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RIASSUNTO DELLE LEZIONI INTRODUTTIVE DEL CORSO
“Momenti dell’horror americano contemporaneo. Autorialità e genere”
Molto schematicamente il cinema classico americano si basa su quattro assunti fondamentali: lo Studio-System, lo Star-System, il Codice Hays e la strutturazione in generi.
Due parole su Codice Hays e Star-System:
a) il “Production Code” (Codice di Produzione) di “autoregolamentazione” della industria cinematografica, è passato alla Storia del cinema come il codice Hays, dal nome del personaggio politico repubblicano, il senatore William Harrinson Hays (1879-1954) che ha diretto sino alla sua morte con implacabile fermezza questo ufficio di auto-censura dell’industria hollywoodiana. Il Codice, estremamente preciso e maniacalmente dettagliato riguardo alla rappresentazione della violenza, del sesso e della devianza sessuale, venne reso vincolante nel 1934 dalla associazione dei produttori americani, la MPAA, che apponeva un visto ai film stessi. Per facilitare il compito dei produttori venne istituito un apposito ufficio dove si esaminavano le sceneggiature e si suggerivano i tagli ai film prima di farli uscire. Il Codice rimase operante in modo tassativo nel cinema americano sino all’inizio degli anni Cinquanta, quando cominciarono le prime infrazione e poi via via venne abbandonato per essere tacitamente abrogato alla metà degli anni 60. Nato per evitare un diretto intervento censorio da parte dello Stato centrale, più volte richiesto su sollecitazioni della cattolica “National Legion of Decency” (“Lega della decenza”, fondata nel 1933), ha avuto, paradossalmente, il risultato indiretto di formare una segreta “lingua degli schiavi”, con cui il cinema ha progredito nel suo linguaggio visuale ed non esplicito. Al posto di mostrare, si suggerivano delle idee e dei concetti che si andavano quindi a formare nella testa dello spettatore, chiamato così ad un ruolo attivo nella fruizione della storia per immagini.
B) lo Star-System: la nascita di un divismo di massa con un firmamento delle star è stato assolutamente necessario per far funzionare un’industria serializzata che ambiva a conquistare i mercati di tutto il mondo.
Dovremo spendere qualche parola in più, invece, per due concetti molto importanti come lo Studio-System e la strutturazione per generi, visto che questo anno il corso verte proprio su un genere.
A differenza di quello Europeo, il sistema produttivo del cinema americano classico, detto Studio-System, che inizia negli anni Dieci e continua ancor oggi, si basa su un pugno di grandi ditte di fabbricazioni di film, le cosiddette Major Companies. Esse nel periodo classico (che arriva a sfiorare gli anni Sessanta) erano le cosiddette Big Five (Paramount, MGM, 20Th Century Fox, Warner Bros. e RKO, acronimo di Radio Keith-Orpheum) e le Little Three (United Artists, Universal, Columbia) a cui si aggiungeva poi uno studio anomalo che faceva solo film d’animazione, la Walt Disney. La principale differenza trai due gruppi stava nel fatto che le Big Five possedevano proprie catene di sale, le Little Three no. Il sistema della Major era monopolistico o meglio oligopolistico, con qualche piccolo spazio di manovra: abbiamo così ancora delle case di produzioni minori, formamlmente “indipendenti”, specializzate in film a low budget, gli Studi della cosiddetta Poverty Row (Strada della miseria) come: la Monogram, la Republic o la PRC (Producers Releasing Corporation). Inoltre esisteva un potentissimo Producer come David O. Selznik, proprietario di un proprio Studio, il quale, tra l’altro, ha prodotto Gone with the Wind (Via col vento, 1939), il film-simbolo per antonomasia di Hollywood che è dunque, a rigor di termini, una produzione indipendente! Selznik era tanto forte da finanziarsi da solo i propri film, salvo poi appoggiarsi alle Major per la distribuzione (in pratica come facevano le Little Three). Oltre a mitici “Tycoon” come Samuel Goldwyn o Irving Thalberg, troviamo dei produttori minori come Walter Wanger o Hal Wallis che curavano i loro progetti dentro le strutture delle Major; oppure esistevano anche delle società di produzione fondate singolarmente o in gruppo da attori o registi (Capra, Wyler, Bogart, Ford, ecc.) per poter tutelare meglio le proprie possibilità espressive dentro Hollywood. Insomma il sistema era inesorabilmente “chiuso” ma possedeva anche, al proprio interno qualche margine di manovra – infinitamente minori, comunque, rispetto a quelli di oggi, dove tra i cosiddetti indipendenti o “indi” (il cinema off-Hollywood, quello per esempio della Miramax o quello “artistico” dei cineasti newyorkesi come Woody Allen, Spike Lee, Jim Jarmush e tanti altri) e le Major californiane c’è un’ampia dialettica (e moltissimi scambi reciproci).
Il primo grosso colpo allo Studio-System si ebbe dopo la fine della II° guerra mondiale alla fine degli anni Quaranta: nel 1938 il Ministero della Giustizia americano aveva avviato una causa antitrust (chiamata il “Caso Paramount”) accusando tutte in blocco le otto Major (sia quelle con le catene di sale, sia le Little Three) di pratiche monopolistiche e di bloccare il mercato agli indipendenti. Dieci anni dopo nel 1948 si giunse alla sentenza definitiva dopo una lunga serie di patteggiamenti e di manovre legali: la Majors, obtorto collo, accettarono con un consent decrees di abbandonare il possesso della catene di sale. Il sistema non cambiò “in modo sostanziale” – affermano gli storici Bordwell/Thompson - ma lo Studio-System accusò il colpo ed iniziò una lenta agonia. A partire dagli anni Cinquanta – sotto la spinta dunque di questo divieto antitrust e soprattutto della incalzante concorrenza televisiva - lo Studio-System classico (prima incamminatosi sulla via del rinnovamento tecnologico con i “wide screen”, vedi più avanti) comincia un inarrestabile declino, che lo porterà verso la fine degli anni Cinquanta ad una profonda mutazione antropologica: si viene a perdere la caratteristica di ditte a conduzione familiare o semifamiliare che producevano solo film, la “fabbrica di sogni”, tradizionale.
Oggi tutti gli Studios, le sigle di produzione e/o distribuzione, sono rimaste più o meno nominalmente le stesse: sono scomparse la RKO e la United Artist, altre sono nate come ad esempio la DreamWorks di Steven Spielberg - delle vecchie sigle di una volta ne restano in vita sei: la Paramount, il gruppo Time-Warner (una delle più liberal), la 20th Centhury Fox (dal 1985 fa parte dell’impero del magnate australiano Rupert Murdoch, lo stesso che possiede in Italia Sky), la Universal (la prima delle Major nel 1959, a parte il precedente fallimento della RKO, a perdere il carattere di potente azienda familiare indipendente), la Buena Vista (un colosso del settore che comprende la vecchia Walt Disney + la Touchstone + la Hollywood Pictures e che ha acquisito per un certo periodo la maggiore delle ditte indipendenti, la newyorkese Miramax); ed infine il gruppo Sony-Columbia (prima di proprietà della Coca Cola)-MGM (questa ultima comprata a caro prezzo qualche anno fa e strappata alla concorrenza del gruppo rivale Time-Warner).
L’aspetto più rilevante rispetto al passato è che tutte queste sigle sono parti, segmenti di multinazionali molte delle quali - con grande scorno degli americani – straniere (giapponesi o francesi) mentre ogni anno cambia qualcosa nei pacchetti azionari di queste Major. Oltre ad un nome glorioso le sigle sono importanti non tanto in sé e per sé o per i loro possedimenti (parchi giochi, gli Studi cine-televisivi veri e propri) quanto come possessori di diritti e di grandi library (che significa sfruttamento dell’ home-video, remake di vecchi film, ecc.) Perciò oggi, a guidare le Major non ci sono i vecchi, tradizionali produttori di cinema ma Executive, gente di Wall Street e del mondo dell’alta finanza che il più delle volte non ci capisce nulla di cinema, ma solo di transazione economiche e di pacchetti azionari – con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti…
In questa situazione le eccezioni sono, ad esempio, costituite dalla maggiore delle società indipendenti, la Miramax dei fratelli Weinstein, non a caso - insieme alla New Line (che oggi appartiene al gruppo Time-Warner) - la più fortunata e celebre delle ditte indipendenti. Prima integrata nella Buena Vista, la Miramax, a seguito di problemi sorti nella distribuzione di Fahrenheit 9/11 di Micheal Moore, il polemico documentario contro l’amministrazione Bush vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2004, si è sciolta dal contratto che la legava alla potentissima Major americana e si è di nuovo resa autonoma (ultimamente, però, ha perso molto smalto ed è ampiamente in crisi).
Un ultimo aspetto fondamentale da ricordare a proposito dello Studio-System è che la divisione in grandi Case di produzioni concorrenti ha portato anche ad una certa specializzazione degli Studi di Hollywood, anche se poi spesso tutti facevano tutto – magari con budget diversi. Ciò nonostante, a parte il caso di una Major sui generis come la Walt Disney dedita solo all’animazione, la Warner si era specializzata nel film sociali e di gangster, l’Universal nell’horror mentre la “regina” delle Big Five, la più ricca delle Major, la MGM, nei musical e nei drammi psicologici (i film con Greta Garbo, ad esempio). In questo sistema molto monolitico possiamo, però, notare ancora delle specializzazioni all’interno degli stessi Studi per l’emergere di singole personalità di Producer, ognuno dei quali all’interno dello Studio curava propri progetti: per esempio Val Lewton (di cui parleremo più avanti) alla RKO è stato nei primi anni Quaranta l’artefice della serie degli 11 b-movie di horror-fantasy a partire da Cat People/Il bacio della pantera di Jacques Tourner, oppure i musical supervisionati da Arthur Freed alla MGM diretti da Vincent Minnelli con la coppia Gene Kelly/Stanley Donen (Meet me in S. Louis; Il pirata/The Pirate, Singing in the Rain, ecc.).
Ma veniamo alla strutturazione per generi: in un film-saggio uscito in dvd, realizzato per il Centenario del cinema, A Personal Journey with Martin Scorsese Through American Movies (Un secolo di cinema - Viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese, 1995), Martin Scorsese, partendo dall’idea secondo cui il regista americano è un intrattenitore-narratore (Storyteller), costruisce un interessante parallelo con la musica: secondo lui i generi sono come delle variazioni musicali su un tema, le quali, quando vengano suonate da maestri, diventano opere d’arte.
Dobbiamo subito ricordare che il cinema americano funziona già a partire dagli anni Dieci del Novecento in quella strutturazione produttivo-linguistica che si chiama “genere” e ciò soprattutto per ragioni di carattere industriale. Il sistema dei generi o quanto meno delle categorie euristiche assimilabili a tale concetto, si fonda, infatti, come altre merci su una fondamentale premessa economica: la formula della standardizzazione/differenziazione – una regola banale del marketing e della pubblicità – e cioè non sconvolgere troppo il consumatore, dargli qualcosa di sempre diverso ma al tempo stesso sempre uguale. Cosa c’è di meglio, dunque, di offrire un prodotto che mantiene fissi determinati elementi e che varia solo per alcuni aspetti?
Studiare i generi cinematografici è fondamentale ed indispensabile per capire il cinema americano e non solo quello americano – ma la cosa non è affatto semplice e il terreno è irto di contraddizioni, come qui vedremo in estrema sintesi. Per molti studiosi e registi come ad esempio Martin Scorsese, i generi più interessanti del cinema americano sono quelli “autoctoni”, specificatamente nati all’interno della stessa cinematografia americana: il western in primis, il gangster-movie e il musical. Che per altro, a parte la commedia, la fantascienza e anche l’horror, sono anche i generi più facili da identificare anche intuitivamente.
Ma cerchiamo di andare per ordine: “genere” in inglese si dice genre ed è un’espressione presa dal francese che significa “tipo” o genere appunto. Secondo diversi studiosi il genere nasce dall’interazione di tre elementi fondanti: il plot (cioè l’intreccio, come è costruita una storia), il setting (l’ambientazione)e i characters (personaggi).
Al pari di tanti altri studiosi, Jaqueline Nacache afferma nel suo volume Il cinema classico hollywoodiano (Le Mani, 1996, pag. 21), che il concetto di genere, nato ai tempi dei greci con Platone e Aristotele, non ha la stessa vastità nel cinema che possiede nella retorica e poi in letteratura, e che esso piuttosto si avvicina alle classificazioni empiriche praticate nella letteratura popolare (poliziesco, sentimentale, fantastico, storico, ecc.). Il che non ci deve stupire, dato che il cinema delle origini tende ad imitare il feuilleton e la narrativa popolare ottocentesca avendo la stessa vocazione a rivolgersi ad un grande pubblico. Ad un primo approccio potremmo quindi dire che il genere si definisce tramite «l’obbligatorio e il proibito» (Marc Vernet citato da Nacache), cioè tramite una sorta di legge non scritta che è insieme inclusiva ed esclusiva: alcuni elementi distintivi devono essere necessariamente presenti (il cappellone da cow-boy nel western, per esempio, o altri oggetti scenici come il capotto e il cappello alla Humphrey Bogart per il noir), l’ambientazione (il west, lo spazio nella fantascienza, la metropoli per il poliziesco, ecc.), altri invece devono esservi assenti (nella commedia musicale e non, ad esempio, si debbono evitare le morti violente).
Inoltre la serialità e ripetitività dei cliché, la ricorrenza di determinati elementi e ingredienti produce e consolida di film in film il cosiddetto verosimile filmico, cioè quel effetto di realtà – tipico e indispensabile nel cinema - che ci permette di credere a determinate cose quando godiamo di uno spettacolo audiovisivo (per esempio nel western il codice d’onore dell’Eroe e il comportamento “selvaggio” degli indiani sono, almeno per tutto un periodo, fissi, immutabili perciò ricorrono, in maniera rituale, di film in film). Ovviamente le convenzioni di genere valgono sempre all’interno del genere stesso e non funzionano per altri (esempio in una commedia è quasi impossibile che un personaggio ridicolizzato da un altro lo uccida, mentre tutto ciò è assolutamente ovvio e scontato in un rissoso saloon del west; nel musical è assolutamente normale che la gente parli cantando, ecc. ). Il verosimile quindi diventa un elemento di forte coesione per il genere stesso e non è detto che tale verosimile rimanga immutato nel tempo che viceversa porta a mutare certi stereotipi. Da ciò quindi l’evolversi dei generi stessi e la loro trasformazione nei decenni che è un aspetto altrettanto fondamentale e decisivo.
Se adesso dai contenuti passiamo alla forma del film, i problemi, al posto di risolversi, si complicano ulteriormente: inquadrature spaziose non costituiscono la caratteristica solo del western ma anche dei film in costume, così come l’ambientazione chiusa e metropolitana non è appannaggio assoluto del poliziesco e del noir. Certo ci sono alcuni luoghi e spazi ben precisi che funzionano da “indicatori”: la Monument Valley per i film di John Ford; una certa New York notturna e piovosa per il gangster movie o il film noir, ecc. Tuttavia questi spazi costituiscono delle eccezioni. Secondo la Nacache e almeno per quanto riguarda il cinema classico, il metodo più sicuro “per identificare un genere consiste indubbiamente nell’analisi degli inizi del film” (dal logo della Major, ai titoli di testa, all’ambientazione, alla scaletta dei piani, ecc.) che diventano così degli “indicatori” di genere.
Tuttavia anche questi “indicatori” iniziali non risolvono il problema in modo decisivo e bisognerà concludere, che in ogni caso il concetto di genere è per lo meno labile, sul piano teorico. Qualcuno ha coniato una definizione che può servire a descrivere tale condizione di terrain vague: «il genere è ciò che collettivamente crediamo tale»; o come scrive Geoff King nel suo libro, La Nuova Hollywood (Einaudi, 2004, pag. 147) con una definizione che l’autore stesso definisce tautologica: «un genere è un tipo di film che è diventato riconoscibile come tale perché nel tempo un sufficiente numero di film sono stati fatti ed identificati in quel modo».
Insomma pur con uno statuto teorico labile il concetto di genere conserva una certa importanza euristica sia da un punto di vista storico, sia estetico-normativo, ma sopratutto produttivo. La ragione fondamentale da cui, sin dalle sue origini, è partita Hollywood per applicare alla produzione cinematografica la strutturazione in generi, è che se un film ha successo sarà copiato e ripetuto. Inizialmente si può parlare di un “ciclo” se la serie ha una vita breve o da luogo ad un numero relativamente limitato di opere (che so, per esempio, il film dell’agente segreto 007). Se invece la serie ha un carattere duratura allora abbiamo a che fare con un genere che tradizionalmente per Hollywood è uno dei canali prediletti di “prevendita” del prodotto cinematografico. Come per la letteratura popolare, gli Studios infatti hanno avuto la ragionevole convinzione che esiste sempre un pubblico per i generi popolari (horror, thriller, commedia romantica, ecc.) e che se ciò ha funzionato in passato, è ragionevole supporre che continuerà ad essere così anche in futuro. Se dunque guardate alla Storia del cinema hollywoodiano vedrete sempre che i film unici o molto originali ha sempre costituito una sparuta minoranza della produzione globale mentre si è sempre cercato di investire su prodotti sicuri e di successo – il che vale a maggior ragione per l’horror.
Un secondo aspetto centrale del problema è che un genere non è solo un corpus di film ma il prodotto delle aspettative del pubblico, un modo per cui il pubblico si orienta e sceglie quello che vuole vedere. Il che significa che “l’etichetta di un genere è una promessa implicita” (King, op. cit., pag.149) e proprio l’unione tra “familiarità e differenza offerta dai film di genere” provoca nel grande pubblico una sensazione di piacere che invece l’ignoto (il film unico e originale) tende a respingere.
Dunque proprio l’aspetto produttivo è all’origine del cinema di genere. A questo proposito, per quanto riguarda il cinema classico, le distinzioni di budget (in film di serie A e i B-movie) tocca ma solo marginalmente i generi, anche perché c’erano delle differenze all’interno delle stesse Major. Jacqueline Nachace ci ricorda una boutade secondo cui un B-movie alla MGM equivaleva a un film di grosso budget in altre case. In ogni caso i film noir erano di per sé, dal punto di vista del budget, dei b-movie perché richiedevano pochi sforzi economici mentre per esempio il western poteva essere di tutti i tipi. La distinzione dei generi tocca ovviamente anche il personale artistico - ci sono alcuni attori specializzati che si identificano anzi possono essere considerati dei veri e propri “indicatori” di genere: John Wayne nel western, Humphrey Bogart o Dan Duryea nel noir, Gene Kelly e Ginger Roger nel musical, ecc.. Il che vale anche per i grandi registi: come tutti i registi hollywoodiani John Ford non ha girato solo western ma voleva essere noto soprattutto per quelli, stesso discorso vale ad esempio per Billy Wilder che è stato identificato come regista di commedie.
Anche con tutti i limiti e le difficoltà concettuali a cui abbiamo accennato, l’analisi per generi resta tuttavia il “massimo comune denominatore” per studiare e apprezzare il cinema classico americano (ma anche quello moderno) e si potrebbe dire che praticamente la quasi totalità dei film girati a Hollywood appartengono ai generi e che tramite i generi si è creata quello che gli studiosi francesi definiscono la “Grande forma” hollywoodiana. Il che vale per tutti, dai generi più facilmente riconoscibili per ambientazione e codici (fantascienza, western, peplum, cappa e spada, ecc.), a quelli che hanno delle ramificazioni molto vaste e tante sottoclassificazioni - la commedia che per esempio nella Hollywood classica si divide in due sottogeneri principe: la screwball-commedy (o sofistiched-commedy) e la slapstik-comedy. In ogni caso, si impara moltissimo confrontando tutto un corpus di opere che si basano su un codice o su un assieme di codici, elementi retorici e stilistici simili - così che noi ad esempio possiamo immediatamente valutare l’importanza innovativa all’interno del western di un’opera come Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray oppure conoscendo bene la massa dei film-noir possiamo valutare in pieno la bellezza dei grandi capolavori o dei cosidetti film-prototipo: per esempio Il mistero del falco/The Maltese Falcon, John Huston, 1941 o La fiamma del peccato/Double Indemnity di Billy Wilder 1944 o ancora La donna del ritratto/Lady in the Window di F. Lang, 1944, ecc.
Oggi un film-prototipo è per esempio Matrix o Il Signore degli anelli per la loro grande capacità di influenzare l’immaginario cinematografico del pubblico e in particolare del pubblico dei giovani (che è quello che va al cinema).
Avviciniamoci allora ad una sintetica conclusione sul problema dei generi: sappiamo che i generi non sono fissi nel tempo e che anzi sono molto cambiati dall’era classica dove – anche se con qualche difficoltà di identificazione (un esempio per tutti Duel in the Sun/Duello al sole, 1946, megaproduzione di David O. Selznick, è insieme un western e un melodramma) – avevano grandi qualità di orientare pubblico e produzione. Viceversa oggi la situazione si è molto complicata. In maniera molto sintetica si potrebbe dire che se esistesse un’immaginaria borsa valori del cinema moderno americano: il musical e western sono praticamente spariti (qualcuno dice morti, altri preferiscono parlare di essere “in stand-by”); il melodramma è andato ad alimentare la fiction delle serie tv mentre sono diventati sempre più importanti quelli che una volta, in epoca classica, erano i generi minori spesso sempre più intrecciati tra di loro: l’horror, il giallo e la fantascienza. Possiamo aggiungere che il ruolo della commedia è rimasto più o meno invariato (il cosiddetto cinema demenziale fa anch’esso riferimento al passato: la Slapstik o per esempio Hellzapoppin’, 1941, di H.C. Potter) e che spesso il cinema d’autore (o di qualità) negli Stati Uniti si è esercitato dentro gli steccati dei generi. Con l’emergere anche di grandi paradossi: oggi girare un musical è diventata un’autentica rarità mentre è sempre più stretta l’integrazione tra l’industria cinematografica e quella discografica e l’importanza della musica nel cinema attuale (oltre al fenomeno dei tanti divi che fanno gli attori: Mick Jagger, Sting, Madonna, Bob Dylan, ecc.).
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Accenniamo ora alla trasformazione del modello produttivo di Hollywood con la nascita del fenomeno del cinema indipendente. Esso inizia in quel momento fondamentale di trasformazione del cinema che sono gli anni Cinquanta quando comincia ad entrare in crisi la Hollywood classica. La transizione è stata lunga fino ad arrivare alla metà degli anni Settanta quando è nata una “New New Hollywood” proprio con l’aiuto di alcuni registi indipendenti della nuova generazione come Steven Spielberg e George Lucas.
Sotto la spinta degli eventi, negli anni Cinquanta il cinema americano, tra l’altro, ha compiuto una grande rivoluzione, sviluppando l’estetica degli schermi larghi (wide screen), in primis il cinemascope a partire da La tunica (The Robe, 1953) diretto da Henry Koster. Ciò si accompagna ad un’altra fondamentale innovazione tecnologica: nel 1953 entra in produzione e viene commercializzata la pellicola negativa a colori della Kodak, l’Eastmancolor monopack, che può essere usato dentro una normale macchina da presa, mandando a riposo il complesso e molto costoso sistema del Technicolor, basato su tre diversi negativi che poi in sede di stampa dovevano venire sovrapposti.
Nella Hollywood degli anni Cinquanta con la sua ricerca di film sempre più spettacolari e costosi, spariscono i B-Movie a basso costo che diventano o dei tv-movie per la televisione o sono appannaggio della produzione indipendente, off-Major Companies. Inoltre nella ricerca di riconquistare il grande pubblico, l’industria americana va alla ricerca di nuove sensazioni (sesso e violenza) forzando contenuti e costumi consacrati dal “Production Code”, il codice Hays che viene gradualmente abbandonato sino ad essere abrogato alla metà degli anni Sessanta.
Lo storico Robert Sklar nel suo classico libro, Cineamerica (Feltrinelli, 1982), afferma che «Hollywood durante il suo lungo declino mantenne un’immagine pubblica così brillante che molti spettatori non si accorsero mai del travaglio dell’industria cinematografica» (pag. 324). Il che è indubbiamente vero soprattutto se partiamo dal principio che la produzione americana è molto variegata e comunque è sempre rimasta, anche nei suoi momenti più bui, ad un accettabile livello qualitativo. Sklar comunque identifica in tre elementi centrali il motore che ha portato al lento ma irreversibile collasso della Hollywood classica: le banche, gli agenti e i sindacati. Nella Golden Age del cinema la principale fonte di finanziamento delle Majors erano le banche e in particolare la potentissima “Bank of America” della California. Questo rapporto privilegiato venne messo in crisi durante gli anni Cinquanta dall’incertezza del prodotto cinematografico delle Majors che non potevano contare più sulla tenitura automatica dei loro prodotti nelle sale da loro direttamente controllate (e a ciò si aggiunge poi la paura della concorrenza della tv). Questa situazione di incertezza ha portato i produttori a rischiare sempre meno sulle storie ed affidarsi sempre più al nome delle star per garantire alle banche la previsione del successo commerciale (il che ci avvicina alla situazione di oggi, dove comunque il rischio del flop economico è sempre in agguato). Il che ha comportato da un lato un accentuato e diffuso conformismo e dall’altra ad aumentare il peso contrattuale delle Star e dei loro agenti. Inoltre dobbiamo ricordare che gli investimenti e la situazione latente di crisi faceva sì che le Majors non potevano stringere dei contratti a lunga scadenza con gli attori, come avveniva di regola in precedenza. La MCA e la William Morris, le due maggiori agenzie di divi americani, presero praticamente il posto degli studi nell’organizzare quelli che una volta erano i compiti delle Major stesse con la conseguenza che poi una di esse, la MCA, ha potuto addirittura permettersi il lusso di comprarsi l’Universal. Il ruolo delle agenzie secondo Skar non fu soltanto di colonizzazione parassitaria ma fu anche un ruolo attivo «una delle poche fonti d’innovazione, capaci di iniziative coraggiose nella Hollywood assediata degli anni ‘50 e ‘60» (op. cit., pag. 326).
Anche i sindacati come le banche svolsero una funzione conservatrice nel tramonto di Hollywood che ha coinciso con il fenomeno politico della Guerra fredda e del confronto globale tra le due superpotenze (Usa e Urss) durato sino alla Crisi di Cuba nel 1962. Nel cinema e nella cultura (ma non solo) questo periodo buio di sospetto, caratterizzato da un ossessiva paura del “pericolo rosso” e da una virulenta propaganda anticomunista, è chiamato “maccartismo” dal nome di Joseph McCarthy (1908 – 1957), senatore repubblicano del Wisconsin attivo in politica in quegli anni. Gli interrogatori della celebre e famigerata “Commissione per le Attività Antiamericane” diretta dal senatore McCarthy, le liste nere approntate per segnalare i sospetti di simpatie comuniste negli Studios stroncarono molte carriere, obbligarono diversi artisti di sinistra a lasciare gli Stati Uniti (Joseph Losey, Charlie Chaplin) distrussero in maniera totale ogni militanza radicale o liberal nella fabbrica dei sogni di Hollywood. Per farvi una pallida idea di questo momento particolarmente difficile della vita politica americana, potete vedere il bel film di George Clooney, Good Night, Good Luck (2005) che rievoca il clima opprimente della guerra fredda.
In questa situazione i sindacati (sempre più depolicizzati) furono chiamati a combattere la riduzione di posti di lavoro che le Majors in crisi compirono. A ciò si aggiunse che le case americane pur obbligate ad aumentare la spettacolarità dei propri film, dovevano cercare di risparmiare: il che fece sì che si girasse all’estero per abbattere il costo del lavoro molto alto ad Hollywood. Da ciò il fenomeno del sempre maggior numero di film realizzati in Europa sia perché alcuni governi obbligavano le ditte americane a re-investire i loro profitti in patria sia perché costava meno la massa di comparse e le maestranze tecniche. Da ciò il fenomeno della cosiddetta “Hollywood sul Tevere”, l’epoca in cui le grandi produzione americane venivano a girare i blockbuster nella nostra Cinecittà a Roma.
A tutti questi problemi se ne aggiunse infine un ultimo e non di piccolo conto in una industria così legata alla giovinezza (e all’agilità mentale) com’è il cinema: l’invecchiamento dei grandi dirigenti-produttori e/o padroni degli Studios. Il ricambio generazionale non fu né facile né c’erano più le condizioni per l’esistenza di questi grandi ma tragici padri-padroni com’erano stati durante l’epoca classica. Dopo questa generazione, la seconda dopo i fondatori del cinematografo, si sono avute delle personalità meno forti (e in ogni caso con minore potere). La generazione degli anni Sessanta, la terza, ha gestito la transizione e la prima svendita degli studi alle grandi corporation mentre le successive generazione di producers sono diventati oggi soprattutto degli “Executives”, gente cioè che conosce meno il cinema e più le fonti di finanziamento. Insomma, a parte isolati casi, è gente della finanza che fa affari con il cinema come con qualunque altro prodotto.
Le conseguenze di tutto questo stato di cose è che a prendere il potere (almeno temporaneamente sino circa all’inizio degli anni Ottanta, prima dell’epoca “edonista” del Presidente-attore Ronald Reagan) nella Hollywood “assediata” degli anni Sessanta, sarà la generazione nata da una formazione indipendente, la generazione dei vari Scorsese, Coppola, De Palma, ecc. uscita dalle università e/o dalla Factory di Roger Corman, il padre del cinema indipendente Usa. Si tratta di una generazione nata intorno agli anni della II° guerra mondiale tra il 1938 e il 1949. Questo mutamento diventa visibile a partire da alcuni film della stagione 1967-68 particolarmente importanti come ad esempio: Bonny and Clyde/Gangster story, The Gradute/Il laureato, Easy Rider, The Last Picture Show/L’ultimo spettacolo.
Ricapitolando quindi: piena di spinte contrastanti e contraddizioni Hollywood alla soglie degli anni Sessanta è - per fare una metafora western - un fortino assediato che ha lasciato sul campo molti validi uomini (ma non ha comunque perso del tutto la battaglia). La Hollywood degli anni Sessanta è un’industria molto più debole e vulnerabile del passato con una strategia che si situa a cavallo tra il vecchio e il nuovo, che subisce l’assalto delle multinazionali e della tv ma che reagisce però con rabbia ed orgoglio, riuscendo talvolta a rompere il cerchio dell’assedio e a rifondarsi anche esteticamente nel corso degli anni Settanta grazie alla nuova generazione dei “rookies”, degli emergenti. Per fare ciò ha integrato una parte degli indipendenti (o almeno la parte più consistente e capace), si è data un’estetica diversa da quella classica (anche se tra gli studiosi si discute quanto ci sia di veramente nuovo e quanto non sia tutto un adeguamento contemporaneo dentro i canoni dei tradizionali generi su cui ha sempre marciato il cinema americano). Questa rifondazione è culminata nel fenomeno della “New New Hollywood” ed è stata frutto di un lungo travaglio dove gli elementi di nuovo non sono venuti, nella massima parte, dall’interno dell’industria stessa ma dai suoi margini e dai suoi avversari (o ex avversari come Spielberg e Lucas). L’abilità di Hollywood è stata però quella di non rinchiudersi a riccio nelle proprie convinzioni (come alcuni vecchi cinema europei: l’industria tedesca o quella inglese, ad esempio) ma di integrare e dare spazio ai suoi critici attirandoli nel suo seno. Per questo motivo il cinema americano non ha avuto una sua Nouvelle vague come in Europa ma tante sollecitazioni e spinte che l’hanno poi portato ad un deciso rinnovamento.
Oggi poi le cose sono ancora più ingarbugliate, la produzione indipendente si è resa autonoma, è nato quello che Franco La Polla (in John Sayles e il cinema indipendente Usa, Lindau 2003) definisce “l’independent film”:
«a differenza dagli altri generi, [esso] non ha caratteristiche scenografiche definite, né una costumistica identificabile; i suoi modelli narrativi non mostrano una protostruttura riconoscibile, il suo arco cronologico è vastissimo e comunque non ristretto a un determinato, e magari ampio, segmento temporale. Bene, dirà il lettore, che cosa dunque lo qualifica come genere? Risposta: la sua finalità e i modi di costruzione. Quanto alla finalità, è presto detto: questo genere di film aspira a presentare il proprio autore sul palcoscenico dell’entertainment professionale hollywoodiano, a fornirgli una carta d’ingresso nel mondo del cinema ufficiale legato alle produzioni regolari e alla top list del box-office. Quanto ai modi, invece, la cosa è meno semplice. […] L’enorme sviluppo della conoscenza cinematografica alla fine del secolo scorso [cioè del novecento], dovuto da un lato alla sempre maggiore presenza di film del passato (oltre ché del presente) sullo schermo televisivo nonché alla fondazione universitaria dello studio cinematografico, e dall’altro all’anche più enorme sviluppo delle tecnologie minime di ripresa che hanno messo in grado qualunque privato di costruire un film per proprio conto (sia pure in modo amatoriale), ha cambiato la scena del semplice consumo cinematografico d’un tempo aprendo la strada a una sorta di circuito nel quale i film prodotti dall’industria generano non solo spettatori ma anche emuli, e i film confezionati da questi ultimi possono presentarsi come potenziali opere prime di (usualmente) giovani cineasti tanto anonimi quanto promettenti. Insomma, […], il cable e le nuove tecnologie sono all’origine del massiccio aumento del prodotto creativo in ambito cinematografico.
Al vecchio modello della trafila professionale hollywoodiana (ragazzo tuttofare, trovarobe, assistente e via dicendo) si sostituisce dunque una figura che, a rigor di termini, può permettersi di definirsi registica sin dalla prime battute. […]
In certo modo, la macchina da presa (il video-recorder) nella società dello spettacolo assolve una funzione non diversa dal cellulare nella società della comunicazione: garantisce e simboleggia la nostra appartenenza ad essa.
In questo quadro, ben diverso da quello del passato, va oggi osservato e valutato il concetto di indipendenza. […] Hollywood ha persino inventato un luogo elettivo per tali operazioni, il Sundance Film Festival. Da alcuni anni sentiamo ripetere la solita tiritera: il Sundance ha tradito i suoi intenti, i suoi obiettivi, le sue premesse. Ma non è vero. In un mondo cinematografico dove non è più a Hollywood e nei suoi set e departments che si bussa a una porta dopo l’altra per salire di grado, era inevitabile che qualcuno pensasse a un centro di raccolta e coordinamento delle opere prime indipendenti che ormai sono in parecchi a pensare di poter confezionare reggendo la prova del pubblico (una prova ancor più dura negli Stati Uniti che in Europa). L’unico malinteso alla base dell’iniziativa riguarda il fatto che nelle intenzioni di Robert Redford il festival doveva fungere da impluvio per tutti i giovani che, girato un primo film in termini strettamente indipendenti, trovavano difficoltà a farlo vedere a pubblico e critica. Immediatamente tutti si sono messi a parlare di cinema alternativo, di ricerca, di invenzione, di opere controcorrente che si opponevano alla linea maestra hollywoodiana contemporanea. In realtà il Sundance ha fornito ai cineasti esordienti soltanto un uditorio che Hollywood non aveva voglia, tempo, intenzione di istituire, ma al quale si è immediatamente rivolta come a un ulteriore bacino cui attingere la promessa commerciale di eventuali giovani talenti. Un’istituzione, peraltro, largamente attesa se è vero che nel 1995 Hollywood aveva sfornato 212 film, mentre le pellicole indipendenti dello stesso anno si contano attorno alle 400».
Insomma per concludere con la Polla, oggi esiste ed è ampiamente codificato un genere negli Stati Uniti che si definisce “cinema indipendente” ma che non ha più tutte le valenze innovative di 40 anni fa. Non è controcultura o arte d’avanguardia (che si è rifugiata definitivamente nella videoarte) ma che costituisce l’anticamera dell’industria o la sua sostituzione – una fertile terra di nessuno che, di tanto in tanto continua a destare delle piacevoli sorprese. In questo processo l’horror, come adesso vedremo, ha rappresentato un elemento trainante.
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Dal punto di vista storico, se prendete qualunque manuale di storia del cinema o date una sbirciatina sulla rete a “Wikipedia”, si trova che “il genere horror è vecchio quasi quanto il cinema stesso. Le prime immagini di eventi soprannaturali si possono trovare in alcuni cortometraggi muti creati da pionieri del cinema quali Georges Méliès durante l’ultima decade dell’Ottocento: il più famoso è Le manoir du diable (Il maniero del diavolo, 1896, si può vedere su Youtube) che si pensa sia il primo film horror della storia”. Poi negli anni Dieci inizia a comparire sullo schermo quello che viene considerato il primo personaggio filmico, mostruoso e deforme, tratto dalla letteratura: Quasimodo, una figura immaginaria ideata da Victor Hugo per il suo romanzo Notre-Dame de Paris del 1831, detto anche “Il gobbo di Notre Dame” che aveva il compito di suonare le campane della celebre cattedrale parigina in cui stava nascosto. A questo celebre personaggio letterario si ispirarono diversi film del primo decennio del novecento, prima di essere trasposto sullo schermo in uno dei classici del cinema americano degli anni Venti: The Hunchback of Notre-Dame (Il gobbo di Notre Dame, 1923) di Wallace Worsley.Più che dalla regia, il film deve la sua meritata fama all’immortale interpretazione dell’attore Lon Chaney (nome d’arte di Leonidas Frank Chaney, 1883 – 1930), la prima grande star del cinema horror (e non solo), l’”uomo dai mille volti” (così anche il titolo del film a lui dedicato del 1957 con James Cagney) che morì a 47 anni per un cancro alla gola subito dopo (ironia della sorte!) aver terminato il suo primo (e quindi ultimo) film sonoro.
Ma prima che negli Usa è in Germania che fiorisce – cosa molto interessante - come esperienza colta, a cavallo della I° guerra mondiale, la prima grande fioritura del genere horror. I primi film vengono realizzati ancora prima che scoppi la guerra mondiale e sono: Der Student von Prag (Lo Studente di Praga, 1913) del regista olandese Stellan Rye, Der Andere (L’altro, 1913) di Max Mack (lo pseudonimo inglesizzante di Moritz Myrthenzweig) sul tema del Doppio e Il Golem di Paul Wegener del 1914 che riprende una figura mitica della tradizione ebraica, un mostro d’argilla. Ma opere ancora più importanti vennero qualche anno dopo, durante la stagione dell’Espressionismo (la storica avanguardia anteguerra nata prima in pittura e poi in letteratura e poi passata, dopo la fine della guerra, nel cinema) a cominciare da un film seminale come Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene (1919) o la seconda versione del Golem (1920 di Paul Wegener e Carl Boese) e soprattutto Nosferatu il vampiro di Friedrich Wilhelm Murnau (1922), un adattamento non autorizzato del Dracula di Bram Stoker (cfr. più avanti).
A questo punto prima di proseguire dovremo parlare, seppure in breve, della cosiddetta tradizione gotica in letteratura che ha avuto un’importanza fondamentale nel cinematografo. Come vi ho detto più volte, il cinema delle origini, prima e per istituirsi come Arte, saccheggia a piene mani la letteratura soprattutto quella popolare e il feuilleton. E un’influenza grandissima per l’horror deriva appunto dalla letteratura gotica di cui vi ricordo in breve alcune nozioni di base.
Il romanzo gotico è un tipo di narrativa fantastica, per lo più ambientata nel Medioevo, sviluppatasi nel corso del Settecento soprattutto in Inghilterra (ma non solo). La sua peculiarità è data da ambientazioni cupe, da personaggi il più delle volte malvagi e da atteggiamenti diabolici; l’amore perduto, i conflitti interiori, fenomeni paranormali sono i temi più ricorrenti dei romanzi gotici inglesi. Il romanzo gotico nasce in opposizione al gusto per il realismo e il sentimentalismo tipico della narrativa anglossassone del Settecento. L’intento del romanzo gotico, infatti, non è quello di divertire o educare il lettore, ma semplicemente di colpirlo con forti emozioni, di spaventarlo con un suo certo compiacimento, di “mesmerizzarlo” (ipnotizzarlo) in un vortice di sensualità e terrore. Le trame, come accennavo, sono ambientate in un immaginario Medio Evo, sono ricche di episodi macabri e inspiegabili, di paesaggi lugubri e terrificanti, popolate da spiriti ed esseri mostruosi; le vicende si svolgono normalmente in castelli grandiosi, palazzi infestati, prigioni, laboratori, conventi, rovine, oscure chiese, con la loro notevole schiera di sotterranei, passaggi segreti, stanze di tortura; oppure fanno da scenario cimiteri, brughiere desolate, foreste impenetrabili, montagne scoscese. Tutti elementi scenografici a cui il cinema per tantissimi anni ha pescato a piene mani.
Nei primi esempi di romanzi gotici, come nel melodramma, i personaggi rimangono principalmente stereotipi, e le eroine rappresentano ancora il mito della “fanciulla perseguitata”; l’attenzione degli scrittori era imperniata quasi totalmente sulle emozioni da suscitare, e non sull’organicità e la raffinatezza della trama oppure sulla psicologia dei personaggi.
L’iniziatore del genere è il conte Horace Walpole (1717-1797) con il romanzo Il castello di Otranto (1764) che viene considerato il primo romanzo gotico della storia della letteratura. La storia è ambientata nell’Italia medievale, considerata un paese esotico di foschi intrighi e crudeli delitti, nei dintorni di Otranto in Puglia appunto. All’inizio Walpole ha dichiarato di aver tradotto il romanzo da un originale italiano, ma poi poco tempo ha confessato di esserne l’autore, poiché contro le sue aspettative il romanzo aveva incontrato immediato successo, a dispetto di una trama particolarmente contorta e talvolta assurda. In questo romanzo sono presenti tutti i motivi conduttori del successivo genere letterario gotico: eventi inspiegabili, efferati omicidi, apparizioni sovrannaturali, oltre naturalmente ad una ambientazione esotica sullo sfondo di un castello misterioso e tetro, che Walpole aveva riprodotto ispirandosi all’architettura oscura e immaginaria di Giovan Battista Piranesi.
In generale il termine gothic (gotico) era stato applicato all’architettura e all’arte del medioevo detta appunto gotica. In letteratura il termine viene mutuato appunto per definire quel “romanzo spaventoso” di cui abbiamo detto che dura sino alla fine dell’ottocento (è stato dunque il genere più tipico della letteratura inglese accanto al romanzo storico alla Walter Scott). Sin dall’inizio c’è un rapporto molto stretto tra architettura e romanzo gotico nel quale uno delle principale caratteristiche sono proprio l’ambientazione e la scenografia. Non per niente in Inghilterra Horace Walpole ordinò la costruzione neogotica del castello di Strawberry Hill nei pressi di Londra dove risiedeva e aveva reso una sorta di museo d’arte privato. In questa fortezza, che ebbe un posto importante nell’architettura inglese, lo scrittore fece installare una tipografia nella quale si stamparono i suoi libri e quelli dei suoi amici.
Per riassumere oltre alla scenografia altri elementi essenziali del romanzo gotico sono: una certa aura romantica, la rivolta contro il razionalismo illuminista e l’inquietudine per l’avanzante industrializzazione, vista come una minaccia all’Uomo.
La narrativa gotica ha avuto poi modo di svilupparsi in altre forme, tematiche e ambientazioni per tutto il corso del XIX° secolo, divenendo sempre più varia e profonda a prendendo piede in vari paese come in Germania nel periodo del romanticismo - ad esempio, per ricordare solo un titolo: il celebre L’uomo della sabbia (Der Sandmann,1815) di Ernst Theodor Wilhelm (E.T.) Hoffmann (1776 – 1822). Propria a questa tradizione un secolo dopo farà riferimento quella prima fioritura artistica di “cinema di paura” durante il periodo dell’Espressionismo a cui si è accennato. E a tale tradizione si riallaccia, all’inizio del Novecento, la rielaborazione popolare di temi romantici fatta ad esempio dallo scrittore di viaggi e avventure Hanns Heinz Ewers (1871- 1943). Il fatto che il cinema tedesco dell’epoca – secondo la celebre interpretazione di Siegfried Kracauer – fosse pieno di figure e personaggi demoniaci (Lo schermo demoniaco è il titolo di un altro celebre libro sull’espressionismo cinematografico della studiosa Lotte H. Eisner) ha portato il critico a sostenere che ci fosse uno stretto rapporto tra il cinema e l’inconscio collettivo del popolo tedesco dell’epoca. E che quindi, come suona il sottotitolo di un suo libro famosissimo (Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco), ci fosse uno stretto rapporto psicanalitico trai fantasmi sullo schermo e l’evoluzione politica totalitaria della Repubblica di Weimar sino alla presa del potere di Hitler (che avvenne, lo ricordo, in maniera democratica, una vittoria alle elezioni politiche nel 1933). In ogni caso e concludiamo sulla Germania, il capitolo del cinema di paura nel cinema tedesco classico resta uno dei più importanti (se non il più importante) dal punto di vista artistico di tutta la storia dell’horror.
Ma torniamo alla letteratura: tra le opere più alte del romanzo gotico dobbiamo per lo meno ricordare Il Monaco (1796) di Matthew Gregory (G.) Lewis (1775-1818) che il romanzo gotico raggiunse una delle sue più alte vette; il racconto, ambientato nella Spagna dell’Inquisizione, narra di un monaco che, su istigazione del demonio incarnatosi in seducenti forme femminili, perseguita una pura fanciulla. Lewis invece si immerge fino in fondo nel sovrannaturale, accumulando nel suo romanzo atrocità, sacrilegi, stregoneria, erotismo perverso. Mentre Il Monaco ha avuto scarsa fortuna al cinema, viceversa, un altro capolavoro letterario, pubblicato nel 1818, rappresenterà una miniera d’oro per la Settima arte. Parliamo di Frankenstein, o il moderno Prometeo, di Mary Shelley (1797-1851), che costituisce non solo una delle punte massime della letteratura gotica ma anche di tutta la letteratura ottocentesca, dato che qui sono presenti tematiche ben più profonde rispetto al romanzo gotico tradizionale ed nel lavoro della Shelley vive in pieno l’anima oscura del romanticismo. Lo scienziato Frankenstein – il modello di tutti gli scienziati pazzi che avranno largo corso al cinema a partire da Rotwang di Metropolis (1926), il capolavoro di Fritz Lang - è l’immagine dell’uomo che ha sfidato la natura e Dio stesso, creando un mostro, e che solo davanti al fatto compiuto ha potuto realizzare che quanto ha fatto, sia orribile, spaventoso, incontrollabile. Il mostro non rappresenta soltanto una figurazione della “macchina” nata dalla rivoluzione industriale del Settecento, dell’arcano orrore che si cela oltre la natura, oppure della punizione inferta all’uomo per la sua empia curiosità scientifica; ma rappresenta soprattutto la metafora del lato più oscuro della coscienza umana, e di tutto ciò che nella sua diversità genera paura o sgomento, e perciò viene rifiutato. Ritorna il mito illuminista e rousseauiano della primitiva innocenza dell’uomo, il cui animo rimane felice e incontaminato finché non viene a contatto con la corruzione della società. La molteplicità e la validità di queste e tante altre possibili chiavi di lettura rendono il romanzo della Shelley una delle pietre miliari dell’arte del romanticismo europeo, ed uno dei punti alti della letteratura – il cinema solo parzialmente potrà restituire un secolo dopo questa straordinaria ricchezza di visione simbolica.
Ancora c’è da segnalare nel 1819 la pubblicazione su una rivista, il «New Monthly Magazine», di quello che rappresenta il primo racconto breve su una figura che avrà un’importanza decisiva nel cinema horror, quella del vampiro. Erroneamente attribuito a Lord Byron, The Vampire (Il vampiro) era invece opera di John William Polidori (1795–1821), figlio di un immigrato politico italiano Gaetano Polidori (ex-segretario personale di Vittorio Alfieri) costretto ad espatriare in Inghilterra. John W. Polidori era stato segretario e medico personale di Byron e aveva scritto quello che è il primo racconto della letteratura moderna sulla creatura leggendaria del vampiro.
Come è noto, quella del vampiro è una figura mostruosa ricorrente, sotto le più varie forme, nel folclore e nell’immaginario storico di tutti i continenti (Cina compresa). Non è quindi il prodotto della cultura occidentale anche se l’etimologia della parola sembra essere di origine slava e spesso (e i tantissimi film) si situa il luogo d’origine dei vampiri in Transilvania (in Romania) o lungo i Carpazi (che insieme alle Alpi è la maggiore catena montuosa d’Europa che si estende per vari paesi dalla Repubblica Ceca, la Slovacchia e la Polonia sino all’Ucraina e la Romania). Il vampiro è, quasi sempre, un essere immortale, un non-morto che ritorna dalla tomba per tormentare e uccidere i vivi, succhiando loro il sangue. La figura del vampiro che ritroviamo già nella letteratura latina e nelle cronache medievali, ha subito molte modifiche e diversificazioni nei secoli sino a quando è stata riesumata da Polidori nel suo racconto breve. Tuttavia essa è stata portata alla perfezione letteraria da due scrittori irlandesi: Joseph Sheridan Le Fanu (1814 –1873), maestro della letteratura paranormale e autore del racconto Carmilla (1872) dove troviamo un vampiro-donna ricco di fascino e sensualità erotica. Proprio da questo racconto il maestro danese Carl Theodor Dreyer realizzò il suo film Vampyr - Il vampiro (1932), in assoluto uno dei grandi capolavori del cinema classico.
L’Ottocento si chiude con quello che per gli storici della letteratura rappresenta il canto del cigno della letteratura gotica: Dracula (1897) dello scrittore irlandese Bram Stoker (1847 –1912). Più di ogni altro testo sull’argomento, Dracula ha costituito il modello del film di vampiri e come vi avevo anticipato è stato per la prima volta portato sullo schermo con un titolo cambiato (per questioni di copyright) da uno dei massimi registi della storia del cinema Friedrich W. Murnau nel Nosferatu (che appunto significa in lingua rumena, “non-morto”) del 1922.
Infine prima di abbandonare la letteratura, del 1886 è un altro romanzo che pur non rientrando nel genere gotico ha avuto una gran fortuna al cinema oltre a rappresenta uno dei grandi classici della letteratura fantastica di tutti i tempi. Mi riferisco a Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde) dello scrittore scozzese Robert Louis Stevenson (1850 –1894) che rappresenta il culmine dell’indagine dello scrittore sulla scissione della personalità e sul tema del Doppio (o del Sosia), un tema che affascinerà Freud e la psicanalisi nonché tutta la cultura moderna.
Con la nascita e lo sviluppo del sonoro (iniziato nel 1927 per merito della Warner), il cinema horror negli anni Trenta, pur restando sempre un genere di serie B, conobbe un crescendo produttivo, divenendo il cavallo di battaglia della Universal Pictures, che rese popolari le principali figure (quasi sempre di origine letteraria) dell’horror. Il 1931 è un anno fondamentale perché esce il Dracula di Tod Browning, per altro non direttamente tratto dal romanzo di Bram Stocker bensì da una piéce teatrale in tre atti elaborata nel 1927, su licenza della vedova dello scrittore, prima per il pubblico inglese da Hamilton Deane e poi qualche mese dopo per Broadway, da John L. Balderston. Il personaggio del Conte vampiro è qui interpretato dall’attore di origine ungherese Bela Lugosi (1882 –1956) che divenne una grande star dell’horror per diversi anni sino ad essere dimenticato negli anni Cinquanta. Forse qualcuno di voi si ricorderà di lui perché le vicende dell’ultimo periodo della sua vita quando era diventato eroinomane, nonché la collaborazione con il regista di b-movie Ed Wood (1924 – 1978) sono state narrate nel film biografico di Tim Burton Ed Wood (1994), dove il ruolo di Bela Lugosi è interpretato da Martin Landau (premio Oscar al miglior attore non protagonista) e quello del genialoide e pazzoide regista da Johnny Depp. Ed Wood è stato un regista, sceneggiatore e attore statunitense indipendente, di film horror e di fantascienza (generi spesso molto mischiati a partire dagli anni Cinquanta, come vedremo) che con Lugosi aveva realizzato due film: Bride of the Monster (1955, in Italia è uscito solo in video con il titolo La Moglie del mostro) e Plan 9 from Outer Space (Piano 9 da un altro spazio, 1959) che è stato girato dopo la morte di Lugosi e contiene solo poche sequenze con l’attore protagonista, tratte da provini effettuati prima della produzione del film. In altre scene, la parte di Lugosi è ripresa da una controfigura che appare di spalle, o col volto semi-coperto. Re del film di serie b in tutti i sensi, Ed Wood è divenuto famoso dopo la morte per essere stato definito da diversi critici come “il peggior regista di tutti i tempi”.
Ma torniamo a Dracula: il grande successo della piéce a Broadway aveva convinto la Universal a farne un film che appunto risente però proprio dell’origine teatrale nonché della scarsa mobilità all’epoca della macchina da presa dovuta agli iniziali problemi del sonoro.
Sempre del 1931 e sempre all’Universal è l’altro grande film modello dell’epoca, il Frankestein di James Whale che riprende a grandi linee il romanzo della Shelley ma lo modifica in alcuni punti nodali: tutta la nascita nel laboratorio scientifico che è stata molto modernizzata e soprattutto il finale (nel libro il mostro creato da Frankestein veniva abbandonato su un banco di ghiaccio dell’Artico, nel film invece muore nell’incendio di un mulino). Rispetto a Dracula, il film di Whale oggi risulta molto più godibile e libero, il che lo ha reso “sotto molti aspetti un modello iconografico per l’horror successivo” (Renato Venturelli, Storia del cinema horror in cento film, Le mani, Genova 1994, p. 31). Il mostro è interpretato dalla seconda star dell’horror classico, l’attore inglese Boris Karloff (pseudonimo di William Henry “Bill” Pratt, 1887 –1969), il grande rivale di Lugosi, colui che per la sua capacità trasformistica è stato ritenuto il più degno continuatore dell’arte di Lon Chaney.
Nella serie delle figure horror costruite dalla Universal possiamo ancora aggiungere La mummia (1932) del grande direttore della fotografia tedesco emigrato negli Usa Karl Freund (Il Golem, Metropolis e Dracula) che scopre l’Egitto e le mummie resuscitate, nonché molto più tardi, nel 1941, il licantropismo de L’uomo lupo (The Wolf Man) diretto da George Waggner e interpretato da Lon Chaney jr. Oltre a L’uomo invisibile (The Invisible Man, 1933) di James Whale, film dove la fantascienza si unisce all’horror,va ricordato un ultimo film dell’Universal degli anni Trenta sia per la sua qualità artistica, sia perché riunisce le due grandi star dell’horror (Boris Karloff e Bela Lugosi), sia perché è ispirato (solo ispirato in verità) al noto racconto del grande scrittore americano Edgar Allan Poe (1809 –1849): The Back Cat (Il gatto nero) diretto da un altro emigrato ad Hollywood, l’austriaco Edgar G. Ulmer (1904–1972), uno dei grandi maestri del b-movie dell’epoca.
Non solo l’Universal ma anche altri Studi cinematografici di Hollywood tentarono la strada dell’horror e quindi sono ancora da ricordare alcuni film particolarmente significativi. Ad esempio in epoca muta dopo circa una decina di precedenti tentativi, nel 1920 abbiamo la prima versione importante dal celebre romanzo di Stevenson interpretato del grande attore John Barrymore e diretto da John S. Robertson. Nel 1931 la Paramount realizzò quella che a tutt’oggi resta la migliore versione de Il dottor Jekyll (Dr. Jekyll and Mr. Hyde, 1932) per la regia di Rouben Mamoulian e l’interpretazione di Fredric March e Miriam Hopkins. Come si dice nel libro Il buio si avvicina (a pp. 135-6), la trasformazione delle due personalità del protagonista avveniva nella versione 1920 senza particolari trucchi ma affidata soltanto alle dote mimiche di Barrymore. Viceversa nella versione di Mamoulian si impiegano dei trucchi ottici (degli effetti speciali e nel testo potrete leggere come ciò all’epoca si poteva ottenere senza i nostri computer di oggi), partendo dall’idea che a ogni successiva trasformazione, come in una malattia, il protagonista diventa sempre più animale e sempre meno uomo e che la sua libido fa sempre più da padrona (aspetto questo che nel romanzo di Robert Louis Stevenson era solo sottinteso). Il film si distingue dunque per le sue scenografie londinesi di ascendenza espressionista, l’emergere degli istinti sessuali, il personaggio della donna perduta interpretata da Mirian Hopkins. Rispetto a questo geniale capolavoro dell’inizio del sonoro, di meglio non ha saputo fare dieci anni dopo la MGM con un grande cast (Spencer Tracy, Ingrid Bergman e Lana Turner) e per la regia di Victor Fleming, che ha molto addomesticato la polemica antivittoriana del romanzo e la “licenziosità” del film di Mamoulian (eravamo ancora in epoca precedente il codice Hays). Dagli anni Quaranta ad oggi troviamo per lo meno una trentina di film che tra cinema e televisione, dalla commedia al musical, hanno ripreso il tema del Doppio del romanzo stevensoniano; ve ne ricordo solo due, i più memorabili: la commedia parodica di Jerry Lewis, Le folli notti del dottor Jerryll (The Nutty Professor, 1963) e Mary Reilly (Dr. Jekyll & Mr. Hyde, 1996), del regista inglese-hollywoodiano Stephen Frears.
Il dato di fatto che la MGM, oltre ad essere la più grande, fosse anche la più conformista delle Major di Hollywood, nulla toglie alla constatazione che essa abbia prodotto due tra le opere più originali e rivoluzionarie della storia dell’horror classico: il disturbante Freaks (1932) di Tod Browning interpretato da veri esseri deformi e massacrato e censurato al montaggio dopo le prime preview, le proiezioni d’assaggio con cui le Major testavano la risposta del pubblico ai film in uscita; e l’eccellente Amore folle (Mad Love, 1935) di Karl Freund con protagonista Peter Lorre che è un remake di un film tedesco del 1924: La mani di Orlac (non ha caso venne diretto e interpretato da due emigrati tedeschi a Hollywood). Nel 1933, invece, la Warner Bros produce la prima versione de La maschera di cera (House of Wax) di Michael Curtiz che poi vent’anni dopo André de Toth rifarà nel 1953, in maniera molto spettacolare: a colori e in 3D (benché il regista fosse monocolo!) per l’interpretazione di quello che diventerà un’altra delle grandi star dell’horror: Vincent Price. Nel 2005 abbiamo avuto una ultima versione di questo film, diretto da Jaume Collet-Serra sempre per la Warner, in cui si continua a raccontare la storia di misteriose sculture di cera.
Del 1932, è infine una produzione indipendente (distribuita dalla U.A.), diretta da Victor Halperin con protagonista Bela Lugosi, White Zombie che tematizza il fenomeno degli zombi.
Così tra gli anni Trenta e l’inizio dei quaranta il campionario dei mostri classici si può dire completo: esso costituirà per venti anni circa il catalogo su cui si eserciterà il cinema di paura classico. Poi però nel 1943, nel pieno della II° guerra mondiale, accade qualcosa di nuovo per merito di un giovane e intraprendente produttore Val Lewton (pseudonimo americano del suo nome russo Vladimir Ivan Leventon, nato a Yalta nel 1904 e morto nel 1951 senza aver ancora compiuto 47 anni). Autore di poesie, saggi storici e romanzi, uomo di “grande curiosità e cultura”, Lewton inizia a lavorare nell’industria cinematografica come assistente e poi il miglior allievo del già citato Mogul David O. Selzinick, colui che dopo essere stato alla MGM si era messo in proprio sfidando le Major, l’uomo che aveva realizzato Via con vento e che nel 1940 aveva portato negli Usa Alfred Hitchcock. Chiamato alla RKO in crisi nel 1942, la Major che aveva realizzato nel 1933 il primo King Kong di Ernest B. Schoedsack, Merian C. Cooper – mix tra film horror e film d’avventura, Val Lewton diventa dunque il capo di una propria unità produttiva chiamata “The Snake Pit” (La fossa dei serpenti).
Sotto la sua supervisione (la formula di Lewton si può riassumere in una sua frase celebre: “una storia d’amore, tre scene di orrore suggerito, una di violenza effettiva”) e a partire dalla sua convinzione di usare le paure primaria (“un suono improvviso, gli animali selvaggi, l’oscurità”), nasce una serie di film horror fortemente innovativi: Il bacio della pantera (Cat People, 1942), Ho camminato con uno zombie (I Walked with a Zombie, 1943), L’uomo leopardo (The Leopard Man, 1943), tutti per la regia di Jacques Tourneur, ed altri diretti da Mark Robson (La settima vittima/The Seventh Victim, 1943) e Robert Wise (La jena/The Body Snatchers, 1945). La ricetta era fissa: “budget molto bassi, 4 settimane di lavorazione, un titolo di forte presa sul pubblico… per parlare della paura quotidiana in storie di suspense scritte e girate in modo accuratissimo” (Renato Venturelli pag. 48).
Pur contraddistinti dalla presenza degli elementi obbligatori per il genere (creature spaventose, ombre sui muri), il ciclo dei film della RKO danno una svolta sostanziale all’horror che abbandona la tradizione gotica, le figure di personaggi mostruosi tratti dalla letteratura o dalla cultura popolare per andare a parlare della paura quotidiana e contemporanea o dei fenomeni paranormali. L’horror dunque si interiorizza (parla della paura dentro di noi piuttosto di quella esterna creata dalla maschera dei personaggi) mentre la costruzione del brivido viene prevalentemente affidata non tanto ai trucchi del make-up, quanto all’uso dell’atmosfera, della fotografia chiaroscurale, dei rumori della colonna sonora, della supremazia della suspense sull’effetto di shock, arte di cui Alfred Hitchcock è e diventerà maestro. Val Lewton con i suoi registi, quindi, fanno fare, in questo modo, una salto qualitativo al genere, portandolo verso lidi diversi che poi saranno successivamente sviluppati in una messa in scena “per cui l’orrore si insinua nello spettatore non a causa di ciò che vede, ma per il mistero e l’attesa di qualcosa di incerto e minaccioso” (Venturelli, ivi).
Ma oltre a questo cambiamento radicale di rotta compiuto da Lewton, i grandi cambiamenti tecnologici avvenuti nel cinema e in particolare in quello americano degli anni Cinquanta, non furono senza conseguenza per l’horror che, nel diffuso clima della paura atomica e della guerra fredda, spesso si avvicinò per fondersi con la fantascienza. Perciò nell’ampio campo della produzione indipendente di exploitation (sfruttamento) - come quelle di Roger Corman, di Ed Wood, o di William Castle (1914-77), detto l’”Hitchcock dei poveri” che mischiava humour a horror e che investiva la gran parte dei suoi budget (per altro miseri) in una promozione ad effetto (per esempio assicurava gli spettatori contro la morte per paura!) – troviamo un gran numero di film dove gli umani se la dovevano vedere con minacciose entità extraterrestri: invasioni aliene, mutazioni genetiche, piante o insetti che rappresentano la ribellione della natura contro il predominio dell’uomo. In alcune produzioni mainstream, invece, furono utilizzati nuovi trucchi, per esempio il 3-D, come ne La maschera di cera (a colori) di André De Toth oppure ne Il mostro della laguna nera (Creature from the Black Lagoon, 1954)diretto da Jack Arnold; ma non mancano film di maggior qualità come La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, 1951, rifatto da John Carpenter con La cosa) di Christian Nyby e Howard Hawks (non accreditato) oppure L’invasione degli Ultracorpi di Don Siegel (Invasion of the Body Snatchers, 1956, rifatto da John Carpenter in Essi vivono, da Abel Ferrara in Ultracorpi e ultimamente nel 2007 dal tedesco Oliver Hirschbiegel in Invasion con Nicole Kidman), che raccontavano la società del Grande Fratello, l’atmosfera della Guerra Fredda e la paura del totalitarismo.
Volendo essere molto schematici, potremmo così riassumere lo sviluppo storico: se l’horror nei decenni precedenti era costellato da figure archetipe dell’immaginario collettivo o da paure individuali provenienti dal nostro Inconscio (i film della RKO), negli anni Cinquanta, invece, cominciano a moltiplicarsi diffuse paure collettive che vengono raccontate sullo schermo senza filtri, o quasi. In questo modo il fanta-horror dell’epoca diviene lo specchio più credibile dello sviluppo del mondo scisso in due blocchi contrapposti nel periodo della Guerra fredda. Proprio a partire da questi anni si ha l’introduzione degli Alieni come modificazione (spesso in negativo) dei miti classici di fate ed elfi, ormai passati di moda e troppo poco credibili; ma gli alieni vengono anche utilizzati per parlare, e mettere in guardia, del pericolo “rosso” del comunismo (per esempio nel già ricordato L’invasione degli Ultracorpi di Don Siegel). Un altro personaggio tipico di questa epoca è lo scienziato pazzo, o lo scienziato a cui sfugge di mano la propria scoperta (cfr L’esperimento del dottor K. di Kurt Neuman, 1958, di cui David Cronenberg farà il remake con The Fly/La mosca nel 1986), concetto già preesistente, come sappiamo, da Metropolis a Frankestein, ma che viene esaltato dal rapido sviluppo tecnologico seguito alla Guerra mondiale e ai suoi orrori – uno sviluppo e un mito del Progresso troppo rapido e troppo radicale perché non se ne appropriasse senza paura o esitazioni.
Dopo i fantasmi romantici ripresi dall’Espressionismo cinematografico, i mostri gotici dell’Universal negli anni Trenta, l’horror intimista della RKO di Val Lewton, c’è un ultimo momento fondamentale dello sviluppo del cinema di paura che dobbiamo ancora toccare. È quello che fa capo alla rinascita della tradizione gotica proprio nel paese che l’aveva inizialmente creata: l’Inghilterra e proprio in un momento quando quella tradizione sembrava essere passata di moda a Hollywood, sopraffatta dagli alieni e dai mostri del fanta-horror. Fondata nel 1934 la società inglese Hammer Film Productions si avvicinò per la prima volta al genere nel 1955 con il film L’astronave atomica del dottor Quatermass, diretto da Val Guest che al solito per l’epoca unisce SF (Science fiction) all’horror. Ma la svolta si deve al grande regista Terence Fisher (1904-1980) che riprende modernizzandola la tradizione dei mostri Universal degli anni Trenta a partire La maschera di Frankenstein (The Curse of Frankenstein) interpretato da quelli che diventeranno i suoi attori feticcio e le nuove grandi star dell’horror: Christopher Lee e Peter Cushing. Dopo Frankenstein (poi rifatto altre 4 volte) nel 1958 è la volta di Dracula il vampiro (personaggio poi ripreso in altri due film successivi) e nel 1959 de La mummia, tutti film-modello che otterranno grande successo di pubblico in tutto il mondo, spingendo la Hammer a crearne numerosi seguiti che andarono avanti sino agli anni Settanta.
La particolarità dello stile di Terence Fisher consiste nel modernizzare le storie e i personaggi classici, di renderle più fisiche, ripugnanti e sensuali, di utilizzare gli effetti speciali e rinnovare il make-up (a lui si deve l’introduzione dei celebri canini sporgenti nel personaggio di Dracula interpretato da Christoper Lee), di prediligere un colore fiammeggiante e un’inquietante colonna sonora ad effetto, oltre ad un accurato uso scenografico di ambienti vittoriani. Tutti questi ingredienti insieme con l’interpretazione di Lee e Cushing sono alla base di un rilancio internazionale dell’horror che avviene in tutta Europa (in Italia con i film prima di Riccardo Freda e poi di Mario Bava come il celebre la Maschera del demonio, 1960) e soprattutto negli Usa con l’American International Pictures (AIP) e Roger Corman.
Sulla scia del successo dei film Hammer, il padre del cinema “indie” in Usa, Roger Corman (nato a Detroit nel 1926), pensa ad un ciclo di film ispirati a Edgar Allan Poe (1809 – 1849), il maestro ed epigono americano del romanzo gotico inglese. Detto per inciso Poe dal movimento gotico mutua solo talune tematiche e suggestioni (il gusto per il mistero, l’orrido, l’angosciante) ma si svincola dalle ambientazioni tipiche del gotico, e sviluppandone più gli aspetti psicologici, indagando fra le ossessioni e gli incubi personali. Che a Corman piacesse Poe sin dalla scuola si lega perfettamente al fatto che è stato un regista “americano” al 100% e i cui modelli di riferimento sono stati director americanissimi come John Ford o Haward Hawks.
Due parole su Roger Corman: come ci racconta in modo dettagliato nella sua autobiografia, How I Made a Hundred Movies in Hollywood and Never Lost a Dime (uscita nel 1990 e tradotta anche in italiano: Come ho fatto cento film a Hollywood senza mai perdere un dollaro da Lindau, Torino, 1998), dopo aver conosciuto i due fondatori della AIP, il giovane Corman nel 1955 debutta alla regia. Tra il ‘55 e il ‘60 gira e produce 23 film (quasi 5 all’anno!!), toccando tutti i generi, il western, la fantascienza, i film di problematiche giovanili, il gangstar movie e due commedie horror dove inizia ad affiorare un’altro marchio di fabbrica del suo stile: l’humour nero. E’ il caso di The Little Shop of Horror/La piccola bottega degli orrori, 1959, scritta da Charles B. Griffith e realizzato per scommessa in due giorni e una notte, praticamente senza budget dove in un diverte cammeo troviamo un 23enne Jack Nicholson. E’ dunque in questo periodo che nasce la leggenda di Roger Corman: quello che la Nouvelle Vague francese e François Truffaut preconizzano, e cioè un cinema “corsaro”, personale e a basso costo, lui lo realizza all’americana tramite un proprio modello basato su una velocità incredibile. Ciò era reso possibile grazie ad un affiatato team di collaboratori che costituiva una vera e propria “famiglia” cinematografica: Floyd Crosby (direttore della fotografia, un pioniere che aveva cominciato a lavorare ai tempi del muto, Oscar nel 1931 per Tabù di F.W. Murnau), Charles B. Griffith o Richard Matheson (sceneggiatura), David Haller (scenografie) e Ronald Stein (musica).
Nel 1960 Corman fa fare un salto di qualità alla sua produzione, ideando e realizzando un ciclo di 9 film (ma in realtà 7, come vedremo), tratti o almeno ispirati a racconti di Edgar Allan Poe e interpretati da Vincent Price che gli aprono le porte ad un deciso successo economico. Il primo titolo della serie - ed uno dei migliori - è House of Usher/Vivi e morti. Qui al di là delle qualità figurative del film (il colore di Floyd Crosby, le scenografie di Daniel Haller), come è stato detto “il merito di Corman è di aver cercato l’orrore nella psicologia dei personaggi”. Il racconto di Poe era stato già filmato due volte: nel 1928 ancora durante il muto da Jean Epstein in Francia, poi nel 1950 in Inghilterra da Ivan Barnett e successivamente per lo meno altre due volte a Hollywood nel 1982 (La casa degli Usher) per la regia di James L. Conway con Martin Landau, e nel 1988 da Alan Birkinshaw con il titolo Il Mistero di casa Usher con Oliver Reed e Donald Pleasence.
Cerchiamo adesso di mettere a fuoco le caratteristiche dello stile di questo gruppo di film poeiani che come abbiamo detto sono sette: I vivi e i morti seguito immediatamente da The Pit and The Pendulum/Il pozzo e il pendolo (con Barbara Steel, temporaneamente “rubata” da Corman all’horror all’italiana, 1961), The Premature Burial/ Sepolto vivo (1962), al grottesco Tales of Terror/Racconti del terrore (1962) alla parodia The Raven/I maghi del terrore (1963) e poi The Mask of the Red Death/La maschera della morte rossa (1964)ed infine The Tomb of Ligeia/La Tomba di Ligeia (1965). Ad essi bisogna aggiungere: The Terror/La vergine di cera (1963) che non c’entra niente con Poe, un film quasi sperimentale, interpretato da Boris Karloff (con due giorni di ingaggio avanzati) e completato dai suoi allievi assistenti-registi Ford Francis Coppola e Monte Hellman; ed infine The Haundet Palace/La citta dei mostri (1964), tratto invece dall’altro grandissimo scrittore americano di horror: Howard Phillips Lovecraft (1890 – 1937).
Pur spesso nel tradimento letterale delle storie di Poe ma badando, però, alla sostanza dell’opera dello scrittore americano, il regista di Detroit riesce a mettere a punto uno stile tra il realista e il delirante ben sostenuto dagli attori che sceglie: innanzitutto Vincent Price (1911-1993) che specializzatosi nelle parti da cattivo si affaccia per la prima volta all’horror con il già citato La maschera di cera di André de Toth (1953) – la sua grande carriera cinematografica è finita con la partecipazione come inventore pazzo in Edward mani di forbice (1990) di Tim Burton. Price diventerà l’eccellente protagonista della serie dei film poetiani (ad eccezione di Sepolto vivo). Accanto a lui ritroveremo i veterani: Peter Lorre e Boris Karloff o ancora nuove scoperte come il giovane Jack Nicholson. Rispetto a Poe, Corman e il suo sceneggiatore Richard Matheson (è, tra l’altro, l’autore del romanzo di fanta-horror Io sono leggenda/I Am Legend, 1954, da cui è stato tratto il recente film omonimo con Will Smith) introducono due varianti significative: l’introduzione di un personaggio normale che, come un catalizzatore, si introduce in una situazione di follia facendola esplodere; e poi la sottolineatura freudiana delle motivazioni della follia dei personaggi di cui è messa in evidenza la radice sessuale (appunto seguendo le teorie del padre della psicanalisi, Sigmund Freud). In molti film della serie - come scrive il critico americano Garry Morris - «le tensioni sessuali del protagonista maschile trovano una pace finale. I film esprimono l’idea freudiana (la paura infantile) che la sessualità cessa con la morte. E essa non significa solo la morte dell’individuo, ma la morte del mondo stesso visto che in Corman il mondo è creato dalla coscienza individuale».
Sono film, quelli di Corman, dal forte moralismo manicheo e dall’impatto visivo molto forte dove quasi sempre il protagonista è un artista complessato e nevrotico (come nel caso de Vivi e morti). Gli ultimi film della serie Poe sono poi girati in Inghilterra con un budget (relativamente) maggiore: La maschera della morte rossa si avvale della fotografia del futuro regista Nicholas Roeg mentre per La Tomba di Ligeia (1965) la sceneggiatura è scritta da Robert Towne che ne ha fatto una storia d’amore macabra. Towne è poi diventato un grande sceneggiatore della Nuova Hollywood (Chinatown di Polanski ad esempio).
Preceduto dal secondo episodio (The Black Cat) dei Racconti del terrore, l’altro aspetto centrale da mettere in evidenza nella serie di Corman da Poe, è quello dell’ironia, chiave di volta di The Raven/I maghi del terrore, un film parodico (già una presa in giro metacinematografica del genere stesso) dove troviamo ancora Jack Nicholson come figlio di Peter Lorre.
Con I maghi del terrore l’horror vira ormai verso l’ironia autoreferenziale che si troverà in modo assolutamente compiuto in un film ancora più metacinematografico: Dance of the Vampires/Per favore non mordermi sul collo, il divertente e raffinato gioco con gli stereotipi del genere dei vampiri realizzato da Roman Polanski nel 1967. Il regista polacco di lì ad un anno realizzerà un altro capolavoro horror, Rosemary’s Baby (1968)che da inizio al genere demoniaco e si apre ad un tipo di prodotto non più indirizzato al pubblico degli appassionati bensì ad una audience generalista.
I tempi per l’horror moderno ormai sono diventati maturi.
Fonte: http://didatticaweb.uniroma2.it/files/scarica/insegnamento/37338-Storia-Del-Cinema-Americano-Mod.-A/1172-LEZIONI
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