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RUBRICA DELLO SPETTACOLO
«IL GRANDE DITTATORE» DI CHARLIE CHAPLIN**
VIRGILIO FANTUZZI S.I.
La Civiltà Cattolica 2003 IV 257-269
Quaderno 3681 (1° novembre 2003)
Nella prima metà degli anni Trenta del secolo scorso Hollywood subì un profondo cambiamento. Quasi tutti i divi del cinema muto erano scomparsi dalla circolazione. «Eravamo rimasti in pochi - scrive Charlie Chaplin nella sua autobiografia -. Ora che il sonoro aveva preso piede, il fascino e la spensieratezza di un tempo parevano definitivamente tramontati. Nel giro di una notte la Mecca del cinema si era trasformata in un'industria seria e organizzata. I tecnici del suono stavano rinnovando gli studi e costruendo complicate apparecchiature [...]. Vennero installati complessi apparati radiofonici con migliaia di fili elettrici. Uomini in equipaggiamento da astronauti sedevano con la cuffia sulla testa mentre gli attori recitavano sotto i microfoni penzolanti dai cavi come pesci presi all'amo...» .
Pensieri malinconici
Nella mente di Chaplin si aggiravano pensieri malinconici: «Di tanto in tanto riflettevo sulla possibilità di realizzare un film sonoro, ma la prospettiva mi faceva star male, perché mi rendevo conto che non avrei mai potuto raggiungere l'eccellenza delle mie pellicole mute. Avrei dovuto rassegnarmi all'idea di rinunciare completamente al personaggio del vagabondo. Certuni mi dissero che il vagabondo poteva anche acquistare la parola. La cosa era inconcepibile, perché la prima parola che avesse pronunciato lo avrebbe trasformato in un'altra persona. Inoltre, la matrice dalla quale era nato era muta come gli stracci che indossava» .
Con questo stato d'animo Chaplin realizzò Luci della città (1931) e Tempi moderni (1936), film nei quali si odono musica e rumori, ma privi di dialoghi parlati. Nel 1938 sapeva che il problema non avrebbe potuto trascinarsi oltre. Prima o poi avrebbe dovuto decidersi a fare un film parlato, anche se ciò comportava la definitiva uscita di scena del personaggio di Charlot. Pensieri malinconici, appunto. In quel momento Chaplin concepì l'idea di realizzare un film che mettesse in ridicolo la figura del dittatore tedesco Adolf Hitler. «Nel 1937 Alexander Korda mi aveva consigliato di fare un film su Hitler, giocando su uno scambio di identità dovuto al fatto che il vagabondo aveva i baffi uguali ai suoi: secondo lui, potevo interpretare io le due partì. Allora non ci pensai troppo, ma un anno dopo l'idea mi parve di estrema attualità. All'improvviso mi venne un lampo di genio. Ma certo! Nei panni di Hitler avrei potuto arringare la folla usando un gergo incomprensibile o dicendo tutto quello che volevo. E in quelli del vagabondo potevo tacere quasi completamente. Un film su Hitler era l'ideale per una parodia e una pantomima. Perciò, pieno di entusiasmo, mi misi a scrivere il soggetto. Occorsero due anni per portarlo a termine» .
Il grande dittatore nasce dunque all'insegna di due esigenze distinte: una legata all'affacciarsi alla ribalta della storia della minacciosa figura di Hitler, l'altra determinata dai problemi tecnico-artistici che l'affermazione ormai definitiva del sonoro poneva all'arte cinematografica di Chaplin. La prima delle due esigenze impone al film il carattere, oltremodo esplicito, che ne fa un autentico manifesto contro la dittatura nazifascista e contro ogni altro genere di dittatura politica, economica o militare. I tempi lo esigevano. «La guerra era di nuovo nell'aria. I nazisti marciavano già. Come avevamo fatto presto a dimenticare la prima guerra mondiale e i suoi quattro anni di strazianti sofferenze! [...]. Ora si stava preparando un'altra guerra, mentre io cercavo di scrivere un copione per Paillette [Goddard, all'epoca moglie di Chaplin]; ma non facevo progressi. Come potevo dedicarmi ai capricci femminili o pensare ai romantici idilli o ai problemi amorosi quando una maschera grottesca, quella di Adolf Hitler, stava per piombare il mondo nella follia?» .
Venti di guerra
28 settembre 1937, visita ufficiale di Mussolini in Germania. 12 marzo 1938, annessione dell'Austria. 29-30 settembre 1938, firma degli accordi di Monaco. Questi gli eventi pubblici che si susseguono mentre Chaplin annuncia di voler fare un film che metterà in ridicolo il dittatore tedesco e assumerà la difesa degli ebrei, la cui persecuzione a opera dei nazisti, già avviata da tempo, aveva avuto una spettacolare recrudescenza in occasione della cosiddetta notte dei cristalli . Le reazioni stizzite da parte della stampa tedesca non suscitano sorpresa. Chaplin viveva negli Stati Uniti pur avendo conservato la cittadinanza britannica. Giungono pressioni dalla Gran Bretagna, che lo invitano ad accantonare un progetto ritenuto inopportuno sul piano diplomatico a causa del clima delicato seguito agli accordi di Monaco. Durante la preparazione del film (1939), Chaplin deve misurarsi con analoghe pressioni che provengono dall'America e dagli ambienti professionali di Hollywood, nei quali Chaplin scopre con apprensione inclinazioni filonaziste.
«Mentre ero a metà del Dittatore cominciai a ricevere allarmanti comunicazioni da parte della United Artists [casa di produzione fondata da Chaplin nel 1919 in collaborazione con Douglas Fairbanks, D. W. Griffith e altri]. L'ufficio Hays [organismo di censura del cinema statunitense] li aveva avvertiti che stavo per cacciarmi nei guai [...]. Ma io ero deciso a tirare avanti, perché Hitler doveva essere messo alla berlina. Se avessi conosciuto gli orrori dei campi di concentramento tedeschi non avrei potuto fare Il Dittatore; non avrei certo potuto prendermi gioco della follia omicida dei nazisti. Ma ero ben deciso a mettere in ridicolo le loro scemenze sulla purezza del sangue e della razza» .
1° settembre 1939, la Germania invade la Polonia. Due giorni dopo, la Gran Bretagna e la Francia dichiarano guerra alla Germania. A Hollywood, nello studio di Chaplin, tutto è pronto per le riprese del film, che hanno inizio il 9 settembre. Nei mesi successivi, mentre Chaplin è al lavoro, la situazione precipita in Europa. Invasione del Belgio, crollo della linea Maginot, disfatta di Dunkerque. Francia e Gran Bretagna sono con le spalle al muro. Entra in guerra l'Italia (10 giugno 1940). Gli Stati Uniti esitano ancora tra interventismo e isolazionismo, ma Chaplin si accorge che l'atteggiamento nei confronti del film sta mutando. «Ora il nostro ufficio di New York spediva frenetici telegrammi: "Sbrigatevi a finire il film, tutti lo aspettano"» . Uscito sugli schermi il 15 ottobre 1940, Il grande dittatore è il primo film americano a prendere chiaramente posizione contro Hitler e il regime nazista. 22 giugno 1941, la Germania invade l'URSS. 7 dicembre 1941, attacco giapponese alla base di Pearl Harbour e conseguente entrata in guerra degli Stati Uniti.
Charlie Chaplin jr., figlio dell'attore-regista, che all'epoca della lavorazione de Il grande dittatore aveva 14 anni, ricorda che il padre «si era procurato molti documentari, che studiava per lunghe ore proiettandoli sullo schermo dello studio, oppure in casa: si trattava di cronache cinematografiche che facevano vedere il Führer in mezzo ai ragazzi o con un bimbo in braccio o fra i degenti di un ospedale, dalle quali balzava evidente tutto l'istrionismo del dittatore. Mio padre ne osservava ogni atteggiamento e ogni gesto ed era entusiasta dell'immagine complessiva che andava formandosi nella sua mente [...]. Il ritratto che egli fece di Hitler risultò tanto perfetto che molti tedeschi, assistendo alla proiezione del film, asserirono che era necessario ascoltare assai attentamente per accorgersi che il linguaggio parlato da mio padre con la stessa inflessione di voce del Führer non era il tedesco, bensì un'imitazione di fantasia quanto mai efficace» .
Le cronache dal set raccontano che, mentre le scene nelle quali Chaplin fa la parodia dei discorsi di Hitler furono improvvisate, quella della danza del dittatore con il mappamondo richiese una lavorazione lunga e minuziosa con prove e controprove, riprese, interruzioni, verifiche e correzioni successive, eseguite con perfezionismo quasi maniacale. Il discorso finale fu girato nel luglio 1940 dopo che le riprese dell'intero film erano state ultimate nel marzo precedente. Benché la sceneggiatura scritta prima dell'inizio delle riprese contenesse un abbozzo del discorso finale, Chaplin ebbe modo di rielaborarlo a partire dall'aprile 1940. Gli aggiustamenti introdotti all'ultimo momento, durante le riprese e in sede di montaggio, corrispondono, com'è ovvio, a esigenze artistiche alle quali tuttavia non è estraneo l'incalzare degli eventi.
Carnefici e vittime
La storia narrata dal film si svolge intorno al 1937, ma ha un antefatto risalente alla prima guerra mondiale, durante la quale un barbiere ebreo, appartenente allo Stato di Tomania (Germania), viene mandato al fronte a combattere contro i francesi, è ferito, perde la memoria e finisce in manicomio. Venti anni dopo il barbiere fugge dall'ospedale e torna nel ghetto dove riapre la bottega. Nel frattempo in Tomania è salito al potere il dittatore Adenoid Hynkel, il quale arringa la folla mentre il suo pingue tirapiedi Herring, nel vano tentativo di stringere la cinghia (come il capo ordina di fare al popolo di Tomania), rompe la cinghia e perde i pantaloni.
Un altro fedelissimo del dittatore, Garbitsch, suggerisce al capo di infierire sugli ebrei per distrarre il popolo dal problema della fame. Cominciano le persecuzioni nel ghetto da parte delle Camicie Grigie. Alle umiliazioni inflitte agli ebrei si alternano scene della vita del dittatore, installato nel suo fastoso palazzo (la Cancelleria di Berlino), dove riceve la visita del collega Benzine Napaloni (interpretato da Jack Oakie), dittatore dello Stato di Bacteria che confina con la Tomania. I dittatori sono interessati all'invasione dell’Osterlich, uno Stato pacifico che fa gola a entrambi. La rappresentazione grottesca ha lo scopo di fornire una doppia caricatura di Hitler e Mussolini, puntando sulla reciproca rivalità dei dittatori alle prese con l'annessione dell'Austria.
Chaplin interpreta il doppio ruolo di Hynkel e del barbiere. Si tratta dell'ennesima variazione sul tema del sosia, che attraversa l'intera storia del teatro (Plauto, Goldoni, Molière, Giraudoux...), da dove è passato con disinvoltura in quella del cinema. I due personaggi fisicamente simili, ma psicologicamente contrapposti, non si incontrano mai nel film. Uno appartiene al mondo dei carnefici, l'altro a quello delle vittime. Chaplin, interprete e autore, gioca con entrambe le figure, simili e antitetiche, facendole muovere a passo di danza con la maestria della quale deteneva il segreto. Alla danza del dittatore con il mappamondo (una pagina di cinema meritatamente famosa), accompagnata dalle note del preludio del Lohengrin di Wagner, corrisponde, da parte del barbiere, la rasatura di un cliente, eseguita anch'essa a suon di musica, accompagnata da una danza ungherese di Brahms. Un'altra sequenza memorabile è quella nella quale il barbiere, ascoltando un furibondo discorso radiofonico del dittatore, trasmesso dagli altoparlanti nel ghetto, immagina di essere inseguito da Hynkel e non osa voltarsi indietro a raccogliere il cappello (la bombetta di Charlot) caduto sul marciapiede.
Approfittando di una tregua tra una persecuzione e un'altra, il barbiere intreccia un idillio con la giovane Hannah (Paulette Goddard), anche lei abitante del ghetto. Ma la tregua è di breve durata. Il barbiere viene arrestato. Hannah fugge in Osterlich, presto raggiunta dalle truppe di Hynkel. Il barbiere fugge dal campo di concentramento, travestito da ufficiale dell'esercito di Tomania. Grazie alla somiglianza fisica, viene scambiato per Hynkel, il quale, travestito da cacciatore, viene scambiato per il barbiere e arrestato al suo posto. Il barbiere, entrato involontariamente nel ruolo del dittatore, deve salire su una tribuna e pronunciare un discorso. Il poveruomo si sente morire dentro. Poi, come per miracolo, le parole affiorano alle sue labbra.
I collaboratori più stretti di Chaplin erano concordi nello sconsigliarlo dal chiudere il film con un discorso di sei minuti. Tim Durant, amico di Chaplin, interpellato da David Robinson, biografo del regista, ricorda: «Si trattava di un discorso sull'umanità. Ci fu una discussione su questo argomento [...]. Era un elemento che non si accordava con il resto del film. Era antiestetico. Nessuno accettava che Charlie andasse a impantanarsi, nel finale, con la propaganda [...]. I distributori del film gli hanno detto: "In questo modo perderete un milione di dollari". Lui ha risposto: "Non mi importa nemmeno se ne perdo cinque milioni". Lo ha fatto e, ben inteso, gli è costato carissimo». Il prezzo pagato da Chaplin per questo atto di coraggio non riguarda l'accoglienza del film da parte del pubblico, che fu calorosa, ma le osservazioni dei critici della prima ora, i quali, pur apprezzando il resto, bollarono il discorso finale come incongruo tanto per il contenuto quanto per la forma. Tutto il film, infatti, si sviluppa sotto il segno della commedia, della satira, del grottesco, a eccezione di questo discorso troppo serio, il cui contenuto non piaceva né ai progressisti, che lo ritenevano inficiato dal sentimentalismo, né ai conservatori che vi fiutavano odore di marxismo .
L’ultima volta di Charlot
Il contenuto del film, il suo messaggio, come si diceva una volta, è di una chiarezza lampante. Al di là del discorso esplicito, che conferisce alla pellicola la sua importanza «storica», ce n'è però un altro, che si annida nella dimensione metalinguistica e può essere colto scrutando tra le pieghe del film, in assenza del quale Il grande dittatore, pur mantenendo la carica polemica nei confronti del nazifascismo, non sarebbe quel capolavoro che è.
Nel film sono presenti tre distinti elementi, tutti e tre macroscopici, la cui reciproca eterogeneità rinvia a un disegno complesso, non lineare, basato su un reciproco rapporto di pesi e contrappesi, che determinano un non facile equilibrio. Alla figura del vagabondo (nelle vesti del barbiere ebreo) si contrappone, come si è visto, quella del dittatore Hynkel. Praticamente muta la prima, dotata la seconda di un eloquio basato sull'imitazione caricaturale dell'oratoria, già di per sé istrionica, di Hitler. Quando, al termine del film, il barbiere è costretto dalle circostanze a pronunciare un discorso, le sue parole, alle quali Chaplin affida la risposta al farneticare di Hider, non appartengono a nessuno dei due personaggi (Hynkel e il barbiere), che, fino a quel momento, si sono reciprocamente contrapposti nel film. Il discorso finale appare come un terzo elemento, distinto e non meno macroscopico rispetto agli altri due.
Il barbiere ebreo è, di fatto, l'ultima apparizione di Charlot sullo schermo cinematografico. D'ora in avanti Chaplin attore cambierà ruolo. Sarà Verdoux in Monsieur Verdoux (1947), sarà Calvero in Luci della ribalta (1952), sarà un re spodestato in Un re a New York (1957), arriverà perfino a ritagliarsi una fugace apparizione come cameriere ne La contessa di Hong Kong (1967), interpretato da Sophia Loren e Marlon Brando. Oltre ad essere una feroce satira politica, Il grande dittatore è anche l'addio definitivo di Chaplin alla maschera che lo ha reso famoso. Essa era nata nel 1914 con le comiche da una o due bobine realizzate per la Keystone. I piccoli baffi neri, la bombetta, la giacca stretta e corta, i pantaloni larghi, le scarpe sfondate e la canna: è questo il corredo di un piccolo uomo che non riesce a inserirsi nella società. La leggerezza della pantomima e la rapida acquisizione di padronanza nei confronti dei mezzi espressivi del cinema aggiungono ritmo e vivacità alla sua disperata follia. Poi, tra il '18 e il '20, arrivano Vita da cani; Charlot soldato; Il monello. In questi film la maschera di Charlot si impone come il simbolo di un'umanità derelitta che non ha perso, nonostante tutto, la voglia di vivere e di lottare. L'arte del cinema si affina. Nasce la poesia. Non resta che aspettare i capolavori: La febbre dell'oro (1925); Luci della città (1931); Tempi moderni (1936). Nei due ultimi film, come si diceva, la colonna sonora accoglie musica e rumori, mentre il personaggio centrale rimane muto.
Neil' accingersi a realizzare Il grande dittatore Chaplin sapeva che era giunto per lui il momento di accomiatarsi definitivamente da Charlot. Dopo 25 anni di osmosi, deve decidersi a separarsi dal personaggio del vagabondo. Quando il barbiere fuggito dal manicomio riapre la bottega, ci accorgiamo che non è più un giovanotto. Alla fine del film se ne andrà senza incamminarsi, come aveva fatto altre volte, per una strada bianca la cui prospettiva si interseca ad angolo retto con la linea dell'orizzonte. Non è previsto nessun nuovo incontro, nessun ritorno. Accanto a lui ha preso posto un altro personaggio, che è più grande di lui. Un personaggio malefico e potente, che tende a occupare lo schermo per intero, e con il quale è difficile sostenere il confronto. Per la prima volta Charlot non è protagonista. È un segnale che indica l'avvicinarsi del triste momento nel quale dovrà farsi da parte. Se non lo farà spontaneamente, ci penseranno le circostanze a toglierlo di mezzo. La sua sorte è comunque segnata.
Ipotesi di un delitto
Chaplin sa che, in una maniera o in un'altra, Charlot deve morire. Non sa ancora come ciò accadrà, anche se non gli è difficile immaginare che la faccenda non potrà essere sbrigata in maniera indolore. È come se nella mente dell'autore, dietro le quinte di un teatro immaginario, si stesse svolgendo un dramma a tinte fosche. A chi toccherà l'ingrato compito di provvedere all'eliminazione fisica di Charlot? Basterà assoldare un killer? Charlot non è un personaggio che possa essere fatto fuori da un rivale qualsiasi. Con il passare del tempo, l'omino che al suo primo apparire poteva sembrare insignificante, è diventato un simbolo nel quale, in qualche modo, l'intera umanità si riconosce. Non potrà essere eliminato da un criminale come quelli che di solito si vedono al cinema, ma da qualcuno che si sia macchiato di crimini contro l'umanità. Il simbolo del bene dovrà misurarsi in uno scontro decisivo con il simbolo del male.
Ci sarebbe voluto un ingente sforzo di fantasia per immaginare un personaggio negativo che fosse all'altezza della fama ormai raggiunta da Charlot. In certi casi però, come si suole dire, la realtà supera la più fervida delle immaginazioni. È quanto accadde con l'affacciarsi di Hitler alla ribalta . Il racconto de Il grande dittatore potrebbe essere letto come un complotto, ordito alle spalle dell'omino, celebre ma inconsapevole della propria celebrità, che consiste nel servirsi di un suo nemico, che ostenta una potenza mostruosa, per sopprimerlo. Il film dimostra, con il suo procedere tra gag, pantomime e piroette disposte in reciproco contrappunto, che Charlot, inteso come simbolo, è indistruttibile. Anche il dittatore Hynkel, d'altra parte, ovvero Hitler passato al vaglio di un'elaborazione marionettistica che reca l'impronta del genio chapliniano, risulta nel film non meno invulnerabile di quanto lo sia il suo antagonista. Nulla di più estraneo alla mentalità di Charlot-barbiere che l'idea di passare all'azione partecipando a una cospirazione contro il dittatore. Lo dimostra la scena esilarante delle monete nascoste nei budini . Il gioco di altalena, messo in moto dal film, potrebbe prolungarsi all'infinito senza che nessuno dei due contendenti abbia mai il sopravvento.
Il film è anche la ricerca di una via di uscita, l'attesa di un evento straordinario che equivalga alla rottura del cerchio. Charlot deve morire. Bisogna trovare una situazione nella quale la morte del personaggio (la distruzione della maschera) risulti inevitabile e, allo stesso tempo, non sia priva di senso. La soluzione si presenta improvvisa ed è la più imprevedibile che si possa immaginare. Il barbiere scambiato per Hynkel ha davanti a sé una strada a senso unico, che deve percorrere fino in fondo. Al termine del suo viaggio c'è un palco dal quale si suppone che il dittatore, essendo nel frattempo avvenuta l'annessione dell'Osterlich, pronuncerà un discorso diffuso via radio. Al palco, che è molto alto, si accede per una scala, inquadrata di sbieco, che il barbiere creduto Hynkel sale con andatura traballante. Il suo incedere non è quello dei conquistatori, ma quello degli umili, che, anche quando sono privati di tutto, non rinunciano tuttavia alla loro dignità. A questo punto accade qualcosa di sorprendente. Il rumore dei tamburi, che risuona un po' attutito nella colonna sonora, è quello che, normalmente, accompagna i condannati a morte mentre si avviano al patibolo. Sulla fiancata del palco, poco sopra la scala che il barbiere sta salendo, appare la scritta Liberty. Ormai non ci sono più dubbi. Il palco sul quale sale l'omino è un patibolo e, allo stesso tempo, un altare: l'altare della libertà. Qui finisce il cammino di Charlot. La salita comporta, secondo lo schema iconografico abitualmente adottato in casi di questo genere, una caduta. Non manca nemmeno questa, anche se, per non smentire lo stile del film, essa appare dissimulata dietro la gag delle sedie pieghevoli che coinvolge i gerarchi, schierati per ascoltare il discorso, nell'ultimo passaggio comico della pellicola.
Morte e trasfigurazione
«Ora devi parlare», dice al barbiere il nazista pentito, suo compagno di fuga. «Parlare?...», risponde l'altro con tono sospeso. Sta forse cominciando a capire che, per lui, parlare equivale a morire: cessare cioè di essere il personaggio unico, da tutti conosciuto, con il quale ognuno si identifica, ed entrare nella massa anonima, all'interno della quale nessuno riuscirà più a distinguerlo dagli altri? «Devi - insiste il transfuga -: è la nostra sola speranza». «Speranza?...», ripete il barbiere con aria trasognata. La musica dei violini, che si affaccia in sordina, ci fa capire a questo punto che Charlot sta cominciando a pensare. Per lui che, da quando esiste, ha sempre agito d'istinto senza mai rendersi conto, in maniera riflessa, di quello che faceva, questo è l'inizio della fine.
Salita al patibolo, immolazione sull'altare della libertà... Dietro il palco dal quale il finto dittatore pronuncerà il discorso finale del film, il celebre «appello agli uomini», si profila l'ombra del Calvario, la stessa immagine, cara a Chaplin, che si era intravista tra un'inquadratura e l'altra nel prologo de Il monello per indicare la condizione della ragazza madre che, abbandonata da tutti, lascia l'ospedale recando tra le braccia il «frutto della colpa» . «E meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera» (Gv 11,50), aveva profetizzato Caifa parlando della morte di Gesù. Le stesse parole, sia pure in senso traslato, possono essere riferite alla scomparsa di Charlot.
Per sapere che cosa Chaplin pensasse della passione di Cristo negli anni che precedettero la realizzazione de Il grande dittatore, vale la pena di scorrere una pagina della già citata autobiografia. Vi si apprende che, durante una delle riunioni tra artisti, assai frequenti nella Hollywood dell'epoca, ebbe modo di incontrare il musicista Igor Stravinskij, il quale gli propose di fare un film insieme. «Inventai una storia lì per lì - racconta Chaplin -. "Dovrebbe essere una storia surrealista", dissi. Descrissi un decadente locale notturno con i tavoli disposti tutt'intorno su una pista da ballo. A ogni tavolo coppie e comitive rappresentano il mondo terreno: qui l'avarizia, là l'ipocrisia, la crudeltà ecc. Lo spettacolo è costituito dalla passione di Cristo, e mentre è in atto la crocifissione del Redentore le comitive intorno ai tavoli la seguono con indifferenza, chi ordinando la cena, chi parlando d'affari, chi mostrando uno scarsissimo interesse. La folla, i sommi sacerdoti e i farisei agitano il pugno all'indirizzo della croce [...].
«A un tavolo vicino c'è un gruppo di uomini d'affari che stanno parlando animatamente di una grossa operazione commerciale. Uno aspira nervosamente il fumo della sigaretta, solleva lo sguardo a Gesù, e lo soffia distrattamente nella sua direzione [...]. Durante lo spettacolo un ubriaco, seduto a un tavolo per conto suo, sotto l'influenza dell'alcool comincia a piangere rumorosamente e a gridare: "Guardate! Lo crocifiggono, e tutti se ne infischiano!". Cerca di alzarsi, ma cade a terra. Poi, sollevandosi a stento tende supplichevolmente le braccia verso la croce. La moglie di un pastore seduta lì vicino si lamenta col capo cameriere, e l'ubriaco viene messo alla porta [...]. "Vede - dissi a Stravinskij -, lo buttano fuori perché rovina lo spettacolo". Gli spiegai che rappresentare la passione di Cristo sulla pista da ballo di un night-club equivaleva a mostrare come era diventato cinico e convenzionale il mondo nella sua professione del cristianesimo. Sul viso del "maestro" si dipinse un'espressione assai grave. "Ma è una cosa sacrilega!", disse» . La collaborazione tra Chaplin e Stravinskij era terminata prima di cominciare.
André Bazin ha osservato a suo tempo che, nel pronunciare il discorso finale de Il grande dittatore, Chaplin mette a nudo il proprio volto: «Si percepisce nettamente la decomposizione del personaggio in questa inquadratura interminabile e, secondo me, troppo breve, nella quale ho colto soltanto l'accento di una voce suasiva e la più sconvolgente delle metamorfosi. La maschera lunare di Charlot spariva a poco a poco. Al di sotto, come per un effetto di sovrimpressione, affiorava il volto di un uomo già invecchiato, solcato da qualche ruga amara, i capelli attraversati da mèches bianche: il volto di Charles Spencer Chaplin. Questa sorta di psicoanalisi fotografica di Charlot è senza dubbio uno dei momenti più alti del cinema di tutti i tempi» . L'autore del film - questo è il senso delle parole di Bazin - al termine della rappresentazione si toglie la maschera e si affaccia alla ribalta per parlare al pubblico con il volto scoperto e la voce nuda.
Riprendendo il concetto della metamorfosi, già espresso da Bazin, il critico Michel Chion ne modifica il senso. «Chi è quest'uomo - egli si domanda - che al termine del film si avvicina ai microfoni per parlare al popolo, alla macchina da presa, allo spazio [...]? Chaplin, uscito dal travestimento dei suoi personaggi? Non lo credo. Credo piuttosto che egli stia interpretando un nuovo ruolo: quello dell'Uomo, non importa quale tra gli esseri umani, animato da sentimenti positivi e giusti. Non importa quale uomo, poiché tutti gli esseri umani hanno come luogo (dice egli stesso citando il Vangelo di san Luca) il regno di Dio» .
Appello agli uomini
Chi pronuncia il discorso finale del film: Charles Spencer Chaplin, uomo noto e ammirato in tutto il mondo (come suggerisce Bazin), oppure (come preferisce Chion) un individuo qualsiasi, scelto a caso nella massa degli spettatori, che parla a nome di tutti gli altri? Tra i due termini del dilemma viene voglia di inserirne un terzo: Chaplin inteso non come attore e regista, ma come semplice individuo, quello che sarebbe stato qualora, invece di imboccare la via del cinema che lo ha condotto al successo, si fosse occupato di una delle tante attività che non danno né notorietà né ricchezza, ma solamente quella porzione di felicità quotidiana alla quale ognuno degli abitanti del pianeta legittimamente aspira. La maschera di Charlot, simbolo tra i più noti, si trasforma, sotto gli occhi stupiti dello spettatore, in ciò di cui è simbolo. La figura cede il passo alla realtà. Il significante si dissolve nel significato. Il cinema, quando raggiunge i vertici dell'arte, è capace di simili prodigi.
«Scusate, ma non voglio fare l'imperatore. Non è il mio mestiere...», comincia Chaplin con voce esitante . Alla fine cambiando il tono della voce, si rivolge alla donna amata dal barbiere ebreo, che lo ascolta a distanza attraverso le onde della radio: «Alza gli occhi, Hannah! L'anima dell'uomo ha messo le ali e finalmente egli comincia a volare. Vola nell'arcobaleno, nella luce della speranza. Alza gli occhi, Hannah! Alza gli occhi!».
Ch. Chaplin, La mia autobiografia, Verona, Mondadori, 1964, 455
Ivi, 436.
Ivi, 471.
Ivi, 470.
Il 9 novembre 1938 la maggior parte delle sinagoghe della Germania e molti appartamenti e negozi ebrei furono distrutti dai nazisti. Numerosi ebrei furono uccisi o deportati nei campi di concentramento.
CH. Chaplin, La mia autobiografia, cit., 172.
Ivi, 173.
CH. Chaplin Jr., Charlot mio padre, Milano, Rizzoli, 1961, 180 s.
Sono note le traversie che Chaplin ha dovuto affrontare in seguito, per motivi politici, fino all’espulsione dagli Stati Uniti nel 1952.
Nell'aprile del 1939 Chaplin e Hitler compivano entrambi cinquant’anni a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro. In quella circostanza un giornale americano, mettendo a confronto i due personaggi, titolava: «L'uomo più amato e l'uomo più odiato del mondo».
Un nazista pentito, Shultz, ordisce una cospirazione, per attentare alla vita di Hynkel, nella quale coinvolge un gruppo di abitanti del ghetto, tra i quali c'è il barbiere. Una moneta nascosta in un budino indicherà chi è il prescelto dalla sorte per eseguire l'attentato. Hanna, che aiuta in cucina, mette una moneta in ciascuno dei budini che vengono serviti in tavola. Ogni commensale, pensando di essere il solo ad aver ricevuto la moneta, trova il modo di passarla di nascosto nel piatto del vicino. Il barbiere finisce con l'ingoiarle una dopo l'altra trasformando così il proprio stomaco, scosso dai singulti, in un rumoroso salvadanaio.
Interpretata da Edna Purviance, la madre de Il monello si guarda attorno smarrita mentre appare per un istante sullo schermo il profilo del Calvario con Cristo che porta la croce.
Ch. Chaplin, La mia autobiografia, cit., 475 s.
A. Bazin, Charlie Chaplin, citato in Cahiers du cinéma, octobre 2002, 62.
M. Chion, «Le Dicatateur et le collimateur», in Positif, sectember 2001, 96-98.
Ecco il testo del discorso: «Non voglio governare o conquistare nessuno. Mi piacerebbe aiutare tutti, se fosse possibile: gli ebrei, i gentili, i neri, i bianchi. Noi tutti vogliamo aiutarci vicendevolmente, gli esseri umani sono fatti così. Vogliamo vivere della reciproca felicità, non della reciproca infelicità. Non vogliamo odiarci e disprezzarci. Al mondo c'è posto per tutti. E la buona terra è ricca e in grado di provvedere a tutti. La vita può essere libera e bella, ma noi abbiamo smarrito la strada: la cupidigia ha avvelenato l'animo degli uomini, ha chiuso il mondo dietro una barricata di odio, ci ha fatto marciare, col passo dell'oca, verso l'infelicità e lo spargimento di sangue. Abbiamo aumentato la velocità, ma ci siamo chiusi dentro. Le macchine che danno l'abbondanza ci hanno lasciato nel bisogno. La nostra sapienza ci ha resi cinici; l'intelligenza duri e spietati. Pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità. Più che d'intelligenza abbiamo bisogno di dolcezza e bontà. Senza queste doti la vita sarà violenta e tutto andrà perduto.
«L'aereo e la radio ci hanno avvicinati. E l'intima natura di queste cose a invocare la bontà nell'uomo, a invocare la fratellanza universale, l'unità di tutti noi. Anche ora la mia voce raggiunge milioni di persone in ogni parte del mondo, milioni di uomini, donne e bambini disperati, vittime di un sistema che costringe l'uomo a torturare e imprigionare gli innocenti. A quanti possono udirmi io dico: non disperate. L'infelicità che ci a colpito non è che un effetto dell'ingordigia umana: l'amarezza di coloro che temono la via del progresso umano. L'odio degli uomini passerà, i dittatori moriranno e il potere che hanno strappato al mondo ritornerà al popolo [...].
«Nel diciassettesimo capitolo di San Luca sta scritto che il regno di Dio è nell'uomo [...]. In voi! Voi, il popolo [...] avete il potere di rendere questa vita libera e bella [...]. E allora, in nome della democrazia, usiamo questo potere, uniamoci tutti. Battiamoci per un mondo nuovo, un mondo buono […]».
Fonte: http://www.folzano.it/archivio/testi/documenti/catechesi/CC_Chaplin_GrandeDittatore.doc
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