disonesti, poliziotti corrotti, terre indiane in pericolo), ma soprattutto elogia a ogni piè sospinto gli autoctoni, una delle minoranze "più belle" della terra, i cui capi sono "come un presidente o un re". Costello non soltanto ne parla la lingua, ma ne ama la cultura, ivi compresa la cucina e i criteri educativi. Il film è molto curato, per essere una produzione televisiva, e gli indiani sono interpretati da attori pellerossa, dato che tutta la serie è girata veramente in Florida.
La stesura del copione di questo telefilm, pensato soprattutto per il pubblico italiano, è probabilmente influenzata dalla prossimità al cinquecentenario colombiano. In occasione di quest'ultimo la televisione promuove infatti iniziative latamente filo-indiane, così, per esempio, RAI2 commissiona a Pietro Badaloni un viaggio a puntate nell'America autoctona (Amerindia). Tuttavia il copione del film di Bud Spencer risente anche dell’atmosfera new age, che vede negli indiani gli interpreti del miglior modo di vivere in contatto con la natura. Una prospettiva ritorna anche in Jonathan degli orsi (1994), diretto da Enzo G. Castellari, autore di infiniti doppioni di film americani, ma scritto, prodotto e interpretato da Franco Nero, interprete di numerosi spaghetti western prima di raggiungere il successo come attore serio.
In questo film, pensato come un omaggio alla tradizione del western all'italiana e volutamente riecheggiante il già citato Keoma, i genitori del piccolo Jonathan sono uccisi in un agguato e il pargolo è abbandonato nella foresta, dove è salvato dagli orsi e allevato dagli indiani. Adulto, lotta assieme a questi ultimi contro un gruppo di speculatori che hanno trovato il petrolio nel cimitero indiano. Infine (e come poteva essere altrimenti?) scopre che i boss sono gli assassini della madre e del padre: ovviamente si vendica e fa giustizia. Anche Nero e Castellari si pongono il problema di una corretta raffigurazione degli indiani e, non avendo i soldi per girare negli Stati Uniti, inventano un nuovo stratagemma: esterni e comparse sono trovati in Asia, cosicché i grandi spazi e i tratti mongolici danno effettivamente l'idea di un western verosimile.
Veri autoctoni americani appaiono invece ne Il mio West (Giovanni Veronesi, 1998) che vira in chiave comica, grazie anche al protagonista interpretato da Leonardo Pieraccioni, allora attore-regista emergente. Nel contesto, latamente ispirato a un romanzo di Vincenzo Pardini , gli indiani simboleggiano la natura, ma in modo un po’ bolso, quasi ci si sia stancati della loro presenza. Un sentimento evidentemente comune all’Italia della fine del secondo millennio, visto che la romanziera Rossana Campo descrive così il padre della protagonista, dopo un litigio con la figlia: “se ne sta lì con le spalle un po’ curve, i capelli spettinati e il naso schiacciato, come un indiano delle riserve, uno di quegli indiani sfigati, tristissimi, che hanno perso le terre, la tribù e i bisonti e se ne stanno storditi e ubriachi tutto il giorno perché non gli resta nient’altro da fare” .
A questo punto agli indiani di celluloide non resta più spazio, se non in un film tristissimo (e sfigatissimo): La lettera (Luciano Cannito, 2004). Una maestrina, figlia di un suicida perché ingiustamente indagato durante Tangentopoli, mette in contatto la sua classe con un pellerossa condannato alla sedia elettrica. I genitori dei bambini sono preoccupati e premono sull’insegnante. A quel punto la classe si proclama “tribù di George” e va a nascondersi in un paesino abbandonato, dove intende restare finché il condannato non sia liberato. La domanda di grazia per il giovane è, però, rifiutata e alla maestra non resta che leggere agli alunni le ultime volontà di George: egli infatti vuole essere seppellito nel cimitero del loro paese. Insomma muore un mito e non resta che seppellirlo.
Per il momento questa sembra la conclusione appropriata delle rivisitazioni italiane degli indiani nordamericani. Complessivamente abbiamo a che fare con una produzione dispersa su circa quarant’anni e di non grandissimo significato, tuttavia necessiterebbe di una ricognizione più accurata o meglio di uno studio che tenga conto anche di quanto apparso nei fumetti, nella pubblicità, nelle canzoni e nelle opere letterarie, nonché della letteratura storica e di viaggio. Gli indiani sono stati infatti visti come popolazioni vissute al di fuori della tradizione occidentale e in contrasto con essa: possono quindi essere affrontati come vere e proprie cartine di tornasole in grado di chiosare e contrario la nostra concezione della cultura europea ed americana.
Gli indiani d’America e l’Italia, a cura di Fedora Giordano, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1997; Matteo Sanfilippo, "Figurinelle": variazioni italiane sugli indiani nordamericani (1497-1997), "Miscellanea di storia delle esplorazioni", XXVI (2001), pp. 101-124; Gli indiani d'America e l'Italia. 2, a cura di Fedora Giordano e Alberto Guaraldo, Alessandria, Edizioni dell'Orso, [2002].
Recentemente è stato suggerito che la straripante presenza di rivoluzionari messicani negli spaghetti-western sia frutto di una precisa scelta ideologica: Christian Uva, Le ideologie clandestine del Western all’italiana, “Il Ponte”, LXI, 8-9 (2005), pp. 130-139. Le testimonianze dei protagonisti sembrano invece indicare la mancanza di attori adatti. Si veda il documentario di Gianfranco Pannone L’America in Roma (1999): tutti gli intervistati sono stati almeno una volta “banditi messicani”, uno solo ha recitato la parte dell’indiano.
Sul western spaghetti, cfr. Christopher Frayling, Spaghetti westerns: cowboys and Europeans from Karl May to Sergio Leone, London, Routledge & Kegan Paul, 1981; Id., Sergio Leone. Danzando con la morte, Milano, Il Castoro, 2002; Luca Beatrice, Al cuore, Ramon, al cuore. La leggenda del Western all'italiana, Firenze, Tarab, 1996.
Marco Ferreri e Rafael Azcona, Non toccare la donna bianca, Torino, Einaudi, 1975, p. VI.
Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 353-355.
Vincenzo Pardini, Jodo Cartamigli, Milano, Mondadori, 1989.
Rossana Campo, Sono pazza di te, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 159.
Fonte: http://dspace.unitus.it/bitstream/2067/749/1/Indiani%20-%20GSC.doc
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