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Così come nella contemporaneità, confusa e non lineare, siamo costretti a far fronte all'inatteso, anche nel cinema, attraverso le sue molteplici regole, a volte stravolte, si attiva un meccanismo in grado di stravolgere il lineare fluire della storia. "Adoro il cinema": è una frase che ripetevo ogni volta che mi trovavo a vedere un bel film al cinema. Ma una domanda si faceva sempre più pressante: "Perché?. Perché mi piace quel determinato film e quel determinato regista?". Attraverso la semiologia il film, o meglio il testo filmico, può essere analizzato in quanto sistema significante, composto da segni che (inter)agiscono. Una volta suddiviso il testo e analizzati i segni che lo compongono, si può procedere ad una ricomposizione.
ANALISI DI ALCUNE MODALITA' PER STUPIRE LO SPETTATORE
b. Interne alla narrazione
IL FLASH BACK
Il flash back è la rottura della continuità temporale nella narrazione verso avvenimenti precedenti. Nel cinema classico veniva segnalato allo spettatore, infatti al momento della proiezione del film Alba tragica, di Marcel Carné, nel 1939, i produttori hanno obbligato il regista ad aggiungere un cartello che spiegasse la struttura del film.
Nel cinema contemporaneo il flash back non è più reso esplicito, se non con modalità attuali.
[Appunti di Narratologia, I anno]
Il flashback è composto da salti temporali di diversa durata in cui un evento passato viene rievocato in un momento successivo alla storia. Essi possono essere divisi in due grandi categorie: quelli diegetici, che prendono vita dalle parole o dai pensieri di un personaggio che racconta o ricorda qualcosa avvenuto in passato, e quelli narrativi, propri cioè dell’istanza narrante che, senza la mediazione di un personaggio, racconta o ricorda qualcosa avvenuto in passato in un tempo successivo. È solo in questo secondo caso che si può veramente parlare di una disarticolazione dell’ordine della storia da parte dell’intreccio. Nel primo caso, infatti, più che un salto indietro abbiamo una visualizzazione delle parole o dei pensieri presenti, e non passati, di un determinato personaggio; il primo tipo di flash back risulta quindi più esplicito e meno inatteso rispetto al secondo caso.
“Manuale del Film. Linguaggio, racconto, analisi”, Gianni Rondolino e Dario Tomasi, Utet, 2007.
Esempi:
Pulp Fiction fa un uso sapiente dei flash back. La caratteristica fondamentale del film è proprio la narrazione non cronologica e circolare, ossia le varie situazioni vengono viste da punti di vista diversi. Per questo motivo Pulp Fiction ha creato una rivoluzione narrativa.
In Lady Vendetta, lo scorrere della narrazione è continuamente violentato da flash back, suscitando nello spettatore la sensazione di stordimento. La seconda parte del film, invece, lascia spazio alla linearità, ai ritmi contemplativi, con meno enfasi sul montaggio e permettendo la maggiore comprensione degli avvenimenti.
http://www.imdb.it/title/tt0451094/externalreviews
IL FLASH FORWARD
Più raro del flashback è il flashforward, ovvero l’anticipazione di un evento futuro. Quasi impossibili quelli diegetici, che potrebbero darsi solo grazie alle facoltà di un personaggio dotato di poteri paranormali, i flashforward sono quasi sempre narrativi, come accade in Memento.
Esempio:
Il meccanismo strutturale di “Memento” si manifesta in tutta la singolarità: due blocchi narrativi alternati; uno in bianco e nero che fa procedere il racconto; un altro a colori che porta lo spettatore indietro nel tempo, percorrendo a ritroso la narrazione. Ogni scena a colori termina infatti all’inizio della scena a colori successiva che la precede però da un punto di vista temporale. In questo modo, al pubblico il geniale regista Christopher Nolan nasconde ingegnosamente ciò che il protagonista non ricorda, creando le basi per una profonda immedesimazione. Flashback e flashforward scandiscono il ritmo del film e scardinano le piccole certezze acquisite lungo il percorso, evocando prepotentemente l’importanza della memoria e la conseguente capacità di poter elaborare informazioni.
http://www.cinemadelsilenzio.it/index.php?mod=film&id=4751
L’EFFETTO SORPRESA E LA SUSPENSE
Creare suspense significa suscitare un’attenzione, un’attesa, un’aspettativa, un’emozione nello spettatore per poi prolungarla nel tempo. La suspense, per Hitchock, è il mezzo più potente per tenere desta l’attenzione dello spettatore, che si tratti di suspense della situazione o di quello che spinge lo spettatore a chiedersi: « E ora, cosa sta per succedere? ».
Prima della suspense si comunica un’informazione nuova al pubblico che il personaggio in questione non sa, la quale rappresenta una minaccia che grava sui personaggi e, di conseguenza, cresce l’emozione che diviene tanto forte quanto più lo spettatore tiene alla sorte dei personaggi. Per produrre suspense, nella sua forma più comune, è indispensabile che il pubblico sia perfettamente informato di tutti gli elementi in gioco. Altrimenti non c’è suspense.
La suspense non è, però, necessariamente legata alla paura; per esempio, in una situazione in cui una persona ascolta il dialogo tra due giovani fidanzati, che non sono mai mostrati nello schermo, mentre parlano di matrimonio, la persona che ascolta è piena di suspense e culminerà nel momento in cui la ragazza accetterà di sposare il suo fidanzato. In questo caso la suspense è legata al sollievo. Tuttavia ella ha paura che la ragazza rifiuti di sposare il giovane; ma in questo particolare tipo di paura non c’è angoscia. Per Hitchcock il mistero raramente crea suspense poiché genera una curiosità priva di emozione; invece le emozioni sono un ingrediente necessario per la suspense. Nel caso sopracitato, l’emozione era il suo desiderio di una risposta affermativa.
Nella situazione classica della bomba che esploderà a una data ora è la paura, il timore per qualcuno e questa paura dipende dall’intensità con cui il pubblico si identifica con la persona in pericolo. La bomba è sotto il tavolo e il pubblico lo sa, probabilmente perché ha visto l’anarchico mentre la stava posando. Il pubblico sa che la bomba esploderà all’una e sa che è l’una meno un quarto – c’è un orologio nella stanza –; la stessa conversazione insignificante diventa tutt’a un tratto molto interessante perché il pubblico partecipa alla scena. Gli verrebbe da dire ai personaggi sullo schermo: «Non dovreste parlare di cose così banali, c’è una bomba che sta per esplodere da un momento all’altro».
L’apprensione per lo scoppio della bomba è più forte della simpatia o dell’antipatia nei confronti dei personaggi. Questo non accade però perché la bomba è un oggetto particolarmente temibile. Prendiamo un altro esempio, quello di una persona curiosa che penetra nella camera di un altro e fruga nei cassetti. Poi si fa vedere il proprietario della camera che sta salendo le scale. Quindi di nuovo la persona che fruga e il pubblico vorrebbero dirle: “Attenzione, attenzione, qualcuno sta salendo le scale». Dunque, uno che va a rovistare nei cassetti non ha certo bisogno di essere un personaggio simpatico, il pubblico starà comunque in apprensione per lui. Se poi la persona che fruga è un personaggio simpatico l’emozione dello spettatore è raddoppiata.
Lo stesso esempio della bomba può essere modificato per avere un effetto sorpresa al posto del suspense: noi stiamo parlando, c’è forse una bomba sotto questo tavolo, ma né lo spettatore né noi siamo a conoscenza di questa presenza; la nostra conversazione è molto normale, non accade niente di speciale e tutt’a un tratto: boom, l’esplosione. Il pubblico è sorpreso, ma prima che lo diventi gli è stata mostrata una scena assolutamente normale, priva di interesse.
Nel primo caso abbiamo offerto al pubblico quindici minuti di suspense. Nel secondo caso gli offriamo quindici secondi di sorpresa al momento dell’esplosione. La conclusione di tutto questo è che bisogna informare il pubblico ogni volta che è possibile, tranne quando la sorpresa è un twist, cioè quando una conclusione imprevista costituisce il sale dell’aneddoto.
[Appunti di Narratologia, I anno]
La suspense pur essendo tipica del film giallo non è comunque esclusiva di questo genere. È possibile infatti che una forte tensione emotiva, dovuta all’attesa di ciò che deve o può accadere, giochi un ruolo fondamentale anche in molti altri generi. Non solo nel genere avventura, in cui si esprime praticamente nelle stesse forme che nel thriller, ma anche, per esempio, nella commedia e nel comico. Tutti i comici (e anche coloro che raccontano semplici barzellette) sanno bene quanto sia importante, ai fini di un buon effetto, una “adeguata” pausa di sospensione prima di pronunciare la battuta finale. Per la comicità visiva è lo stesso. Infatti: “Quello che è stato chiamato, specificatamente, gag consiste nel creare una sorpresa negando improvvisamente un’attesa sapientemente costruita”.
La suspense è riscontrabile già in quello che viene comunemente considerato il primo film di finzione della storia del cinema che, guarda caso, non è un thriller, ma un film comico. Ci si riferisce, ovviamente, al citato L’innaffiatore annaffiato, in cui i fratelli Lumière, consapevolmente o meno, sfruttavano appunto la prima regola della suspense: dire tutto al pubblico, fare in modo che gli spettatori sappiano qualcosa in più rispetto al/ai personaggio/i della storia.
Il film, composto da una sola inquadratura, mostra un giardiniere che scuote il bocchettone di un idrante mentre si domanda perché non funziona. Il pubblico conosce la ragione perché, può vedere un ragazzo che, schiacciando il tubo dell’idrante con i piedi, impedisce il flusso dell’acqua. Suspense immediata: si toglierà, non si toglierà… quando si toglierà? Finché, il ragazzo si muove e l’acqua sgorga con violenza dal bocchettone dell’idrante e colpisce il giardiniere in pieno volto. Se non vedessimo il ragazzo schiacciare il tubo dell’idrante, potrebbe esserci sorpresa quando il giardiniere viene colpito in faccia dall’acqua; c’è invece suspense perché, essendo noi a conoscenza di quanto il giardiniere ignora, ci chiediamo se, quando e come succederà che sarà colpito dall’acqua.
Quindi, anche se non la teorizzavano e non la spiegavano con esempi chiari come quelli di Hitchcock, i pionieri che tentarono di utilizzare il cinema in funzione narrativa conoscevano già, magari istintivamente, la funzione della suspense quale tecnica narrativa atta a obbligare lo spettatore a chiedersi che cosa stia per accadere e a costringerlo a trattenere il respiro e ad aspettare con ansia progressivamente crescente l’evolversi della situazione; il problema consisteva unicamente nel trovare le forme linguistiche più adeguate per ottenere anche nel cinema il massimo possibile da quella tecnica narrativa. Ma, probabilmente, la suspense cinematografica sarebbe rimasta affidata per lungo tempo a gag comiche o a particolari situazioni di pericolo se, proveniente dal teatro e dalla recitazione, non fosse approdato alla regia cinematografica David Wark Griffith.
“Il linguaggio del cinema, significazione e retorica”, Roberto C.Provenzano, Lupetti, 1999
Griffith girò più di quattrocento film di una o due bobine in cinque anni, dando così forma, fin dall’inizio, a quel modello di storie semplici, dirette e piene di suspense che hanno fatto la fortuna del cinema. Egli, non si guadagnò di certo il titolo di “padre del cinema” per l’importanza e/o l’eccellenza delle storie dei suoi primi film, bensì per il modo in cui sapeva narrare con il cinema. Infatti, quando egli iniziò i film venivano girati interamente in campo medio, da un’unica cinepresa fissa predisposta a riprendere gli attori in F.I. Fu Griffith che capì che la suspense, e quindi il racconto in sé, richiedevano di trasportare il pubblico dentro l’azione; obbligandolo a sentirsi coinvolto e a identificarsi con i personaggi del racconto. Griffith reinventò il P.P. per il cinema commerciale.
Come accadde a tutti i pionieri e innovatori, e come egli stesso ebbe a dichiarare, Griffith fu inizialmente deriso, ma è proprio alle sue intuizioni che si deve la scoperta della macchina da presa come strumento drammatico e lo sfruttamento delle sue possibilità ai fini del linguaggio cinematografico.
La frammentazione della scena in più inquadrature, non inventata da Griffith, ma da lui perfezionata e portata alla piena maturità espressiva, è di fondamentale importanza per creare suspense perché permette al regista di “orchestrare” l’emotività dello spettatore a suo piacimento. Infatti, moltiplicando il punto di vista e le grandezze scalari, il regista ha la possibilità di controllare in ogni istante ciò che egli vuole che lo spettatore veda e di escludere al suo sguardo quanto potrebbe limitare la sua eccitazione. Il regista può cioè “drammatizzare” al massimo il più piccolo e insignificante particolare, o enfatizzare lo stato psicologico di un personaggio. Con lo sguardo escluso dalla totalità della scena, lo spettatore non può fare a meno di chiedersi cosa ci sia oltre i confini del quadro, nel “fuori campo” e un’ansia crescente nell’attesa di sapere. Ma la frammentazione della scena in varie inquadrature non è il solo contributo di Griffith al linguaggio cinematografico e alla suspense. Infatti, prima di Griffith tutti i racconti cinematografici si snodavano secondo l’alfabeto: partivano dalla A e (una volta che il pubblico si era abituato alla novità del mezzo) sbadigliavano fino alla Z, secondo una sequenza temporale lineare. Griffith inventò il flashback per creare suspense, una qualità che fino ad allora era mancata ai racconti cinematografici.
“Manuale del Film. Linguaggio, racconto, analisi”, Gianni Rondolino e Dario Tomasi, Utet, 2007.
Tornando ad Hitchcock, per lui è da preferire sempre la suspense alla sorpresa, poiché nella sorpresa l’informazione non avviene prima dell’evento ma accade subito e non ha una durata. Di conseguenza non suscita le stesse emozioni forti della suspense perché non sono prolungate nel tempo, lo spettatore sa le stesse cose del personaggio e quindi viene sorpreso solo da ciò che succede dopo. Hitchcock usa la sorpresa per movimentare e rendere più interessante la scena.
[Appunti di Narratologia, I anno]
La suspense Hitchcockiana viene prodotta da un rallentamento e da una decomposizione del tempo naturale. Non è una suspense del montaggio parallelo o alternato, come accade per quella prodotta nei film di Griffith, ma nel campo-controcampo, che fa giocare lo sguardo, Hitchcock non forza, non violenta, non tradisce con le sue manipolazioni l’indifferente natura, ma la inganna, bara, come direbbe uno del mestiere. È anche vero che nella sua filmografia vi sono molti esempi in cui il maestro non disdegna di aggiungere alla frammentazione delle inquadrature un effetto d’accelerazione del ritmo che, improvvisamente, s’impenna per sottolineare la concitazione dell’azione e per enfatizzare (anche in rapporto al ritmo blando precedente) gli effetti della suspense.
Il linguaggio del cinema, significazione e retorica”, Roberto C.Provenzano, Lupetti, 1999
Un pensiero di Hitchcock, citato nel libro dell’intervista fatta da Trufaut, Il cinema secondo Hitchcock, mi ha colpito particolarmente. Il regista londinese, sceglieva tutte le protagoniste dei suoi film bionde, impiantando un modello di donna del tutto particolare, la ‘bionda algida’. Bionde, eleganti, al primo impatto angeliche, eteree e inavvicinabili, le attrici hitchcockiane in realtà avevano la caratteristica peculiare di essere ambigue e misteriose, talvolta così sensuali da trasformarsi in sex symbol.
Hitchcock spiegava a Trufaut che le bionde creano suspense perché nessuno si aspetterebbe certi atteggiamenti da loro. Se la seduzione è troppo evidente non c’è suspense. Bisogna quindi cercare delle donne di mondo, delle vere signore che si trasformino radicalmente in camera da letto. La povera Marylin Monroe aveva il sesso stampato in ogni angolo del suo viso, come Brigitte Bardot.
http://www.deagostiniedicola.it/frontend/content.asp?artID=132&prodID=52 e Il cinema secondo Hitchcock
Nonostante Suspense e Sorpresa siano due modi diversi di suscitare un’emozione nello spettatore, entrambi si collegano all’inatteso. La prima suscita una reazione inattesa nello spettatore nel momento in cui scopre la sorte dei personaggi, mentre nella seconda accade subito.
Esempi:
“Inception” è un film di produzione americana del 2010 che ha letteralmente sbancato ai botteghini. Il film dura circa due ore e venti minuti, tempo che scorre in maniera veloce grazie alla piacevole suspense e le ottime scene d’azione. Il film è fondamentalmente di fantascienza, ma nonostante la trama ardita e non troppo lineare, ben presto diventa un piacevole film d’azione che riesce a tenere ben incollati alla poltrona, quel pizzico di thriller presente regala la giusta suspense.
Questo è uno dei film che maggiormente mi ha impressionato nell’ultimo periodo, vederlo in sala è molto più affascinante rispetto ad una visione casalinga.
http://www.opinionepersonale.it/il-miglior-film-dellanno-inception/
È nel finale che il film Il sesto senso guadagna sicuramente in genialità: l'inaspettato ribaltamento della situazione offre una lettura del tutto differente della vicenda, e spinge persino ad una seconda visione per apprezzare a pieno la pellicola sotto la sua reale lettura. Encomiabile risulta quindi essere la costruzione del film, in cui il fatto che Crowe interagisca sempre e solo col bambino viene nascosto abilmente con scelte di montaggio azzeccatissime, e giusto il fatto che il medico non si cambi mai d'abito per tutto il film può destare qualche sospetto. Grandi meriti vanno anche alla regia, che costruisce lentamente la tensione, facendo entrare lo spettatore nell'inquietante mondo di Cole in punta di piedi piuttosto che trascinarlo per i capelli come fanno buona parte dei film horror contemporanei: se infatti la pellicola può risultare in certi momenti piuttosto lenta, è funzionale alla ricerca dell'angoscia pura piuttosto che dello spaventaccio rozzo e brutale.
http://www.rosencrantz.it/Cinema/Film/Il%20sesto%20senso/ilsestosenso.html
The Others, l’eccellente thriller parente stretto de Il sesto senso, anche in questo caso, ci fa gelare il sangue nelle vene con il rapporto obliquo tra mondo dei morti e mondo dei vivi, ma i meccanismi narrativi e la messa in scena sono tutt'altra cosa. Il giovane regista spagnolo, ci tiene incollati al video in un gioco astuto e perfetto di luci e ombre. I visi emergono dall'oscurità netti, pittorici; silenzio e rumore si prendono per mano in un emozionante crescendo. La verità, svelata solo all'ultimo passaggio narrativo, è di quelle agghiaccianti. Amenábar ricorre ad alcuni cliché del thriller (soggettiva che segue e circonda la protagonista, rumori di porte cigolanti e che sbattono, una colonna sonora d'alta suspense, firmata dallo stesso regista ed autore), concedendosi però con gusto a questi manierismi.
Memento è a mio avviso uno dei film più "geniali" che sia mai stato girato. Una storia che grazie al montaggio ti crea una suspense incredibile e ti lascia ad occhi aperti per tutta la durata del tempo, perché una minima distrazione diventerebbe fatale.
c. Linguistiche
LA MESCOLANZA DEI LINGUAGGI CINEMATOGRAFICI Uno dei modi per stupire lo spettatore è anche spiazzarlo con scelte comunicative originali e non previste in quel genere di film. Il cinema è una delle forme espressive che meglio si presta ad una lettura su diversi piani. A differenza dell’arte, lo spettatore, nel guardare un film, non è inevitabilmente condizionato dalla propria cultura. Mentre non è facile apprezzare un quadro astratto o una performance di body art senza avere un minimo di conoscenza della storia dell’arte, il cinema forse in misura maggiore che la musica e la pittura, riesce a sottrarsi alla necessità di una messa a fuoco culturale da parte di chi lo fruisce. Allora ecco che ciò che si presenta inatteso ai nostri occhi viene goduto senza sforzo e senza la necessità di una consapevolezza culturale.
Esempi:
Natural Born Killers (Assassini Nati) è un film girato come un videoclip, un vorticoso caleidoscopio di immagini che smuove lo spettatore, alimenta la discussione e cerca strade nuove da altre già segnate. Sceglie l’iperrealismo rispetto a film dello stesso genere. Fa una denuncia, forse un tantino retorica, nei confronti dei mass-media. Incarna la violenza spettacolo per far sì che il serpente si morda la coda. Mischia fumetti a formati di pellicola diversi in maniera suggestiva. Fa dei chiari riferimenti alla cronaca attuale senza fare del documentarismo. Per contro, necessita di una grande maturità da parte dello spettatore. Soprattutto perché nello spettacolo caleidoscopico, che scorre come sulle montagne russe, non c'è il tempo per i più giovani di prendere le distanze dai protagonisti. La musica è quanto mai varia, spaziando dalle atmosfere di Peter Gabriel al rock di Patti Smith, a Puccini (come già aveva fatto Kubrick), fino alla voce demoniaca di Diamanda Galas.
La stranezza di Natural Born Killers si denota fin dalle prime inquadrature storte, ma ci segue per tutta la durata del film con: la sit com e le risate di sottofondo che la identificano, i passaggi dal bianco e nero al colore, le pagine del giornale che scorrono sullo sfondo, la fotografia interpretativa, le scene in animazione 2D, il linguaggio pubblicitario (la pubblicità occulta della Coca-Cola) e i colori freddi durante l’intervista ai due personaggi. In alcuni momenti alcune si presentano contemporaneamente, come ad esempio nei titoli di coda. Questa scelta stilistica denota il carattere alquanto bizzarro dei due protagonisti, che nonostante tutta la loro stranezza e pazzia, nel corso del film, grazie all’amore che li lega, si rivelano più umani di quanto possano sembrare e riescono così a far appassionare lo spettatore. L'oggetto del film è incentrato tutto sul rapporto tra i media e la violenza che si alimentano vicendevolmente secondo un meccanismo perverso.
Il sangue che si unisce in animazione 2D e il velo che cade quando Mickey e Mallory si sposano sul ponte rappresentano l’allegoria delle cose che andranno sempre peggio da quel momento in poi, la svolta della loro vita.
Appunti Storia del Cinema
Di inventiva nei film ce n’è ancora tanta, ma non stupefacente come nel ’94. E non lo è perché riusciamo a digerire senza sforzo il suo ritmo forsennato. All’epoca dell’uscita del film molte persone non erano in grado di sostenere fisicamente non tanto la violenza del film quanto il vorticoso montaggio delle sue immagini multimediali: facevano male agli occhi e allo stomaco. Oggi non è più così, siamo abituati a ben altro.
“Narrare con le immagini”, Paolo Morales, Dino Audino Editore, 2004
Kill Bill viene raccontato con assoluta libertà e pudicizia e, come Natural Born Killer, mescola generi diversi: il cartone animato, il contrasto tra il bianco e nero e il colore, kung-fu, Kurosawa, Leone… un esercizio di stile in piena regola. Un esercizio di stile, in genere, non si propone di toccare l’anima ma la mente, non le corde del cuore ma quelle dell’intelletto. Eppure Kill Bill a tratti emoziona, turba, commuove... . È vero, l’emozione non è arrivata a tutti, alcuni si sono annoiati, qualcuno è persino uscito dal cinema. Ma a parte l’ovvietà che un film non può piacere a tutti, e tanto meno un film eccentrico come questo, il punto è che molti di noi sono stati turbati dalle traversie di Uma Violenta e Violina, come la definisce il comico attore Bergonzoni. E l’emozione sorprende perché arriva senza invito, in un contesto talmente sopra le righe che tenderebbe ad escluderla; uno strano rendez-vous che ci dà a tratti l’illusione di poter sorridere di noi stessi mentre ci commuoviamo, di guardarci mentre siamo dentro un gioco, di realizzare l’impossibile convergenza parallela di cedere a un’emozione e contemporaneamente osservarla dall’esterno.
La novità di Kill Bill è che non solo si presta ad una lettura su diversi piani (e data la quantità di riferimenti e rimandi al cinema del passato è quasi un intento programmatico), non solo mescola generi e tecniche di ogni tipo, ma riesce sorprendentemente ad avvicinare modalità di percezione che sembrerebbero quasi inconciliabili. «La lettura che mi interessa è quella di una simultaneità di diversi universi linguistici» ha detto Alessandro Baricco. Beh, è molto probabile che Kill Bill lo abbia interessato. Il termine che mi piace sottolineare in questa frase è simultaneità. Guardando una figura ambigua non è possibile osservare simultaneamente le due interpretazioni ma possiamo ricordarne una mentre vediamo l’altra e possiamo anche passare rapidamente da un’interpretazione all’altra. Allo stesso modo non possiamo osservarci mentre proviamo un’emozione e viceversa. È ciò che accade guardando Kill Bill; quell’incessante balletto avviene senza stress e produce qualcosa di nuovo e diverso dalla semplice giustapposizione di ironia e sentimento: una sensazione globale del film tanto inafferrabile quanto coinvolgente.
E ancora una volta credo che la musica possa aiutarci a capire meglio il piccolo miracolo (o il gioco di prestigio) di Kill Bill. C’è stato un giocoliere meraviglioso nella musica del novecento, che per certi versi ricorda Tarantino: si chiamava Frank Zappa. Ha scritto, suonato e prodotto ogni genere di musica senza che una sola nota del suo sconfinato repertorio fosse priva del suo inconfondibile marchio di fabbrica. Scorazzando tra i generi più disparati, si è spesso divertito a rivisitare musiche di altri autori, realizzando spesso delle spassose parodie, che sono un po’ come le caricature e spesso possono assomigliare al modello più di quanto si assomigli lui stesso. La sua forza è nella capacità di imitare l’originale fino al punto di superarlo. E le parodie di Zappa molto spesso sono migliori dell’originale. In uno dei suoi dischi, il nostro Frank si diverte a fare il verso a Bob Dylan e se ti è capitato di amare quest’artista non puoi evitare di essere solleticato da in quell’area protetta dove sonnecchia quella selva di recettori che sono l’erbaio della vita vissuta. Stai sorridendo di quella presa in giro quando ti arriva improvvisa la carezza di un accordo che ti va a toccare proprio quella pianticella che non sapevi neanche che c’era. Sorridi, sei straniato, cogli l’ironia della musica, ma allo stesso tempo sei solleticato da un’emozione. Quell’accordo ti piace perché fa risuonare un ricordo, oppure perché ti piace e basta, ti piace oggi perché ti piaceva anche allora.
Quando in Kill Bill: Volume 2 senti la musica di Morricone e vedi I paesaggi di Sergio Leone sai che sei di fronte ad una citazione, ad un omaggio esibito, ma nonostante questo ti fai cullare da quel ritmo lento; Uma al posto di Clint ti fa sorridere, e la musica di Morricone è straniante in quel contesto, eppure ti tocca. Sguardo ironico ed emozione: strano connubio, quasi un ossimoro. Avete presente quel tipo di corda che unisce la bocca dello stomaco alla gola? Quel tubo vuoto che quando siamo innamorati si riempie fino a traboccare? Beh, quella cosa lì fa un po’ come gli pare, si mette a vibrare quando dice lei e non è sempre facile capire cosa l’ha toccata e perché. E ancora più difficile è capire come accedere a quella zona. Bisogna avere l’abilità di un mago o di uno scassinatore per entrare in quei territori.
Tarantino è uno di quegli alchimisti stregoni che non solo sanno come forzare le serrature delle nostre emozioni, ma si divertono anche ad aprirle e chiuderle di continuo, giocando con le nostre reazioni di spettatori e allo stesso tempo invitandoci a partecipare al gioco dei rimandi e delle citazioni.
E non è finita qui.
Non so dirvi quando e perché, ma ad un certo punto quella donna sola in cerca di vendetta, così triste ma anche così sicura, mi ha ricordato il Barone rampante. Ho un ricordo vago del libro di Calvino ma è ancora vivo quello della sensazione che mi dava il povero barone arrampicato: mi faceva tenerezza, e qualche volta compassione. Insomma, al di là del gioco intellettuale, quel libro riusciva anche a toccare le corde dell’emozione. E forse proprio Calvino, come Tarantino si è divertito a contaminare codici, stili e sintassi, può aiutarci a comprenderlo meglio. In una apparizione televisiva degli anni Sessanta nonostante si descriva come uno scrittore non particolarmente attratto dalla psicologia, dall’analisi dei sentimenti e dall’introspezione, la sua concentrazione ricade sul mosaico all’interno del quale l’uomo si trova incastrato, sul gioco di rapporti, sulla figura da scoprire tra gli arabeschi del tappeto. Tanto sa già che dall’essere umano non scappa di sicuro, anche se non fa nessuno sforzo per trasudare umanità da tutti i pori. Ora provate a sostituire alla parola “scrittori” quella di “registi” e guardate un po’ se questa non potrebbe sembrare una colta definizione dell’approccio narrativo di Quentin Tarantino.
Niente male i due Kill Bill come indizio di cosa potrà essere il cinema. Non perché hanno inventato un genere, e neanche perché si propongono come modelli e tanto meno perché saranno i primi di una lunga serie di film epigoni. I due Kill Bill sono sostanzialmente dei prototipi, come lo era Pulp Fiction; imitarli vuol dire quasi certamente condannarsi al fallimento. La ragione per cui penso che sia un buon indizio di come sarà il cinema risiede nel fatto che è possibile rintracciarvi un uso di quasi tutte le tecniche che ho esposto, ma utilizzate nelle più varie funzioni: tipiche, strane, ribaltate, inedite… un esempio per tutti: la scena della bara. Nero assoluto. Lì, il fuori campo diventa un essere in campo al buio; un atroce fuori campo censorio che non ci mostra il volto angosciato di Uma ma amplifica in modo abnorme il rumore della terra che cade sulla bara; un fuori campo dietro la scenografia, dove il nero diventa il velo che nasconde, ma anche il punto di vista nel quale identificarsi. Quindi fuori campo, in campo e soggettiva, e non una soggettiva falsa e stilistica ma una soggettiva a tutti gli effetti, perché il buio in una bara è identico per tutti, assolutamente totale sia per lo spettatore che per Uma, qualunque sia la posizione della macchina da presa.
Insomma, artificio e parodia, invenzione e trasgressione, classicità ed avanguardia.
Un vero pasticcio questi Kill Bill, quasi un simbolo di un cinema che ormai può contare sulla capacità dello spettatore di digerire massicce dosi di sperimentazione senza neanche sentirsi appesantito, uno spettatore che ha imparato a cullarsi nell’attesa dell’ennesima trovata, che non fatica a capire invenzioni nuove e nuove proposte di racconto, perché ormai padroneggia una rete di connessioni talmente fitta e stratificata che qualunque novità trova rapidamente il suo rapido percorso verso la comprensione.
Ma anche uno spettatore che si gode un film senza aver bisogno di un solo dato in più come uno spettatore di settant’anni fa. Potenza di un grande testo e della semplicità immemorabile delle tecniche classiche (e invisibili) del racconto cinematografico.
“Narrare con le immagini”, Paolo Morales, Dino Audino Editore, 2004
In Lady Vendetta, tragedia, mèlo, ironia drammatica e azione si alterano in un crescendo di grande eleganza formale e tensione drammatica, assurgendo a quella visionarietà che è una delle potenzialità suggestive del mezzo filmico. È proprio questa permeabilità dei generi cinematografici e questa ricchezza di toni che rende più sfaccettati i ritratti. La fusione tra l’estetica raffinata degli autori asiatici e alcune tematiche e modalità di racconto che ci risultano più vicine, frutto di una cultura, quella coreana, che, anche grazie alla diffusione del cristianesimo, realizza un’ibridazione più profonda con quella occidentale rispetto a quella cinese e giapponese. Si avvicina, secondo me, anche per la spietatezza con cui si accaniscono i media su una vicenda di cronaca nera.
www.familycinema.tv
Big Fish, tutta la storia di questo film viene racchiusa sotto un valore simbolico: “Chi è il grande pesce?”, rappresenta il sogno, il desiderio, l’utopia. È la cosa che ognuno di noi vuole raggiungere ma che è difficile da catturare, come ogni cosa che desideriamo fortemente. Ed è qui che inaspettatamente entra in gioco la fiaba. È un mondo parallelo dai colori pastellati e saturi e dai passaggi dalle tonalità scure e bluastre alla luce accecante del sole. Tutto questo si trasforma in una fotografia più realistica quando si passa alla dimensione della realtà.
La genialità di questo regista si trova nelle scenografie realistiche nella dimensione fiabesca del racconto: i paesaggi che vengono mostrati non sembrano immaginari ma assomigliano alla realtà in cui viviamo, e proprio per questo noi ci crediamo.
In questo film è presente anche una tecnica vecchissima utilizzata anche nel cinema espressionista, lo stop motion (chiamata anche ripresa a passo uno). Questa consiste nel mettere insieme più fotografie (o fotogrammi) che visti in successione uno dietro l’altro creano l’animazione.
Come in tutti i suoi film c’è un personaggio diverso ed è il padre, che nel raccontare le storie non si preoccupa di quello che la gente pensa ed è proprio questa caratteristica a renderlo particolare ed insolito.
Tim Burton è un regista Pop perché si rifà all’arte popolare degli anni ’60 che ha interessato tutte le arti. Il grande regista ha la capacità di stupire lo spettatore prendendo elementi di alta cultura appartenenti alla musica o alla letteratura (ad esempio la tradizione della fiaba europea, la letteratura gotica o il cartone animato) e mescolandoli con quelli di bassa cultura (il cinema più trash, quello di serie D).
Tim Burton è quindi un regista appartenente al periodo storico definito post moderno per questa capacità di citazione del cinema precedente, per la creazione delle inquadrature e per la grande capacità di rielaborazione.
Il suo cinema ha una dimensione molto fiabesca determinata dalla fotografia (i contrasti di colore e luce, di sogno e di incubo), dalla regia interpretativa e dalle scenografie caratterizzanti le quali si denotano dalle forme che usa (le case fiabesche derivano dall’espressionismo, così come le inquadrature storte). Il fatto di utilizzare linguaggi diversi gli permette di distinguere, nei suoi racconti, la favola dalla realtà.
IL MONTAGGIO E DAVID GRIFFITH
Le riprese del film sono terminate. Il regista, gli attori e gli altri membri della troupe si salutano per un’ultima volta. L’atmosfera è quella in cui si confondono la tristezza degli addii e la soddisfazione per il lavoro ultimato. Ma per qualcuno, in realtà, tutto deve ancora cominciare: chilometri di pellicola sono stati impressionati, sviluppati e sistemati dentro numerose bobine. E aspettano. Ancora qualche giorno e qualcuno vi metterà mano. Li ordinerà, sceglierà fra le diverse riprese di una stessa inquadratura quella più efficace, unirà gli spezzoni scelti fra loro, ricostruirà scena dopo scena la storia del film così come era stata concepita in fase di sceneggiatura o modificata nel corso delle riprese. Talvolta, in questa lunga fase di lavoro, qualcosa di nuovo e imprevisto potrà accadere. Inquadrature, o addirittura intere scene, potranno essere eliminate, modificate o collocate in un momento del racconto diverso da quello in cui erano state originariamente previste. Questa fase di importanza capitale nella lavorazione di un film è quella che cade sotto il nome di montaggio, ovvero quell’operazione che consiste nell’unire la fine di un’inquadratura con l’inizio della successiva.
La nascita del montaggio risale al giorno in cui si è pensato di modificare il punto di vista della macchina da presa su di una scena, con il solo scopo di una migliore descrizione dell’azione o di una migliore costruzione drammatica. Il che non accadeva nei primi film dei Lumière o di Méliès, film costruiti in un unico piano, di un minuto circa (la durata era imposta dalla quantità di pellicola che si poteva caricare su una singola bobina) in campo medio, dove la macchina da presa non solo non era mossa ma neanche spostata.
Gli storici attribuiscono alla scuola inglese i primi significativi passi in avanti nell’ambito nell’evoluzione del montaggio.
Il testimone dell’evoluzione del montaggio cinematografico passa poi dalle mani degli inglesi a quelle degli americani. Fra il 1909 e il 1916, nel cosiddetto periodo di transizione tra quello primitivo e quello classico, il cinema hollywoodiano inizia a dar forma non solo al proprio modo di produzione, ma anche ai suoi modelli di narrazione e montaggio. Aumentano sempre di più i tagli fra le scene e al loro interno, per dare ritmo e arricchire la psicologia dei personaggi. A partire dal 1917, le inquadrature vengono riprese da differenti angolazioni, il piano d’insieme non è più importante degli altri, i tagli si raccordano sul movimento e i film hanno molte più inquadrature: fra i cinquecento e i mille piani.
“Manuale del Film. Linguaggio, racconto, analisi”, Gianni Rondolino e Dario Tomasi, Utet, 2007
Il montaggio raggiunge la prima tappa della sua maturità con David Wark Griffith. Egli si è reso conto che una sequenza dev’essere composta da singole inquadrature incomplete, scelte e ordinate in base a motivi di necessità drammatica. Griffith dimostrò che la macchina da presa poteva avere una parte attiva nella narrazione. Spezzando un avvenimento in brevi frammenti, ciascuno ripreso dalla posizione più adatta, si poteva modificare l’importanza delle singole inquadrature, controllando così l’intensità drammatica dei fatti man mano che la narrazione progrediva.
Di straordinaria importanza fu l’introduzione dell’azione parallela e alternata cui si accompagnò, a rafforzare la struttura interna del film, il mirabile dosaggio dei valori ritmici. I benefici del montaggio alternato per accrescere la tensione emotiva dello spettatore sono incommensurabili. In ogni momento in cui l’immagine cambia, il passaggio crea una frustrazione, un desiderio di completamento d’informazione nello spettatore e, mentre egli è impegnato a seguire le azioni dei nuovi personaggi che vede, rimane in ansia per quelli che, passando nel “fuori campo”, sono stati esclusi al suo sguardo. Al successivo stacco la situazione si ripete, con la sola inversione dei ruoli dei personaggi per i quali egli è in ansia. È così di seguito, in un continuo crescendo. Griffith adottò il montaggio alternato già nei suoi primissimi film, da La vipera nera a Il pellerossa e il bambino.
Come conferma il cinema di Griffith, la suspense cinematografica vive, nella maggior parte dei casi, dell’estrema mobilità del punto di vista cinematografico che, variando costantemente e istantaneamente da un punto all’altro dello stesso luogo (e, quindi, escludendo alcune parti della totalità della scena a favore di altre) o da un luogo all’altro (e cioè, interrompendo ora l’una ora l’altra azione con il montaggio alternato) o da un tempo all’altro (con salto ellittico o con l’introduzione di un flash-back) o, infine, nel tempo e nel luogo (come accade con il montaggio parallelo), crea nello spettatore continue “frustrazioni” e crescente ansia di completamento dei dati cognitivi.
Nei suoi primissimi film il linguaggio che utilizza è però ancora a un primo stadio evolutivo; col tempo e l’esperienza non si limitava più ad alternare semplicemente le azioni, ma, accorciando progressivamente la durata delle singole inquadrature, riusciva a ottenere nello spettatore un quid d’eccitazione in più che lo ghermiva e lo metteva in un eccezionale stato di tensione e di ansia.
Nei suoi film nemmeno un secondo era perso in dettagli superflui il che dimostra che Griffith fu un vero precursore del pensiero di Hitchcock, secondo cui “la narrativa è la vita ripulita e accorciata delle parti noiose”. È per questo che in seguito questa tecnica, come detto, fu denominata finale mozzafiato o alla Griffith. Nonostante le critiche, il regista continuò a sperimentare e a perfezionare ulteriormente la tecnica del montaggio alternato, lo impose sia come propria marca stilistica che come codice linguistico.
Entro il 1912, Griffith aveva sviluppato praticamente tutte le principali tecniche linguistiche atte a creare suspense. Non solo otteneva una maggiore vitalità della situazione narrativa frammentando la scena in più inquadrature e mischiando campi lunghi, campi medi, campi ravvicinati e primi piani e fruttando quel quid di emotività in più introdotto dal montaggio alternato e/o parallelo, ma per primo cominciò ad usare più cineprese per riprendere la stessa scena e sempre più spesso utilizzava una cinepresa montata su un mezzo mobile.
Quindi, anche se molti critici datano la nascita del thriller moderno a partire da The Lodger (Il pensionante, 1926) di Hitchcock, considerando la maturità linguistico-narrativa che Griffith aveva raggiunto, non deve meravigliare che egli sia anche considerato forse il primo regista a “creare” vera suspense nei film di atmosfera dei primi anni ’20.
“Manuale del Film. Linguaggio, racconto, analisi”, Gianni Rondolino e Dario Tomasi, Utet, 2007.
L'UTILIZZO DEL MONTAGGIO IN CHIAVE NARRATIVA
Realismo poetico, realismo socialista… reality show, real TV… Basta soltanto immaginare la campata di un ponte tra quelle correnti del cinema francese e russo e gli ultimi esempi di genere televisivo per avere le vertigini. Quindi propongo un volo a quote molto basse, comprimendo l’aggettivo “realistico” in una accezione parziale e semplificata, e cioè: quello che ci appare quotidiano, senza rivestimenti, abbellimenti, artifici riconoscibili, iperboli, camuffamenti, effetti, forzature… Insomma, senza effetti flou, ovattamenti, colori eccessivi, bianchi e neri, ralenti, velocizzazioni, distorsioni varie…
E continuando a lavorare per esclusione, è ragionevole pensare che non aiutano l’illusione di realismo neanche quelle scelte di regia che tendono a far “sentire” la macchina da presa. E neanche il montaggio atipico, gli scavalcamenti di campo, le soggettive impossibili o quelle degli oggetti (pallottole, frigoriferi, cassette di sicurezza…). Quindi se si vuol essere realisti in questa accezione semplificata, la macchina da presa e il montaggio invisibili diventano una discreta arma… ma niente approccio grottesco, favolistico, retorico, sopra le righe, sotto le righe… . Devo però soffermarmi sulla parola “vero”: cosa intendo quando definisco “vero” qualcosa che ho visto al cinema? Azzardo una risposta, riprendendo un accostamento che risale agli anni Venti: forse lo spettatore sente ciò che è verosimile, una realtà possibile anche se mai vissuta, anche se estranea all’esperienza comune. E in genere un approccio realistico potenzia ciò che è straordinario: quando l’orrore e il fantastico entrano in scena in film di questo tipo, è come se entrassero in casa nostra. Siamo senza protezione perché quell’evento e le reazioni dei personaggi a quell’evento sono così realistiche che potrebbero essere le nostre, e quindi quella rappresentata, per quanto lontana dall’esperienza quotidiana, è comunque una realtà possibile e proprio per questo più terrificante.
“Narrare con le immagini”, Paolo Morales, Dino Audino Editore, 2004
Sto parlando del cinema classico e mi riferisco a quello stile distinto e omogeneo che ha dominato la produzione hollywoodiana tra il 1917 e il 1960, uno stile i cui principi sono rimasti sostanzialmente costanti attraverso decadi, generi, studi di produzione, registi e personale tecnico. Ciò a cui in primo luogo questo cinema mirava era il dar vita a quello che possiamo definire uno spettatore inconsapevole, che scivolasse docilmente nel mondo della finzione, si proiettasse nella vicenda narrata, si identificasse coi protagonisti del racconto, dimenticandosi di essere al cinema e di assistere a uno spettacolo, finendo col confondere la realtà rappresentata sullo schermo per la realtà tout court. Affinché ciò accadesse, il lavoro di scrittura del film doveva essere il più mascherato possibile. Ed è qui che si pone il dilemma del montaggio.
A un primo sguardo, in effetti, il montaggio si presenta come una forza che disgrega la continuità spazio-temporale della realtà rappresentata, correndo il rischio di allontanare l’osservatore dalla finzione, di riportarlo alla sua vera realtà di spettatore. Del resto, il montaggio era, ed è, un mezzo primario per la costruzione di un film: senza montaggio il cinema rischia di non essere altro che teatro filmato. Si trattava dunque di utilizzare il montaggio ma di mascherarlo, di renderlo il più discreto possibile, di cancellarne le tracce. È questa l’operazione che dà vita a ciò che si definisce comunemente come cinema della trasparenza o montaggio invisibile. Ed è proprio questo tipo di montaggio che prende il nome di découpage classico.
Secondo André Bazin, la suddivisione delle inquadrature non ha altro scopo che quello di analizzare l’avvenimento secondo la logica drammatica della scena. È la sua logica a rendere quest’analisi insensibile; lo spirito dello spettatore condivide naturalmente i punti di vista che gli propone il regista poiché sono giustificati dalla geografia dell’azione o dallo spostamento dell’interesse drammatico. Quali che siano le varianti immaginabili di questo découpage, esse avrebbero i seguenti punti in comune: 1) la verosimiglianza dello spazio, nel quale è sempre determinata la posizione del personaggio anche quando un primo piano escluda l’ambiente; 2) le intenzioni e gli effetti del découpage sono esclusivamente drammatici e psicologici.
Bazin individua così con precisione tre caratteristiche fondamentali del découpage classico e del modo in cui esso articola la successione delle inquadrature: motivazione, chiarezza, e drammatizzazione. Il passaggio da un’inquadratura A a un’inquadratura B deve avere una sua ragione, deve rappresentare chiaramente ciò che sta accadendo, deve mettere in rilievo gli snodi drammatici e psicologici della situazione.
Nel découpage classico la rappresentazione che il montaggio dà dello spazio e del tempo è quindi fortemente subordinata alle esigenze della narrazione e alla chiarezza della sua esposizione: il passaggio a un piano ravvicinato servirà a mettere in evidenza un personaggio o un oggetto ogni qual volta lo sviluppo narrativo della sequenza in questione lo richieda, ogni ritorno a piani d’insieme sarà funzionale alla rappresentazione di ciò che ha modificato una certa situazione complessiva e di cui lo spettatore deve essere subito informato.
Il cinema americano classico ha rapidamente messo a punto un modello di narrazione in cui il découpage/montaggio rispettava l’unità d’azione, luogo e tempo, e includeva uno spettatore invisibile situato in ogni piano nel migliore punto di vista possibile.
Non solo, ma nel far ciò, e in parte proprio facendo ciò, il montaggio deve anche essere invisibile, o, secondo le parole di Bazin, insensibile. Ed è qui che affiora un altro dei principi chiave del découpage classico, quello della continuità, il cui fine primario è di controllare la forza potenzialmente disgregatrice del montaggio per dar vita a uno scorrevole flusso di immagini da un’inquadratura a un’altra e facilitare così la proiezione dello spettatore nel mondo della finzione, il suo cullarsi nell’illusione di realtà, il suo vivere in prima persona i sentimenti vissuti dai personaggi.
Già nel corso degli anni dieci si afferma l’idea che il montaggio debba assicurare la continuità narrativa all’interno di un modello di rappresentazione che deve raccontare in modo chiaro e coerente una storia evidenziandone gli snodi drammatici. Controllare la forza disgregatrice del montaggio significava cercare di dare il massimo di scorrevolezza possibile al passaggio da un’inquadratura a un’altra: ciò avveniva grazie ad alcuni accorgimenti, come la costanza e l’omogeneità dell’illuminazione e la centralità dei personaggi e dell’azione in rapporto allo spazio inquadrato, in modo da stabilire una certa continuità grafica fra un piano e l’altro.
A questo riguardo un ruolo essenziale è giocato dal raccordo, il cui compito è quello di mantenere degli elementi di continuità fra un piano e l’altro in maniera che ogni mutamento di inquadratura si dia nel modo meno evidente possibile.
Fra i principali tipi di raccordo ricordiamo:
- Il raccordo di sguardo: un’inquadratura ci mostra un personaggio che guarda qualcosa, l’inquadratura successiva ci mostra questo qualcosa;
- Il raccordo sul movimento: un gesto iniziato dal personaggio nella prima inquadratura si conclude nella seconda;
- Il raccordo sull’asse: due momenti successivi di un’azione sono mostrati in due inquadrature, la seconda delle quali è ripresa sullo stesso asse della prima, ma più vicina o lontana di questa in rapporto al soggetto agente;
- Il raccordo sonoro: una battuta di dialogo, un rumore o una musica si sovrappone a due inquadrature legandole così fra loro.
Un meccanismo di drammatizzazione tipico del découpage classico, di costruzione del climax, inteso come un crescendo graduale degli effetti stilistici che portano al memento forte di un discorso. Come l’intero film, ognuna delle sue parti si costruisce intorno ad almeno un nucleo di particolare pregnanza che gli conferisce senso e il discorso filmico lavora per mettere in rilievo questo momento anche sul piano figurativo. Le regole della costruzione drammatica del climax attraverso l’avvicinamento progressivo e quelle della continuità trovano così modo di intrecciarsi garantendo la solidità di un sistema di rappresentazione che non a caso è stato definito come classico.
C’è un altro aspetto del découpage classico, quello del sistema dello spazio a 180°. Il modo migliore per spiegare il suo funzionamento è quello di partire da una qualsiasi scena di dialogo, costruita sul campo-controcampo, ovvero quel tipo di montaggio che mostra alternativamente due personaggi che dialogano (o più in generale due elementi pro-filmici che stanno l’uno di fronte all’altro): il découpage classico avvia solitamente una scena di dialogo con un’inquadratura d’insieme dei due personaggi. Questo piano presenta così coloro che prendono parte alla scena, ma nel contempo, stabilisce anche lo spazio nel quale può, secondo i dettami del cinema classico, muoversi la macchina da presa. L’immaginaria linea d’azione che unisce i personaggi determina infatti due spazi: uno al di qua e l’altro al di là di tale linea. Una volta che la macchina da presa ha occupato lo spazio che convenzionalmente definiamo come al di qua, essa non potrà più, salvo ricorrendo a determinati accorgimenti di cui parleremo più avanti, scavalcare questa linea. Ne rimarrà sempre al di qua, dando così vita a uno spazio non a 360° bensì a 180° e facendo in modo che lo spettatore rimanga sempre dalla stessa parte dell’azione. In questo modo, quando ognuno dei due personaggi sarà inquadrato singolarmente (2-3), se lo sguardo del primo è rivolto verso destra, quello del secondo sarà rivolto verso sinistra, dando allo spettatore l’impressione che i due, parlandosi, si guardino. Se tale regola venisse infranta, se cioè si attuasse uno scavalcamento di campo, tramite uno “sbagliato” posizionamento della macchina da presa oltre la linea immaginaria che unisce i due personaggi, questi finirebbero col guardare non più l’uno verso l’altro, bensì tutti e due nella stessa direzione creando, almeno secondo i sostenitori di questo principio, un certo spaesamento nello spettatore.
L’uso dello spazio a 180° è un principio operante non solo nell’ambito delle scene di dialogo ma in qualsiasi altra scena o sequenza che faccia parte di un film a découpage classico. È proprio l’uso dello spazio a 180° a determinare l’esistenza di altri tre raccordi chiave del cinema classico:
- Il raccordo di posizione: due personaggi ripresi in un’inquadratura l’uno a destra e l’altro a sinistra, dovranno mantenere la stessa posizione in quella successiva;
- Il raccordo di direzione: un personaggio che esce di campo a destra di un’inquadratura dovrà rientrare a sinistra di quella successiva (a meno che non si voglia far credere allo spettatore che il personaggio stia ritornando indietro);
- Il raccordo di direzione di sguardi: nel corso del dialogo fra due personaggi la macchina da presa sarà sempre posizionata in modo tale da far sì che, quando ognuno dei due personaggi viene inquadrato singolarmente, il suo sguardo si rivolta verso l’altro personaggio.
Ciò che accomuna questi tre raccordi è dunque la preoccupazione di rappresentare chiaramente lo spazio in modo che lo spettatore possa agevolmente rendersi conto della disposizione dei personaggi in un determinato ambiente. Lo spazio filmico non deve creare effetti di disorientamento, perché tali effetti sono avvertiti come qualcosa che può distrarre lo spettatore dalla storia.
Avevo in precedenza suggerito come lo scavalcamento di campo potesse essere attuato grazie a certi accorgimenti. I due più frequenti sono quelli del posizionamento della macchina da presa non più al di qua bensì sulla linea e quello dell’utilizzo degli inserti. In entrambi i casi si dà vita a un piano di transizione che permette, senza troppi scossoni, di oltrepassare la linea dell’azione nel piano successivo e di dar così vita a un nuovo segmento che sarà a sua volta costruito sulla base dei principi dello spazio a 180°.
Tuttavia il cinema classico può anche scavalcare direttamente il campo senza ricorrere a mediazioni di sorta; l’importante è che questo scavalcamento trovi una sua motivazione. Lo scavalcamento di campo, ad esempio, ha un senso nel caso in cui si vuole accentuare un momento drammatico, il quale si impone all’attenzione dello spettatore, mettendo così in secondo piano il carattere anomalo e irregolare dei due raccordi: si dà a vedere meglio qualche cosa di importante e, nel contempo, grazie all’importanza di questo qualcosa si nasconde il modo in cui lo si dà a vedere.
Come lo spazio anche il tempo è organizzato dal découpage classico in modo tale da subordinarlo allo sviluppo della narrazione.
A conclusione diciamo che il découpage classico si fonda sulla necessità di uno spettatore inconsapevole che va aiutato nei suoi processi di scivolamento nella finzione, proiezione del narrato e identificazione coi personaggi della storia. Da qui l’uso di un montaggio invisibile, che però sappia nel contempo fondersi sui presupposti della motivazione, della chiarezza e della drammaticità. L’invisibilità del montaggio si costruisce principalmente attraverso un rapporto di continuità fra piano e piano che trova il suo più efficace modo di realizzazione attraverso i raccordi di sguardo, di movimento e d’asse.
Un altro aspetto costitutivo di questo montaggio è l’uso di uno spazio a 180° che permette allo spettatore di osservare lo svolgersi degli eventi rimanendo sempre dalla stessa parte dell’azione. Conseguenze dell’uso di questo spazio dimezzato sono i raccordi di posizione, di direzione e direzione di sguardi che permettono un chiaro trattamento dello spazio che non disorienti lo spettatore. L’articolazione spaziale del découpage classico trova due sue figure fondamentali nel campo/controcampo e nel passaggio dai piani d’insieme e a piani ravvicinati e poi di nuovo a piani d’insieme.
In generale il découpage classico subordina la rappresentazione dello spazio e del tempo alle necessità della narrazione dando rilievo a ciò che si vuole affermare come più importante di altro. A questo riguardo l’avvicinamento progressivo come momento funzionale alla costruzione del climax gioca un ruolo di primo piano. In ultima analisi il montaggio del cinema classico decide per lo spettatore non solo che cosa questi deve vedere ma anche come, quando e per quanto tempo lo deve vedere.
“Manuale del Film. Linguaggio, racconto, analisi”, Gianni Rondolino e Dario Tomasi, Utet, 2007.
Bisogna dire, però, che non esiste più un’estetica di montaggio dominante, possono essere mischiati insieme vari tipi di montaggio purché il risultato sia funzionale a ciò che si intende esprimere, ma, in effetti, ciò accade di rado. Più generalmente ogni regista sceglie il suo stile e lo persegue per tutti i suoi film o, al limite, può cambiare stile da un film all’altro, ma all’interno dello stesso testo c’è sempre uno stile di montaggio che risulta dominante.
Lo stile “classico” consiste nel raccontare storie al primo livello a un pubblico che le prende come tali, e che partecipa senza malizia (Robin Hood o La vita è meravigliosa).
Invece lo stile “moderno” consiste nell’attirare l’attenzione sulla situazione stessa, straniamento che passa per la possibilità della menzogna e della derisione (L’uomo che mente o Il maschio e la femmina).
Nella “postmodernità” in cui ci troviamo, si racconta una storia come nei bei tempi andati, ma suggerendo con discrezione che si è molto più maliziosi, che ci si vuole proprio divertire come una volta, come nei nostri sogni infantili e nei nostri primi film. L’artista postmoderno vuole rifare in meglio, più smart e più cool, (Robin Hood, King Kong e Superman). Il cinema postmoderno ha così assunto variabili connotative diverse rispetto al passato; non necessita, come nel cinema classico e moderno, di grandi narrazioni che abbiano “capo e coda”, che diano allo spettatore l’idea di aver capito, anzi tenta in tutti i modi di confondere spazio diegetico ed extradiegetico (ciò che appartiene alla storia e ciò che non gli appartiene) con continui rimandi allusivi che portano lo spettatore ad uscire continuamente dal film.
E’ un cinema, dunque che non domanda di essere compreso, ma sentito che ci rimanda al piacere dell’immersione nel film in un vortice di stimoli sensoriali. Lo spettatore che cercasse in tutti i modi di concentrarsi per “capire” il film, otterrebbe il risultato opposto. È un cinema di pancia, dunque, che può permettersi il lusso delle nuove tecnologie (steadycam, louma, tecnologie del virtuale, ecc…) al fine di produrre la forma del film-concerto in cui lo spettatore, in totale immersione, viene circondato e colpito in maniera intrusiva dai suoni annientando le distanze che lo separano dal film, che non tende più quindi alla comunicazione, ma alla fusione.
La musica, le figure stilistiche, le tecniche (insistenza dello zoom, carrello in avanti, ecc…) tendono all’amplificazione delle sensazioni, alla percezione sensoriale totale, come se lo sguardo non servisse più, come se fosse possibile guardare il film ad occhi chiusi, come in un sogno in cui ogni tipo di percezione deriva dal nostro inconscio, dal nostro volerci inserire all’interno del testo filmico come sua parte integrante.
Se ne desume quindi l’importanza dell’uso di strumenti ad alto coefficiente tecnico, come sistemi acustici impeccabili, schermi giganti ad altissima definizione, uso del virtuale in tutte le sue prospettive fino ad arrivare agli esperimenti più “estremi”, come la percezione dell’immagine olfattiva (anche se a dir la verità queste tecniche hanno avuto, per il momento, scarso successo).
È un cinema che non si affida più al solo vedere per recepire il significato portante, ma tende a mettere in funzione tutti i suoi sensi. I film, così, appaiono percorribili in più direzioni, è possibile accostarne un senso proprio, senza ostinarsi nel cercare un significato univoco, passando dall’interpretazione del testo alla transizione dell’ipertesto.
http://www.osservatoriesterni.it/index.php?option=com_content&task=view&id=739&Itemid=28
Esempi di alcuni film che si esulano dal realismo fantastico creato dal montaggio invisibile:
Pulp Fiction gioca in modo esilarante col montaggio. Lo schema diegetico usato da Tarantino non segue un ordine cronologico lineare, anzi fabula e intreccio non coincidono dall’inizio alla fine in modo da invertire la consequenzialità del rapporto causa-effetto. È come se assistessimo ad uno spettacolo circolare composto da microepisodi e incorniciati da uno di questi diviso a metà all’inizio e alla fine del film.
http://www.osservatoriesterni.it/index.php?option=com_content&task=view&id=739&Itemid=28
Inoltre la vicenda viene condita con un montaggio arditissimo (salti temporali, incroci e parallelismi) e con una dose di violenza stigmatizzata dai benpensanti (lo stesso anno usciva Assassini nati e la censura non era certo restata a guardare).
http://next.videogame.it/pulp-fiction/2383/
Memento: film con una maglia intricatissima, un percorso tortuoso in cui si è incapaci di trovarne l'inizio e la fine, in un passaggio continuo di universi reali ed immaginari. Christopher Nolan con Memento, il suo secondo lungometraggio, non resiste dal rivalutare la centralità del montaggio mischiando le carte in tavola, in cui dolore, incubi, fallimento di ogni emozione o relazione umana ed infine depressione si intrecciano a più riprese giocando con una realtà alterata dei fatti e soprattutto con la mente dello spettatore intento a cogliere ogni eventuale cambiamento di tempo e di luogo. Si delega, dunque, il pubblico di far chiarezza tra le masse di informazioni fornite riuscendo a ricostruire la cronologia e i vari elementi del puzzle. Memento è un film che riesce ad incollare allo schermo, catturando con macchinosi giochi di montaggio anche l’attenzione dello spettatore più reticente.
Al termine di Kill Bill: Vol. I sono le parole di Bill - solo voce e mani fin qui - e Sophie Fatale, (con l'inquietante interrogativo circa la bambina, fino ad allora data per morta, elemento fondamentale questo della "finta" morte), ed il montaggio alternato che si appropriano di una formula da manuale della suspense (fin al ridicolo da soap opera).
http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=1297
IL MONTAGGIO COME STRUMENTO PER ALTERARE LA NARRAZIONE E RENDERLA NON LINEARE
Nel corso della sua evoluzione il linguaggio cinematografico ha imparato ad articolare lo spazio e il tempo della diegesi in uno spazio e tempo del discorso filmico in grado di mettere in rilievo quei fatti essenziali allo sviluppo e alle finalità del racconto e dell’opera nel suo complesso.
Dal punto di vista spaziale il montaggio ha cioè assunto la funzione di articolare lo spazio diegetico in diverse unità, privilegiando di volta in volta quelle che, secondo una certa logica, appaiono essere le più importanti e mettendo così in rilievo gli eventi o gli esistenti che occupano o rappresentano quelle diverse unità. Un discorso analogo lo possiamo fare per l’asse temporale. Il montaggio ha quindi il compito di selezionare quei momenti della storia narrata che hanno un’importanza maggiore di altri e di confinare questi ultimi nel vuoto delle ellissi. È evidente così che il montaggio è uno strumento fondamentale attraverso cui l’istanza narrante costruisce il proprio racconto, conferendogli certi caratteri anziché altri, sulla base di quei principi di selezione e combinazione su cui ogni racconto è organizzato.
Il montaggio, nel suo determinare l’inizio e la fine di un’inquadratura, è innanzitutto il mezzo che decide la durata di ogni singolo piano. In questo modo il regista impone allo spettatore il tempo che questi ha a disposizione per leggere una determinata inquadratura. Il criterio generale, ridefinibile tuttavia sulla base delle necessità drammatiche, è che un campo lungo, dato il suo maggior numero di informazioni, necessita di un tempo maggiore di un primo piano.
Il rapporto fra tempo e montaggio si estende poi dal livello dell’inquadratura a quello del film nelle sue grandi articolazioni.
Il montaggio è lo strumento che consente tecnicamente di determinare il rapporto fra l’ordine degli eventi della storia o fabula e quello dell’intreccio. Il cinema classico ha tendenzialmente accordato le sue preferenze a una struttura lineare e cronologica tanto nell’ambito del singolo episodio che in quello della storia nel suo complesso. L’imposizione temporale del montaggio lineare viene eliminata con il sistema non lineare.
Esempi:
In Pulp Fiction avviene una rivoluzione narrativa. La narrazione non cronologica e circolare costituisce la caratteristica fondamentale del film; le stesse situazioni vengono viste da punti di vista dei diversi personaggi. Se anche volessimo applicare un montaggio lineare che porti a far coincidere fabula e intreccio, non avremmo un senso univoco del film, un’interpretazione autentica.
Il film ha una struttura drammaturgica multilineare – quella che nelle drama theories angloamericane viene chiamata struttura ‘multistrand’ o anche ‘parallel narrative’. Essa è organizzata secondo la cosiddetta narrazione parallela: una ‘struttura sequenziale’, in cui le linee narrative sono separate ma interconnesse, sono narrate una dopo l’altra e si legano alla fine.
La trama frammentaria e discontinua porta a riflettere su alcuni temi trattati dal regista. Una di queste è incentrata sul tema della redenzione e del misticismo, che si esplicita nei personaggi mediante i dialoghi. In tutte le situazioni, i personaggi sono testimoni di un evento che li porta a riflettere. Da questa riflessione nasce la consapevolezza del proprio stato d’imperfezione e la necessità di cambiamento che cancelli le proprie colpe. In tutte e tre le storie che compongono Pulp Fiction, è presente questo percorso che fa mutare lo status dei ruoli per il quale chi è carnefice diventa vittima e viceversa. Dalla dialettica, poi, capiamo che la via della redenzione non è facile ed illuminata, ma richiede forza di volontà e determinazione per percorrerla. Vincent, protagonista di due delle tre situazioni, non cercherà un cambiamento e finirà per essere ucciso, ma la componente mistica nel suo personaggio diviene la resurrezione. Infatti Vincent muore a metà del film, ma “torna in vita” nell’ultimo episodio, grazie alla struttura narrativa non lineare ideata da Tarantino.
Altro tema fondamentale del film è quello della valigetta. Sono svariate le interpretazioni sul suo contenuto che ha lo strano potere di stupire chiunque vi guardi al suo interno2, ma nonostante ciò non è tanto importante capire cosa vi sia all’interno quanto capirne la funzione nello sviluppo narrativo. La valigetta in questione sarebbe un hitchcockiano "MacGuffin", in altre parole un semplice stratagemma narrativo di nessun’importanza sui cui far convogliare le forze della narrazione e di conseguenza l'attenzione del pubblico (anni dopo l’uscita del film sarà lo stesso Tarantino a rivelarlo). L’oggetto, elevato al grado di personaggio, diventa il protagonista principale, pretesto che porta Vincent e Jules nell’appartamento in cui sono testimoni del "miracolo" delle pallottole; è la "scusa" che muove i due a portare via con loro in macchina Marvin, il quarto uomo, il cui cranio, esploso per una pallottola sparata accidentalmente da Vincent, sporca tutto l’interno della macchina e i vestiti dei due killer, costretti così a fermarsi a casa di Jimmie per ripulirsi e chiamare il signor Wolf in loro aiuto. Inoltre nel tentativo di difendere la valigetta del capo, durante la rapina all’Hawthorne Grill, Jules si rende conto della sua "conversione". La valigetta, dunque, è da considerarsi il filo narrativo che tiene unita la trama spezzata del film. In questo contesto la sua importanza è puramente a livello significante, dato che la sua valenza è puramente narrativa. Non mostrare mai il contenuto della valigetta, anzi il mostrarsi nell’atto di celarlo, e il sentirne parlare continuamente dai personaggi, sono i "trucchi" che la narrazione utilizza per chiamare direttamente in causa lo spettatore. Il vuoto indotto, il gap permanente mai risolto della valigetta, lascia lo spettatore nella libertà più assoluta d’attribuzione di significato, cosicché accanto allo svolgimento filmico dell’autore, vi è uno svolgimento parallelo da parte dello spettatore che costruendo la propria narrazione può riempire con ciò che vuole la valigetta.
http://www.osservatoriesterni.it/index.php?option=com_content&task=view&id=739&Itemid=28
Mullholland Drive è un film assolutamente spiazzante perché non racconta nulla. Si tratta di un film sperimentale ed è tutt’altro che convenzionale: pensiamo al rock acrobatico o agli strani rosso e nero sfuocati che vanno a finire sull’inquadratura di una coperta con il sottofondo del rumore del respiro. In Mullholland Drive lo spettatore è confuso, perché il racconto non è lineare e l’ordine spazio-temporale è del tutto assente dalla narrazione. Questa sensazione di stordimento viene aumentata dal fatto che i personaggi vengono spesso sostituiti e che spesso la dimensione della realtà viene mescolata con quella onirica o dell’immaginario, spesso senza nemmeno che questo passaggio venga segnalato.
In Memento il montaggio procede su due binari: le scene che si susseguono sono alternativamente l'ultima in ordine cronologico, poi la prima, poi la penultima, poi la seconda, e così via. La scena finale del film è quindi quella cronologicamente centrale, che rappresenta il punto di scioglimento dell'intreccio. La tecnica replica il punto di vista del protagonista, che, afflitto da mancanza di memoria a breve termine, dimentica tutto ciò che ha vissuto nell'immediata precedenza. Lo spettatore, vedendo eventi di cui ancora non ha visto ciò che li precedono, si trova nella stessa condizione di spaesamento. Ma al di là della trama, il film è incentrato sulla necessità umana di ancorare la vita a una successione temporale di eventi. Nel momento in cui ciò non è possibile, essa stessa diventa qualcosa di non gestibile. Il protagonista non sa neppure quanto tempo è passato dall'incidente e ogni volta che si risveglia scopre di nuovo tutto da capo, così come dopo pochi minuti non ricorda assolutamente ciò che stava facendo. Ciononostante, la necessità di avere uno scopo è così forte da spingerlo a continuare a vivere grazie "all'istinto, all'urto e al metodo".
Nella versione DVD del film c'è un altro disco col film montato in maniera lineare senza salti temporali. Ma qual'é lo scopo di tutto questo? Cercare di far capire il senso del film? A parere di molti critici si tratta comunque di un'operazione che nulla aggiunge e nulla toglie, rendendo la storia piatta, scarica di quella suspense e inquietudine che il montaggio originale intende trasmettere allo spettatore. Per me bisogna essere bravi nella visione dell'originale perché quello è il film, quella è la storia, quello è il mondo che si ritrova davanti Leonard Shelby e noi ne siamo co-protagonisti, lo viviamo, lo percepiamo in tutto il suo dolore e smarrimento, ma a differenza sua lo spettatore ha molte più informazioni di quelle del personaggio perché, fortunatamente, chi guarda il film non resetta la memoria, quindi sa quello che è successo a Leonard il giorno precedente.
http://it.wikipedia.org/wiki/Memento
EFFETTI SPECIALI
L’espressione «effetti speciali» compare per la prima volta nel 1926, nei titoli di testa del film Gloria di Raoul Walsh. Il cinema, inventando un appellativo che gli è proprio, si allontana dal cugino «trucco», coniato su modello del francese truc (impiegato per la prestidigitazione e il teatro dal 1803) e del più vasto truquage.
La parola truquage, comparsa alla fine del XIX secolo, designa innanzitutto falsificazioni di oggetti (soprattutto d’arte), prima di arricchirsi di un’accezione particolare: «Nello spettacolo, qualsiasi procedimento di illusione che preveda l’uso di trucchi». Nonostante questa precisazione, il termine rimarrà fortemente connotato e il suo uso nella vita di tutti i giorni (per esempio quando si parla di elezioni truccate) lascerà sempre aleggiare un’idea di inganno, di menzogna, di manipolazione dell’immagine ma anche dello spettatore. Truquage sarà sostituito progressivamente da «effetti speciali», che attribuiranno al primo termine una connotazione antiquata, superata, persino arcaica.
“Gli effetti speciali. Forma e ossessione del cinema”, Réjane Hamus-Valléè, Lindau
Gli effetti speciali possono essere divisi con una certa precisione in varie categorie:
1. Effetti meccanici
2. Effetti ottici
3. Effetti digitali (oggi predominano)
1. Effetti meccanici
Usati fino alla fine degli anni ottanta, sono i più semplici, includono qualsiasi cosa che venga fisicamente costruita o preparata sul set per la ripresa di una scena filmata con la procedura normale (esplosioni, mura che crollano, gli effetti dei proiettili, l'uso di modellini in miniatura e così via). Essendo tutti effetti che venivano già usati a teatro, il cinema poté appropriarsene sin dagli inizi.
2. Effetti ottici
La categoria successiva è quella degli effetti ottici, che includono qualsiasi tipo di distorsione del normale metodo cinematografico, sia attraverso manipolazioni all'interno della macchina da presa, sia attraverso speciali trattamenti della pellicola successivamente alla sua esposizione. Il termine indica quindi tutti quegli effetti creati sull’immagine, tanto in postproduzione quanto durante le riprese. Il più semplice di questi è la sovrimpressione, che significa avere nell'inquadratura due immagini distinte una sull'altra; se questo effetto viene ottenuto esponendo la pellicola due volte prima che essa venga sviluppata, si parla di "doppia esposizione", se invece è ottenuto stampando due negativi in successione su un singolo positivo di pellicola, allora è chiamata "doppia stampa". Altri basilari effetti ottici sono le dissolvenze (o fondù), le dissolvenze incrociate e le mascherine a ventaglio (diaframmi a iride). In un fondù di chiusura, l'immagine a poco a poco si dissolve nell'oscurità fino a che lo schermo non rimane completamente nero; in un fondù di apertura avviene il contrario. Le dissolvenze possono essere fatte in macchina durante le riprese, attraverso l'apertura o la chiusura del diaframma dell'obiettivo, oppure attraverso l'apertura o la chiusura della fessura dell'otturatore rotante posto davanti alla pellicola. Nelle dissolvenze incrociate, a un fondù di chiusura viene sovrapposto uno di apertura, ottenuto riavvolgendo la pellicola per la durata del primo fondù, e impressionandola nuovamente con la nuova inquadratura per la stessa lunghezza di tempo della prima esposizione; in questo modo, la seconda immagine sembra emergere dalla prima. Nei "passaggi a tendina", una linea attraversa l'inquadratura rimuovendo l'immagine esistente e rivelando dietro di essa, nell'area che ha appena attraversato, una nuova immagine.
3. Effetti digitali
Sono effetti generati da un computer che elabora le immagini aggiungendo, togliendo o modificando gli elementi presenti nell'inquadratura, dallo sfondo ai personaggi, spesso utilizzando tecniche di animazione al computer.
http://it.wikipedia.org/wiki/Effetti_speciali
Sempre più spesso le interviste ai divi di Hollywood registrano le loro lamentele per la difficoltà di dover recitare rivolgendosi ad un palloncino rosso che segnala la posizione e lo spazio che sulla pellicola verrà riempito dal loro collega virtuale.
Stiamo iniziando a metabolizzare e codificare epocali cambiamenti, soprattutto dopo l’uscita del film 3D Avatar. Quegli esseri blu non esistono, sono immagini virtuali, eppure noi possiamo immedesimarci in essi, perché quelle immagini sono così vicine alla realtà da risultare terribilmente convincenti. Una realtà che possiamo solo immaginare o sognare, ma basta aver preso un aereo nella vita, aver saltato una volta sul tappeto elastico, ed esser dotati di quel minimo di fantasia necessario per confondere le due esperienze, che risulterà semplice e divertente farci cullare da quelle immagini così impossibili ma anche così reali. Ecco, l’ultima rivoluzione del cinema nasce proprio dalla fusione di quelle due parole: impossibile e reale. Ora si può raccontare con le immagini, in modo realistico e credibile, qualunque evento venga partorito dalla fantasia di uno sceneggiatore.
È vero che il digitale costa ancora molto, ma è innegabile che ormai, avendo i capitali a disposizione, qualunque cosa si può realizzare, e quindi anche scrivere. Gli sceneggiatori hanno perso le briglie, possono dispiegare la vertiginosa libertà di un fumettista, la stessa folle libertà che ormai è a disposizione anche dei registi, che possono tradurre in immagini qualunque cosa.
Da un’intervista con Peter Jackson: «Andavo dai tecnici nel loro laboratorio e dicevo loro: “vorrei una scena con seimila cavalli che attaccano e centomila orchi. Potete mostrarmi qualcosa tra cinque settimane?” Una volta uscito da quella porta non dovevo pensarci più. Forse la cosa più semplice del Signore degli Anelli è stata paradossalmente quella delle immagini in computer grafica…» Seimila cavalli e centomila orchi: riuscite ad immaginare una produzione in grado di ingegnarli, un set in grado di contenerli, un regista in grado di controllarli? Ricordate le meravigliose immagini delle legioni romane nella battaglia finale di Spartacus? Occorsero circa diecimila comparse per realizzarle. Più o meno quarant’anni dopo per il Gladiatore ne sono bastate molte di meno: è stato sufficiente duplicarle con il computer. Oggi verrebbero addirittura inventate di sana pianta, evitando i rischi di una duplicazione che potrebbe essere in qualche modo smascherata da qualche ragazzino particolarmente sveglio e pignolo.
«Il digitale aprirà molte porte, democratizzerà il cinema, diminuirà l’autocensura e porterà più libertà agli artisti, più piacere e meno stress»; parola di George Lucas, il papà di Guerre stellari. Non ha tutti i torti se pensiamo che il digitale ha permesso a lui di realizzare filmoni. Ci aveva visto bene, il digitale sta diventando una liberazione dai condizionamenti economici e dalle limitazioni tecniche.
Lui ha definito l’avvento del digitale come una rivoluzione più grande di quelle dal muto al sonoro, o dal bianco e nero al colore. E aveva ragione, la rivoluzione si sta compiendo fino in fondo con la riconversione dei proiettori e delle sale. In questo caso non è più necessaria la pellicola, ma stanno scomparendo anche le riprese e il montaggio, intesi in senso classico, tant’è che la serie televisiva Dr. House è stata girata completamente con la Canon 5D e il primo lungometraggio, Reverie, realizzato con la Nikon D90, è stato presentato nel 2009. Con le tecniche digitali la macchina da presa cessa di essere un oggetto e diventa un punto di vista immateriale, un occhio senza corpo in grado di spostarsi ovunque e riprendere qualunque cosa. Dopo Avatar stanno scomparendo anche gli attori nello spazio angusto di un laboratorio digitale.
In ogni caso, anche questa volta la musica, che alcune volte ha anticipato il cinema, ci viene in soccorso e ci tranquillizza: già da molti anni è possibile confezionare qualunque genere di prodotto musicale seduti davanti ad una consolle, ma le infinite possibilità di creare suoni in provetta non hanno soppiantato il piacere di ascoltare il suono imperfetto dei musicisti e tanto meno quello sporco di un concerto dal vivo. Credo (e spero) che nel cinema avverrà qualcosa di simile: le tecniche nuove si affiancheranno a quelle vecchie, senza necessariamente soppiantarle.
“Narrare con le immagini”, Paolo Morales, Dino Audino Editore, 2004
Gli sviluppi più importanti dell'ultimo decennio sono stati dovuti al controllo computerizzato di tutti i movimenti della cinepresa e all'uso sempre più frequente dell'animazione ottenuta attraverso la grafica computerizzata. L'uso nei lungometraggi di immagini generate dal computer è notevolmente aumentato durante gli ultimi dieci anni, di pari passo con l'aumento della potenza dei computer e l'abbassarsi dei loro prezzi.
L'animazione computerizzata viene nella maggior parte dei casi prodotta costruendo in primo luogo dei modelli degli oggetti da animare; in seguito le posizioni dei loro contorni vengono indicate numericamente in tre dimensioni e dopo queste sono stabilite esattamente le linee lungo le quali gli oggetti devono muoversi.
Un programma calcola poi tutte le posizioni del modello sulla superficie di ogni inquadratura del film; la superficie viene a questo punto riempita e colorata ("resa") come dovrebbe apparire sotto le appropriate condizioni di luce della scena, e il risultato viene visionato sullo schermo del computer.
Infine un apposito laser viene usato per impressionare ogni fotogramma della pellicola negativa in base a istruzioni numeriche corrispondenti al colore dei singoli punti dell'immagine filmica finale che si vuole ottenere.
La grafica computerizzata viene anche usata nelle riprese di effetti speciali per modificare immagini filmate in vari modi: ad esempio, per rimuovere tracce dei cavi usati per sospendere in aria i modelli. In questi casi, la pellicola già impressionata viene elaborata inquadratura per inquadratura in immagini sezionate numericamente da un computer, e un programma standard di pittura computerizzata viene poi usato per modificare l'immagine nei modi richiesti.
Infine, l'immagine modificata viene trasferita di nuovo sulla pellicola con la stessa procedura usata per l'animazione computerizzata.
Ci abituiamo sempre più rapidamente alle nuove tecniche del racconto visivo, mentre gli effetti speciali diventano sempre più speciali, rendendo improvvisamente superati quelli dell’anno prima.
Ho sempre considerato verosimile la leggenda della fuga degli spettatori dalla sala durante la proiezione di L’arrivo del treno alla stazione di La Ciotat, nel 1895. Credo anche verosimili i malori dopo la visione di Natural Born Killers o The Blair Witch Project… Ma sconvolgere qualcuno con una immagine su uno schermo sta diventando sempre più difficile: l’evoluzione delle tecniche del cinema si accompagna ad una corrispondente perdita di innocenza dello spettatore.
Il risultato è che in questa nuova generazione stanno crescendo dei mostri. In questi ultimi anni la velocità di assimilazione inconsapevole delle nuove tecniche e dei nuovi ritmi del racconto cinematografico è cresciuta vertiginosamente. E nei ragazzi di oggi è aumentata parallelamente al loro sviluppo cognitivo, che ormai avviene sotto un costante bombardamento di immagini.
Materia viva in formazione che si plasma sotto i nostri occhi ad una velocità che spesso la nostra costituzione mentale non ci permette di sostenere, piccoli alieni in grado non soltanto di scrivere messaggini con pollici come testine rotanti ma anche in grado di comprendere un flashback a tre anni… e questo è più faticoso da digerire perché per le generazioni passate, che hanno impiegato anni ad apprendere il linguaggio cinematografico, tutto questo è inatteso. Cosa dovrà inventarsi, quindi, un regista per stupire con un inseguimento di macchine un ragazzino abituato a correre il rally di Montecarlo con la Playstation.
Esempi:
Avatar è il colossal degli anni Duemila, per costi e effetti speciali, progetto cinematografico ideato dal regista James Cameron, padre del kolossal "Titanic". Avatar ha catturato i cinefili di tutto il mondo con l'universo fantascientifico creato con l'ausilio delle tecnologie più avanzate nel campo del cinema in 3D.
Costato ben 237 milioni di dollari ha battuto tutti i primati d'incasso, oltre 2,5 miliardi di dollari nel mondo. Avatar è quindi un colossal anche in termini di sperimentazione tecnologica, di creatività resa possibile solo con l'ausilio dei più avanzati strumenti di elaborazione grafica. Non a caso è un progetto immaginato e sviluppato nell'arco di ben undici anni. Cameron, cosi come George Lucas con Guerre Stellari, pensava di realizzare Avatar molto prima, già nel 1995; ma fu costretto ad abbandonare il progetto perché le creature realizzate al computer non avevano ancora il fotorealismo necessario per sembrare credibili. Quando riprese il progetto nel 2005, la computer grafica poneva ancora qualche limite, come l’effetto “dead eye” la mancanza di luminosità degli occhi dei personaggi. Un dettaglio che impediva ai personaggi di sembrare reali. Vediamo dunque quali sono le tecniche digitali che hanno decretato il grande successo degli alieni dall'aspetto felino.
- Performance Capture: i primi ad utilizzarla furono i fratelli Wachowski in Matrix sotto il nome di U-cap (universal capture). Il primo film ad essere realizzato totalmente con l'ausilio di questa tecnica fu The Polar Express nel 2004. La Performance capture consente di catturare le espressioni facciali di attori reali per trasferirla ad un personaggio virtuale. La tecnica è del tutto simile alla motion capture,
ma si avvale di una tecnologia più sofisticata. I marker sono estremamente piccoli e posizionati principalmente sul volto degli attori. Con Avatar è stato inaugurato un nuovo sistema di performance capture per cogliere le espressioni del viso, basato sulle immagini: agli attori viene fatto mettere in testa un dispositivo, munito di una piccola telecamera, rivolta verso il loro volto, registrando ogni loro minima espressione, ogni movimento dei muscoli come il movimento degli occhi, cosa mai avvenuta in precedenza.
- La Virtual Camera o Simulcam: è interessante come riesca a sovrappore un ambiente di ripresa virtuale con una di ripresa dal vero. Questo ha permesso al regista di vedere direttamente al computer, mentre riprendeva, la ricostruzione del set con la previsualizzazione degli elementi che solo successivamente sarebbero stati creati in digitale. Simulcam infatti permette di vedere gli elementi del set subito durante le riprese riducendo così gli errori e facilitando il lavoro del regista. Considerando che solo il 40% degli elementi del film sono live action e che tutto il resto è composto da elementi virtuali, come i protagonisti fotorealistici generati al computer, è facile intuire quanto il software Simulcam sia stato decisivo. In Avatar fruibile in 3D stereoscopico l'effetto stereoscopico non è stato aggiunto in post-produzione, il kolossal è stato letteralmente girato in tre dimensioni.
- 3D la nuova concezione: RCS Reality Camera System: per creare la magia del cinema tridimensionale, che consente agli spettatori in sala di entrare nel mondo virtuale messo in scena dal regista, Cameron si è affidato al Reality Camera System. Si tratta di un sistema di ripresa che utilizza due cineprese digitali ad alta definizione affiancate. Le due telecamere riprendono contemporaneamente la stessa immagine, ma con prospettive leggermente diverse in modo da simulare la visione umana. "Noi vediamo abitualmente in 3D - ha spiegato Cameron - perciò con i film in 2D viviamo un'esperienza artificiale e non autentica. Con le pellicole in 3D è come se lo schermo non esistesse e non si frapponesse fra gli spettatori e i personaggi. Gli spettatori guardano la realtà riprodotta sullo schermo come se fossero affacciati alla finestra. Il Reality Camera System è in grado di imitare la visione umana".
http://imc2000.altervista.org/i-segreti-di-avatar.html
Gli effetti speciali di Alice in Wonderland sono costati 180.000.000 euro, effetti speciali assegnati alla Sony Pictures ImageWorks e la post produzione è durata 2 anni. Per ricostruire l’ambientazione giusta del romanzo, sono stati costruiti dal nulla interi quartieri che risalgono all’età vittoriana, ma soprattutto sono stati disegnati e realizzati tutti i costumi dell’epoca. A volte vengono usati “metodi pratici” e non effetti speciali come ad esempio in alcune scene, Alice è stata posizionata su rialzi di legno per apparire più alta di tutti. Nella scena in cui Alice risulta essere “alta 6 metri” nel salone circolare in realtà è stata ricreata una porzione della stanza in miniatura come sono state realizzati tutti gli oggetti in questa maniera.
Matt Lucas è stato scelto per interpretare Panco Pinco e PincoPanco ma non poteva recitare la parte dei due personaggi insieme, perciò è stato chiamato Actor Ethan Cohen che ha interpretato l’altro personaggio, ma questo non appare mai, è stato usato solo come figura di riferimento a Matt che invece appare nella scena.
Glover interpreta Stayne, il Fante di Cuori, nel film, ma solo la sua testa appare sullo schermo. Tutto il corpo dell’attore è stato ricostruito in 3D, corpo alto 2 metri, ma anche il mantello e la benda sono stati costruiti in digitale. Sul set, Glover ha indossato un vestito verde ed era sui trampoli per sembrare più alto. Il suo viso è stato truccato in maniera precisa per il ruolo. Solo il suo volto è reale. Questo indossa una benda che è nera se fa azioni malvagie, ma diventa rossa se si trova nelle vicinanze della regina. Crispin Glover, che ha trascorso moltissimo tempo sui trampoli durante la produzione, si è slogato una caviglia durante le riprese di una scena (inatteso), dopo questo incidente la produzione ha assunto persone e messe in tuta verde nelle scene girate con lui, questi dovevano assisterlo in caso di una nuova caduta.
Helena Bonham Carter è rimasta sotto le mani esperte dei truccatori per 3 ore, questo ogni mattina.
Tim Burton voleva che i personaggi degli animali sembrassero reali e non dei cartoni animati.
Per creare Bianconiglio, gli animatori hanno passato una giornata in un rifugio per conigli abbandonati, i digital artist così hanno potuto osservare questi animali e filmarli per riuscire a catturare i dettagli che sono stati poi riportati nel film.
Il regista ha scelto di girare il film in 2D e di convertirlo in un secondo momento in formato 3D. Egli è rimasto così tanto impressionato dal risultato ottenuto con la conversione in 3D di “The Nightmare Before Christmas”, da voler seguire un percorso simile per “Alice in Wonderland”.
Ralston e il suo team hanno realizzato complessivamente oltre 2.500 riprese di effetti speciali.
Per questo film sono state usate molte tecniche di animazione digitale: è stato usato il motion-capture, che ha dato la possibilità agli animatori di modellare i veri attori in postproduzione, come il Brucaliffo; alcuni attori, invece, come il Cappellaio Matto, non hanno interagito live con attori o elementi di scena reali, per rappresentare
sul set i personaggi e oggetti in 3d, la produzione ha utilizzato figure di cartone, modelli a grandezza naturale oppure è ricorsa all’utilizzo di uomini vestiti di verde che hanno avuto la funzione di diventare veri e propri punti di riferimento a cui gli attori potevano rivolgersi durante la recitazione, ovviamente vestiti di verde per non apparire nella scena venendo “eliminati” in postproduzione con software particolari. Nella scena in cui la regina rossa si rivolge ad una rana in cartone, o in quella in cui i due personaggi si affacciano da una balconata verde, o ancora nella scena del Cappellaio Matto con il Fante intorno alla tavola e la persona seduta a tavola con la tuta verde, sono alcuni riferimenti che hanno aiutato gli attori a recitare nel “nulla”.
Per la creazione dei personaggi in digitale, la Imageworks è partita dai disegni dello storyboard creando poi una prima versione a bassa risoluzione del personaggio e inserendolo in un’ambientazione tutto in digitale. Dopo aver creato l’animazione, è stata composta una versione ad alta risoluzione del personaggio, verificata su un modello più dettagliato, “pit render”.
Quando gli animatori hanno studiato le fotografie di veri bruchi per realizzare il Brucaliffo, si sono resi conto che questi animali sono coperti di piccoli peli. Perciò Absolem, il Brucaliffo è arricchito da una peluria completamente generata al computer.
Sono molti i set reali che sono stati costruiti per il Paese delle meraviglie. Infatti, solo tre versioni del Salone Circolare (dove Alice atterra dopo essere caduta nella tana del coniglio) e la prigione erano set reali. Tutto il resto è stato creato digitalmente. Gli occhi del Cappellaio Matto sono stati leggermente allargati, fino a ingrandirli del 10-15% rispetto a quelli di Johnny Depp.
Quando gli animatori hanno cominciato a disegnare il Dodo, essi hanno prima svolto ricerche su Google, e poi hanno consultato il Museo di Storia Naturale di Londra.
Per far si che la testa della regina rossa venisse raddoppiata, in postproduzione, senza perdere la qualità del girato stesso, è stata utilizzata la Dalsa, una cinepresa speciale 4K ad altissima definizione e con una risoluzione di 4000 pixel. Anche la vita e l’attaccatura dei capelli sono stati modificati in digitale.
Allora a questo punto ci domandiamo quale è la novità introdotta in “Alice Nel Paese delle Meraviglie”: essa è l’uso della Disney Digital 3D, tecnologia utilizzata anche per la versione rimasterizzata di The Night Before Christmas originariamente girato col metodo stop-motion (si fotografano manualmente modellini a tre dimensioni). Tale innovazione digitale, invece, rende tridimensionali le figure proiettate su schermi speciali e nelle intenzioni di Tim Burton vuole essere un valido strumento per rappresentare l’immaginario fantasy.
Disney Digital 3D non va confuso con RealD o altri sistemi di proiezione 3D, poiché è esclusivamente un metodo di produzione dei film, non di proiezione. I prodotti realizzati con questo sistema, infatti, possono essere proiettati con RealD, ExpanD, Master Image e Dolby 3D.
http://animation3d.wordpress.com/
Contenuti speciali del DVD del film
CONCLUSIONI
Analizzati gli indizi, verificate le prove, è ormai risaputo che siamo nel bel mezzo di una radicale trasformazione del modo e delle possibilità di fare cinema; una rivoluzione attuata attraverso un repentino cambio di direzione e di marcia e provocata dalla somma di tre fattori scatenanti: una violenta accelerazione del ritmo del racconto, l’improvviso rimescolarsi e ridefinirsi dei generi e delle tecniche del cinema, e le raggiunte capacità del digitale di rappresentare qualsiasi cosa.
Si continuano a vedere controcampi, carrellate, zoom e soggettive a tutto spiano, basta andare al cinema o fare un giro per i canali TV. Inoltre è ancora indispensabile conoscere le regole prima di giocarci o metterle in discussione: «la tecnica elimina i mediocri, sfrutta il talento medio ed esalta il genio», diceva il mimo Etienne Decroux, ed è un motto ancora persuasivo anche se un po’ snob. Però non si può negare che molte regole del racconto cinematografico che un tempo sembravano assolute, oggi possono essere ignorate, aggirate o ribaltate. Il tempo può andare avanti e indietro senza una logica apparente, il montaggio può infischiarsene delle regole del campo-controcampo e di tutte quelle che riguardano l’alternanza dei piani: si possono montare di seguito tre o quattro primi piani dello stesso attore o scavalcare il campo di continuo, e tutto questo con la complicità degli spettatori che sono in grado di seguire le bizzarrie degli autori senza scomporsi troppo.
Questi esperimenti non sono una novità assoluta, possiamo trovarne di analoghi anche molto indietro nel tempo, ma oggi, a differenza che in passato, non si presentano come originalissime deviazioni della norma ma come una possibilità in più che nasce dall’aumento delle tecniche espressive e dal loro rimescolamento.
Come nella musica, così nel cinema è in atto una furiosa contaminazione dei generi e delle tecniche del racconto per immagini. Quelle del cinema classico si mescolano sempre più spesso con quelle dei film d’autore o dei film sperimentali, dei video clip, della pubblicità e dei giochi della diabolica Playstation. E sopra tutto ciò planano le possibilità illimitate degli effetti visuali.
Insomma, siamo in piena sperimentazione.
“Narrare con le immagini”, Paolo Morales, Dino Audino Editore, 2004
DESCRIZIONE DEL PROGETTO: MATRIOSKA
MATRIOSKA (Cortometraggio di tesi)
Nel creare questo film mi sono ispirata a Tim Burton perché rappresenta esattamente il mio modo di vedere la realtà. Il suo cinema è la forza del racconto e non importa se ciò che racconta è vero o è falso, il punto sta nel piacere di raccontare. La sua poetica è una specie di manifesto sulla forza del racconto in cui si mescola la realtà con l'immaginario. Questa caratteristica la troviamo soprattutto nei momenti in cui si passa dalla live action al rotoscope che rappresenta l’immaginario creatosi dall’assurda e alquanto inquietante situazione di disagio, soprattutto psicologico, in cui si trovano le tre ragazze.
A differenza del maestro Burton, però, ci tenevo a non creare una narrazione debole, cioè desideravo che si attivasse il cosiddetto meccanismo di identificazione nel pubblico con la protagonista, perché gli eventi inattesi che si susseguono per tutta la durata del corto rischiano già di sconvolgerlo a tal punto da allontanarlo dalla narrazione.
Matrioska è il titolo del cortometraggio di undici minuti che ho realizzato con l’intento di raccontare una storia capace di spiazzare dall’inizio alla fine le aspettative dello spettatore.
Il racconto è suddiviso in tre parti: la prima di fiction, la seconda è il backstage del cortometraggio e la terza è il momento live della discussione della tesi sul tema dell’inatteso.
Nella prima parte viene raccontata la storia di una ragazza che credendo di aver preso il solito treno, si ritrova bloccata in una stazione mai vista di un paese deserto non molto lontano e di cui non conosce nemmeno l’esistenza. Sembra un luogo abbandonato: in giro non c’è un’anima viva, le strade sono deserte e malconce e un enorme edificio è bruciato. Il suo spaesamento e la tensione aumentano sempre di più, fino a quando incontra altre due ragazze nella sua stessa situazione e l’unica soluzione per tornare indietro è prendere un passaggio da uno sconosciuto all’apparenza poco raccomandabile. Nella parte del backstage del cortometraggio la regista racconta vari episodi inattesi verificatisi nella fase di pre-produzione e produzione.
Il filo conduttore del film è l’inatteso nei diversi modi di emozionare lo spettatore: dalla storia di fiction e l’identificazione con la protagonista, alla scoperta delle difficoltà avute nel girare il film e, infine, con il momento live della discussione della tesi lo svelamento di tutte le stranezze, viste fino a quel momento, del linguaggio cinematografico utilizzato.
Obiettivi, risultati raggiunti e fasi del progetto
La storia di fiction è liberamente ispirata ad una vicenda che ho vissuto in prima persona.
“Concluso il terzo anno di scuola secondaria superiore, come tutte le mattine di quel mese estivo, mi dirigo allo stage in un paese quasi limitrofo.
Arrivata in stazione noto con stupore che il mio treno è stranamente in anticipo e mi insospettisco; chiedo ad un ferroviere se è quello giusto e, dopo la sua conferma, mi lancio sopra l’istante prima che chiudono le porte.
Trovo un posto a sedere e mi rilasso, ma nel momento in cui so che il treno dovrebbe rallentare, noto con stupore che invece accelera. Decido allora di scendere alla prima fermata e, con fatica, trovo un ufficio per chiedere informazioni. Scopro così che il treno su cui sono salita è quello che passava prima del mio, che non effettuava tutte le fermate e che era in ritardo; quel giorno il mio è stato soppresso a causa dello sciopero dei mezzi.
La cosa assurda di tutta questa storia è che lo sciopero sarebbe durato fino alle ore diciotto di quella sera e che non avrei trovato altri mezzi per tornare indietro. Mi accorgo subito di non essere la sola in quella condizione e un po’ mi rassereno.
Faccio conoscenza con altre due ragazze che hanno fatto il mio stesso errore e insieme usciamo dalla stazione. Percorriamo il lungo sottopassaggio cercando di capire quale delle tante uscite dovremmo prendere per uscire da quella stazione, ne proviamo un paio e riusciamo finalmente a ritrovarci in una piazza che, oltre ad essere deserta, ha un grande edificio bruciato e abbandonato.
Una ragazza va a cercare un edicola per chiedere se ci sono mezzi che potremmo prendere per tornare a destinazione e, nel frattempo, io e l’altra notiamo la stranezza di un signore barbuto, seduto sul baule aperto di un’auto bianca e vissuta che tenta di stonare qualche nota con la sua chitarra.
Ci fa sorridere ma, in fondo tutte e due non riusciamo a credere di essere proprio noi in quella situazione, e quell’uomo di certo non ci aiuta a stare più tranquille. Mi ricordo di dover avvisare l’ufficio del mio ritardo ma non ho il numero. Telefono allora a mia mamma spiegandole brevemente la situazione e delegando a lei il compito. Parlarne non mi fa sentire più tranquilla, anzi.
La situazione si complica appena arriva la ragazza ad informarci che non ci sono mezzi che potrebbero riportarci indietro. È tutto fermo. Ci guardiamo in giro e a tutte scatta la stessa idea, d'altronde non abbiamo alternative. Lo strano signore poco più distante da noi potrebbe darci u na mano. Controllo il portafogli: ho solo dieci euro. Il pensiero che non mi bastino aumenta l’ansia e le preoccupazioni.
Non ricordo esattamente se quell’auto aveva la scritta taxi e il tassametro ma probabilmente si; la cosa che ricordo ancora molto bene è che l’apparenza non l’aiutava. Ma come si suol dire… l’abito non fa il monaco. Per fortuna non è soltanto un detto. Quel signore è gentilissimo e nell’accompagnarci noto con piacere che non è nemmeno una persona burbera.
Nella mia testa durante il tragitto, però, echeggiano tutte le strane sensazioni di quell’insolita vicenda come quando in un film i pensieri o ciò che non sai distinguere dal vero si materializzano visivamente. Io mi sento proprio la protagonista di quel film. E per me, che non per forza un film per piacermi deve avere un lieto fine, questa volta è diverso.
Arrivati a destinazione scopro con piacere che i soldi mi bastano, entro in ufficio e tutti sono curiosi di sapere quello che mi è successo”.
Ho iniziato a scrivere la sceneggiatura di questa storia al primo anno accademico; volevo che il film che avevo in testa si concretizzasse in un cortometraggio ma non avevo ancora le capacità tecniche per farlo come avrei voluto.
Nel corso dei tre anni, con la supervisione del professore di Storia del Cinema e Sceneggiatura, la storia si è evoluta sempre di più. Con il suo aiuto ho imparato a non fissarmi sulla realtà dei fatti e a lasciarmi andare con la fantasia. Il risultato è stato più soddisfacente e gratificante di quello che avevo immaginato all’inizio.
Al terzo anno ero arrivata alla nona e ultima stesura del copione.
Ho superato un iniziale scoraggiamento dovuto ai limitati mezzi tecnici che l’Accademia era in grado di mettermi a disposizione (avevo solo una videocamera semi professionale, fortunatamente HD, la Panasonic B171 P2, e una giraffa col pelo) e mi sono rimboccata le maniche per organizzare un piano di produzione, cercare le location e gli attori.
Un pensiero di Hitchcock mi era rimasto ben in mente. Il maestro del cinema riteneva che non è un alto budget a rendere buono un film, e convinta della sensatezza di questo mi sono incoraggiata al pensiero di non avere nemmeno un budget.
Fortunatamente nel corso degli anni ho trovato persone con cui lavoro bene in team ed ero sicura che le stesse avremmo formato una buona troupe. Avevo dato ad ognuno il compito più appropriato; alcuni di loro mi hanno aiutata nei casting e, fortunatamente, ho trovato tutto quello che cercavo.
Le grosse difficoltà sono arrivate quando cercavo un’automobile particolare, antica e non tenuta benissimo. Avevo bisogno che si riconoscesse per tutto il film e quindi un’auto anonima non sarebbe andata bene.
La grande capacità che deve avere un regista è anche sapersi adattare ai mezzi che si hanno a disposizione e, se si ha un’idea ben chiara del risultato che si vuole raggiungere, non è così semplice. Avevo trovato una Cinquecento rossa degli anni settanta, era perfetta.
Il problema è stato che qualche mese prima di iniziare le riprese quell’auto era stata venduta. Ero disperata perché non era semplice trovarne una uguale e ho dovuto inventarmi una soluzione alternativa. Mi sono quindi concentrata sul colore e non più sulla particolarità e l’anno del modello e avevo trovato un’auto rossa che andava comunque bene, anche se non era perfetta.
Solo allora capivo quanto era difficoltoso il lavoro di pre-produzione di un film che dura appena dieci minuti.
Sempre poco prima dell’inizio delle riprese ho dovuto affrontare un altro imprevisto: una delle attrici si era ritirata. Nella sfortuna però, ero stata fortunata: ero riuscita senza fatica a sostituirla con un’altra.
La fase successiva, e anche una delle più importanti, è stata immaginarmi ogni singola inquadratura e singolo raccordo e collaborare con lo storyboarder per dare forma ai miei pensieri.
Nel piano di produzione avevo organizzato tutte le giornate di ripresa cercando di immaginare il tempo che avrei impiegato per ogni singola inquadratura che quasi mai riuscivo a rispettare. D’altronde nel riprendere in esterna bisogna aspettarsi di tutto: dai passanti alla gente curiosa, dal treno che passa ai rumori d’ambiente, sono alcuni fattori che influiscono sul tempo che hai a disposizione. Ho impiegato quindi qualche giornata in più di quella prevista e, muniti di tanta pazienza, non abbiamo perso un attimo.
L’ultima grande fase, quella di post-produzione, l’abbiamo iniziata in contemporanea con quella di produzione, ma proprio quasi alla fine di tutto il montaggio della parte di fiction è arrivata la batosta: avevo perso tutti i lavori nel computer. Il modo in cui è successo è una storia lunga, ma ciò che mi preme dire è che oltre al bisogno di tanta fortuna, la cosa indispensabile per non buttare la spugna e arrendersi è il carattere. Soprattutto in quella situazione il mio era stato messo alla prova e in una settimana avevo recuperato quasi tutto. Ho dovuto rifare solo una scena che è uscita anche meglio della prima volta in cui l’avevo girata. Forse perché nella sfortuna, se sfrutti tutto quello che hai per non cadere, un minimo di fortuna ti deve venire incontro.
Il mio principale obiettivo di questo progetto era riuscire a creare un film che mi soddisfacesse ma soprattutto che emozionasse il pubblico. Saprò se avrò raggiunto il mio obiettivo soltanto dal momento in cui discuterò la tesi.
Impegnandomi a pieno in questo lavoro ho voluto mettermi alla prova. Fin da bambina ero incuriosita dagli effetti speciali, non mi limitavo ad osservarli ma sorgevano in me sempre più domande su come erano stati fatti. Paragonavo il lavoro del compositor a quello di un mago in grado di trasformare i sogni e l’immaginario in realtà. Anche se nei film la realtà non esiste non conta, perché ciò che ci emoziona di più è ciò che ci sembra più vero ed è qui che il livello onirico si confonde con quello reale.
Questa è la vera magia che sono riuscita a fare: riuscire a tradurre tutto ciò che avevo in mente, e che nella realtà non trovavo, in qualcosa di visibile.
Figure e relative funzioni (le figure utilizzate e cosa facevano nello specifico per partecipare al progetto)
Io mi sono occupata della sceneggiatura, regia, location e tutta la fase di post-produzione.
I componenti del team di lavoro sono stati:
• Storyboarder = Davide Guddemi;
• Operatore = Andrea Caiazzo;
• Assistente alla regia = Claudia Chiatellino;
• Direttore della fotografia = Federico Lamastra;
• Segretaria di edizione e ciackista = Claudia Reginella.
FONTI
BIBLIOGRAFIA
• “Manuale del Film. Linguaggio, racconto, analisi”, Gianni Rondolino e Dario Tomasi, Utet, 2007
• “Narrare con le immagini”, Paolo Morales, Dino Audino Editore, 2004
• “Il cinema secondo Hitchcock”, Francois Truffaut, Net, Saggi, 2002
• “Il linguaggio del cinema, significazione e retorica”, Roberto C.Provenzano, Lupetti, 1999
• “Gli effetti speciali. Forma e ossessione del cinema”, Réjane Hamus-Valléè, Lindau, 2006
SITOGRAFIA
• http://www.deagostiniedicola.it/frontend/content.asp?artID=132&prodID=52
• http://www.cinemadelsilenzio.it/index.php?mod=film&id=4751
• http://www.rosencrantz.it/Cinema/Film/Il%20sesto%20senso/ilsestosenso.html
• www.familycinema.tv
• http://www.imdb.it/title/tt0451094/externalreviews
• http://animation3d.wordpress.com/
• http://www.opinionepersonale.it/il-miglior-film-dellanno-inception/
• http://www.osservatoriesterni.it/index.php?option=com_content&task=view&id=739&Itemid=28
• http://www.mymovies.it/film/2001/mulhollanddrive/
• http://it.wikipedia.org/wiki/Memento
• http://it.wikipedia.org/wiki/Lady_Vendetta
• http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=47208&film=Alice-in-Wonderland
• http://www.amazon.it/Assassini-Nati-Natural-Born-Killers/dp/B001WPOM3I
• http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=846&film=Avatar
• http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=3357&film=IL-SESTO-SENSO
• http://www.hyperreview.com/Kill%20Bill%20-%20Volume%202.htm
• http://trovacinema.repubblica.it/film/pulp-fiction/121437?speciale=cannes2008
FILMOGRAFIA
• “Alice in Wonderland”, Tim Burton, 2010
La diciannovenne Alice dopo tanti anni torna nel mondo incantato da lei visitato quando era bambina; lì ritrova i suoi indimenticabili amici d'infanzia: il Coniglio Bianco, Pinco Panco e Panco Pinco, Toperchio, il Brucaliffo, lo Stregatto, e ovviamente, il Cappellaio Matto. Alice intraprende un nuovo, fantastico viaggio alla ricerca del suo destino e per porre fine al terrorizzante regno della Regina Rossa.
• “Assassini nati” (“Natural Born Killer”), Oliver Stone, 1994
Mickey e Mallory sono giovani ed hanno un'infanzia di violenza alle spalle: Mallory è stata violentata per anni dal padre, e Mickey ha visto suo padre spararsi spappolandosi il cranio. I due, dopo aver massacrato padre e madre di Mallory, si sono sposati in automobile celebrando il rito su un ponte. Uccidono per il piacere di farlo, decidendo a caso, volta per volta, o spinti dalla necessità di eliminare un poliziotto "molesto", o un corteggiatore della provocante giovane che è diventato troppo audace. Il cronista televisivo Wayne Gale, che ha creato la serie "American Maniacs", li ha resi celebri con un serial basato sulle loro imprese. L'unico omicidio che amareggia i due è quello di un vecchio indiano che li ha ospitati, uno sciamano ucciso per errore, perché aveva visto il demonio in Mickey e lo stava aspettando. Il poliziotto Jack Scagnetti, che ha perso la madre uccisa da un folle omicida, riesce a catturare i due. Al processo la folla simpatizza per i due assassini, che in carcere continuano la loro attività non appena ne hanno l'occasione: Mallory riesce addirittura ad uccidere il suo psichiatra. Frattanto Gale cerca di realizzare lo scoop della sua vita: intervistare Mickey prima che venga lobotomizzato. Il direttore del carcere McClusky, decide di trasferire i due, affidandoli a Scagnetti. Mentre Mickey rilascia l'intervista, Scagnetti si fa rinchiudere in cella con Mallory e tenta di sedurla, ma viene violentemente malmenato. Nel contempo avviene una rivolta nel carcere: Mickey disarma le guardie e, liberata Mallory e con Gale in ostaggio, riesce a fuggire. Dopo aver ucciso Gale, Mickey e Mallory si ricostruiscono una vita, mettendo al mondo dei bambini.
• “Avatar”, James Cameron, 2009
Entriamo in questo mondo alieno attraverso gli occhi di Jake Sully, un ex Marine costretto a vivere sulla sedia a rotelle. Nonostante il suo corpo martoriato, Jake nel profondo è ancora un combattente. E' stato reclutato per viaggiare anni luce sino all'avamposto umano su Pandora, dove alcune società stanno estraendo un raro minerale che è la chiave per risolvere la crisi energetica sulla Terra. Poiché l'atmosfera di Pandora è tossica, è stato creato il Programma Avatar, in cui i "piloti" umani collegano le loro coscienze ad un avatar, un corpo organico controllato a distanza che può sopravvivere nell'atmosfera letale. Questi avatar sono degli ibridi geneticamente sviluppati dal DNA umano unito al DNA dei nativi di Pandora... i Na’vi. Rinato nel suo corpo di Avatar, Jake può camminare nuovamente. Gli viene affidata la missione di infiltrarsi tra i Na'vi che sono diventati l'ostacolo maggiore per l'estrazione del prezioso minerale. Ma una bellissima donna Na'vi, Neytiri, salva la vita a Jake, e questo cambia tutto.
• “Il sesto senso”
Malcolm è uno psicologo infantile molto stimato. La sera in cui è a casa con la moglie a leggere la targa onorifica che la città di Filadelfia ha voluto regalargli, dal bagno arriva un rumore. Vincent, da bambino paziente del dottore ed oggi adulto, ritiene di aver subito un torto di cui vuole vendicarsi. Estrae una pistola, spara a Malcolm e poi a se stesso. L'autunno seguente Malcolm deve occuparsi del caso del piccolo Cole, nove anni, ossessionato da spaventose apparizioni di spiriti. Malcolm ha un primo colloquio con lui in chiesa, poi i due si rivedono a casa, dove la mamma Lynn cerca di tenere il figlio più protetto possibile. Dopo una reticenza iniziale, Malcolm acquista la fiducia di Cole, che gli confida esattamente le sue sensazioni: sia quando è fuori sia quando è a casa, Cole 'vede' anime tormentate di morti che si materializzano nelle sue vicinanze, e con loro riesce a parlare. Spaventato da questo potere, Cole si affida allo psicologo, mentre la madre passa dalla paura allo sconforto e non sempre riesce a controllarsi. Ad un certo momento il rapporto tra i due sembra diventare di reciproco scambio. Malcolm è in grado di accostare la realtà di Cole, perché è anch'egli un'anima defunta. Quando Cole sembra ormai avviato a guarigione, Malcolm torna a casa dalla moglie che è a letto. "Dormi adesso - le dice - sarà tutto diverso domani mattina". E sul video scorrono le immagini del loro matrimonio.
• “Kill Bill”: Volumi 1 e 2, Quentin Tarantino, 2003
Bill è il capo di una banda di donne killer. Il giorno delle nozze ucciderà la sua sposa. O meglio crederà di averlo fatto, ma in realtà la ragazza rimane in coma per cinque anni e quando si sveglierà avrà un solo obiettivo...
• “Lady Vendetta”, Park Chan-Wook, 2005
Geum-ja è una donna che diventa il polo d'attrazione dei media dopo essere stata accusata del rapimento e dell'uccisione di un bambino. La donna, allora ventenne, confessa il reato dopo essere stata ricattata dal vero rapitore, Mr. Baek, di cui è amante. Viene così condannata a 13 anni di prigione, che sconta trasformandosi in una specie di santa: diventa una donna così buona e disponibile che presto prende l'appellativo di "dolce Geum-Ja". Frequenta la chiesa e aiuta le sue compagne di cella più anziane e deboli.
Ma dopo la scarcerazione indossa una nuova maschera, mettendo in mostra il suo lato oscuro, l'ideale per vendicarsi: appena uscita di prigione si allontana dal prete che l'aveva sostenuta per 13 anni e inizia il suo cammino di vendetta per uccidere Mr. Baek, l'uomo che l'aveva incastrata. Mano a mano si scopre che la sua bontà in carcere rispondeva ad un disegno; aiutando le compagne, Geum-ja ha intessuto una vasta rete di alleanze, che sfrutta per vendicarsi di Mr. Baek e per rendere giustizia ai numerosi bambini che questi ha ucciso nel corso degli anni.
• “Memento”, Christopher Nolan, 2000
Leonard Shelby, tentando di salvare la moglie da due malviventi, rimane gravemente ferito alla testa; tale trauma gli causa l'impossibilità di accumulare nuovi ricordi, che svaniscono dalla sua mente pochi minuti dopo averli acquisiti. Dal momento dell'incidente, che resta anche l'ultimo ricordo fissato nella sua memoria, l'unico scopo nella sua vita è trovare e punire l'uomo che ha violentato e ucciso sua moglie. Determinato e consapevole del suo problema, prende appunti e fotografa con la Polaroid tutto quello che gli può essere utile e che dimenticherà dopo pochi minuti. Il suo corpo è pieno di tatuaggi sui quali appunta gli avvenimenti e i dati più importanti nella ricerca del colpevole.
• “Mullholland Drive”, David Lynch, 2001
Mulholland Drive è una lunga e vecchia strada di Los Angeles: nasce nel deserto, attraversa i quartieri ricchi e finisce a strapiombo sulla costa di Malibù. Bisognerebbe ricordarsi di questa simbologia per cercare di dare un senso all'ultimo onirico ed enigmatico film di David Lynch. Quella che il regista stesso ha definito come "una semplice storia d'amore nella città dei sogni" è in realtà un intricato enigma sospeso tra allucinazione e realtà, con un tocco di nostalgia per il noir degli anni '40 ed una aperta ostilità verso l'attuale star system. Rita è un'avvenente bruna sopravvissuta ad un incidente d'auto in seguito al quale ha però perso la memoria, Betty un'aspirante attrice di belle speranze che la ospita nel proprio appartamento e se ne innamora. Le due protagoniste cercano di far luce sull'amnesia di Rita, per scoprire che in realtà niente è come sembra... Film astratto, con una straordinaria potenza visiva, è nello stesso tempo affascinante e disturbante. Difficile trovare una chiave di lettura razionale. E difficile descriverlo. Seguendo il linguaggio dei sogni voluto dal regista, bisognerebbe limitarsi a viverne le emozioni.
• “Pulp Fiction”, Quentin Tarantino, 1994
Quattro storie di violenza s'intersecano in una struttura circolare che si chiude con un ritorno all'inizio: 1) due balordi si accingono a fare una rapina in una tavola calda; 2) due sicari recuperano una valigetta preziosa, puliscono la loro auto, insozzata dal sangue e dal cervello di un uomo ucciso per sbaglio, con l'aiuto di Mr. Wolf, l'uomo che risolve problemi, e vanno a mangiare proprio nella tavola calda della rapina; 3) uno dei due sicari deve portare a ballare Mia, moglie del capo, che, scambiata eroina per cocaina, va in overdose; 4) il pugile Butch contravviene ai patti, vince un incontro che doveva perdere e scappa con la borsa. Ispirato a quella narrativa popolare di ambiente criminale che, dagli anni '30 e '40, era pubblicata dai pulp magazines, il 2 film di Q. Tarantino (1963) procede sul filo di un'irridente ironia, di un efferato umorismo nero, di una dialettica tra buffonesco e tragico (tra fun e funesto) che mettono azioni, gesti e personaggi come tra parentesi, in corsivo, anche quando, come nel torvo episodio della sodomizzazione, questo film divertente e caustico dai dialoghi irresistibili penetra nell'abominio del male. Vietato in Italia ai minori di 18 anni. Divenne in pochi mesi oggetto di culto: in un referendum del Saturday Times (aprile 1995) fu votato come il 7 miglior film della storia del cinema.
• “The Other”, Alejandro Amenábar, 2001
Siamo nel 1945, nelle Channel Islands, Jersey. Una sontuosa casa immersa di campagna ospita Grace (Nicole Kidman) ed i suoi due figli Anna (Alakina Mann) e Nicholas (James Bentley). In attesa del ritorno del marito dalla guerra, la donna assume degli inservienti per tenere la casa ed essere aiutata nell'accudire i figli, affetti da una particolare malattia della luce. Ogni stanza deve essere mantenuta nell'oscurità. La piccola Anna comincia ad avvertire strane presenze in casa e Grace, dopo un'iniziale scetticismo, si fa coinvolgere.
Fonte: http://www.barri.altervista.org/Download/ValentinaBarreca_ELABORATO_DI_TESI.doc
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Autore del testo: V.Santa Barreca
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