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A caval donato, non si guarda in bocca.
A caval donato, nun se guarda ‘n bocca.
Per valutare l’età e lo stato di salute di un cavallo si controlla la bocca.
Il detto vale come considerazione di tornaconto per dire che quello che ci viene dato senza richiesta o spesa va bene com’è e non si devono fare apprezzamenti sull’eventuale scarso valore dei doni.
Acchiappare i granchi con le mani degli altri.
Chiappà le grance co le mano dell’altre.
Si dice di chi cerca di procurarsi benefici in situazioni difficili con il rischio di altri.
L’espressione deriva dal pericolo che si corre prendendo i granchi con le mani perché possono mordere con le chele.
A chi tanto e a chi niente.
A chi tanto e a chi gnente.
E’ un’espressione che esprime lamentela contro l’iniqua distribuzione delle cose e delle ricchezze.
A chi tocca, non s’ingrugna.
A chi tocca nun s’engrugna.
E’ analogo al precedente perché anch’esso invita alla rassegnazione quando si è obbligati a fare cose alle quali non ci si può sottrarre o accadono cose spiacevoli. Perciò occorre accettarle, non restarci male mettendo su il broncio o un’espressione corrucciata, aggrottando il viso. Ingrugnarsi vuol dire mettere su il grugno (= muso di animale).
A chi tocca, tocca.
Ognuno nel corso della propria vita può andare incontro a situazioni, a volte difficili e spiacevoli, a volte fortunate. Nell’uno e nell’altro caso ciascuno dovrà rassegnarsi alla sorte che gli è toccata.
La descrizione di un evento negativo la troviamo in Manzoni (1785–1873) (I Promessi Sposi, capitolo XXXIII) quando Renzo ritornato al suo paese incontra Tonio, il testimone del tentativo di matrimonio a sorpresa in casa di Don Abbondio. Tonio, malato di peste, che gli aveva minato sia il corpo che la mente, non faceva altro che ripetere l’espressione “A chi la tocca, la tocca”.
A ciascun giorno basta la sua pena.
Sufficit diei poena sua.
E’ una frase che si trova nel Vangelo di Matteo (6, 34).
A ciascuno, la sua croce.
A ognuno la su croce.
A tutti tocca qualche cruccio, o dolore, anche se nascosto.
Acqua alle corde.
Acqua a le corde.
Il modo di dire è legato all’erezione dell’obelisco di S. Pietro nel 1586. Ad un certo punto gli argani si erano bloccati e i cavali non riuscivano a sollevare l’enorme peso. Il papa Sisto V aveva dato l’ordine che al pubblico presente durante i lavori fosse vietato di parlare, pena la morte. Ad un certo punto però dalla folla si alzò un grido: ”Acqua alle corde”. Il suggerimento fece risolvere le difficoltà, e i lavori furono ultimati. L’autore dell’infrazione, tale capitan Bresca, arrestato e condotto davanti al papa, non solo non venne giustiziato, ma ottenne il privilegio di fornire la basilica di S. Pietro degli ulivi necessari per le cerimonie della Domenica delle Palme.
Acqua d’aprile, ogni goccia un barile.
Acqua d’aprile, gni goccia ‘n (b)barile.
Il proverbio evidenzia l’importanza delle piogge frequenti nel mese di aprile, in particolare perché indispensabili ad un abbondante raccolta di uve.
Acqua e chiacchiere non fanno frittelle.
Acqua e chiacchiere nun fan frittelle.
Ossia non producono niente di consistente.
Il proverbio vuol dire che le discussioni, i confronti dialettici sono importanti se producono qualcosa di concreto, altrimenti non hanno alcuna utilità.
In una sua favola (L’autore, V), Fedro (14-54 d. C.) dice “Sensum aestimandum esse, non verba” (Si badi alla sostanza, non all’apparenza).
Acqua in bocca
Acqua ‘n bocca
Il detto è legato all’episodio di una donna che si rivolse a San Filippo Neri per chiedere un consiglio su come comportarsi col marito di fronte agli inevitabili litigi che si verificavano tra loro ogni sera quando lui tornava ubriaco e lei non sapeva astenersi dal rimproverarlo rimediando sempre botte e improperi. Per risolvere il caso, il Santo dette alla donna una boccetta piena di liquido e ben tappata raccomandandole di metterne in bocca un po’ ogni sera quando il marito rientrava. La donna ubbidì e il marito, credendo che la moglie fosse diventata muta, a poco a poco perse la voglia di inveire contro di lei. Tornata da San Filippo per avere altro liquido, la donna si sentì dire che non si trattava d’altro che di acqua comune che la donna poteva attingere ad ogni fontana.
Perciò, di fronte a situazioni difficili come quella raccontata, l’unica cosa buona da fare è quella di tenere acqua in bocca.
Acqua passata, non macina più.
Acqua passata, nun macina più.
Il proverbio è nato in ambiente rurale. Nei mulini ad acqua le ruote sono mosse appunto dall’acqua, che una volta passata, non è più utilizzabile. E’ riferito a tutto ciò che non si considera più importante, a episodi spiacevoli che si vogliono dimenticare, oppure a proposito di impressioni e di affetti dimenticati.
Il proverbio è riportato anche dal Verga (1840-1922) ne I Malavoglia (X, 139).
Acquista buona nomina e ruba pure.
Acquista (b)bona nomina e rubba pure.
Vuol dire che se una persona si fa una buona nomina può commettere anche azioni criminose senza che si creda alla sua colpevolezza. E’ importante farsi una buona reputazione.
Scriveva Cicerone (106-43 a. C.): “Iustis et fidis hominibus ita fides habetur, ut nulla sit in iis fraudis iniuriaeque suspicio”.
Il proverbio ha un precedente anche nel Decameron di Giovanni Boccaccio (1313-1375): “Chi è reo e buono è tenuto, può fare il male e non è creduto” (Novella di frate Alberto, IV 2,5).
Esistono anche espressioni col significato contrario, ad esempio: “Quicumque turpi fraude semel innotuit, etiam si verum dicit, amittit fidem” (Chi si bruttò con turpe inganno il nome, anche se dice il vero è inascoltato) (Fedro, Il lupo e la volpe con la scimmia giudice).
Adocchia, adocchia, Cristo fa la gente e poi l’accoppia.
Occhia, occhia, Cristo fa le gente e poe l’accoppia.
Significa che due persone che stanno insieme sono identiche, uguali o assai simili nei modi di fare e di essere.
E’ la riduzione in lingua paesana del proverbio più comune Chi si somiglia, si piglia. Vedere anche il proverbio: “Somigliarsi come due gocce d’acqua”.
Ad ogni uccello, il suo nido è bello.
A ogni ucello, ‘l su nido è (b)bello.
C’è chi ha la fortuna di nascere in posti bellissimi dei quali si parla in tutte le guide turistiche del mondo, ma c’è anche chi nasce in luoghi desolati dove la vita è particolarmente dura.
Il proverbio sta a significare che gli uomini restano abbarbicati alla terra che li ha visti nascere anche quando, spesso per sopravvivere, sono costretti ad andarsene, portando in cuore il ricordo di quello che hanno lasciato e lo trasformano con la fantasia in qualcosa che continuano ad amare.
Il proverbio è riportato anche dal Verga ne I Malavoglia (X, 146 – XI, 157).
Affogarsi in un bicchiere d’acqua.
Affugasse ne ‘n bicchier d’acqua.
Detto a chi si smarrisce facilmente nell’affrontare problemi di facile soluzione. Perdersi in un nulla.
Agire dietro le quinte.
Agì dietro le quinte.
Agire di nascosto, in genere per interesse personale, lasciando intendere che quanto avviene sia opera d’altri. Può anche significare di indurre altri a comportarsi in un certo modo per ricavarne dei vantaggi.
Aggiungere al danno le beffe.
Aggiunge al danno le beffe.
Si dice quando chi subisce un danno subisce anche la derisione.
Da una favola di Fedro (Il calvo e la mosca, V, 3). La mosca pizzicò la testa di un uomo calvo, che cercando di scacciarla si diede un grosso scapaccione. La mosca lo prese in giro e gli disse: “hai voluto vendicarti di un piccolo volatile come me, che farai ora a te stesso dopo che ti sei procurato il danno e le beffe?”.
Boccaccio nel Decamerone (8, 6) racconta che Bruno e Buffalmacco rubano un porco a Calandrino e dopo vari imbrogli si fanno dare anche due paia di capponi, ricattandolo con la minaccia di dire alla moglie che il maiale lui l’aveva venduto e intascato i soldi. Così Calandrino, per evitare le ire della consorte Monna Tessa, deve cedere alle richieste di coloro “li quali avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calandrino col danno e con le beffe”.
Aiutati che Dio t’aiuta.
Aiutite che Dio t’aiuta.
Dio aiuta le persone che si danno da fare. C’è gente che crede invece che tutto debba caderle dal cielo.
Il modo di dire invita a comprendere che l’avvenire ce lo creiamo noi lavorando duramente e che non ci si può aspettare tutto dal cielo. Sarebbe comodo, ma anche ingiusto.
Il proverbio è stato reso famoso dalla favola di La Fontaine “Il barrocciaio impantanato” (Favole, VI, 18), che racconta di un barrocciaio che trasportava farina; finito in una pozza di fango dapprima tentò di uscirne dandosi da fare con imprecazioni e invettive ma senza risultato, quando infine si risolse a invocare l’aiuto di Dio riuscì a tirare fuori il carretto e a rimetterlo in strada risolvendo il problema.
Si dice anche: “Salvati che Dio ti salva” e “Chi s’aiuta, Dio l’aiuta ”.
A lavare la testa all’asino si sciupa ranno e sapone.
A lavà la capoccia all’asino se sciupa ranno e sapone.
Significa non riuscire a ottenere nulla.
Si dice quando si cerca di far comprendere una cosa agli altri ma,oltre al fatto che loro non ti considerano, finisci per perderci qualcosa anche tu.
Al contadino non far sapere quant’è buono il cacio con le pere.
Al contadino nun gne fa sapere quant’è (b)bono ‘l cacio co le pere.
L’origine di questo proverbio è incerta ma forse è nato nell’ambito dei rapporti tra padrone e contadino, quando quest’ultimo era tenuto in piena soggezione e quindi tutti i prodotti migliori venivano sottratti per la mensa del proprietario. Era logico quindi che al contadino non si dovessero insegnare gli accostamenti dei sapori dell’arte culinaria per non correre il rischio che avesse trattenuto per sé prodotti così buoni portandoli al proprietario in quantità ridotte.
Il poeta Francesco Berni ha scritto (1498-1535): “Non ti faccia, villano, Iddio sapere cioè che tu non possa mai gustare cardi, carciofi, pesche, anguille e pere”.
Al corpo male usato, quello che fa gli viene ripensato.
Si usa dire per giustificare i nostri sospetti maliziosi.
Il detto esprime propriamente il concetto che chi è abituato a compiere azioni cattive e perverso è portato a pensare che tutti gli altri esseri si comportino come lui.
Al cuor non si comanda.
Al core nun se comanna.
I sentimenti in genere non obbediscono a nessun ordine.
Si usa specialmente per dire che non ci si innamora (e non si smette di amare) a comando, e più in generale per sottolineare che la volontà propria o altrui può poco sugli affetti.
Alle porte di Napoli c’è scritto: “gira quanto ti pare, qui t’aspetto”.
A le porte de Napole c’è scritto: “gira quanto te pare e qui t’aspetto”.
Vuol dire che la bellezza di Napoli è tale che almeno una volta vale la pena di vederla. C’è anche un detto napoletano che dice Vide Napoli e poi more.
Allevare una serpe in seno.
Allevà ‘na serpe ‘n seno.
Aiutare chi in seguito può nuocere. La favola di Esopo, Fedro e La Fontaine, narra di un contadino che scaldò una serpe assiderata e ne fu poi morso.
All’uccello ingordo gli crepa il gozzo.
All’ucello ‘ngordo je crepa ‘l gozzo.
Il proverbio è preso dal mondo animale e invita a sapersi accontentare per non correre il rischio che esagerando ci si procuri guai.
Al nemico che fugge, ponti d’oro.
Il concetto espresso con questa metafora è semplice: se il nemico fugge conviene agevolargli in ogni modo la strada perché non cambi avviso. Non sprecare quindi energie nell’inseguirlo ma semplicemente lasciarlo fuggire. Anzi, come suggeriscono Scipione l’Africano e l’antica arte militare cinese, il buon stratega deve attaccare in modo da lasciare sempre una via di fuga al nemico, con l’obiettivo di farlo scappare più che di distruggerlo. Infatti – dice un proverbio sempre cinese – “aspetta e vedrai il cadavere del tuo nemico galleggiare sul fiume”.
Il proverbio suggerisce di non voler stravincere quando si è riportata una vittoria su problemi sostanziali.
A lume di naso
Deriva dall’espressione latina “lumine nasus ”, che vuol dire a lume di naso.
Per i curiosi e gli impiccioni si dice “ficcare il naso”, per i delusi “restare con un palmo di naso”.
A lunga tesa, ogni paglia pesa.
A lunga tesa, ‘gni paja pesa.
In un viaggio lungo anche un oggetto poco pesante risulta fastidioso e ingombrante.
A mali estremi, estremi rimedi.
A male estreme, estreme rimedie.
Se il male è estremo, anche il rimedio dev’essere uguale. Il proverbio serve per giustificare la durezza o la drasticità di certi provvedimenti da adottare di fronte alla gravità di alcune situazioni.
Ambasciatore non porta pena.
Ambasciator nun porta pena.
Il detto ricorda che non bisogna prendersela con chi porta cattive notizie.
Il Manzoni, nei Promessi sposi (Cap.V), spiega quest’antica norma mettendo in bocca al podestà queste parole: “… il messaggero è di sua natura inviolabile, per diritto delle genti, jure gentium: e senza andar tanto a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena. E i proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano”.
Ambo stretto, terno aspetto.
E’ un auspicio che molti giocatori di tombola si fanno per vincere il terno che, secondo un detto di origine incerta, sarebbe più facile a realizzarsi dopo un ambo fra due numeri posti sulla stessa fila uno accanto all’altro.
Ammazza, ammazza, son tutti d’una razza.
Ammazza, ammazza, so tutte de na razza.
E’ un’espressione che si usa in senso spregiativo e vuol dire che alcune persone, appartenenti alla stessa stirpe o no, o alcune categorie di persone, hanno gli stessi difetti.
Ne “Er maestro de musica e la mosca”, Trilussa (1871-1950) mette in bocca alla mosca le seguenti considerazioni: ”Vojantri (uomini) séte tutti uguale: ammazza, ammazza*, tutti d’una razza. Non fate caso a certe puzzonate finché ve fanno comodo, ma quanno capite che ve possino fa’ danno, diventate puliti, diventate!... Io, invece de chiamalla pulizia, la chiamerebbe con un antro nome…”.
*Per quanti se ne scarti (se ne ammazzi).
Amore con amor si paga.
Amore con amor se paga.
Bisogna amare per essere riamati. Volersi bene è un comandamento del Vangelo: ”Amatevi gli uni e gli altri“, anche se dobbiamo ammettere che a volte non è facile.
Dante Alighieri (1265-1321) nella Divina Commedia ha scritto: “L’animo ch’è creato ad amar presto, ad ogni cosa è mobile che piace, tosto che dal piacere in atto è desto” (Purgatorio XVIII, 19-21), per dire cioè che l’animo che è pronto con la disposizione ad amare, si muove ad ogni cosa che gli piace, perché il piacere spinge quella sua disposizione a mettersi in atto, a passare dalla potenza all’atto.
Amore mio, struccio d’aglio, quando ti vedo, mi travaglio.
Amore mio, struccio d’ajo, quanno te vedo, me travajo.
E’ un’espressione poco riverente verso una persona che per un verso si preferirebbe tener lontano ma talvolta anche amare.
Come si sa, l’aglio risulta di cattivo odore e si rinfaccia provocando sensi di nausea perché non è facilmente digeribile, ma possiede altresì proprietà battericide, antisettiche, ipotensive ed è nemico del colesterolo.
Spicchi d’aglio venivano somministrati agli egizi che lavoravano nelle piramidi perché dava buon umore e preveniva le malattie. Gli atleti dell’antica grecia lo masticavano prima di ogni gara. Durante le pestilenze, i medici visitavano i malati tenendo nella maschera un tampone imbevuto di soluzione agliacea.
Ancora durante la prima guerra mondiale del 1915-1918 molte persone sono sopravvissute alla pestilenza denominata “spagnola” (una specie di “aviaria”) mangiando aglio.
Anticamente in Inghilterra si usavano corone d’aglio per tenere lontani demoni e vampiri.
Anche le pulci hanno la tosse.
Anche le pulce c’hanno la tosse.
La pulce è un insetto molto piccolo che emette suoni e rumori impercettibili. In senso figurato si dice di chi vuol fare sentire la propria voce, anche se ha poca voce in capitolo.
Andare a briglia sciolta.
Annà a brija sciolta.
Andare senza freni. Le briglie, nel caso di un cavallo in corsa, rappresentano i freni e i comandi in generale.
Andare a Cannara ad acciaccare le cipolle.
Annà a Cannara a acciaccà le cipolle.
Fare una cosa inutile.
Andare a Canossa.
Annà a Canossa.
Nella dieta di Worms del 1076, l’imperatore tedesco Enrico IV di Svezia dichiarò deposto il papa Gregorio VII e questi, a sua volta, scomunicò l’imperatore liberando i suoi sudditi dal vincolo dell’obbedienza. Ma i principi tedeschi ordinarono all’imperatore di riconciliarsi col Papa entro un anno, altrimenti sarebbe stato deposto. Enrico IV si recò a malincuore a Canossa, vicino a Reggio Emilia, a chiedere perdono al papa che era lì, ospite della contessa Matilde di Toscana. Il Papa fu severissimo con l’imperatore e prma di riceverlo gli ordinò di restare per tre giorni fuori del castello, a piedi nudi in mezzo alla neve e con abito da penitente. Il quarto giorno Gregorio lo ricevette e lo perdonò.
Il principe tedesco Bismark il 14 maggio 1882, ricordando questo storico avvenimento, altezzosamente annunciò al Reichstag che non sarebbe mai andato a Canossa, cioè che non si sarebbe mai umiliato davanti al papa.
Oggi andare a Canossa vuol dire “umiliarsi, riconoscere i propri torti, chiedere perdono”.
Andare a far l’erba al treno.
Annà a fa l’erba al treno.
Fare una cosa inutile e senza senso.
Andare a fare terra per i ceci.
Annà a fa terra pe le cece.
Morire. Far da concime alla terra col corpo putrefatto.
Andare a gambe per aria.
Anna a gamme per aria.
Andare in rovina, fallire. Rovesciare la situazione in negativo.
Andare a gatta.
Annà a gatta.
Andare in cerca di ragazze per corteggiarle. L’esempio è preso dall’abitudine dei gatti di farsi sentire con forti miagolii nei periodi in cui vanno in amore.
Andare a gonfie vele.
Annà a gonfie vele.
Un tempo, quando non c’erano ancora i motori e la navigazione si faceva soltanto a vela o a remi, l’avere le vele gonfiate dal vento era una cosa positiva perché permetteva alla nave di andare velocemente sfruttando tutta la forza del vento, senza che i marinai si stancassero a remare.
Oggi si dice che un’impresa, un’affare ecc… va a vele gonfie per indicare che tutto procede nel migliore dei modi.
Espressioni analoghe sono “Andare a vele spiegate”, “Andare col vento in poppa”.
Andare a letto con le galline.
Annà a letto co le galline.
Le galline, come molti animali diurni, seguono il sole. Andare a letto con le galline significa letteralmente andare a letto al tramonto, per estensione coricarsi molto presto la sera.
Andare al fresco.
Annà al fresco.
Significa “essere messo in carcere “e di solito le celle dei carcerati sono (o almeno erano quando si è diffuso questo modo di dire)” umide e non riscaldate, perciò fredde, fresche.
Andare all’accompagno.
Annà all’accompagno.
Partecipare al funerale per accompagnare il morto all’ultima dimora.
Andare alla deriva.
Annà a la deriva.
Vuol dire spostarsi dalla rotta prestabilita a causa del vento e delle correnti, in riferimento a un corpo galleggiante non governato da nessuno.
In senso figurato vuol dire abbandonarsi al proprio destino senza reagire, oppure andare incontro alla decadenza fisica e morale.
Andare alle pule.
Annà a le pule.
Vuol dire perdere tutto al gioco, andarsene con le tasche pulite perché non c’è più un soldo.
Andare a quel paese.
Annà a quel paese.
Si manda “a quel paese” una persona che ci ha fatto arrabbiare. E’ un invito perentorio a levarsi di torno. Si usano anche espressioni più forti come “Andare al diavolo”, “Andare all’inferno” e più volgari quale “Andare a dare via il c…”.
Andare a Roma e non vedere il Papa.
Annà a Roma e nun vedè ‘l Papa.
Significa trascurare cose importanti, oppure non onere la cosa più importante, non arrivare al traguardo dopo tanta fatica .
Andare a zonzo.
Annà a zonzo.
Girare senza meta, anche solo per divertimento. Non è nota l’origine etimologica della parola “zonzo” che alcuni vorrebbero fosse una forma onomatopeica derivata dal suono che emettono le mosche durante il loro volo notoriamente irregolare e imprevedibile.
Andare in bianco.
Annà ‘n bianco.
Non raggiungere lo scopo, non ottenere quanto sperato. Un giovanotto che sperava di conquistare una ragazza ma non è riuscito a concludere nulla “è andato in bianco”.
Andare in brodo di giuggiole.
Annà’in brodo de giuggiole.
In riferimento al contenuto zuccherino delle giuggiole, frutto commestibile, il proverbio viene usato per indicare chi prova, per merito proprio o di altri, la dolcezza di un forte godimento.
Andare indietro come i gamberi.
Annà ‘n dietro come le gambere.
Di solito il gambero non cammina all’indietro, ma se c’è un pericolo si piega e cammina al contrario.
In senso figurato l’espressione significa andare all’indietro, peggiorare o regredire, oppure ritirarsi da una impresa.
Andare in luna di miele.
Annà ‘n luna di miele.
E’ il primo periodo di matrimonio, tutto dolcezza e felicità.
Luna significa anche “mese lunare”, “mese”. Questo modo di dire è molto antico; già nei libri dello Zend, che raccolgono la storia di Zoroastro (sec.VIII-VII a. C.) è scritto che “il primo mese del matrimonio è la luna di miele e il secondo la luna dell’assenzio”.
L'usanza della luna di miele ebbe inizio presso gli antichi Teutoni, che vivevano nello Jutland, nel Nord d'Europa, finchè non migrarono a sud nel II sec. a.C. Per un mese lunare dopo le nozze gli sposi celebravano la loro unione bevendo idromele, una bevanda alcolica ricavata dal miele.
Si narra che Attila, re degli Unni, morì soffocato per aver trangugiato troppo avidamente la portentosa bevanda dopo un matrimonio particolarmente sospirato, nel 453 d.C.
Questa festa divenne nota come "luna di miele" e in seguito l'espressione si riferì all'abitudine degli sposi di fare un viaggio immediatamente dopo il matrimonio. In alcuni casi essa indica più genericamente le prime settimane successive alle nozze, in cui si suppone che i novelli sposi vadano particolarmente d'amore e d'accordo.
Andare in rosso.
Annà ‘n rosso.
Significa “rimanere senza soldi”, dal colore “rosso” usato per evidenziare le passività e le perdite di un bilancio aziendale.
Andare in tilt.
Annà in tilt.
Significa “andare in confusione”. E’ un espressione relativamente recente, entrata nell’uso corrente da quando son cominciati ad apparire i flipper che se venivano sollecitati troppo fortemente smettevano di funzionare e compariva la parola “tilt”, appunto “andavano in tilt”.
Andare in visibilio.
Annà ‘n visibilio.
Alla base di questo detto ci sono le parole latine del Credo della Messa “… visibilium omnium et invisibilium” “(Credo in Dio creatore) delle cose visibili e invisibili”. “Visibilio” da visibilium dunque, cioè dal genitivo plurale di un aggettivo neutro sostantivato.
Andiamo in visibilio quando, dopo aver desiderato o aspettato qualcosa ansiosamente, essa si avvera recandoci una gioia indicibile, ad esempio un bacio atteso e mai avuto fino a quell’istante, un responso positivo sulla nostra salute, o anche piaceri che ci ristorano il fisico dopo tanta fatica ecc…
Andare liscio come l’olio.
Annà liscio come l’olio.
Detto in riferimento ad una prova o a una situazione che si è svolta senza difficoltà e senza problemi.
Andare per i tetti.
Annà pe le tette.
Significa cercare di sfuggire a un inseguimento, a una cattura, scappando anche sui tetti. Cercare di allontanarsi in ogni modo da una situazione difficile.
Andare per la maggiore.
Annà pe la maggiore.
Nella Repubblica fiorentina i cittadini erano raggruppati in società dette “Arti”; di questa sette erano dette maggiori e cinque minori. Fra le Arti maggiori c’erano i giudici, i notai, gli speziali (i professionisti, diremmo oggi) e fra quelle minori coloro che possedevano un mestiere. Perciò si diceva che i cittadini più importanti andavano per la maggiore.
Oggi, andare per la maggiore, significa “essere noti e stimati”.
Andare via con la coda fra le gambe.
Annà via co la coda fra le gamme.
Allontanarsi come un cane umiliato.
Anno nuovo (‘l giorno s’allunga) un passo de bovo.
Anno novo (‘l giorno s’allunga) ‘n passo de bovo.
Mentre a Natale ‘n passo de cane.
Anno nuovo, vita nuova.
Anno novo, vita nova.
Ad ogni inzio d’anno si fanno propositi di vita uova.Vale come augurio e come proposito.
A ogni morte di Papa.
A ogne morte de Papa.
Molto raramente. La morte di un Papa è considerata un evento relativamente raro.
A ognuno il suo.
A ognuno ‘l suo.
Compito fondamentale della giustizia è di dare a ciascuno ciò che gli spetta.
Fedro (Il pavone da Giunone per la propria voce, III, 18) fa rispondere da Giunone al pavone che si lamentava della propria voce, ritenendola inadeguata rispetto alla sua avvenenza e bellezza: “Da voi si rappresenta quanto vi si concede, arbitro il fato: da te beltà, dall’aquila il vigore, la melodia dall’usignolo, e fausto dal corvo l’augurar, dalla cornacchia il presagir sinistro, e ognun di sua virtù lieto si sente”.
A ognuno il suo mestiere, e il lupo alle pecore.
A ognuno ‘l su mestiere, e ‘l lupo a le pecore.
Il proverbio è riferito a chi pretende di giudicare cose delle quali non ha alcuna competenza.
Dante Alighieri (Paradiso, XIX, 79-81) dice: “Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia con la veduta corta d’una spanna?”.
A pagare e morire c’è sempre tempo.
A pagà e morì c’è sempre tempo.
Per pagare un debito si aspetta il più possibile, a maggior ragione si vorrebbe fare così anche per morire. E per ogni altra cosa sgradita.
A pensare male del prossimo si fa peccato ma ci s’indovina.
A pensà male del prossimo se fa peccato ma ce s’indovina.
E’ un vecchio proverbio, riportato già dal Giusti nella propria raccolta, reso celebre dal Sen. Giulio Andreotti, politico di grandissima esperienza, per essere stato parlamentare fino dalla costituzione della Repubblica italiana, sette volte Presidente del Consiglio dei Ministri e più volte Ministro.
E’ come dire “Fidarsi è bene, ma……”.
Appendere l’abito a un chiodo.
Appenne l’abito a ‘n chiodo.
Modo di dire che significa: abbandonare una data attività perché non si è più in grado di esercitarla. Il detto risale a una usanza degli antichi gladiatori che, quando venivano liberati, dedicavano le loro armi ad Ercole e le appendevano alle porte del tempio a lui dedicato.
Aprile, ogni goccia un barile.
Aprile, ‘gni goccia ‘n barile.
E’ un proverbio col quale si vuole evidenziare l’importanza delle frequenti piogge nel mese di aprile, in particolare perché indispensabili per un’abbondante raccolta di uve.
Aprire la bocca e darle fiato.
Aprì la bocca e dajje fiato.
E’ un’espressione di rimprovero a chi parla senza pensare a quello che dice.
Aria fritta.
Ormai ha stancato, questo modo di dire riferito a parole prive di contenuto, gonfie solo dell’aria emessa per pronunciarle. In genere commenta i discorsi fumosi, le promesse illusorie, campate in aria. Fritta, appunto.
Armiamoci e partite!
Questa battuta fu messa in voga da Lorenzo Stecchetti (pseudonimo di Olindo Guerrini) nel 1895, al tempo della prima impresa abissina, che doveva concludersi male per l’Italia l’anno dopo: ne fecero largo uso, allora e dopo, gli antimilitaristi, e la si ripete ancora oggi per ironizzare su chi sprona gli altri a rischiare, ad affrontare disagi e pericoli, badando bene, però, a non farlo egli stesso.
Arrampicarsi sugli specchi.
Arrampicasse su le specchie.
Sforzarsi invano di argomentare l’impossibile, com’è di fatto impossibile potersi arrampicare sulla superficie liscia di uno specchio.
Arrivare sul filo di lana.
Essere arrivati alla fine di qualcosa che si è portata a termine, di solito con successo.
La frase deriva dalle antiche gare sportive, marcia, maratona o corsa, il cui traguardo era segnato da un filo di lana che veniva spezzato dal corpo del vincitore.
Aspetta e spera...
È nell’uso familiare e ha lo stesso significato e valore di campa cavallo... , come dire: “Ti illudi, caro mio!” Proviene da Faccetta nera, marcetta che accompagnò la campagna di Etiopia (1935-1936) e la conquista del nostro effimero impero coloniale.
Aspettare la manna dal cielo.
Aspettà la manna dal celo.
Stare senza far nulla aspettando l’aiuto di altri per risolvere i problemi.
Viene dal detto evangelico “Non fate come i vostri padri che mangiarono la manna nel deserto e morirono”. La manna secondo le Scritture (Esodo, 16,31) “era un seme di coriandolo, bianco e aveva il gusto di schiacciata fatta con il miele”. Era un cibo misterioso che aiutò gli ebrei durante l’esodo dall’Egitto verso la Terra Santa (Esodo, 16, 1-15).
Assalto alla diligenza.
Nel linguaggio parlamentare italiano la frase si diffuse al principio del 1915, quando l’on. Salandra definì in tal modo le manovre dell’opposizione per far cadere il governo. La si usa tuttora per qualificare gli intrighi orditi da persone o gruppi di persone per scalzare dal loro posto altre persone o gruppi; e soprattutto quando scopo ultimo degli intrighi è l’arrembaggio al “carrozzone”, cioè agli incarichi lautamente retribuiti.
Attaccare bottone.
Attaccà bottone.
Perche' un bottone avvicinandosi all'asola e poi entrando dentro riesce ad "attaccare" le due parti del vestito, cosi le persone si avvicinano e con il discorso si "attaccano".
"Attaccare bottone" si dice quando una persona inizia a parlarti imponendoti una conversazione noiosa e non la smette piu': ti si appiccica un po' addosso e non lo levi piu' proprio come un bottone che cuci su una stoffa.
Attaccarsi al tram.
Attaccasse al tram.
L’espressione è stata originata dall’abitudine che avevano alcuni passeggeri ritardatari di aggrapparsi alle strutture esterne del tram per non perdere la corsa. Oggi quest’espressione si usa in senso figurato per indicare la situazione di chi si vede costretto a rinunciare a un obiettivo, per non aver fatto il possibile per raggiungerlo in tempo.
A tavola non s’invecchia.
A tavola nun s’envecchia.
Un tempo si usava questa espressione per indicare che i piaceri della tavola abbreviano la vita a colui che ne abusa. Oggi invece queste stesse parole vengono adoperate per significare che a tavola si sta bene, che mangiando non si sente il peso degli anni, falsando completamente il senso originario.
A tutto c’è rimedio fuorché alla morte.
Il solo problema che non possiamo risolvere è la morte.
Il proverbio invita perciò a non perdersi d’animo quando ci troviamo di fronte gravi avversità.
Avanzare i piedi fuori dal letto.
Avanzà le piede fora del letto.
Si usa questa espressione per dire che una persona è talmente povera da doversi accontentare di cose scarse e insufficienti come, ad esempio, un letto più corto, rimediato alla meno peggio, non disponendo appunto di mezzi adeguati a procurarsene uno della giusta misura.
Avere amore e timore.
Avecce amore e timore.
Usare il bastone e la carota.
Avere culo.
Avecce culo.
E’ molto comune l’uso delle natiche come metonimia per l’intera persona, spesso con connotazioni negative. Ad esempio ad una persona si può dire “muovi il culo” come esortazione a fare una cosa in fretta oppure “ti prendo a calci in culo” quando si vuole dare una punizione o sferrare un attacco. Nell’espressione “avere culo” le natiche simboleggiano la fortuna. Tale modo di dire sembra essere venuto in auge verso la fine degli anni Trenta, riferito a un personaggio dei giornali umoristici che era, appunto, dotato sia di un posteriore di vaste dimensioni che di una notevole fortuna.
Avere fegato.
Avecce fegato.
Essere coraggioso, e di chi arriva fino alla temerarietà si dice che è sfegatato. L’origine: presso gli antichi, per esempio Etruschi e Greci, il fegato era considerato sede di ogni sentimento e qualità interiore. Dal suo esame indovini etruschi specializzati traevano previsioni, e tale arte era detta “aruspicina”. Per poter esaminare correttamente tale organo, ne furono realizzati modellini di terracotta o bronzo, da utilizzare come guida e promemoria: celebre, ad esempio, è il cosiddetto “fegato di Piacenza”, un fegato di bronzo, di un ovino, diviso in sedici regioni, ognuna presieduta dalla divinità di cui porta inciso il nome; a seconda delle differenze che riscontravano tra il modello e l’organo esaminato, gli aruspici traevano messaggi positivi o negativi da parte dei vari dei.
Più tardi il compito di ospitare sentimenti ed emozioni fu assegnato al cuore, che tuttora, per tradizione, lo svolge, incurante dei progresso scientifico.
Avere i beni al sole.
Avecce le bene al sole.
Possedere terreni.
Avere i coglioni quadrati.
Avecce le cojone quadrate.
Essere esperto nel proprio campo.
Avere i grilli in testa.
Avecce le grille su la testa.
Avere i grilli in testa. Essere pieno di idee strane o di borie.
Avere il ballo di San Vito.
Avecce ‘l ballo de San Vito.
Essere incapaci di stare fermi. Deriva da “Ballo di San Vito”, termine popolare per indicare la corea, una malattia che attacca il sistema nervoso ed induce ad un movimento convulso delle membra. Secondo la tradizione popolare il santo guaritore da questo male sarebbe San Vito, invocato anche come santo protettore dei danzatori.
Avere il bernoccolo.
Avecce ‘l bernoccolo.
Secondo la frenologia, dottrina secondo cui le funzioni psichiche avrebbero una particolare localizzazione cerebrale, una scienza fondata e diffusa dai tedeschi Francesco Gall (1758-1828) e Gaspare Spurzheim (1776-1832), dall’osservazione del cranio si possono scoprire le tendenze, le aspirazioni, i sentimenti, i difetti, insomma i caratteri di un a persona. I due scienziati furono ammirati da alcuni e beffeggiati da altri che introdussero l’espressione avere il bernoccolo (sottinteso “nel cranio”) degli affari, delle invenzioni, dell’arte, quasi che ad ogni disposizione corrispondesse una data escrescenza della testa.
Nella patologia criminale, teorie analoghe furono quelle elaborate da Cesare Lombroso.
Avere ìl cervello come una gallina.
Avere ìl cervello come na gallina.
Si dice di chi dimostra di avere poca memoria e di non comprendere neanche le cose più semplici.
La castrica si dice, ironicamente, che fa il nido e poi si scorda dove l’ha fatto.
Avere il magone.
Avecce ‘l magone.
Il magone è il ventriglio del pollo. Il modo di dire, in senso figurato, esprime un accoramento, vuole significare provare un dispiacere.
Avere il male dell’agnello: cresce la pancia e cala l’uccello.
Avecce ‘l male dell’agnello: cresce la trippa e cala l’ucello.
Si dice a chi ha una pancia grossa, con ironica allusione alla sua perduta virilità.
Avere il pelo sullo stomaco.
Avecce ‘l pelo su lo stomaco.
Essere insensibili, crudeli, senza scrupoli.
Avere la coda di paglia.
Avecce la coda de paja.
L’espressione è presa da un’antica favola che raconta di una volpe caduta in una tagliola dove lasciò una gran parte della coda. Poiché si vergognava a farsi vedere con quella menomazione, gli animali che la conoscevano ebbero compassione di lei e le costruirono, alla meglio, una coda di paglia. La volpe raccomandò ai suoi benefattori di mantenere il segreto, ma un galletto disse la cosa in confidenza a qualcuno, e di confidenza in confidenza, la cosa fu saputa dai padroni dei pollai i quali accesero un po’ di fuoco davanti a ogni stia: la volpe, per paura di bruciarsi la coda, se ne tenne lontana.
Perciò si dice che uno ha la coda di paglia quando ha commesso qualche sbaglio, sicchè ha sempre paura di essere scoperto.
Avere l’acquolina in bocca.
Avecce l’acquolina ‘n bocca.
Letteralmente si riferisce alla salivazione che in modo spesso incontrollabile si scatena alla vista o al pensiero di un cibo particolarmente gustoso. L’espressione viene usata per indicare quelle situazioni che attirano la nostra attenzione in quanto offrono la prospettiva di un semplice, immediato e positivo beneficio.
Avere la faccia come il culo.
Avecce la faccia come ‘l culo.
Detto di persoa sfrontata, imperterrita nel mentire, nell’imbrogliare, nel fare brutte figure e simili.
Avere la faccia di bronzo.
Avecce la faccia de bronzo.
Di solito la faccia di una persona assume varie espressioni, diventa bianca dalla paura, rossa dalla vergogna ecc…, ma ci sono tipi che non si scompongono mai e se anche vengono rimproverati, sbugiardati, svergognati rimangono impassibili. Di quest’ultimi si dice che hanno la faccia di bronzo, perché il bronzo resiste a lungo senza alterarsi per niente.
Avere la febbre magnarella.
Avecce la febbre magnarella.
Dire di star male e al tempo stesso avere voglia di mangiare bene e in abbondanza.
Edmond Rostand in Cirano di Bergerac (Atto V, Scena V) ci dà questo quadretto
spiritoso:
“Sabato il re Luigi di Borbone
ebbe la febbre per indigestione
ma la sua malattia venne arrestata
e per lesa maestà fu condannata.
Domenica al gran ballo della corte
di candele esaurirono le scorte.
Le nostre truppe, pare, hanno battuto
l’esercito imperiale in un minuto.
Quattro stregoni furono impiccati
per essersi al demonio consacrati.
E alla cagnetta di madame d’Athis
hanno fatto un clistere lunedì…
Martedì poi… non è successo niente.
Mercoledì ventitre per una gita
la corte a Fontainebleau si è trasferita.
Lo stesso giorno inoltre a Montglait
ha detto un secco no al conte di Fiesqué.
Giovedì la Mancini sembra che
sia rimasta a dormire con il re.
Venerdì la Montglait ci ha ripensato
e ha detto infine sì al suo innamorato.
Sabato ventisei qualche ora fa
hanno colpito a morte Bergerac”.
Avere la luna di traverso.
Avecce la luna de traverso
Essere stizzito, di malumore provocato, come si riteneva un tempo, dai mutamenti della luna.
Avere la pazienza di Giobbe.
Avecce la pa(z)zienza de Giobbe.
Significa avere una pazienza infinita.
Nell’Antico Testamento (Libro di Giobbe, I, 1-4) Giobbe descrive la sua vita che fu messa alla prova da Dio: gli rubarono le mandrie, gli uccisero i garzoni, i suoi figli morirono sepolti sotto le macerie della casa crollata, ma Giobbe non imprecava e ripeteva la frase: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il nome del Signore”. Poi il suo corpo si coprì di piaghe ma Giobbe continuava a invocare Dio accettando tutte le prove finché la pietà divina vi mise fine riportandolo al primitivo stato, con tutti i suoi familiari e con tutti i beni moltiplicati.
Avere l’argento vivo.
Avecce l’argento vivo.
Non poter stare mai fermo, muoversi continuamente.
La locuzione nasce dall’immagine del mercurio che, nel linguaggio della chimica, tra i tanti nomi era chiamato anche argento vivo. Il mercurio è infatti l’unico metallo liquido presente in natura.
Il Manzoni ne I Promessi Sposi (Capitolo XXIII) usa l’espressione: “E’ un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano a aver l’argento vivo addosso”.
Avere le mani bucate.
Avecce le mano bucate.
Vuol dire essere spendaccioni.
“E’ proprio vero - scriveva Aulo Persio (34 d.C.) - il denaro cade su certa gente come in una cloaca”.
(La cloaca è il condotto che raccoglie e scarica i liquidi di rifiuto e le acque piovane. Nel gergo chiavica).
Lo scrittore Ippolito Nievo ne Le confesioni di un italiano scrive: “La gente diceva ch’ella aveva le mani bucate, ed era vero, ma non se ne accorgeva”.
Avere pane per i propri denti.
Avecce ‘l pane pe le su dente.
Avere paura della propria ombra.
Avè paura de la su ombra.
Chi ha paura della propria ombra è considerato un debole, un vigliacco. Non solo non è in grado di affrontare un avversario reale ma vede nemici immaginari anche dove non ci sono.
Avere sette vite come i gatti.
Avecce sette vite come le gatte.
La credenza che assegna “sette vite” ai gatti è molto antica e attestata in molte lingue del mondo. Essa ha probabilmente avuto origine dalla capacità dell’animale ad atterrare sulle sue zampe anche dopo una lunga caduta. Perciò, in senso figurato, chi ha sette vite come i gatti riesce sempre a riprendersi, anche dopo una batosta che ad altri sarebbe fatale.
Avere sul capo la spada di Damocle.
Indica una minaccia, un grave pericolo che incombe continuamente. Riferito a questo modo di dire, si ricorda un episodio di cui fu protagonista Damocle, amico e uomo di corte del tiranno di Siracusa Dioniso II, detto “il Vecchio”. Damocle invidiava la fortuna e i privilegi del potere regale, anche se il re cercava di fargli capire le difficoltà che doveva affrontare nella posizione di potere che ricopriva. Per persuaderlo di ciò, Dioniso lo convinse a ricoprire la sua carica per un giorno, e durante la cena fece sistemare sulla testa di Damocle una spada sguainata, appesa con un crine di cavallo, per meglio fargli comprendere la grande inquietudine in cui viveva un sovrano, e le difficoltà e i pericoli sempre in agguato per chi detiene un grande potere.
Avere un asso nella manica.
Avecce ‘n asso ne la manica.
Nei giochi di carte, l’asso nascosto nella manica ce l’hanno i bari. Ma in senso figurato l’espressione non implica necessariamente un giudizio morale negativo. Significa aver delle risorse, delle proposte, degli argomenti tenuti in serbo e che, fatti valere al momento più opportuno, assicureranno il successo, la vittoria.
Avere una febbre da cavallo.
Avecce ‘na febbre da cavallo.
In senso figurato significa avere la febbre molto alta. La temperatura corporea del cavallo è analoga a quella dell’uomo, ma può divenire molto più alta, e per il cavallo, che è abbastanza delicato, può diventare molto pericolosa.
Avere una gatta da pelare.
Avecce ’na gatta da pelà.
Crearsi un problema difficile, com’è difficoltoso pelare un gatto.
Avere una lingua che taglia e cuce.
Avecce ‘na lingua che taja e cuce.
E’ un modo di dire che ha avuto origine nelle campagne della Toscana. La metafora distingue chi ha una lingua “che taglia e cuce” dal comune pettegolo (“una lingua biforcuta”) per la grande abilità oratoria e quindi per la capacità di intessere fra loro (“tagliar e cucire”) fatti e circostanze atti ad avvalorare quanto sostenuto. Non per nulla “le parole sono come le pietre” e “ne uccide più la lingua che la spada”.
Avere uno scheletro nell’armadio.
Avecce no scheletro ne l’armadio.
E’ un’espressione figurata presa dall’inglese e significa avere un segreto imbarazzante, qualcosa di cui ci si vergogna, qualcosa di cui si ha paura che venga a conoscenza degli altri. Ciascuno di noi nella vita privata può aver commesso errori o azioni che sul momento potevano essere ritenuti non gravi. Più tardi, soprattutto se si è esposti al pubblico e si è acquistato un certo prestigio, ci si vergogna di quegli errori o di quelle azioni e si teme che se scoperti si possa essere screditati.
La locuzione ha le sue radici nella letteratura nera o gialla in cui spesso chi ha commesso un delitto, non sapendo dove nascondere le testimonianze, ricorre all’elementare espediente di chiudere nell’armadio il cadavere della vittima, sotterfugio che quasi sempre sarà scoperto.
Avere voce in capitolo.
Avecce voce ‘n capitolo.
Godere di notevole autorità e prestigio. Avere l’autorevolezza di poter parlare a proposito di un certo argomento. Il capitolo in questione è in realtà un calco del latino capitolum, “collegio”, “consiglio”.
B
Bacco, tabacco e Venere riducono l’uomo in cenere.
Bacco, tabacco e Venere riducono l’omo ‘n cennere.
Il vino in eccesso, le sigarette e il sesso sfrenato fanno male alla salute.
Con questo proverbio ci si rivolge in maniera scherzosa a chi conduce una vita sregolata.
Bandiera vecchia, onor di capitano.
Quando è vecchia, o forse perché è vecchia, la bandiera è più gloriosa e dunque fa onore a chi ne è portatore. E’ un orgoglio per chi la detiene perché significa che non gli è stata mai tolta.
Nel linguaggio militaresco indica le virtù delle cose vecchie di cui parla. Si dice anche a riguardo di chi abbia consumato gli strumenti del proprio mestiere per averli adoperati molto.
Barulla, barulla, chi li ha fatti li trastulla.
Barulla, barulla, chi l’ha fatte le trastulla.
I bambini, quando piangono, devono essere coccolati da chi li ha messi al mondo.E’ un modo di dire usato spesso da nonni e parenti quando non se la sentono di occuparsi dei capricci o dei pianti dei loro nipoti.
Beati gli ultimi, se i primi sono discreti.
Beate l’ ultime, si le prime so discrete.
Esclamazione usata scherzosamente per consolare chi rimane per ultimo in una certa azione e situazione. Se quelli a cui tocca per primi di scegliere saranno moderati e sapranno discernere il loro necessario senza arraffare tutto ci sarà anche per chi rimane ultimo.
Bisogna fare di necessità virtù.
Bisogna fà de necessità virtù.
“Facere de necessitate virtutem” è una frase di San Girolamo (340-420) che invita a fare con buona disposizione d’animo, non controvoglia, le cose che dobbiamo fare obbligatoriamente.
C’è una frase latina che dice : “De necessitatibus non fit passio”…
Bisogna fare il passo secondo la gamba.
Bisogna fà ‘l passo seconno la gamma.
Impegnarsi in cose che sono alla nostra portata, che non siano al di fuori delle nostre possibilità.
Bisogna mangiare per vivere, non vivere per mangiare.
Bisogna mangà pe vive, e nun vive pe mangà.
E’ una sentenza riportata, con parole più o meno simili, negli scritti di Cicerone e Quintiliano (morto nel 96 d.C.), ma trova la fonte comune in Socrate, come viene riferito dallo storico Plutarco (I° secolo d. C.) e da Macrobio (I° secolo a.C.).
Bocca unta non disse mai male.
(B)bocca unta nun disse mae male.
Rimane unta la bocca di chi ha mangiato cibi ben conditi e succulenti e li ha gustati per averli ricevuti in dono, perciò non se ne lamenta, anzi nella maggior parte dei casi ringrazia (cioè dice bene di chi l’ha invitato a mangiare). A pancia piena, nessuno si lamenta. Si usa anche in senso figurato per dire che chi viene trattato bene non dice male dei suoi benefattori.
Buona notte, Gesù, che l’olio è caro.
(B)bonanotte, Gesù, che l’olio è caro.
Si usa per indicare la volontà di smettere di fare una cosa, facendo finta che l’atto sia causato da altre motivazioni esterne.
Trilussa ne Li burattini dice:
“L’omo è un burattino
che fa la parte sua fino ar momento
ch’è mosso da la mano der destino;
ma ammalappena ch’er burattinaro
se stufa de tenello in movimento,
bona notte, Gesù, ché l’ojo è caro”.
Nel nostro paese è nota la storiella di un’anziana signora che stanca di stare a pregare davanti al SS. Sacramento spense la lampada e disse: “Bona notte, Gesù, che l’olio è caro”.
Buon sangue non mente.
(B)bon sangue nun mente.
Di solito i caratteri ereditari si trasmettono di padre in figlio.
Si dice sia per le persone che per gli animali, quando compiono azioni o imprese non inferiori a quelle degli ascendenti.
Buon vino fa buon sangue.
(B)bon vino fa (b)bon sangue.
Il proverbio deriva dal libro dei Salmi: “Vinum bonum laetificat cor haminis” (Psalm., III, 15).
Bua, bua, oggi la mia, domani la tua.
(B)bua, (b)bua, ogge la mia e domane la tua.
Il proverbio, in senso figurato, invita a non gioire delle disgrazie degli altri perché quello che oggi tocca a loro domani può capitare a noi.
E’ lo stesso che dire Oggi a me, domani a te.
C
Cacciatore di lepre e penne, non avrà mai grano da vender.
Cacciatore de lepre e penne, nun avrà mae grano da venne.
E’ un’espressione in cui ha risalto il suono della rima ma sul piano pratico vuol dire che la caccia, sia alla lepre che ai volatili, non è fonte di eccessiva ricchezza per chi la pratica.
Cambiano i suonatori, ma la musica è sempre quella.
Cambiano le sonatore, ma la musica è sempre quella.
Si dice quando col mutare dei protagonisti o dei dirigenti la sostanza dei fatti (umani, politici, …) resta la stessa.
Cambiare le carte in tavola.
Cambià le carte ‘n tavola.
Con questo proverbio si indica l’azione scorretta di chi cerca di barare nei confronti di un’altra persona affermando cose diverse da quelle che aveva detto in precedenza.
Campa, cavallo mio, che l’erba cresce.
Invito ironico o rassegnato a cercare di sopravvivere in attesa di un evento favorevole che però è lontano, improbabile, e non dipende da noi. E per aspettative così incerte si dice in senso negativo che Chi di speranza vive, disperato muore.
La frase è legata a un racconto popolare con protagonista un uomo che cercava di portare a casa un vecchio cavallo per una strada assolata e senza erba. Il contadino cercava di incoraggiare il quadrupede, che a causa della fame camminava a stento e cercava invano qualche ciuffo d’erba, dicendogli: ”Forza, non abbandonarti, tira ancora avanti. Campa ancora finché cresca l’erba e poi vedrai che ti passerà la fame”. Non si sa se queste parole abbiano avuto successo, sono però passate nel vocabolario.
Campa, e lascia campare.
Campa, e lascia campà.
Esorta alla tolleranza o anche all’indifferenza verso le azioni o i modi di vita altrui.
Cane che abbaia, non morde.
Can c’abbaja, nun morde.
Si ritiene che di solito i cani che abbaiano quando ci si avvicina non siano pericolosi.
Il proverbio afferma più o meno scherzosamente che chi proferisce molte minacce di solito non passa ai fatti.
Ne I Promessi Sposi (Capitolo I) Perpetua cerca di consolare don Abbondio, spaventato dai bravi, con queste parole: ”Eh! Le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano”.
Ha qualche analogia con Tra il dire e il fare… .
Canta, che ti passa.
Canta, che te passa.
E’ un invito a non dar troppo peso a fatti o avvenimenti spiacevoli.
Secondo Piero Jahier (direttore del giornale “L’Astico”, fondato nel 1918), queste parole furono scritte sulla parete di una dolina da un ignoto soldato durante la guerra ’15–’18, dopo la sconfitta di Caporetto, per sostenere il morale dei soldati. (La dolina è una depressione di forma arrotondata frequente nei terreni calcarei e dovuta al fenomeno carsico, è sinonimo di foiba).
Che il canto abbia l’effetto di placare affanni e dolori, noia e tristezza, è noto fin dai tempi antichissimi; la mitologia racconta che Orfeo con il suo canto muoveva le piante e le pietre e rendeva mansueti gli animali selvatici (Eschilo, Agamennone, 1629, Euripide, Ifigenia in Aulide, 1211). Sempre Orfeo con il suono dolcissimo della cetra commosse la regina delle ombre Persefone, che gli permise di riprendersi la sua Euridice.
Dante, quando incontrò il musico Casella (Purgatorio II, 76-117), dopo aver visto gli orrori dell’Inferno, lo pregò di cantare perché sapeva che la dolcezza della musica gli avrebbe rasserenato l’animo affranto.
Anche il Petrarca condivideva l’effetto mitigatore del canto e scrisse: ”Perché cantando il duol si disacerba” (Canzoniere, XXIII, 4).
Canta la merla sulla quercia nera, inculati, padron, ch’è primavera.
Canta la merla su la cerqua nera, n’culite, padro’, ch’è primavera.
Lo dicevano i contadini perché a primavera scadevano i contratti e così se si erano trovati male lasciavano un padrone per cercarne uno migliore, più liberale.
Capisce più un matto in casa sua che un savio in casa d’altri.
Capisce più ‘n matto‘n casa sua che’n savio ‘n casa d’altre.
Il proverbio allude alle difficoltà oggettive che si incontrano nel dover cercare le cose che altri hanno ordinato e messo in determinati luoghi di loro proprietà.
Carne che non duole, dalla a chi la vuole.
Carne che nun dole, dalla a chi la vole.
Chi non sa quanti sacrifici sia costato l’acquisto di un oggetto, o di un bene, non ne apprezza appieno il valore, perciò lo usa in modo disinvolto. Il proverbio invita a fare buon uso delle cose che ci sono date in eredità o per altro tipo di donazione, con un ammonimento al rispetto per le fatiche e l’impegno che altri hanno messo nel procurarle.
Carta canta e villan dorme.
Si è più tranquilli quando gli accordi sono messi per iscritto.
Questa verità la conoscevano anche i nostri padri latini che dicevano “Scripta manent, verba volant”: gli scritti restano, le parole volano. E’ opportuno perciò che le cose di una certa importanza vengano messe per iscritto. La carta canta, cioè dice ben chiaro ciò che le è stato affidato. Il proverbio aggiunge e villan dorme intendendo che anche un povero ignorante che non sa leggere e scrivere, se ha un foglio in mano può stare tranquillo e dormire senza pensieri.
Carta che venga, giocator si vanta.
Il proverbio è nato dal gioco delle carte per sottolineare che senza l’aiuto di carte di valore è difficile vincere. Anche nel gioco occorre avere dalla propria parte un po’ di fortuna perché la bravura da sola non basta.
Casa mia, casa mia,
(… per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia).
Nel 1525, ritornato a Ferrara dopo essere stato governatore in Garfagnana per conto degli Estensi, Lodovico Ariosto (1474-1533) comprò una casa e sulla porta scrisse: “Parva sed apta mihi, sed nulli obnoxia, parta meo sed tamen aere domus”, piccola ma adatta a me, debitrice verso nessuno, ma acquistata col mio denaro.
Si usano anche le esclamazioni “casa, dolce casa”, “andiamo a casina nostra”. Vedere per analogia: “A ogni ucello ‘l su nido è bello”.
Cascare come il cacio sui maccheroni.
Cascà come ‘l cacio su le maccherone.
Si dice quando succede una cosa buona, a proposito, nel momento giusto e ci rende felici, come quando mangiamo una pastasciutta condita con sugo e formaggio.
Vuol dire che la faccenda ha avuto la sua logica e sperata conclusione, allo stesso modo come una spolverata di formaggio conclude nel miglior dei modi la presentazione di un fumante piatto di maccheroni. E' da ricordare che un tempo, a Napoli, quando i maccheroni venivano serviti per strada a frettolosi avventori da appositi rivenditori detti "maccheronari" un piatto di maccheroni in bianco servito solo con l'aggiunta di formaggio e un po' di pepe si vendeva per due soldi ed era appunto detto 'o doje allattante cioè “il due al latte”, mentre i maccheroni al sugo di pomodoro costavano tre soldi ed erano detti 'o tre garibbalde con riferimento al rosso della camicia del condottiero nizzardo.
Si dice anche: “Capitare a fagiolo”.
C’azzecca, quando c’indovina.
C’azzecca, quanno c’endovina.
Si dice quando qualcuno si cimenta con le previsioni ma le indovina poche volte. Ironicamente si dice anche delle previsioni meteorologiche che si leggono sui lunari, sui giornali o si ascoltano alla radio e in televisione.
Cento soldati del papa, nun furono buoni a cavare una rapa.
Cento soldate del papa, nun furono (b)bone a cavà na rapa.
Il proverbio trova la sua origine nel 1797 quando si costituì la repubblica Cisalpina e si creò in essa un esercito, composto anche di soldati papalini, il quale fu vituperato da quel detto di Napoleone, che non avrebbe resistito a un reggimento piemontese. Ma l’immagine di cavare una rapa si trova anche nelle X Tavole, stampate a Torino sulla metà del XVI secolo (in G. Giusti, Proverbi, p. 217).
L’espressione si usa per irridere più persone che insieme non riescono a portare a termine una cosa.
Chi a casa d’altri non va, a casa sua non vuole.
Chi a casa d’altre nun va, a casa sua nun vole.
Questo detto fotografa il carattere di una persona a cui non piace mantenere rapporti amichevoli, un asociale che preferisce starsene solo a casa sua rifuggendo gli scambi di visite con altre persone, altre famiglie ecc…
Chi amministra, sminestra.
L’amministrazione di un ente, di una società comporta di doversi occupare di tanti aspetti burocratici ma anche di gestire somme di denaro. L’espressione viene usata in tono malevolo e sospettoso dagli amministrati nei confronti degli amministratori.
Il proverbio vuole dire che chi ha il potere lo esercita a proprio tornaconto.
Chi andò per fregare, restò fregato.
Chi annette pe fregà, restò fregato.
Il proverbio ha un precedente nel Decameron di Giovanni Boccaccio “Lo ‘ngannatore rimane a piè dello ‘ngannato” (L’ingannatore rimane ai piedi dell’ingannato) (Inizio e fine della Novella di Ambrogiuolo II 9,3 e 75).
Chi bacia il bambino, diventa compare.
Compare è colui che tiene a battesimo e a cresima un bambino e chi esercita questo ruolo è solito ricoprire il bambino di attenzioni e di fargli regali. Su questa scorta si usa scherzosamente questo detto quasi a voler fare intendere che chiunque bacia il bambino, anche se non è suo compare, dovrà obbligarsi a rispettare le stesse consuetudini.
Chi bello vuol comparire, qualche cosa deve soffrire.
Chi (b)bello vole comparì, qualche cosa ha da soffrì.
Il proverbio fa capire che il successo, la forma fisica, che ci fanno ben figurare davanti agli altri si conseguono a prezzo di sacrifici, come lunghi anni di preparazione e di studi, faticosi esercizi in palestra ecc..
Chi ben comincia, è alla metà dell’opera.
E’ un detto già dello scrittore latino Orazio (Epistole, I, 2, 40). Quando si comincia un lavoro per tempo e con lena, va tutto a meraviglia. Si finisce in un lampo. Affine a questo proverbio è “Il buon giorno si vede dal mattino”.
Chi beve birra, campa cent’anni.
Era uno slogan commerciale. La scienza non ha sentenziato che la birra sia un elisir di lunga vita. E’ una bevanda moderatamente alcolica, a base di orzo e luppolo, inventata da un leggendario Gambrinus, re germanico (secondo altri, birraio di Carlo Magno).
Chi beve la scolatura, è bello di natura.
Questo detto, che viene usato in tono scherzoso e spiritoso a tavola quando si scola una bottiglia di vino, può non trovare altri riscontri oltre la rima.
Chi cade in povertà, perde ogni amico.
Chi casca ‘n povertà, perde ‘gni amico.
Il proverbio si riferisce ai finti amici, a quelli che si dichiarano o si fanno credere amici solo quando l’amicizia può procurare loro qualche vantaggio, salvo a scomparire quando le condizioni favorevoli non esistono più.
Scriveva Nicolò Tommaseo (1802-1874): “Gli amici sono come le carrozze, quando piove non ne passa una”.
Un epigramma sul modo di interpretare l’amicizia per il proprio tornaconto ce l’ha lasciato Enea Silvio Piccolomini, che fu Papa dal 1458 al 1464 col nome di Pio II: ”Quando io ero Enea nessun mi conoscea, ora che sono Pio ognun mi chiama zio”.
Chi cammina, inciampa.
Chi camina, ‘nciampa.
Il proverbio paragona la nostra vita alla strada che si percorre. Come lungo la strada si possono trovare sassi, avvallamenti e altri ostacoli capaci di farci vacillare, così durante la vita si possono trovare difficoltà e prove perché, naturalmente, alle gioie si alternano i dolori.
Chi canta a tavola e a letto, è un matto perfetto.
Il proverbio descrive come non saggio chi compie questo gesto, già giudicato sconveniente dal galateo.
Chi canta il venerdì, piange il sabato, la domenica e il lunedì.
Chi canta ‘l venerdì, piagne ‘l sabbato, la domenica e ‘l lunedì.
Anticamente il popolo aveva interpretato come non lecite le feste e le manifestazioni di allegria nel giorno di venerdi, dedicato dalla Chiesa alla penitenza e all’astinenza dalle carni, in ossequio alla morte di Gesù. Tanto illecite da far temere una punizione divina contro chi avesse contravvenuto a questo precetto. Da qui il proverbio.
Chi cerca, trova.
Il detto deriva dal Vangelo dove sta scritto: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto”(Matteo, 7, 7-8, Luca 11, 9-13). Cercare, dunque è molto importante, ma non tutti se ne rendono conto. L’insegnamento è quello di non starsene con le mani in mano ad imprecare contro il destino se non si riesce ad ottenere quello che si vorrebbe, ma di darsi da fare perché le cose cambino.
Chi c’ha il pane non c’ha i denti, chi c’ha i denti non c’ha il pane.
Chi c’ha ‘l pane nun c’ha le dente, chi c’ha le dente nun c’ha ‘l pane.
Non si può avere tutto. Commenta il fatto che certi beni tocchino a chi non sa o non può servirsene, come ad esempio chi ha ricchezza nella vecchiaia ma non può approfittarne se gli manca la salute.
Chi c’ha la farina non c’ha il sacco, chi c’ha il sacco non c’ha la farina.
Chi c’ha la farina nun c’ha ‘l sacco, chi c’ha ‘l sacco nun c’ha la farina.
A tutti manca sempre qualcosa.
Per spiegare l’origine di questo proverbio, ci possiamo rifare alla favola di Fedro (Un calvo e uno similmente spelacchiato, V, 6). Scrive dunque il poeta che un calvo trovò per caso in un trivio un pettine. Gli si avvicinò un altro, anch’egli quasi privo di capelli chiedendogli di diividere a metà la cosa che aveva trovato. Il calvo gli fece allora presente che il destino si era preso beffa di loro e aveva deluso le loro speranze. Vedi anche “Chi c’ha il pane…”.
Chi c’ha la moglie bella sempre canta, chi c’ha pochi quattrini sempre conta.
Chi c’ha la moje bella sempre canta, chi c’ha poche quatrine sempre conta.
E’ un proverbio che racconta la felicità dell’uomo, quando si sente appagato e realizzato nell’amore della propria moglie che gli sta vicina, quando la contentezza gli deriva dal proprio gruzzolo di risparmi che, per quanto pochi, non si stanca di tenere sotto il massimo controllo, sperando di poterli aumentare.
Chi c’ha le corna, è l’ultimo a saperlo.
Chi c’ha le corne, è l’ultimo a sapello.
Trattandosi di una questione molto delicata, la notizia si trasmette di bocca in bocca ma tutti hanno riguardo a non parlarne con l’interessato per una forma di rispetto, per non ferirlo, finché si può evitare.
Chi da gallina nasce, convien che ruspi.
Riproduce il significato del proverbio latino “talis pater, talis filius”, cioè come è il padre così è il figlio, per dire che i figli in genere assomigliano ai genitori specialmente per le qualità negative.
Si legga questa frase di Fedro (Giunone, Venere e la gallina, IX): “Mi si spalanchi anche un granaio intero, a raspare tuttavia continuerò”.
Chi dal lotto spera soccorso, mette il pelo come l’orso.
E’ un proverbio estremamente indicato per i giocatori incalliti. Il significato è chiaro: è talmente difficile vincere al lotto, o a qualunque altro gioco d’azzardo (dal francese hasard, caso), che è più facile rimanere…in mutande, o che passi tanto di quel tempo utile a far crescere addosso tanto pelo.
Sembra che il gioco del Lotto, com’è inteso oggi, abbia avuto origine a Genova agli inizi del 1500. In quel tempo era consuetudine fare scommesse, puntando delle somme di denaro, sulle elezioni del Senato della Repubblica, cioè sui nomi dei personaggi che sarebbero stati estratti dalle cosiddette borse o urne. La raccolta delle scommesse era gestita da privati, pieni d’iniziativa, e prese piede molto velocemente con puntate che divennero sempre più ragguardevoli, con grande guadagno dei privati che tenevano il “banco”. La cosa indusse il Governo della Repubblica a sostituirsi ai privati, ufficialmente per regolamentare il gioco, ma in pratica per incamerare nelle casse dello Stato i lauti guadagni. Dopo l’unificazione d’Italia, la prima legge nazionale sul gioco del Lotto è datata 27 settembre 1863, n.1483. In oltre un secolo, il gioco ha trovato estimatori di rispetto in tutto il territorio nazionale, coinvolgendo ogni classe sociale.
Chi del suo non ha, oggi qui e domani la.
Chi del suo nun ha, ogge qui e domane la.
Il proverbio indica una persona che si trova in condizione di indigenza e per questo costretta a spostarsi per rimediarvi. Un tempo, ad esempio si spostavano i mendicanti, i frati questuanti che avevano fatto voto di povertà, ma anche i mezzadri che periodicamente dopo alcune stagioni dovevano traslocare da una tenuta o da un podere all’altro, dovendo cambiare padrone, al quale appartenevano ovviamente la casa, i terreni e tutto il resto.
Chi disegna, chi squadra.
Vedi: “L’uomo propone e Dio dispone”.
Chi di spada ferisce, di spada perisce.
Chi de spada ferisce, de spada perisce.
Chi danneggia gli altri deve aspettarsi risposte e reazioni dello stesso tipo.
Viene dall’espressione latina “Qui gladio ferit, gladio perit” riportata nel Vangelo di Matteo (26, 52) con la quale Gesù, tradito e catturato, rimprovera un suo discepolo che, estratta la spada, taglia un orecchio a un servo del principe dei sacerdoti.
Anche Fedro (27, 1-2) ammoniva: “Nulli nocendum: si quis vero laeserit multandum simili iure”, ossia, non si deve far male a nessuno, ma chi ha ferito bisogna punirlo secondo il suo stesso codice di diritto.
Chi di speranza vive, disperato muore.
Chi de speranza vive, disperato more.
(Vedi: “Campa, cavallo mio, che l’erba cresce”)
Chi disprezza, compra.
Spesso, per nascondere le proprie intenzioni, si afferma il contrario di quello che invece si pensa.
Chi disse donna, disse danno.
Con questo gioco (o bisticcio) di parole, il proverbio esprime sfiducia verso il sesso femminile.
Lo scrittore latino Giovenale (60 -128 d C.) è rimasto famoso per aver scritto una feroce satira contro le donne che lui riteneva eccezionali ingannatrici.
Anche nel Libro dei Proverbi della Bibbia (19, 13; 25, 24; 27, 15-16) è scritto che la moglie arrogante, impertinente e litigiosa diventa terribile da sopportare e impossibile da arginare.
Si dice anche: “La donna ne sa una più del diavolo”.
Chi dorme, non piglia pesci.
Chi dorme, nun chiappa pesce.
Chi se ne sta a pancia all’aria, chi preferisce al successo la sua tranquillità non farà mai niente di buono a questo mondo. Il proverbio insegna che bisogna fare le cose sul serio: non c’è altro mezzo per ottenere quello che si desidera.
Chi è bella, ti fa fare la sentinella.
Chi è bella, te fa fa la sentinella.
E’ un proverbio, dedicato agli uomini maturi che sposano donne giovani, di cui si ritrovano ampie descrizioni già in Boccaccia e nella novella italiana del Quattrocento.
Chi è bello sempre, non è bello mai.
Chi è (b)bello sempre, nun è (b)bello mae.
Un tempo, quando la maggior parte della gente viveva in povertà passava quasi tutto il tempo nel lavoro e solo raramente aveva occasione di far festa. In quella circostanza gli uomini si radevano la barba e si vestivano con abiti più in buono stato dando di sé un’immagine più bella. Al contrario, chi è sempre uguale a sé stesso, anche nel vestire, rischia di rimanere anonimo e di non suscitare più alcuna attenzione.
Chi è causa del suo mal, pianga se stesso.
Chi ha prodotto da sé le situazioni o gli eventi che lo danneggiano deve rimproverare se stesso e non gli altri o la sorte.
Il proverbio era conosciuto già dai latini che dicevano:”Qui sibi mala curat lugeat (piangerà) semetipsum”.
Chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro.
Chi è fora è fora, chi è dentro è dentro.
E’ una sorta di ultimatum che scatta quando è scaduto il tempo che era stato assegnato per compiere un’azione. Superato il tempo limite ognuno andrà incontro alle conseguenze, positive e negative, che si sarà procurate.
Chi è lento nel mangiare è lento anche per lavorare.
Chi è lento pe magnà è lento anche pe lavorà.
Chi è attivo, sveglio, veloce, lo dimostra in tutto.
Chi entra papa in conclave, esce cardinale.
Si dice quando in luogo di un individuo che veniva ritenuto eleggibile a un incarico si vede eletto un altro.
Ogni volta che si prepara un conclave per l’elezione di un nuovo papa si fanno pronostici su chi potrebbe risultare eletto e si fanno nomi di questo o quel cardinale, fino ad indicarne uno o più di cui si esaltano i meriti, le capacità, la pietà, le indicazioni degli ambienti bene informati ecc.. Ci sono anche delle storielle che vogliono che ad un papa alto e slanciato ne debba succedere uno basso e grasso, ad uno con la erre nel cognome un altro senza ecc… Non sempre le previsioni si avverano.
Chi è più furbo: la volpe o chi l’acchiappa?
Chi è più furbo: la volpe o chi la chiappa?
E’ un falso dilemma perché sono furbi entrambi. La furbizia della volpe è proverbiale, ma chi riesce a prenderla con trappole e lacci dimostra altrettanta adeguata capacità (e furbizia).
Fedro nella favola “La volpe e il corvo” scriveva: “L’astuzia vale sempre più del coraggio” (virtute semper praevalet sapientia).
Chi è vecchio e non se lo crede, per la salita se ne avvede.
Chi è vecchio e nun se lo crede, pe la salita se n’avvede.
Percorrere le strade in salita è faticoso per tutti perché la salita è impegnativa, massimamente per le persone che sono avanti con gli anni.
Chi fa da sé, fa per tre.
Chi fa da sé le proprie cose riesce tre volte meglio che affidandole ad altri. Vuol dire che i propri interessi uno se li deve curare da solo perché gli altri non potranno mai impegnarsi come chi è direttamente interessato al raggiungimento di uno scopo. Un vecchio adagio popolare dice: “Volete aver molti in aiuto? – Cercate di non averne bisogno”. Si dice anche: “Comanda e fai da te, sarai servito da gran re”.
Chi fa le parti, non sceglie.
Chi fa le parte, nun sceje.
A garanzia d’imparzialità.
Chi ferra, inchioda.
Deriva dal gergo dei maniscalchi che usano “inchiodare” nel significato di piantare un chiodo sull’unghia dell’animale, vicino alla sua radice, facendolo soffrire.
Il significato è che a chiunque svolge un’attività, prima o poi accade di commettere qualche errore.
Chi figli non ha, figli mantiene.
Chi fije (propri) nun ha, (altri) fije mantiene.
Il proverbio è rivolto a sottolineare la generosità di persone che non hanno figli propri e per questo sono portate a riversare le attenzioni magari sui propri nipoti, sui figli dei propri domestici, dei vicini di casa, anche dei lontani. Oggi, ad esempio, è stata introdotta la meritevole istituzione dell’affido, o adozione a distanza.
Chi ha avuto, ha avuto, e chi ha dato, ha dato.
Quando una questione è chiusa, ognuno deve tenersi quel che di bene o di male gli è toccato.
Chi ha debito, ha credito.
Chi ha debbito, ha credito.
E’ un proverbio che gioca sulle parole: infatti se uno non è stimato o creduto solvibile non trova da far debiti.
Chi ha fatto il peccato, faccia la penitenza.
E’ analogo al proverbio: “Chi rompe paga…”.
Chi ha mamma, non trema (non pianga).
Vedi: “Di mamma, ce n’è una sola”.
Chi ha mangia, chi non ha stenta.
Chi c’ha magna, chi nun c’ha stenta.
Il proverbio, come altri simili, è uno stimolo a lavorare per procurarsi il necessario per vivere ed evitare le condizioni di indigenza.
Chi ha paura, non va in guerra.
Chi ha paura, nun va ‘n guerra.
La paura è l’antitesi del coraggio e la guerra, si sa, presuppone coraggio ed eroismo.
Prima di iniziare un'impresa bisogna chiedersi se se ne hanno le capacità.
Chi ha più filo, tesse la tela più lunga.
Vuol dire che chi ha più mezzi, risorse e sostanze riesce a fare cose di maggiore valore, importanza e durata.
Chi ha più giudizio (o prudenza), l’adopera.
Chi c’ha più giudizio (o prudenza), l’addopra.
E’ un invito ad essere prudenti per evitare di invischiarsi in situazioni difficili e pericolose. E’ analogo al proverbio: “Una bocca zitta, n’azzitta cento”.
Chi ha tempo, non aspetti tempo.
Il tempo è un bene prezioso, che non va sciupato. Non dobbiamo rimandare perciò a domani quello che possiamo fare oggi. Dell’utilizzo del tempo dobbiamo sempre rendere conto a scuola, in famiglia, sul lavoro e anche a Dio nell’aldilà.
In questo caso si può portare ad esempio la storia di Sagunto, città della Spagna alleata dei Romani che, assediata da Annibale nel 218 a C., chiese loro aiuto. Ma mentre questi perdevano tempo in lunghe trattative, la città alleata cadde nelle mani del nemico. Di qui è passata alla storia la frase “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” (mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata) (Livio, Storie, XXI, 7).
Ricordiamo anche Tibullo (55-19 a.C.) (Le Elegie, I, 1 69-72): “Intanto, finché il destino lo permette, amiamoci; presto verrà la morte col capo cinto di tenebre; presto verrà piano piano l’età debole, e non potremo più amarci né dirci parole dolci, col capo bianco”.
Un proverbio analogo recita: “Non rimandare a domani, quello che potresti fare oggi”.
Chi la dura, la vince.
Chi insiste riuscirà a realizzare l’impresa nella quale si impegna.
Se si vuole ottenere un risultato a cui si tiene in modo particolare, non bisogna mai arrendersi, ma provare e riprovare con insistenza e tenacia.
Chi la fa, l’aspetti.
Chi fa una brutta azione contro una persona deve aspettarsi un comportamento simile anche nei propri confronti. Ad ogni sbaglio segue, di regola, una punizione.
Diverse citazioni storiche e letterarie contengono questo ammonimento. Fedro, ad esempio, ce lo insegna attraverso la favola La volpe e la cicogna (Favole, 1, 26) : una volpe invita a cena una cicogna e le offre un brodo liquido in un piatto piano. Ovviamente la cicogna, col suo becco lungo, non riuscì a gustarlo. La cicogna ricambia l’invito offrendo alla volpe del cibo tritato in un’anfora dal collo lungo. E così, mentre la cicogna mangiava infilandoci il becco, la volpe dovette accontentarsi di leccarla. “Ciascuno – dice la cicogna – deve sopportare con rassegnazione le offese di cui ha dato l’esempio”.
Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quello che lascia e non sa quello che trova (o anche: male si ritrova).
Chi lascia la via vecchia pe la nova, sa quello che lascia e nun sa quello che trova (o anche: male se ritrova).
Ad abbandonare le strade già note, gli intenti e a rischiare si va incontro all’incerto (o più pessimamente) al peggio. Per non doverci pentire quando è troppo tardi, bisogna riflettere bene prima.
L’espressione è presente anche ne I Malavoglia del Verga.
Chi la sera non cena, tutta la notte si dimena.
Chi la sera nun cena, tutta la notte se dimena.
Si usa anche nelle forme di insinuazione.
Il proverbio si trova nel Decameron di Giovanni Boccaccio, nella Novella di Monna Isabetta (III 4, 27).
Chi lavora fa la gobba, e chi ruba fa la roba.
Chi lavora fa la gobba, e chi rubba fa la robba.
I latini usavano un’espressione simile. Già Catone il Censore (234 a.C.) infatti scriveva (presso Gallio XI,18) “fures privatorum furtorum in nervo atque in compedibus aetatem agunt, fures publici in auro atque in purpura” (i ladri delle cose private passano la vita in ceppi e in catene, quelli pubblici nell’oro e nella porpora).
Machiavelli (1469-1527) ha scritto: ”Si viene da bassa a gran fortuna più con la fraude che con la forza” (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, II, XIII).
Chi la vuole cotta, chi la vuole cruda.
Chi la vole cotta, chi la vole cruda.
Vuol dire che ci sono tanti pareri per quante teste ci sono.
In una rima del Berni, quest’espressione suona così: “Ciascun faccia secondo il suo cervello che non siam tutti d’una fantasia”.
Chi mena e chi accosta.
In certe situazioni, per venire a capo di un risultato, c’è bisogno di mettere in atto la tattica di dividere i compiti tra chi svolge un ruolo più forte, rigido e minaccioso (chi mena) e chi invece uno più benevolo e dialogante (chi accosta).
Chi lavora, mangia e chi nun lavora mangia e beve.
Chi lavora, magna e chi nun lavora magna e (b)beve.
Il proverbio vuol dire che spesso col lavoro si arriva a soddisfare il minimo indispensabile mentre chi ha più del necessario se lo procura con espedienti, più o meno leciti.
Analogo è anche il proverbio: “Chi lavora c’ha una camicia, chi nun lavora ce n’ha due” che Trilussa ne “La cecala d’oggi” traduce così: “Che dichi? L’onestà? Quanto sei cicia! M’aricordo mi’ nonna che diceva: Chi lavora cià appena una camicia, e sai chi ce n’ha due? Chi se la leva”.
Chi li avanza, li aspetterà.
Chi c’avanza, l’aspetterà.
E’ analogo a: “A pagare e morire viene sempre a tempo”.
Chi male fa, male pensa.
L’agire è la logica conseguenza del pensiero.
Si dice anche “Al corpo mal usato, quello che fa gli viene ripensato”.
Chi maneggia il miele, lecca le dita.
Chi maneggia ‘l miele, se lecca le dite.
Di solito, vuol far capire il proverbio, chi occupa un posto di potere finisce per ricavarne benefici personali.
Chi mangia da solo, si strozza.
Chi magna da solo, se strozza.
Sarebbe più appropriato dire: “Chi mangia da solo, si strozzi”. E’ buona norma, oltreché un monito evangelico, dividere il mangiare, indispensabile per vivere, con gli altri.
Il poeta Gioacchino Belli che ha rivolto senza risparmio il proprio sarcasmo contro il Papa, i dignitari ecclesiastici, i preti e i frati, ha scritto in proposito:
“La cucina del Papa…”
Co la cosa ch’er coco m’è ccompare
m’ha vvorzuto fa vvede stammatina
la cuscina santissima. Cuscina?
Che ccuscina! Hai da dì porto de mare.
Pile, marmitte, padelle, callare,
cosciotti de vitella e de vaccina,
polli, ova, latte, pesce, erba, porcina,
caccia, e ‘ggni sorte de vivande rare.
Dico: “Prosite a llei, sor Padre Santo.
Disce: “Eppoi nun hai visto la dispenza,
che de ggrazzia de Dio sce n’è altrettanto.
Dico: “Eh, scusate, povero fijjiolo!
Ma ccià a pranzo col lui qualch’Eminenza?”
“Nòo”, ddisce. “er Papa maggna sempre solo”.
Chi mangia il pesce, caca le lische.
Chi magna ‘l pesce, caca le lische.
Vuol dire che ogni azione fa seguire una logica conseguenza, come ad esempio espellere naturalmente dal corpo le lische che sono le parti non commestibili del pesce.
Chi mangia l’uva il primo dell’anno, conta i soldi tutto l’anno.
Chi magna l’uva ‘l primo dell’anno, conta le solde tutto l’anno.
L’uva appesa durante la vendemmia si mangiava per Capodanno ed era un segno di buon auspicio, stava a significare l’abbondanza dei raccolti durante tutto l’anno.
Chi mangia mangia, purché le bevute devono essere pari.
Chi magna magna, ma le (b)bevute devono esse pare.
Chi mangia senza bere, mura a secco.
Chi magna senza beve, mura a secco.
Murare a secco, cioè senza l’acqua mescolata al cemento, vuol dire fare un’opera meno resistente e meno duratura di quella in cui si usa l’impasto fra acqua e cemento. Analogamente il corpo umano è meno resistente se privato di liquidi che vanno ingeriti con l’alimentazione.
Chi mena per primo, mena due volte.
Chi muove per primo all’attacco resta in vantaggio. Per analogia vedi “Chi prima arriva, meglio alloggia”.
Chi muore, giace, e chi resta si dà pace.
Chi more, giace, e chi resta se dà pace.
Il proverbio, risalente al XVII – XVIII secolo, sottolinea con realismo, o con rammarico o con cinismo, che i morti non resuscitano e che i congiunti pian piano si consolano perché per loro la vita continua e la tristezza per il lutto col passare del tempo si dimentica.
Chi muore, muore, e chi campa, campa.
Chi more, more, e chi campa, campa.
Questa frase può essere considerata il non plus ultra del menefreghismo, nel senso che chi la pronuncia non ha a cuore alcuna situazione altrui, sia nel bene che nel male, e bada solo a sé. E’ come dire: “Contento io, contenti tutti”. Ma Seneca (4 a. C.) ammonisce: “Chi non vive per nessuno non vive neppure per sé” (Non continuo sibi vivit qui nemini) (Lettera a Lucilio, 55,5).
Chi nasce rotondo, non può morire quadrato.
Chi nasce tonno, nun po’ morì quadrato.
Vuol dire che le persone cattive non cambiano.
Si dice anche: “Chi nasce lupo, non muore agnello”.
Chi non beve in compagnia o è ladro o fa la spia.
Chi nun beve ‘n compagnia o è ladro o fa la spia.
Dice che talvolta si è trascinati, anche aldilà delle proprie intenzioni, da quel legame di “compagnia” che obbliga ad un comportamento solidale.
Il poeta greco Alceo canta più volte e in diverse circostanze il vino nei libri dei Carmi. In un libro dopo il decimo sono raccolti molti versi: “Ora bisogna inebriarsi, e che ognuno beva a forza, poiché è morto Mirsilo” (24), “ché il vino è specchio dell’uomo” (25), “Non bisogna abbandonarsi alle sventure, ché nulla guadagneremo ad affliggerci, o Bicchide; ma ordinare vino e ubriacarsi è la migliore medicina” (27), “Giove diluvia; una grande invernata dal cielo, e son gelate le corrente dei fiumi… Caccia l’inverno attizzando il fuoco e mescendo dolce vino senza risparmio, poi attorno alle tempie avvolgi una morbida lana” (30), “Beviamo! Perché attendere la sera? Il giorno è breve; togli giù presto i nappi dalla credenza, ché il figlio di Sèmele e di Giove trovò il vino adatto a sopire gli affanni degli uomini. Versa, e mesci uno a due, ricolmi fino all’orlo, e una coppa cacci l’altra” (38), “Sentivo che s’avanza la primavera fiorita… e mescete subito subito un cratere del dolce vino” (58).
Un divertente sillogismo del poeta Ulrich von Hutten, amico di Lutero, dice:
Qui bene bibit bene dormit
qui bene dormit non peccat
qui non peccat venit in coelum
ergo qui bene bibit venit in coelum
(chi beve bene dorme bene, chi dorme bene non pecca, chi non pecca va in cielo, dunque chi beve bene va in cielo).
Chi invece non beve bene rischia di fare la fine del vescovo tedesco Giovanni Fugger che, scendendo verso Roma aveva mandato avanti un suo servitore per selezionare le osterie provviste di buon vino e segnalarle scrivendo sull’uscio la parola latina est, vale a dire est bonus, è buono. Il vescovo quando arrivò a Montefiascone bevve tanto che morì. Il domestico scrisse sulla sua tomba questo epitaffio:
Est, est, est
propter nimium est
hic Johannes de Foucris
dominus meus
mortuus est
(Est, est, est, per il troppo est, quì Giovanni Fugger mio padrone morì).
Bibit hera, bibit herus, bibit miles, bibit clerus.
Bibit ille, bibi illa, bibit servus cum ancilla.
Bibit velox, bibit piger, bibit albus, bibit niger.
Bibit constans, bibit vagus, bibit rudis, bibit magus.
Bibit pauper et aegrotus, bibit exul et ignotus.
Bibit puer, bibit canus, bibit praesul et decanus.
Bibit soror, bibit frater, bibit anus, bibit mater.
Bibit ista, bibit ille, bibunt centum, bibunt mille.(Carmina burana).
(Beve la padrona, beve il padrone, beve il soldato, beve il prete. Beve quello, beve quella, beve il servo con l’ancella. Beve il veloce, beve il pigro, beve il bianco, beve il negro. Beve il tenace, beve il volubile, beve l’ignorante, beve il sapiente. Beve il povero e l’ammalato, beve l’esule e lo sconosciuto. Beve il ragazzo, beve l’anziano, beve il presule, beve il decano. Beve la sorella, beve il fratello, beve la vecchia, beve la madre. Beve questa, beve quello, bevono cento, bevono mille).
Et pro rege et pro papa
Bibunt vinum sine aqua.
Et pro papa et pro rege
Bubunt omnes sine lege,
A.Faselius, Latium oder das alte Rom in Seinen Sprichwàrter, Weimar, 1859.
(Alla salute del re e del papa, bevono vino senz’acqua, alla salute del papa e del re, bevono tutti senza limite).
Chi non capisce la sua scrittura, è un asino addirittura.
Chi nun capisce la su scrittura, è ‘n asino addirittura.
Il proverbio è rivolto sia agli alunni che scrivono così male da non raccapezzarsi nella propria scrittura sia a quelle persone che scrivendo in fretta, con segni quasi stenografici, faticano poi a rileggere quanto hanno scritto.
Chi non è buono per il re, non è buono neanche per la regina.
Chi nun è (b)bono pel re, nun è (b)bono manco pe la reggina.
L’espressione veniva indirizzata verso i giovani riformati alla visita di leva militare obbligatoria, insinuando sulla loro supposta mancanza di virilità ritenuta causa della riforma. Chi non era idoneo a svolgere il servizio militare, in difesa del re e della patria, non veniva ritenuto abile con il sesso femminile.
Chi non ha casa, la cerca.
Si dice quando c’è cattivo tempo ed è bene trovarsi al riparo, se non proprio in casa almeno in un luogo riparato al sicuro dalle intemperie.
Chi non ha testa, ha gambe.
Se si è disattenti, sbadati, smemorati ecc., si è costretti a muoversi per rimediare.
Chi non mangia, ha già mangiato.
Chi nun magna, ha magnato.
Il proverbio interpreta il rifiuto del cibo come sazietà.
Chi non mi vuole, non mi merita.
Chi nun me vole, nun me merita.
Lo dice chi si vede rifiutato, per consolarsi.
Chi non mostra, non vende.
Chi nun mostra, nun venne.
Traduce lo slogan che la pubblicità è l’anima del commercio. Di fatto i commercianti si ingegnano molto a mettere in mostra sulle vetrine i propri prodotti per solleticare i desideri dei passanti e dei clienti all’acquisto. Oggi le vetrine più importanti per la pubblicità sono i mass media.
L’espressione si usa anche per apostrofare le donne con abiti molto succinti. Ibico chiamò le donne spartane fenomeridi, cioè “esibitici di cosce”. Euripide e Sofocle descrivono le loro vesti, sdrucite in modo che muovendosi o camminando, le spartane mettevano in mostra, a tratti, le nudità dei fianchi, delle cosce e delle gambe.
Anche oggi, dopo millenni, pare che sia tornato quell’uso.
Chi non muore, si rivede.
Chi nun more, s’arivede.
E’ un’espressione usata quando si rivede una persona dopo tantissimo tempo, un tempo che è sembrato tanto lungo quasi quanto un’intera vita.
Chi non ne ha, non ne versa.
Vuol dire che chi non ha soldi non li spende. O anche chi non li ha in abbondanza sta attento a non sciuparli.
Chi non risica, non rosica.
Chi nun risica, nun rosica.
E’ giusto riflettere, prima di scegliere una cosa o un strada impegnativa, ma fino ad un certo punto, perché se si vuole raggiungere uno scopo bisogna avere il coraggio di correre qualche rischio.
Questo proverbio, oltre la saggezza del significato, si presta all’interpretazione che possa essere stato determinato da un gioco verbale, in cui prevale il “significante” sul significato, cioè predominano il gioco di parole, la rima, l’assonanza, il ritmo. Tanto è vero che sembra esprimere una morale molto differente, se non contraddittoria, da quella di “tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”.
Chi non semina, non raccoglie.
Chi nun semina, nun raccojje.
L’espressione che l’uomo raccoglie il frutto di ciò che ha seminato è nel Libro dei Proverbi della Bibbia (11, 18; 22, 8-9). E’ un invito alla laboriosità. Infatti un concetto dominante in questo Libro è che l’uomo, per vivere, deve lavorare e produrre (12, 11; 28, 19). Ma questo lavoro dev’essere onesto, frutto della propria fatica e non del male fatto ad altri (1, 10-19).
Chi non si misura, poco dura.
Chi nun se misura, poco dura.
Bisogna avere una misura in tutto. Ce lo dice bene una frase dello scrittore latino Orazio (65 a. C.): “Est modus in rebus sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum”, cioè la misura che si deve avere in tutte le cose sta nel non varcare quei confini ben precisati, al di la o al di qua dei quali non può esserci il bene (Satire, I, 106-107).
Chi non vuole perdere, non giochi.
Chi nun vole perde, nun gioche.
Si dice contro i brontoloni, i quali se perdono, buttano all’aria il tavolino.
Chiodo, scaccia chiodo.
Se abbiamo piantato profondamente, ma male, un chiodo in una tavola e vogliamo estrarlo, basta piantare un altro chiodo dall’altra parte della tavola in modo che la punta del secondo spinga e cacci fuori il primo.
Di fronte ad una disavventura, consiglia il proverbio, è sbagliato sospirare contro il destino che ci perseguita o andare in cerca del presunto colpevole per sfogare su di lui la nostra rabbia. Chi si vendica non rimette automaticamente tutto a posto. Se per togliere un chiodo bisogna usarne un altro, dobbiamo rimboccarci le maniche, senza scoraggiarsi.
Un detto antico di cui parla anche Cicerone (Tusculanae, 4, 35-75) dice: ”Alcuni pensano che si possa cacciare un vecchio amore con uno nuovo, come un chiodo caccia l’altro”.
Chi parla in faccia, non è traditore.
E’ un proverbio che invita ad avere rapporti chiari, ad affrontare i problemi con colloqui diretti fra interessati, senza ricorrere al deplorevole atteggiamento (tradimento) di parlare male alle spalle.
Chi pecora si fa, il lupo la mangia.
Chi pecora se fa, ‘l lupo se la magna.
Deriva dalla favola del poeta latino Fedro, intitolata Il lupo e l’agnello (Favole, I, 1), la cui morale sta a significare che quando ci si trova, o ci si mette, in condizioni di debolezza, se ne subiscono le dannose conseguenze.
Ecco la favola: Il lupo e l’agnello, spinti dalla sete, erano giunti allo stesso ruscello. Il lupo stava più in alto e l’agnello in un tratto più in basso. Il lupo rivolto all’agnello lo rimproverava di intorbidargli l’acqua. Ma l’agnello gli disse: “com’è possibile se l’acqua scende da te che sei più in alto verso di me?”. E il lupo di nuovo: “Sei mesi fa hai parlato male di me”. E l’agnello: “Ma se non ero ancora nato”.”Allora, continuò il lupo, tuo padre ha detto male di me”. Per questo lo prese e lo sbranò.
La favola è stata scritta per tutti quegli uomini che opprimono gli innocenti con imbrogli e falsi pretesti.
Chi per amor si piglia, per rabbia si lascia.
Chi per amore se pijia, pe rabbia se lascia.
Vuol dire che gli amori possono essere eterni ma anche limitati nel tempo e spesso la rottura che segna la fine di un amore è accompagnata da atti di sdegno e di rabbia.
Chi perde, ha sempre torto.
L’opinione universale piega sempre dalla parte che rimane al di sopra.
Chi piscia chiaro, fa le fiche al medico.
Se, anche senza le analisi chimiche di laboratorio, le urine risultano limpide, di colore chiaro e paglierino, sono ritenute indice di buona salute e in questo caso non si ha bisogno del medico.
Fare le fiche è un gesto di disprezzo che si fa, in genere verso il cielo, inserendo il dito pollice fra l’indice e il medio.
Chi piscia contro vento, bagna i calzoni.
Chi piscia contro vento, se molla le calzone.
Andando contro i luoghi comuni si hanno fastidiose sorprese.
Chi più ne ha, più ne metta.
Dovrebbe valere soprattutto per il senno o le cose (deve impiegarne di più chi ne è più fornito), ma si usa spesso al posto di “e così via“, “e via dicendo”, per abbreviare una enumerazione di fatti o oggetti e per suggerire insieme l’idea del loro grande numero e della loro varietà. Esiste anche l’espressione contraria che dice: “Chi non ne ha non ne versa”.
Chi più spende, meno spende.
Chi più spenne, meno spenne.
Spendendo di più, per avere cose di qualità migliore, si spende di meno perché durata ed efficienza sono maggiori.
Il proverbio mette in guardia da false economie in cose essenziali.
Chi più sporca la fa, diventa priore.
Letteralmente: chi si comporta male, diventa priore. Amaro principio che però parte dalla disincantata osservazione della realtà nella quale per assurgere ai posti di preminenza occorre comportarsi male se non peggio.
Chi promette e non mantiene, va all’inferno e non riviene.
Perché ogni promessa è debito, cioè va mantenuta, almeno come obbligo morale. Lo dicevano già i latini: “Pacta sunt serranda” (I patti vanno rispettati).
Nel Libro dei Proverbi della Bibbia (25,14) si dice che l’uomo leale mantiene le promesse; infatti promettere senza mantenere vuol dire generare aspettative e poi deluderle.
Chi rompe, paga (e i cocci sono suoi).
Chi rompe, paga (e le cocce so le sue).
Avverte che se si reca un danno bisogna risarcirlo, tutto al più si può avere diritto a trattenere ciò che resta dell’oggetto rotto, i cocci appunto.
Chi s’accontenta, gode.
Vuol dire che nessuno è mai soddisfatto della sua condizione, come scriveva già Orazio (Satire, I, 1).
Non è bene avere desideri smodati perché non generano la felicità, meno ancora concepire desideri per rivaleggiare con amici e conoscenti.
Già nel Cinquecento Nicolò Machiavelli scriveva “Chi è contento di una mezzana vittoria sempre ne farà meglio, perché quegli che vogliono sopravincere (stravincere) spesso perdono” (Istorie Fiorentine, IV, XIV).
Chi sbaglia per il poco sapere, chi per il troppo.
Chi sbaja pel poco sapè, chi pel troppo.
L’uomo d’ingegno, scriveva Fedro, ha sempre ricchezze in sé (homo doctus in se sempre divitias habet) (Simonide).
Chi scherza col fuoco, si brucia.
Chi scherza col foco, se brucia.
Il proverbio è un monito a non lasciarsi coinvolgere in cose pericolose o illecite per non riportarne conseguenze negative, come succede spesso a chi rischia troppo. Si dice anche: ”Chi s’è scottato col fuoco ha paura anche dell’acqua calda”.
Chi se la prese, campò un mese.
Indica che non bisogna crucciarsi troppo e che bisogna prendere la vita con filosofia.
Si dice anche: “Chi vuole vivere e star bene, pigli il mondo come viene”.
Chi semina vento, raccoglie tempesta.
Chi semina vento, raccoije tempesta.
Chi fa del male sarà ricambiato peggio. Chi determina situazioni o eventi negativi spesso ne subisce le conseguenze che gli si ritorcono contro. Chi invece vuole amore deve dare amore. Talvolta da un piccolo gesto d’amore può nascere un’amicizia sincera. La cattiveria e l’indifferenza generano solo reazioni scomposte.
Il proverbio è del profeta Osea (Antico Testamento, 8, 7), vissuto quasi tremila anni fa, che desume le sue immagini dalla vita dei campi. Il testo esatto è “Ventum seminabunt et turbinem metent” (semineranno vento, raccoglieranno tempesta)
Chi si ferma, è perduto.
“Memento audere semper” (ricordati di osare sempre) è un motto di Gabriele D’Annunzio (1863-1938).
Questo proverbio invita ad aver costanza nelle cose perché se si interrompono poi è molto difficile riprenderle e portarle a conclusione. Una massima dice “La mia conoscenza appreso ha tutte le verità meno una; non ti dirà giammai: rimanti!” (M. D’Azeglio).
Chi si loda, s’imbroda.
Chi se loda, se sbroda.
La presunzione si ritorce in biasimo.
Chi parlando di sé si attribuisce tante virtù e meriti spesso ottiene il risultato di acquisire discredito presso gli altri. L’ammonimento lo conoscevano già i latini che avevano letto Fedro (Esopo e lo scrittore, VII): “Lodati da te stesso, l’approvo pienamente, perché d’altronde non avrai mai successo”.
Analogo è il proverbio: “Chi si vanta, si spianta”.
Chi si somiglia, si piglia.
Chi se somija, se pija.
Vedi il proverbio “Adocchia, adocchia, Cristo fa la gente e poi l’accoppia”.
Chi spizzica, non digiuna.
Chi spizzica, nun diggjuna.
La filosofia che ispira questo proverbio è la stessa di quello che recita: “Meglio poco che niente”. Infatti è preferibile riempire lo stomaco almeno con qualche “stuzzichino” anziché restare completamente a digiuno e sentire i morsi della fame.
Chi tace, acconsente.
C’è un tempo per rispondere a tutte le domande che ci vengono fatte. Chi non lo fa, accetta quello che viene proposto.
Si tratta di una frase latina: “Qui tacet, consentire videtur” (chi tace, sembra acconsentire) presa da un decreto di papa Bonifacio VIII (V, 12).
Il sacerdote cattolico di fronte agli sposi chiede all’assemblea che se qualcuno conoscesse motivi d’impedimento al matrimonio è invitato a parlare. Chi non lo fa si suppone che acconsenta allo svolgimento del rito.
Il codice civile prevede la norma del silenzio assenso. Il funzionario pubblico che non solleva obiezioni (tace) sull’iter procedurale di una pratica acconsente al suo espletamento.
Chi tardi arriva, male alloggia.
Chi arriva tardi sarà costretto a sistemarsi alla meglio, nel posto più scomodo. Il proverbio invita a valutare i vantaggi del giungere presto o prima degli altri. Esiste infatti anche la versione Chi presto arriva, meglio alloggia.
Chi troppo in alto va cade sovente precipitevolissimevolmente.
Chi è saggio, anche se è dotato di un’intelligenza superiore alla media, deve ricordarsi che è un uomo come gli altri. L’ambizione è una cattiva consigliera. Spesso il successo dà alla testa, si vuole sempre di più.
Esempi sulla veridicità di questo proverbio possono essere ricercati nella storia antica e ricordare che Giulio Cesare fu trafitto dalle pugnalate di un gruppo di congiurati o esaminare il comportamento di Cola di Rienzo che si proponeva il fine buono di far tornare Roma all’antico splendore. Quando infine ottenne il governo della città, dopo un periodo di sagge riforme cominciò a commettere stranezze; pretese perfino di farsi incoronare in Campidoglio con sei corone. Finì trucidato dal popolo e le sue ceneri furono sparse al vento. Se apriamo un libro di storia moderna troviamo che Napoleone morì in esilio a Sant’Elena, Hitler si uccise in un bunker quando ormai la Germania era ridotta a un cumulo di rovine, Mussolini fu fucilato mentre cercava di mettersi in salvo.
La letteratura classica è piena di proverbi simili.
Orazio (Odi II, 10, 11-12) dice: feriunt summos fulgura montes cioè “le folgori colpiscono i monti più alti”. E Ovidio (Rimedia amoris): summa petunt dextra fulmina missa Iovis (i fulmini scagliati dalla destra di Giove colpiscono le cime più alte).
Eschilo (Agamennone, 465) dice che è cosa spesso infausta raggiungere i più alti gradi della fortuna “poiché i fulmini di Giove colpiscono in alto”. Ed Erodoto racconta che Artabano per dissuadere Serse dall’impresa contro i Greci gli ricorda che i fulmini degli dei cadono sui grandi edifici e sugli alberi più alti.
Il Manzoni (Cinque maggio, 47-48) ci da un esempio della caducità del potere di Napoleone, ricordando in due brevissimi versi la sua vicenda: “due volte nella polvere, due volte sull’altar”.
E come Napoleone moltissime teste coronate, dittatori e uomini politici in brevissimo tempo sono passati dal potere alla ghigliottina, al plotone di esecuzione o all’oblio totale.
Chi troppo vuole, nulla stringe.
Chi troppo vole, nulla strigne.
Quando si desidera o si vuole troppo, si può innescare un processo per cui niente ci rende contenti e si vuole sempre di più, tanto da generare il vuoto dentro di noi e l’incapacità di raggiungere la felicità e non stringiamo niente.
Il proverbio è legato alla favola di Fedro Il cane e la carne (Favole, I, 4). Un cane, mentre attraversava a nuoto un fiume con un pezzo di carne in bocca, vide nell’acqua la sua immagine. Credendo che la carne fosse portata da un altro cane tentò di afferrarla, ma la sua avidità gli fece perdere la carne che aveva tra i denti.
Una sentenza famosa del Cinquecento recita” Bisogna non voler vincier troppo presto, acciò non ci intervenghi (perché non ci succeda) come a quelli mercatanti animosi che, per voler arricchire in un anno impoveriscono in sei mesi (N. Machiavelli, Lettera a Bartolomeo Cavalcanti, 13 luglio 1526).
Chi trova un amico, trova un tesoro.
Chi trova ‘n amico, trova ‘n tesoro.
Si riferisce, naturalmente, alle amicizie vere e non a quelle fittizie, e in quanto vere sono rare come un tesoro.
Appio Claudio Cieco, il famoso costruttore della via Appia da Roma a Brindisi, primo “prosatore” latino, ha scritto: “Quando vedi un amico, dimentichi le tue miserie”.
Invece Sallustio (86 – 35 a C.) nel Bellum Iugurthynum (Cap.10): “Non exercitus neque thesauri praesidia regni sunt, verum amici“ (Non gli eserciti, non le ricchezze sono i presidi di un regno, ma gli amici).
Chi va a caccia senza cani, torna a casa senza lepri.
L’espressione, presa a prestito dall’ambiente venatorio, sta a significare che per far bene le cose occorre avere gli strumenti adatti.
Chi va alle nozze e non è invitato, o è matto o ubriaco.
Il proverbio mette in guardia da comportamenti e azioni che rappresentano gravi scorrettezze, fatte anche senza l’uso della ragione, come il trasgredire le regole delle tradizioni che, in questo caso, ci possono riguardare solo dietro espresso invito dei nostri parenti ed amici.
Chi ci vuole bene ci chiama a partecipare alle proprie ricorrenze festose, chi non ci chiama non dev’essere affrontato con l’intrusione.
Chi va al mulino, s’infarina.
Il proverbio si rifà ai mulini di una volta il cui funzionamento produceva un’impalpabile polvere di frumento che si posava sui vestiti di chi andava al molino a comprare la farina rendendoli bianchi.
E’ un monito contro le cattive frequentazioni che possono lasciare contagi sgraditi. Chi frequenta ladri finisce anche lui per rubare.
Un proverbio analogo è “Il carbonaio dove tocca, tinge”.
Chi va a Roma perde la poltrona.
Si dice a chi, lasciato il proprio posto, al ritorno lo trova occupato. E’ logico che chi lascia un incarico, raffigurato da una poltrona, in periferia per assumerne un altro a Roma sarà sostituito e perderà dunque il primo incarico che aveva.
Chi va collo zoppo, impara a zoppicare.
Chi va col zoppo, impara a zoppicà.
E’ rivolto a mettere in guardia coloro che sono convinti di saper resistere a tutte le seduzioni e si trovano a mutuare dalle persone che frequentano le loro cattive abitudini.
Il favolista latino Fedro scriveva: “Nessuno impari a favorire gli empi” (Ne quis discat prodesse improbis) (La serpe o pietà nociva).
Chi va piano, va sano e va lontano.
(Chi va forte va ‘ncontro a la morte).
Chi non si fa prendere dalla fretta arriva lontano e senza problemi. Non riguarda solo il muoversi o viaggiare, ma esorta alla ponderazione e alla calma anche nel lavoro manuale e intellettuale.
Chi vince, ha sempre ragione.
Il proverbio dice, con amarezza o realismo, che se si ha ragione non sempre si vince, ma se si vince si ha sempre ragione. Spesso nella vita il prepotente schiaccia con la sopraffazione la persona debole. E’ una costatazione vecchia come il mondo. Già Fedro ha trattato questa morale nella favola Il lupo e l’agnello.
Chi vuole Cristo, se lo preghi.
Chi vole Cristo, se lo prega.
Vedi “Non si va in Paradiso a dispetto dei Santi”.
Chi vuole la pace, prepari la guerra.
I latini dicevano “Si vis pacem, para bellum”.
Parafrasando questo detto, Machiavelli scriveva: ”Le amicizie fra i Signori si mantengono con le armi” (Lettera ai Dieci, 8 novembre 1502) e anche ”Chi rompe la pace aspetti la guerra” (Istorie fiorentine, VI, XXV).
Chi vuole, vada, e chi non vuole, mandi.
Chi vole, vada, e chi nun vole, manni.
E’ un proverbio che usava ripetere spesso Garibaldi riferendosi a quei governanti che a parole fingevano di approvare le sue imprese ma che poi cercavano di frenarle. Per analogia, vedi “Chi fa da sé, fa per tre”.
Cielo a pecorelle, acqua a catinelle.
Quando appaiono nuvole bianche che nella forma ricordano i fiocchi di lana delle pecore, indicano che seguirà una pioggia abbondante.
Col tempo e con la paglia, maturano le sorbe e la canaglia.
Col tempo e co la pajja, se maturano le sorbe e la canajja.
Per far maturare le sorbe bisogna metterle in mezzo alla paglia ed aspettare.
Il proverbio vuol dire che le imprese importanti richiedono tempo e costanza. E’ come dire “Dai tempo al tempo”.
Comanda chi puo’, ubbidisce chi vuole (o chi deve).
Infatti, secondo Machiavelli: “E’ più facile imparare a obbedire che a comandare” (Discorso dell’ordinare lo stato di Firenze alle armi).
Come si fa a Sorano, si fa a Pitigliano.
Come se fa a Sorano, se fa a Pitijano.
I due centri del grossetano, vicini tra loro, hanno pressoché le stesse abitudini e modi di vita, come dire che tutto il mondo è paese.
Come si fa, ci manca un pezzo.
Come se fa, ce manca ‘n pezzo.
Comunque si agisca non va bene.
Con l’ago e la pezzuola, si tira avanti la famigliuola.
Co l’ago e la pezzola, se tira avante la famijola.
Il proverbio è nato in tempi di miseria, quando non si potevano buttare via facilmente vestiti e capi di corredo e la massaia li rattoppava per renderli ancora servibili. Fino agli anni tra il 1950 e 1960 molti uomini andavano in giro con i calzoni rattoppati e le donne di casa si industriavano con ago e filo per ricavare da un lenzuolo lacero da due piazze uno più piccolo per il letto del figlio o anche per farne un asciugamani ecc…
Con le buone maniere, s’ottiene tutto.
Co le (b)bone maniere, s’ottiene tutto.
La buona educazione, la buona creanza sono norme e maniere del buon comportamento, “conseguenze (come ha scritto Mons. Giovanni Della Casa nel famoso Galateo composto tra il 1550 e il 1555) di un sereno dominio delle inclinazioni naturali” che ci procurano la benevolenza e la disponibilità delle altre persone.
Consiglio di volpi, sterminio di galline.
La volpe è la peggiore nemica delle galline ed è anche molto astuta.
Il proverbio vuol dire che quando i furbi si riuniscono per complottare preparano qualche brutto tiro alle spalle di persone indifese, di poveri diavoli.
Contadino: scarpe grosse e cervello fino.
Il contadino non è tanto disposto a prendere abbagli negli affari né a lasciarsi ingannare facilmente e, sotto l’apparenza di persona ingenua, è un furbacchione.
Anche in questo caso: “L’apparenza inganna”.
Contro la forza, la ragione non vale.
Contro la forza, la raggion nun vale.
Si dice anche: “Contro il culo (fortuna), la ragione non vale” e “Contro vento si va, contro il culo no”.
Il Petrarca scriveva: “Ragion contro forza non ha loco” (Trionfo dell’amore, IV, 111).
Contro vento si va, contro il culo no.
Contro l’vento ce se va, contro ‘l culo no.
Contro chi ha una fortuna sfacciata c’è poco da fare.
Cosa fatta, capo ha.
Quando si deve fare una cosa non bisogna avere tentennamenti.
E’ un proverbio che deriva dal latino (factum infectum fieri non potest) e vuol dire “quello che è fatto è fatto”.
Nel Medio Evo, ai tempi di Dante, a Firenze Mosca de’ Lamberti, un uomo iroso e pieno d’odio, gridò: “Ammazziamo Buondelmonte dei Buondelmonti che ha gravemente offeso la famiglia di Lambertuccio Amidei” (rompendo la promessa di sposarne la figlia). Il Mosca consigliò di uccidere Buondelmonte, che stava per prendere in moglie una figlia di Gualdrada Donati, e di compiere il delitto senza esitazioni e senza darsi pensiero delle conseguenze, le quali furono, com’è noto, la discordia dei fiorentini e la loro divisione in Ghibellini e Guelfi, con grande danno di uccisioni e di violenze. Indi pronunciò le parole: “Cosa fatta capo ha. Quand’è ucciso, è ucciso. Quel traditore non merita altro”.
Anche Dante ha usato l’espressione “Cosa fatta capo ha” (Divina commedia, Inferno XXVIII, 107).
Nell'uso corrente il detto esprime lo stimolo a finire presto e bene un lavoro o un’incombenza fastidiosi.
Crescono gli anni, e crescono i malanni.
Crescono l’anne, e crescono le malanne.
Vedi: “Dopo la cinquantina, un dolore per mattina”.
Croce e patacca, il diavolo non ci attacca.
Croce e patacca, ‘l diavolo ‘n c’attacca.
Con la parola “patacca” si indica una grossa moneta di scarso valore. La “patacca” era in realtà una moneta d’argento del valore di 24 denari battuta a Bologna tra il 1337 e il 1347 che recava sul recto la croce patente (con i bracci che si allungano verso le estremità) e il nome del Signore e sul verso San Pietro.
Veniva forse usata anche come repellente del demonio.
Cuore di mamma non sbaglia.
Core de mamma nun sbaja.
Lo dicono prevalentemente le madri nei presentimenti lieti e tristi del loro cuore.
D
Da cosa, nasce cosa.
Di solito da un fatto, da un’esperienza ne nasce un’altra e poi ancora un’altra e così via. Il poeta greco Alceo (Carmi, IX, 15): “Niente potrebbe nascere da niente?”. E Machiavelli aggiungeva “Di cosa nasce cosa, e il tempo la governa” (La Mandragola, a.I, sc.I).
Dagli, dagli, le cipolle diventano agli.
Dajje, dajje, le cipolle diventano ajje.
A forza di chiedere, si riesce a ottenere anche cose insperate, o addirittura impossibili, com’è impossibile che un ortaggio si trasformi in un altro.
Sta anche per indicare che alla fine si perde la pazienza.
D’agosto, moglie mia non ti conosco.
D’agosto, mojje mia nun te conosco.
E’ un vecchio adagio che consiglia all’uomo di stare calmo nel periodo più caldo dell’anno. Il caldo eccessivo infatti inibisce le attività sessuali. Diceva Esiodo (poeta greco nato intorno al 750 a C.) che il caldo dell’estate rende procaci le donne e infiacchisce gli uomini. Il poeta greco Alceo scriveva: “Innaffia di vino i polmoni, che il solleone è al culmine, la stagione è greve e tutto ha sete per la calura; ma la cicala dalle fronde fa sentire le sue dolci note, e spande di sotto l’ali l’arguta canzone ininterrottamente, quando l’estate tutto incanta propagandosi nell’avvampante bagliore, e fioriscono i cardi; ora le donne sono procaci, ma gli uomini sono fiacchi poiché Sirio brucia il capo e le ginocchia“ (Carmi, 39).
Dai parenti mi guardi Dio che dai nemici mi guardo io.
Esistono tanti proverbi, un po’ in tutta Italia, che hanno come argomento il difficile rapporto con i parenti stretti. Oltre a questo, che indica come solo la Provvidenza può aiutarci contro la malizia dei congiunti, il più noto, risalente all’Alto Medio Evo, è “Parenti, serpenti”, tutto giocato sull’analogia di suono fra i due participi presenti “parenti” (cioè “che generano”, “genitori”) e “serpenti” (cioè “che strisciano”), con ovvia allusione al serpente della Bibbia, vale a dire a Satana. Un altro dice “I parenti sono come le scarpe; più sono stretti e più fanno male” e un altro ancora “Gli amici si scelgono, i parenti no”.
Dai sessanta in su, non si contano più.
Da le sessanta ‘n su, nun se contano più.
Quando gli anni di una persona sono tanti, si perde a volte anche il desiderio di contarli e di festeggiarli perché una pensa con tristezza alla vita che se n’è andata e alla fine che si avvicina.
Dai tempo al tempo.
Invita a non voler “forzare i tempi”, così nelle aspettative come nell’azione, cioè ad attendere che gli eventi si sviluppino secondo il tempo che è loro necessario.
Per analogia si dice: ”La gatta presciolosa…”, ”Il tempo è galantuomo”.
Dal campo si ricava la forma.
Vuol significare che la parte non può essere più grande del tutto.
Da quel che c’è si vuol prima cavare quel che bisogna, dal poco il necessario.
Dante Alighieri ha scritto “… ma non ciascun segno è buono, ancor che buona sia la cera” (Purgatorio, XVIII, 38-39). Il fatto che la cera sia buona non implica che tutte le impronte che vi si fanno siano buone.
D’aprile non ti scoprire; di maggio vacci adagio.
D’aprile nun te scoprire; de maggio vacce adaggio.
Nelle giornate d’aprile il clima è già tiepido e vien voglia di alleggerire gli indumenti, ma il tempo è ancora incerto e la sera ritorna il fresco con il rischio di prendere qualche raffreddore. Un po’ di prudenza tuttavia occorre anche nel mese di maggio.
Dare a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio.
Agire con giustizia e imparzialità, riconoscendo ad ognuno i propri meriti, i diritti o le ragioni che effettivamente ha.
Il detto deriva dal Vangelo e si riferisce all’episodio in cui Gesù, interrogato dai sacerdoti del Sinedrio, che volevano indurlo ad affermare che non era giusto pagare le tasse a Roma, prese una moneta e indicò l’immagine dell’imperatore che vi era ritratta, dicendo appunto “Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio” (Matteo 22, 15-22, Marco 12, 13-17, Luca 20, 20-26), indicando così la divisione fra potere spirituale e potere temporale.
Dare nna botta al cerchio e una alla botte.
‘Na (b)botta al cerchio e una a la (b)botte.
In senso figurato significa barcamenarsi, destreggiarsi, dar ragione un po’ all’uno un po’ all’altro, cercare di accontentare l’uno e l’altro.
L’immagine è presa dal mestiere del bottaio che richiede grande abilità nel momento conclusivo di unire le doghe della botte con i cerchi di ferro. L’operazione consiste in due momenti simultanei: battere con il mazzuolo un po’ sulle doghe per assestarle e compattarle, un po’ sul cerchio di ferro per farlo scendere al punto di calzare perfettamente le doghe.
Il Manzoni (I Promessi Sposi, Cap. XV) cita quest’espressione quando parla della rivolta del pane e dell’assalto ai forni: “…furono emanati ordini ai fornai di fare il pane senza interruzione, e al contado di mandar grano alla città”. Poi “per dar, come si dice un colpo al cerchio ed uno alla botte, e render più efficaci i consigli con un po’ di spavento, si pensò anche a trovar la maniera di mettere le mani addosso a qualche sedizioso”.
Delle pene d’amore, si tribola e non si muore.
De le pene d’amore, se tribola ma nun se more.
Si dice che il tempo cura tutte le ferite, perciò col passare del tempo svaniscono, senza estreme conseguenze, anche le più forti pene d’amore.
Del senno del poi, son piene le fosse.
Del senno de poe, so piene le fosse.
Il proverbio significa che è inutile ripensare alle occasioni perdute.
L’assennatezza che sopravviene a cose fatte è facile e non serve.
Analogamente si dice “E’ inutile piangere sul latte versato”.
Di maggio si fa sera.
De maggio se fa sera.
Anche nel mese di maggio, in cui c’è più luce perché le giornate sono più lunghe, giunge comunque la sera.
Il proverbio insegna a non perdere tempo perché c’è un limite a tutto e il tempo concessoci può terminare.
Di mamma ce n’è una sola.
De mamma ce n’è una sola.
Il proverbio è un inno alla figura materna il cui amore e la cui dedizione ai figli è impareggiabile, perché si prende cura di tutti i loro bisogni. Nessun’altra figura può sostituirla.
Dimmi con chi vai e te dirò chi sei.
Dimme con chi vae e te dirò chi see.
Se una persona frequenta amici cosiddetti “bravi” si può dire che anch’egli abbia la stessa loro condotta, se invece frequenta persone e ambienti balordi acquisisce una cattiva nomea.
Dio, come vede, provvede.
Il detto viene dal Vangelo (Matteo,6, 26-30): ”Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi?”.
Il concetto della provvidenza è stato ripreso anche da Dante (Paradiso, XI, 28-36):
“La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogni aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,
però ch’andasse ver lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida
disposò lei col sangue benedetto,
in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida”.
E’ la descrizione poetica che l’Alighieri fa della Chiesa, quella che Cristo fece sua sposa con la Passione quando morì sulla croce. Affinché andasse verso di lui con maggior sicurezza e fosse anche più fedele al suo esempio, Cristo fece nascere due capi che la guidassero, l’uno, San Domenico, con la sua dottrina e l’altro, San Francesco, con l’amore.
Dio li fa poi l’accoppia.
Dio le fa e poe l’accoppia.
Si dice per persone che agiscono o vivono insieme e hanno le stesse qualità e gli stessi difetti. Riferendosi in particolare a qualità positive si dice “Ogni simile ama il suo simile”, “Chi si somiglia si piglia”.
In proposito, il poeta Apollinaire il 9 febbraio 1915 ha scritto questa poesia: “Mi guardo in uno specchio ed è te che vedo mia Lou che mi somigli come l’immagine opposta del mio animo virile forte e tanto appassionato”. Si noti la forma dell’impaginazione scelta dal poeta:
Questi proverbi hanno le loro radici nel detto latino Similes cum similibus facillime congregantur (Cicerone, De senectute, 3).
Con un’espressione più colorita si usa dire anche:”Adocchia, adocchia, Cristo fa la gente e poi l’accoppia”.
Dio (o Cristo) manda il freddo secondo i panni.
Dio (o Cristo) manna ‘l freddo secondo le panne.
Commenta il fatto che in certi casi le pene o i dolori sono proporzionali alle capacità di sopportazione di chi ne è colpito.
Dio se non ha pagato il sabato, paga la domenica.
Dio si nun ha pagato ‘l sa(b)bato, paga la domenica.
Vuol dire che i malvagi a volte sembrano farla franca, ma, col tempo, la giustizia li scopre e li punisce.
Il proverbio si trova nella Bibbia (Ecclesiaste, V, 4) in cui è scritto che “L’Altissimo è pagatore paziente”. Vuol dire che se Dio non castiga subito, il castigo può essere differito ma non tolto perché la punizione divina è inesorabile. Questo modo di dire è preso dall’abitudine che c’era una volta di pagare gli operai la sera del sabato. Il proverbio è stato ripreso da scrittori antichi come Plutarco, Petronio e Macrobio. Anche Dante Alighieri lo traduce con questi versi (Paradiso, XXII, 16-18): “La spada di qua su non taglia in fretta / né tardo, ma’ ch’al parer di colui / che disiando o temendo l’aspetta“.
Dire pane al pane e vino al vino.
E’ un invito a parlare chiaro, ad esprimersi chiamando le cose col loro nome, dire le cose come stanno, evitando di raggirare il prossimo con bugie e menzogne. Anche nel Vangelo c’è il monito: “Il vostro linguaggio sia si, si, no, no”.
Di riffe o di raffe.
De riffe o de raffe.
Significa ad ogni costo, in ogni modo, in tutte le maniere.
Alcuni ritengono che questa locuzione derivi dallo spagnolo rifar, una parola probabilmente di origine onomatopeica che significa sorteggiare. Altri invece dal greco riphé (lancio dei dadi) da cui il significato di lotteria con premio di un certo valore. Altri infine la ricollegano al longobardo riffi (maturo, robusto) che sarebbe anche alla base del napoletano riffa nel senso di “contesa”, “lotta”, passato poi in Toscana come sinonimo di “violenza”, “prepotenza”.
Il Tommaseo nel Dizionario della lingua italiana dà alla parola riffa il significato di “a tutta forza”.
Disse la merla al tordo: la botta sentirai se non sei sordo.
Disse la merla al tordo: la botta sentirae si nun see sordo.
Aspetta e vedrai.
Disse la volpe ai suoi cari figli: quando a pollastrelli e quando a grilli.
Disse la volpe a le su care fijje: quanno a pollastrelle e quanno a grille.
Ci sono periodi di maggiore ricchezza, prosperità, salute e periodi in cui di queste cose ne abbiamo minore abbondanza. Come a dire: ”C’è il periodo delle vacche grasse e quello delle vacche magre”. Quest’ultima espressione si ricollega alla Bibbia, nell’episodio in cui il Faraone sognò sette vacche grasse che pascolavano vicino ad un fiume, seguite da sette vacche magre che divoravano le prime. Chiese allora a Giuseppe, figlio del patriarca ebreo Giacobbe, il quale viveva alla sua corte, di interpretare il sogno, e questi gli predisse l’avvento di sette anni di grande abbondanza che sarebbero stati seguiti però da altri sette anni di carestia.
Donna al volante, pericolo costante.
Il proverbio ironizza sulla discussa capacità delle donne di guidare gli autoveicoli.
Donna baffuta, sempre piaciuta.
Non avendo trovato per questo proverbio una spiegazione convincente, ritengo che non si tratti di un prodotto dell’antica saggezza popolare ma solo di un curioso modo di dire.
Donna nana, tutta tana.
Nel senso che più sono basse più ce l’hanno larga.
Donne e buoi dei paesi tuoi.
Questo proverbio, come tanti altri, è frutto dell’esperienza che ci fa considerare più valide le scelte che facciamo sulle persone e le cose del nostro stesso ambiente perché di esse si conosce pressoché tutto. Delle persone si conosce non solo la famiglia, ma tutto il parentado e in qualche caso anche gli antenati, se ne conosce l’educazione impartita e ricevuta, le virtù e i vizi ecc.. Queste conoscenze ci aiutano a fare meglio le nostre scelte. Analogamente si dice degli animali e delle altre cose. Degli animali si può conoscere l’allevatore, i metodi di allevamento, le qualità dell’animale, la forza se trattasi di animale da lavoro, la salubrità se si tratta di animale per alimentazione.
Donne e motori, gioie e dolori.
Il proverbio ci dice che le persone, specie i nostri famigliari, quando sono sani e si comportano bene ci procurano gioie, quando invece si comportano male ci procurano dolori. Lo stesso dicasi per le cose che se sono sane e funzionano ci lasciano tranquilli mentre se non sono in buono stato ci procurano noie, fastidi e preoccupazioni, dolori insomma.
Donne e oche, tienne poche.
Le donne hanno il vizio di chiacchierare molto e di non tenere la bocca chiusa, come le oche che schiamazzano sempre a becco aperto. Si ricorda a questo proposito l’avvenimento leggendario che vide come protagoniste le oche del Campidoglio nel 390 a.C. I Galli di Brenno che assediavano Roma cercavano nottetempo un modo per penetrare nel colle dove si erano rifugiati i romani che non erano fuggiti a Vejo o a Cere. La leggenda narra appunto che delle oche, unici animali superstiti alla fame degli assediati perché sacre a Giunone, cominciarono a starnazzare rumorosamente avvertendo del pericolo l’ex console Marco Manlio e gli assediati che così poterono respingere l’assedio finchè non arrivò Camillo e le sorti della guerra furono ribaltate a favore dei romani.
Dopo cent’anni e cento mesi, l’acqua ritorna ai suoi paesi.
Doppo cent’anne e cento mese, l’acqua ritorna al su paese.
Già Aristotele aveva affermato: “ogni cambiamento avviene da qualche cosa verso qualcos’altro” (Phys. 225a I); da questo concetto deriva direttamente la dottrina per cui nulla di nuovo avviene mai nell’universo rispetto all’infinito tempo. Anche Epicuro sostiene che niente avviene nell’universo rispetto all’infinito tempo trascorso (Vedi Plutarco, Opere, Einaudi, note pag. 166).
Dopo i confetti, si scoprono i difetti.
Doppo le confette, se scoprono le difette.
Appena sposati si vedono i difetti del coniuge. Il fidanzamento, nella stragrande maggioranza dei casi, è condito dapprima da affettuosità poi dalla passione e dall’amore, dopo il matrimonio, l’abitudine alla vita di coppia, il progressivo affievolimento dell’amore e della passione fa esplodere le incomprensioni e i litigi.
Plauto scrisse “Amor et melle et felle est fecondissimus”, l’amore è pieno di miele e di fiele.
Dove c’è Dio è la pace, dove c’è l’ombra il riposo.
‘N do c’è Dio c’è la pace, ‘n do c’è l’ombra ‘l riposo.
Come nella religione cattolica si dice che l’anima riposa, cioè trova il suo appagamento in Dio, così il corpo trova il riposo dopo la fatica distendendosi all’ombra.
La prima parte è detta principalmente per la famiglia, la seconda per il lavoro.
Dov’è ‘l papa, è Roma.
Intorno a questo detto, osserva il Monosino che possa aver tratto origine “a dicto Pompeiani apud Herodianum lib.I, non longe a principio, in oratione, qua persuadebat Comodo recens ad imperium elato, ne prius Romam rediret, quam barbaros ad instrui coegisset”. E così Lucano Lib.V, 27: …. Tarpeia sede perusta Gallorun facibus, Veiosque abitante Camillo, illic Roma fuit. (A Monosino, Angeli Monokini Floris Italicae linguae…. Venetiis, 1604).
Vale a dire La patria è dove si sta bene. Il proverbio è la traduzione della frase latina “Patria est ubicunque bene est” che Cicerone, nel libro Tusculanae disputationes riprende da Pacuvio (220-130 a C.)
Dove non ci arrivo, ci tiro il cappello.
Do ‘n c’arrivo, ce tiro ‘l cappello.
Voler arrivare dappertutto.
Dove non si mette l’ago, si mette il capo.
Do nun se mette l’ago, se mette ‘l capo.
L’esempio è preso dalla sartoria. Un piccolo buco fa presto a diventare grande se non lo si rattoppa subito.
Dov’entra il sole, non entra il dottore.
Il proverbio è antichissimo e spiega che molti microrganismi nocivi per la nostra salute vengono distrutti dal sole.
Dove si manduca, Dio ci conduca.
Do se magnuca, Dio ce conduca.
Dio ci conduca, dove si mangia. In senso lato indica l’auspicio a poter essere nei luoghi dove si mangia tanto, si gustano piatti succulenti, insomma si sta bene e ci si diverte.
Anche Dante Alighieri usa l’espressione “… e come il pan per fame si manduca” (Inferno, XXXII, 127).
Sentiamo, in proposito, il poeta Giuseppe Giusti:
“Narra l’antica e la moderna storia
che i gran guerrieri, gli uomini preclari,
eran famosi per la pappatoria;
tutto finiva in cene e desinari:
e di fatto un eroe senz’appetito
ha tutta l’aria d’un rimminchionito.
Perché credete voi che il vecchio Omero
da tanto tempo sia letto e riletto?
Forse perché lanciandosi il pensiero
sulle orme di quel nobile intelletto,
va lontano da noi le mille miglia,
sempre di meraviglia in meraviglia?
Ma vi pare! Nemmanco per idea:
sapete voi perché l’aspra battaglia
di Troia piace, e piace l’Odissea?
Perché ogni po’ si stende la tovaglia;
perché Ulisse e quegli altri, a tempo e loco,
sanno farla da eroe, come da cuoco”.
Dove va, dove viene.
‘N do va, ‘n do viene.
Ha lo stesso significato di altri proverbi quali: “Una mano lava l’altra…” , ”Do ut des”. Si dice anche “Un po’ per uno non fa male a nessuno”.
Dove va la barca, va il battello.
Do va la (b)barca, va ‘l (b)battello.
In un istmo, in un canale d’acqua dove passa una barca può passare anche un battello, che è un’imbarcazione di dimensioni più piccole.
Il proverbio vuol dire che se si riesce a fare cose grandi si possono fare a maggior ragione quelle che impegnano di meno.
Dove c’è il più, c’è il meno.
E
E’ arrivato un altro frate, brodo lungo e seguitate.
E’ rivato ‘n altro frate, (b)brodo lungo e seguitate.
Vedi “Una campana (b)basta per cento frati”.
E’ inutile piangere sul latte versato.
E’ inutile piagne sul latte versato.
Quando si commettono errori che non si possono riparare, non serve a nulla pentirsene, come appunto non si può raccogliere un liquido versato in terra. Occorre pensare bene a ciò che si deve fare, prima di fare cose sbagliate.
Entrarci come i cavoli a merenda.
Entracce come le cavole a merenna.
Si usa per sottolineare una cosa fuori luogo, inopportuna.
Si sa che ci sono tante cose buone, utili e anche piacevoli, purché a tempo e luogo. La merenda è un pasto leggero, uno spuntino che molti fanno nell’intervallo fra il pranzo e la cena. Il cavolo è invece un cibo pesante, del tutto indatto alla merenda.
Merenda è il neutro plurale del participio futuro passivo di merere, meritare. In altre parole significa una cosa che dev’essere meritata. Secondo il dizionario del Tomasseo è il ristoro guadagnato con la fatica.
Entrare da un orecchio e uscire dall’altro.
Entrà da ‘n orecchio e uscì da quell’altro.
Si dice di cosa ascoltata e cancellata subito dalla memoria per mancanza di interesse.
Vuol dire anche non ascoltare i rimproveri.
E’ più la spesa che l’impresa.
Ciò che si deve spendere (in denaro o fatiche) è più di quanto si potrà ricavare dall’impresa, perciò non vale la pena impegnarvisi. Analogo è “Il gioco non vale la candela”.
Errare è umano.
Viene dal latino Errare humanum est.
E’ una frase che significa “sbagliare è cosa umana” (Seneca). Nel medioevo fu completata con l’aggiunta “perseverare diabolicum” (perseverare è diabolico) presa dai Sermones (1, 11, 5) di San Bernardo (1090 – 1153).
E’ un proverbio usato per lo più per giustificare un errore ma anche per avvertire che si può sbagliare ma non ci si deve intestardire nell’errore.
F
Fai del bene e scordati, fai del male e pensaci.
Fa del (b)bene e scordite, fa del male e pensice.
Il bene va fatto per sola generosità, e comunque non bisogna attendersene riconoscenza; per il male invece si deve aver rimorso, e temerne le conseguenze.
Prima ancora del messaggio cristiano, i latini avevano la loro etica che Seneca (De beneficiis, II, 0) esprime così: “Haec enim beneficii inter duos lex est: alter statim oblivisci debet dati, alter accepti numquam” (Questa è la legge scambievole del beneficio: chi dà deve subito dimenticare quello che ha dato mentre chi riceve non deve dimenticarlo mai).
Fante, cavallo e re non fecero grazia di Dio.
Fante, cavallo e re nun fecero gra(z)zia de Dio.
Vuol dire che giocare alle carte, scommetterci vincite in denaro, non fa arricchire. E’ più facile rovinarsi economicamente con le carte che assestare le finanze.
Fare a chi figli e a chi figliastri.
Fa(re) a chi fijje e a chi fijjastre.
E’ come dire “usare un peso e due misure”.
Fare buon viso a cattiva sorte.
Fa(re) (b)bon viso a cattiva sorte.
Bisogna accettare serenamente anche le cose spiacevoli, le situazioni sgradite e le sconfitte inaspettate senza esternare dispetto, ma anche mostrare di adattarsi volentieri a ciò che non ci conviene o piace.
Fare cenere e panni sporchi.
Fa(re) cennere e panne sporche.
In senso figurato, il proverbio significa ”fare sbiancare come un morto, far morire qualcuno”.
E’ verosimile che questo detto sia legato all’antico modo di lavare i panni. Nel linguaggio comune, l’azione di lavare i panni è chiamata anche “fare il bucato” perché “bucato” (o “bucatoro”, in alleronese) era il catino in muratura o argilla che aveva alla base un buco, appunto, in cui era inserita una canula per il drenaggio dell’acqua verso l’esterno. Nel “bucatoro” venivano ammassate le lenzuola, gli asciugamani e gli altri indumenti bianchi per il laborioso rito del lavaggio con la cenere. Su questa catasta di biancheria si stendeva un panno di tessuto grezzo che fungeva da filtro per la cenere che vi veniva depositata sopra. Da ultimo, su questo ammasso di cose si metteva l’acqua bollente che attraversava i vari strati, permettendo alla cenere di sbiancare il bucato, per poi fuoriuscire dal buco.
In base a questa descrizione, l’espressione corretta sarebbe “fare come la cenere sui panni sporchi”, da cui “ti faccio come la cenere sui panni sporchi” cioè “ti faccio diventare bianco come un panno lavato” sinonimo di “ti faccio sbiancare come un morto”.
Fare e disfare, è tutto un lavorare.
Si dice così quando un lavoro sembra non finire mai, perché viene continuamente disfatto, corretto e rifatto.
Questo modo di dire, analogo a “La tela di Penelope”, deriva dalla mitologia. Omero nell’Odissea (II, 90 e segg.) narra che Penelope, moglie di Ulisse, durante la lunga assenza dell’eroe era insistentemente corteggiata da numerosi principi (Proci) che volevano sposarla. Per lunghi anni essa li tenne a bada dicendo che avrebbe scelto tra loro lo sposo dopo aver finito di tessere la veste funebre per il suocero Laerte. Per rimandare sempre la decisione, la fedele sposa di Ulisse ricorse ad uno stratagemma: di notte disfaceva la tela che aveva tessuto di giorno. Con questo sistema essa riuscì ad ingannare i Proci fino al giorno in cui Ulisse ritornò ad Itaca.
Farsi la frusta per il proprio culo.
Fasse la frusta pel su culo.
Farsi del male.
Far vedere la luna nel pozzo.
Cioè ingannare qualcuno con promesse bugiarde come fece la volpe che mostrando al lupo l'immagine della luna in fondo al pozzo gli diede a intendere ch'era una bella forma di formaggio. Così racconta in una sua favola il La Fontaine.
Fatta la gabbia, morto l’uccello.
Fatta la gabbia, morto l’ucello.
E’ analogo al proverbio: “Chiudere la stalla quando i buoi sono scappati”.
Fatta la legge, trovato l’inganno.
Emanata una legge, c’è sempre chi trova l’espediente per eluderla. Si dice in genere con rassegnata sfiducia nella forza delle norme giudicate buone, e con riprovazione per i furbi; ma talora assume il valore di una sollecitazione all’astuta mancanza di scrupoli.
Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio.
Fidasse è (b)bene, ma nun fidasse è mejjo.
Esprime sfiducia verso gli altri e avverte che in certi casi è bene non fidarsi troppo neppure della nostra memoria, della nostra abilità ecc. Invita ad avere accortezza.
Il favolista Fedro lanciava ai suoi contemporanei un simile monito con l’espressione “Il prossimo dev’essere messo alla prova, prima di fidarsene” (La scrofa partoriente e il lupo, XVII).
Secondo Roberto Gervaso (La volpe e l’uva, 17, 7): “Chi si fida di tutti merita di essere ingannato”.
Figli e guai o presto o mai.
Fije e guae o presto o mae.
Diffuso in tutta l’Italia centrale fin dall’inizio dell’epoca moderna, ha lo stesso significato dell’altro proverbio “Il buongiorno si vede dal mattino”. Significa infatti che se un bambino non comincia da subito a dare problemi ai suoi genitori poi non ne darà più. Se invece comincia presto allora continuerà, anche se i pedagogisti negano che sia così.
Figli piccoli, guai piccoli, figli grossi, guai grossi.
Fije piccole, guae piccole, fijje grosse, guae grosse.
Per i genitori, le marachelle, le scappatelle dei figli piccoli hanno un peso, le devianze dei figli grandi uno ben maggiore.
Finchè c’è vita (oppure fiato), c’è speranza.
E’ un’esortazione a non disperare, anche in situazioni difficili, o anche un commento più o meno ironico su chi continua a sperare anche quando ormai è troppo tardi.
Questo proverbio ci riporta al detto latino “spes ultima dea”, ripreso a sua volta dalla mitologia, e precisamente al vaso di Pandora, la prima donna sulla terra, che lo ebbe da Zeus.
L’espressione è stata ripresa dal Foscolo: ”anche la speme, ultima dea, fugge i sepolcri” (I Sepolcri, 16-17).
Finchè dura fa verdura.
Finchè c’è la salute e ci sono i soldi, tutto va bene. Si dice anche di una cosa che non funziona più bene ma si continua ad adoperare finchè non si romperà.
Finito Carnevale, finito amore.
Si usa quest’espressione per alludere alle cose che durano poco, lo spazio di un breve periodo, come appunto il Carnevale che dura poche settimane, o le vacanze che abbracciano di solito un tempo corto. Un altro proverbio analogo dice: “L’amore di carnevale, muore in quaresima”.
Fortunato in amore, non vince a carte.
Fortunato ‘n amore, nun vince a carte.
Si usa spesso come scherzosa consolazione (o insinuazione) per quelli che perdono (o vincono) al gioco.
Fra le due Madonne (15 agosto – 8 settembre), l’acqua ha da risponne.
E’ necessario che piova tra agosto e settembre per assicurare buoni raccolti.
Frate Modesto, non fu mai priore.
Frate Modesto, nun fu mae priore.
Il proverbio vuol dire che chi non coltiva ambizioni e si accontenta del proprio stato non guadagnerà mai buoni incarichi o posizioni di prestigio. Scriveva Trilussa nella poesia “La modestia del somaro”:
- Quello che te fa danno è la modestia:
- disse un Cavallo a un Ciuccio –
ecco perché nun sei riuscito a diventà
una bestia nobbile e generosa come me!
– Er Ciuccio disse: - Stupido che sei !
S’io ciavevo davero l’ambizione
de fa’ cariera, a ‘st’ora già sarei
Ministro de la Pubblica Istruzione!
G
Gallina che non becca, ha beccato.
Gallina che nun (b)becca, ha già (b)beccato.
In natura, se un animale non ha fame, non mangia e lo sanno bene i domatori di leoni che, prima dello spettacolo, saziano per bene le belve per evitare di diventare il loro pasto. Quanto al comportamento umano, se qualcuno non fa una cosa è evidente che l’ha già fatta e non la cerca più.
Vedi “Chi non mangia, ha mangiato”.
Gallina vecchia, fa buon brodo.
Gallina vecchia, fa (b)bon (b)brodo.
Come la gallina che fornisce buon cibo quando (o proprio perché) è vecchia, così molte cose o persone producono risultati positivi o agiscono efficacemente quando (o proprio perché) sono vecchie. Più in generale, non tutte le cose vecchie sono inutili o spregevoli, e anzi molte possono essere buone solo se tali. Può avere però anche senso ironico o scherzoso.
Gente allegra, Dio l’aiuta.
Si pensa che Dio aiuti in modo particolare le persone che affrontano la vita in maniera serena e allegra.
Vivere la vita con gioia e serenità serve ad affrontare meglio le avversità e ad attirare la simpatia e l’appoggio degli altri.
L’allegria è il primo rimedio della scuola salernitana, uno dei momenti decisivi nel progresso della scienza medica, definita la madre di tutte le università. Le prime notizie certe su di essa risalgono al principio del secolo IX anche se il massimo splendore si ebbe nel corso del XII e XIII secolo.
Questa scuola si basava non solo sull’insegnamento del greco Ippocrate, ma anche sull’esperienza e gli insegnamenti della medicina araba ad opera di Costantino l'Africano che ebbe il merito d’introdurre testi arabi nella Scuola di Salerno.
Una delle novità più importanti di questa scuola sta nel non accettare passivamente la malattia, nel pensare che oltre ad avere cura dell'anima, occorra prendersi cura del corpo. “E' bene guidare i sani”, affermava Ippocrate, e la Scuola Salernitana fa proprio questo motto: non si arrende di fronte alla malattia, la combatte, la cura, ma soprattutto cerca di prevenirla con strumenti medici precisi e organizzati. Si oppone, inoltre, all'accettazione passiva della morte e rifiuta la teoria secondo la quale è inutile curare il corpo quando la vera salvezza non appartiene al mondo terrestre.
Gente (persona) trista, nominata e vista.
Si dice quando si parla di una persona cattiva e quella compare nello stesso momento.
Vedi anche: “Parlare del diavolo e vedere spuntare le corna”.
Già che siamo in ballo, balliamo.
Già che semo ‘n (b)ballo, (b)ballamo.
Vuol dire non ritirarsi indietro da una situazione, affrontarla, accettandone le conseguenze.
Lo scrittore greco Alceo ha scritto: “…da terra occorre prevedere la rotta, chi n’è capace e n’ha il destro; ma una volta che si è in mare aperto, è giocoforza stare agli eventi”(Frammento di papiro, L1).
Il Manzoni (I Promessi Sposi, Cap.XV) mette in bocca quest’espressione al notaio che va a prelevare Renzo all’osteria in seguito ai tumulti di Milano: “Siamo in ballo; bisogna ballare” e ancora (cap. XXX) in un colloquio tra Don Abbondio e Perpetua in merito al passaggio e alle razzie dei lanzichenecchi, fa dire al curato, rivolto alla serva: “… le chiacchiere non servono a nulla. Quel ch’è fatto è fatto: ci siamo, bisogna starci”.
Giochi di mano, giochi da villano.
Gioche de mano, gioche da villano.
E’ un invito a non usare le mani contro le persone nemmeno per gioco ma solo la forza del ragionamento e della persuasione.
Giugno, la falce in pugno.
Vuol dire che il mese di giugno è quello ideale per mietere il grano, ormai maturo, mentre a luglio è troppo tardi.
Gli amici si scelgono, i parenti no.
L’amice se scelgono, le parente no.
Il proverbio sta a sottolineare che i rapporti con i parenti sono più difficili di quelli con gli amici e tuttavia i primi non ce li possiamo scrollare di dosso mentre gli amici sì.
Gli estremi, si toccano.
L’ estreme, se toccano.
Ogni cosa, spinta all’estremo, viene a coincidere con il suo contrario; perciò si usa ancora il detto latino “Summum ius, summa iniuria” (il sommo diritto è somma ingiustizia); l’applicazione troppo rigorosa della giustizia si converte in una grave ingiustizia.
Gli stracci vanno sempre in aria.
Le stracce vanno sempre per aria.
Sono sempre i meno potenti o meno ricchi che pagano e scontano per chi sta in alto.
Sulle sperequazioni della giustizia umana molti autori hanno espresso pensieri. Qui si riporta il detto dello scrittore latino Giovenale (Satira II, 63). “dat veniam corvis, vexat censura columbas” (la censura è indulgente verso i corvi malfattori e strazia invece le povere colombelle).
Anche Fedro (La cornacchia e la pecora, XXIV) ha scritto: “Multos lacessere debiles et ceder fortibus”, molti tormentano i deboli e si piegano davanti ai forti.
Gli zuccherini non sono fatti per i somari.
Le zuccherine nun so fatte pe le somare.
Si usa per affermare che è inutile usare comportamenti delicati contro chi è recalcitrante. In senso traslato può significare anche: “Non mischiare il sacro con il profano”.
Grasso che cola.
Guardare e non toccare è roba da crepare.
Guardà e nun toccà è robba da crepà.
Vale anche a scusare chi “tocca” ciò che non si dovrebbe.
Guardarsi dalle persone segnate da Cristo.
Guardasse da le persone segnate da Cristo.
Nella Bibbia (Genesi, IV, 15) è detto che il Signore mise un segno sopra Caino affinché coloro che lo incontravano non lo uccidessero. Da questo fatto, per ignoranza e superstizione, si è generata la convinzione che le persone che hanno un difetto fisico sono segnati da Cristo perché possiamo sfuggirli.
In verità anche i pagani usavano l’espressione cave signatum che fu sconfessata dalla civiltà e dalla pietà cristiana.
H
Hai voluto la bicicletta? ora pedala.
Hae voluto la bicicletta, ora pedala.
L’hai voluto tu. Ora datti da fare!
Vedi: “Chi è causa del suo mal, pianga se stesso”.
Ho comprato le molle, per non scottarmi col fuoco.
Ho comprato le moje (molle), pe nun scottamme col foco.
Le molle (moje) sono pinze di ferro con manici lunghi usate un tempo per prendere i carboni accesi senza scottarsi le mani. In senso allegorico, il proverbio sta a significare “prendere accorgimenti”. L’espressione ricorre specialmente tra le persone anziane che la usano a proposito dei propri figli dai quali si attendono aiuto e protezione in caso di bisogno.
I
I guai della pentola li conosce il coperchio.
Le guae del pignatto le sa la miscola (o ‘l coperchio).
Ossia i fatti propri non sempre possono essere dati in pasto alla curiosità altrui, in quanto per i falsi amici si tratterebbe di occasioni per creare poi solo pettegolezzi, bisogna invece custodirli in casa propria o dentro di sé.
Solo chi ha vissuto una determinata situazione può darne una spiegazione esauriente.
Il buongiorno, si vede dal mattino.
‘L bongiorno, se vede dal mattino.
Dal punto di vista meteorologico un mattino bello, sereno, prelude ad una giornata altrettanto bella e serena.
Il proverbio vuol dire che è importante cominciare un’attività bene, con le idee chiare, spesso infatti il risultato finale dipende da come è stato cominciato il lavoro.
Affine a questo proverbio è “Chi ben comincia è a metà dell’opera”.
Il bue di maremma scaccia quello di stalla.
‘L (b)ovo de maremma scaccia ‘l (b)bovo de stalla.
Si usa quest’espressione quando una persona, prima estranea, entra a far da padrone in un ambiente, una casa spodestando nella gestione le persone che se ne occupavano prima.
Il bue disse cornuto all’asino.
‘L (b)bovo disse cornuto all’asino.
Significa che siamo più capaci di vedere i difetti degli altri che i nostri, sbagliando però. Il detto può essere ricondotto ad una favola di Fedro (I vizi degli uomini): “Non ci è possibile vedere in noi nessun difetto, e appena gli altri sgarrano li censuriamo” (videre nostra mala non possumus; alii simul delinquunt, censores sumus).
Lo stesso monito c’è nel Vangelo laddove veniamo invitati a togliere la trave dal nostro occhio piuttosto che la pagliuzza da quello dell’altro (Matteo 7, 1-3, Luca 6, 37-42).
Il carbonaio dove tocca tinge.
‘L carbonaio ‘do tocca tigne.
Chi intrattiene contatti con persone e situazioni non limpide finisce, prima o poi, per esserne contaminato.
Il corpo pieno non pensa a quello vuoto.
‘L corpo pieno nun pensa a quello voto.
Constata e condanna l’indifferenza e l’incomprensione di chi ha verso chi non ha.
Il destino è come uno se lo fa.
‘L destino è come uno se lo fa.
Vedi: “Ognuno è artefice della propria fortuna”.
Il diavolo fa le pentole ma non fa i coperchi.
‘L diavolo fa le pignatte ma nun fa le coperchie.
Questo proverbio vuole ricordarci che le malefatte non rimangono nascoste a lungo, prima o poi vengono a galla. In definitiva vuol dire che è facile fare il male ma che è difficile nasconderlo o evitarne le conseguenze.
Il diavolo non è brutto come si dipinge.
‘L diavolo non è (b)brutto come se dipigne.
A volte si ha paura ad affrontare un nuovo impegno, a fare nuove esperienze, a lavorare con persone diverse, ma per fortuna, nella maggior parte dei casi, le paure e i timori risultano infondati e il nuovo risulta meno brutto di quanto si temesse.
Il diavolo non guasta croce.
‘L diavolo nun guasta croce.
Si dice nel gioco delle carte, quando la sorte fa stare insieme quelli che si fronteggiano intorno al tavolo.
Il difetto sta nel manico.
‘L difetto sta nel manico.
Dichiara che certi mali, o anche tutti, hanno origine da chi sta in alto, da chi tiene in mano le redini del comando.
Il dolore della vedova è forte ma dura poco.
‘L dolore de la vedova è forte ma dura poco.
Vedi: “Chi muore giace e chi resta si dà pace”.
Il ferro va battuto quando è caldo.
‘L ferro va battuto quanno è callo.
Approfittare delle circostanze finché sono favorevoli.
Il proverbio deriva dalle antiche tecniche di lavoro della metallurgia, in particolare della fucinatura, usata per dare al materiale la forma voluta.
Il ferro è malleabile finché è rovente perciò viene battuto dal fabbro sull’incudine con il martello, fino a quando mantiene la temperatura adatto a lavorarlo, poi viene arroventato di nuovo, e l’operazione viene ripetuta fino a quando il pezzo è finito.
Manzoni ne I promessi sposi (Cap.X): “(Il principe) mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e aspettandola, si dispose a battere il ferro, mentre era caldo”.
Il freddo di gennaio, riempie il granaio.
‘L freddo de gennajo, riempe ‘l granajo.
E’ necessario che il mese di gennaio trascorra con un clima freddo perché la terra possa riposarsi ed esplodere con vigore in primavera per favorire la nascita e lo sviluppo armonico delle sue produzioni.
Il gallo della sora Checca, una ne pianta e un’altra ne becca.
‘L gallo de la sora Checca, una ne pianta e n’altra la becca.
Significa essere molto ammirato dalle donne, avere successo con le donne.
La prima documentazione di questo modo di dire è di Giovanni Verga (Eros – Il marito di Elena, 266): ”Egli era il gallo della Checca… e le donne se lo mangiavano con gli occhi”.
La frase si ritrova anche nell’Elisir d’amore (atto II, scena VII) di Gaetano Donizzetti quando Dulcamara dice di Nemorino: ”Egli è il gallo della Checca / tutte segue, tutte becca”.
Il gioco non vale la candela.
‘L gioco nun vale la candela.
La posta è così piccola che non ripaga neppure il costo della candela consumata durante il suo svolgimento.
Il proverbio richiama il sistema dell’asta di un bene o di un servizio al miglior offerente, appunto a quello che avrà offerto il prezzo più alto prima che la candela si sia consumata del tutto.
Il giusto paga per il peccatore.
‘L giusto paga pel peccatore.
Quanti vanno alla forca che non ne hanno né male né colpa (Giusti).
Il latte e caffè per tutti ce n’è.
Come la ragione e il torto, anche le gioie e le sofferenze della vita non si possono dividere con un taglio netto. Tutti abbiamo gioie e dolori, alti e bassi.
Il letto è cataletto.
‘L letto è cataletto.
Il cataletto è la lettiga, la barella che si usa per trasportare i malati e i feriti. Il detto sta a significare che il troppo tempo trascorso a letto può ingenerare fenomeni di debolezza, difetti di sviluppo, forme di rachitismo da dover richiedere l’intervento del medico.
Il lupo (la volpe) perde il pelo, ma non il vizio.
‘L lupo (la volpe) perde ‘l pelo, ma no ‘l vi(z)zio.
Si dice a proposito di chi persevera ostinatamente in errori o in azioni considerate riprovevoli.
Il lupo cambia il pelo ma le sue attitudini feroci e furtive rimangono sempre le stesse.
Il male non è tanto se non viene da ogni canto.
‘L male nun è tanto si nun viene da ’gni canto.
Ripropone una celebre frase del Manzoni ne I promessi sposi (Cap.I): “La ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro”.
Il mare più acqua ha e più ne riceve.
‘L mare più acqua c’ha e più la riceve.
Si dice quando si vuole additare una persona insaziabile, che non si accontenta mai, che più ha e più vorrebbe avere, insomma di chi non sa porre freno alla propria avidità.
Il medico pietoso, fa la piaga puzzolente.
‘L medico pietoso, fa la piaga puzzolente.
Il male si aggrava irrimediabilmente quando non si ha il coraggio di adottare i rimedi adeguati, anche se dolorosi.
Il mondo è bello perch’è vario.
‘L monno è (b)bello perch’è vario.
Il proverbio insegna che si devono apprezzare tutte le diversità presenti in natura e nella società.
Vedi anche il proverbio “Sui gusti non si sputa”.
Il mondo è fatto a scale, chi le scende e chi le sale.
‘L monno è fatto a scale, chi le scenne e chi le sale.
In origine forse era riferito soprattutto al salire dalla nascita alla maturità e al declinare nella vecchiaia verso la morte. Vale anche come commento rassegnato o pungente per le vicende che portano in alto chi era in basso e viceversa.
Il morto è sulla bara.
‘L morto è su la bara.
La cosa è evidente.
Il padrone di casa sono io, ma chi comanda è mia moglie.
‘L padrone de casa so io, ma chi comanna è la moije.
Riferito al potere delle donne, legato non al possesso dei "beni materiali", ma "all'influenza" sui componenti della famiglia.
Il pane degli altri ha sette croste.
‘L pane dell’altre ha sette croste.
E’ amaro e salato.
Così ha descritto Dante Alighieri questa situazione, riferendosi alla condizione del cortigiano:
“Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui e com’è duro calle
lo scendere e il salir per l’altrui scale” (Paradiso, XVII, 58-60).
Il peggio è per chi muore.
‘L peggio è pe chi more.
Vedi il proverbio Chi muore giace e chi resta si dà pace.
Il peggio è sempre dietro.
‘L peggio è sempre dietro.
A volte siamo portati a lasciar passare un’occasione nella speranza che la successiva sia migliore e portatrice di maggiori fortune. Non sempre ciò è vero e anzi quando crediamo che il peggio sia passato ci capita di incontrare degli imprevisti dietro l’angolo.
Il pesce grosso mangia quello piccolo.
‘L pesce grosso magna quello piccolo.
I più potenti sconfiggono, distruggono, divorano i più deboli.
Serve come constatazione di fatto o come riflessione amara su certe situazioni personali o sociali.
Questo proverbio è la traduzione della frase latina pisces minutos magnus com’est (Apud Nonium, 81, 11) ripreso, con varianti, dai padri della Chiesa e dagli scrittori medievali.
Il pesce puzza dalla testa.
‘L pesce puzza da la testa.
Il detto sta a significare che certi mali (o anche tutti) hanno origine in chi sta in alto, in chi comanda ecc.
Un proverbio simile è “Il difetto sta nel manico”.
Il più coglione porta la croce e il lanternone.
‘L più cojone porta la croce e ‘l lanternone.
Vuol dire che facciamo fare ai più semplici, o sempliciotti, quelle cose che a noi non piace fare. L’esempio è preso dalle processioni religiose in cui molte persone non sono disponibili a farsi vedere con i simboli in mano.
Il più conosce il meno.
‘L più conosce ‘l meno.
Si usa spesso come risposta a chi ci qualifica dispregiativamente, ma ha anche impieghi e valori più generici.
Il più pulito ha la rogna.
‘L più pulito c’ha la rogna.
E’ un detto riferito a tutti gli uomini, in particolare alle persone esposte, come i politici, gli amministratori, i dirigenti, i manager (Chi è senza peccato scagli la prima pietra).
Il poco non basta e il troppo guasta.
‘L poco ‘n basta e ‘l troppo guasta.
E’ un monito alla moderazione, presente già nelle opere di Fedro (L’autore, II) “Non esse plus aequo petendum” (Non bisogna chiedere più del giusto). Anche Catone il Censore (nato nel 234), uomo severissimo, anzitutto con se stesso, non si concedeva alcun lusso in casa, niente che fosse superfluo, scriveva in una sua orazione (De sumptu suo): “neque mihi vasum neque vestimentum ullum est manupretiosum neque pretiosus servus neque ancilla ” (in casa mia non c’è alcuna suppellettile o vestito di valore e non ho né un servo né una serva che costino cari).
Invece secondo Seneca: “Non è mai poco, quello che basta” (Nunquam parum est, quod satis est) (Lettera a Lucilio, 119,7).
Il potere logora chi non ce l’ha.
‘L potere logora chi nun ce l’ha.
E’ una frase pronunciata dall’On. Giulio Andreotti, grande e famoso personaggio politico, per sette volte Presidente del Consiglio dei Ministri, più volte ministro, parlamentare per oltre sessantanni. Con un curriculum da politico per eccellenza rispondeva ironicamente con questa frase ai suoi oppositori e nemici che lo volevano descrivere e far apparire come un uomo consumato dal troppo uso del potere. L’onorevole Andreotti ricambiava l’accusa facendo capire con questo detto che erano invece i suoi nemici ad essere logorati dall’invidia.
Il prete come trova, lascia.
‘L prete come trova, lascia.
E’ una frase consolatoria, ricorrente sulla bocca delle donne nei giorni che precedono la benedizione delle case (di solito nella Settimana Santa). Stanche dei lavori di pulizia generale, si consolano appunto dicendo che se qualcosa non è stato pulito, pazienza, perché il prete lascia la casa come la trova.
Il primo amore non si scorda mai.
‘L primo amore nun se scorda mae.
Vuol dire che le prime storie d’amore che si vivono in gioventù rimangono fissamente impresse nella mente e nel cuore.
Questo detto popolare, molto conosciuto, nel 1932 ha ispirato il fiorentino Carlo Buti per la composizione della canzone Primo amore. Secondo quanto lui stesso ha raccontato, durante un concerto una ragazza, tale Carlotta Sottili, gli chiese di cantare una certa canzone. “Perché proprio quella?”, egli le domandò. “Perché era la preferita del mio primo amore”, fu la risposta, “e anche se ora sono felicemente sposata ad un altro, sa, signor Buti, il primo amore non si scorda mai”. Tornato a casa, Buti scrisse di getto Primo amore.
Invece secondo Trilussa (Er primo amore) l’uomo lasciato dalla sua prima donna, all’inizio dice: “ … m’è arimasta una spina drento al core: è più d’un anno e ancora me la sento! Ne la malinconia de li ricordi naturalmente resta er primo amore… Come diavolo voi che me ne scordi?” (ma doppo quattr’anni) “L’urtimo appuntamento? Era de festa… Già, la Befana, ché j’arigalai un pettinino d’osso pe’ la testa… Me costò, credo bene, un trenta sòrdi… Eh, so’ quasi quattr’anni, capirai…come diavolo voi che m’aricordi?...”.
Un noto stornello ci avverte: “Ci sono tre cose al mondo da ricordare: la gioventù, la mamma e il primo amore; la gioventù poi passa, la mamma muore, resta la fregatura del primo amore; (e per consolarsi) amore, amore, amore, amore un corno, il giorno mangio e bevo e la notte dormo”.
Il rimedio è peggiore del male.
‘L rimedio è peggiore del male.
Si dice quando una medicina ha tante controindicazioni.
Vedi anche “Peggio che andare di notte”.
Il riso, fa buon sangue.
‘L riso, fa (b)bon sangue.
Questo vecchio detto popolare ha trovato ora la conferma dalla ricerca scientifica. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Loma Linda della California ha infatti monitorato i parametri fisiologici di un gruppo di volontari prima, durante e dopo la visione di un film comico rilevando che nel sangue di questi soggetti che assistevano alla proiezione di un film comico era presente in media il 27 per cento in più di beta-endorfine e l’87 per cento in più dell’ormone della crescita rispetto ai livelli registrati nel gruppo di controllo che non vi assisteva. Avvertiti tre giorni prima del tipo di filmato che avrebbero visto, l’aumento dei livelli ematici è parso iniziare già poco prima della proiezione, per mantenersi elevato non solo nel corso del programma ma anche per alcune ore successive.
Il sangue, non è acqua.
‘L sangue, nun è acqua.
Si usa per dire che i legami di consanguineità o di parentela sono forti. E’ riferito a capacità o legami personali, l'acqua è intesa come senza valore.
Di recente è stata formulata anche la frase “La classe non è acqua”.
Il santaro, si frega una volta.
‘L santaro, se frega na volta.
Ma non di più. Si dice a chi ci ha ingannato tradendo la nostra fiducia.
Il sereno fatto di notte dura quanto un piatto di fave (o de pere) cotte.
‘L sereno fatto de notte dura quanto ‘n piatto de fave (o de pere) cotte.
Cioè poco tempo.
Il tempo cura tutte le ferite.
L’espressione è presa dalle ferite del corpo mano che piano piano, col passare del tempo, si rimarginano. Allo stesso modo il trascorrere del tempo fa dimenticare anche dispiaceri che ci hanno procurato ferite interiori.
Il tempo è denaro.
E’ un proverbio d’origine inglese. Come il tempo si può dividere in ore e minuti, così il denaro si può dividere in monete grandi e piccole perciò è opportuno risparmiare i ritagli di tempo come anche le monete di piccolo taglio.
Anche Dante la pensava così “ché perder tempo a chi più sa più spiace” (Purgatorio, III, 78).
Solo gli spensierati, da non imitare, buttano via tempo e denaro.
Il tempo è galantuomo.
Ristabilisce la verità, ripara i torti, medica ogni cosa. Dunque bisogna saper attendere.
Il troppo storpia.
Il troppo stroppia.
Questo proverbio è fondato su un gioco di parole e sulla deformazione della parola “storpia”. Significa che ogni eccesso è dannoso, anche in cose giuste e serie.
Il vino è come l’amore, scalda la testa e il cuore.
‘L vino è come l’amore, scalla la testa e ‘l core.
Ne I Malavoglia (Capitolo IX) Giovanni Verga dice: “Dove ci sono i cocci ci son feste e il vino che si spande è di buon augurio. … E’ come all’osteria, allorché ci si scalda la testa, e volano i piatti…”.
“Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace consolatore” (Giacomo Leopardi, Zibaldone).
Il vino è il latte dei vecchi.
‘L vino è la poccia de le vecchie.
Il proverbio deriva dal latino vinum lac senum.
Come il primo alimento per allevare i bambini è il latte, succhiato dalle mammelle (pocce) della mamma, così questo proverbio si richiama all’abitudine, oggi quasi scomparsa, che avevano i vecchi di passare molto del loro tempo all’osteria bevendo vino e giocando a carte.
Impara l’arte e mettila da parte.
‘Mpara l’arte e mettela da parte.
Il proverbio esprime la concezione che può tornare utile imparare a fare tante cose perché ci saranno d’aiuto nei diversi casi della vita.
E’ un consiglio ad imparare a fare quante più cose è possibile, e conservare le capacità acquisite perché un giorno potrebbero risultare utili.
Cicerone (Tusculanae Disputationes, 1, 58) scrisse: “Nihil aliud est discere nisi recordare”, imparare non è nient’altro che ricordare.
In amore vince, chi fugge.
Chi si nega è in genere maggiormente desiderato; non per nulla le cose più difficili sono le più ambite.
In bocca chiusa non entra vento.
‘N bocca chiusa nun c’entra vento.
Questo proverbio si presta a una doppia interpretazione. Secondo alcuni è stato scritto per invitare a tacere, secondo altri per invitare a parlare. Nel primo caso, se tieni la bocca chiusa rimani senza nulla.
In cielo s’accoppiano gli angeli e per terra s’accoppiano le chiaviche.
‘N celo s’accoppiano l’angele e per terra s’accoppiano le chiaviche.
Vedi: “Dio li fa, poi l’accoppia”.
In compagnia prese moglie un frate.
‘N compagnia prese moje ‘n frate.
I frati sono obbligati al celibato ma talvolta, trascinati dalla compagnia… Il proverbio dice che in compagnia si possono fare, per emulazione, cose che da soli non faremmo mai.
Vedi anche “Chi non beve in compagnia…”.
Io do una cosa a te, se tu dai una cosa a me.
Io te do na cosa a te, si tu dae na cosa a me.
E’ una frase classica che usavano già i latini nella forma semplice do ut des (io ti do affinché tu mi dia). Viene usato per indicare persone che non fanno nulla se non ottengono qualcosa in cambio.
I panni sporchi si lavano in famiglia.
Le panne sporche se lavano gnuno ‘n casa sua (o ‘n famija).
Si usa per dire che le faccende delicate vanno risolte senza divulgarle fuori del giro di chi vi è direttamente interessato. Infatti, solamente chi condivide un certo rapporto di intimità può essere in grado di comprendere fatti e situazioni che potrebbero finire per essere travisate.
L’espressione proverbiale è tratta dalla vita delle popolazioni rurali in cui la biancheria intima, le lenzuola ecc… venivano lavati nel bucato che si faceva lontano dagli occhi indiscreti.
I parenti sono come le scarpe, più sono stretti e più fanno male.
Le parente so come le scarpe, più so strette e più fanno male.
E’ un paragone fatto per spiegare i difficili rapporti di parentela.
I peggiori fiori sono quelli del vino.
Le peggio fiore so quelle del vino.
Si dice che il vino mette i fiori, sotto forma di granuli che formano una patina biancastra (una specie di ossidazione) quando il contenitore in cui è stato messo è mezzo vuoto. I bevitori sono soliti dire che sono i fiori peggiori perché indicano che il prodotto sta per finire.
I primi fiori non fanno primavera.
Le prime fiore nun fanno primavera.
Vedi: “Una rondine non fa primavera”.
I soldi dell’avaro li gode lo sciampagnone.
Le solde dell’avaro le gode lo sciampagnone.
Esiste una regola, non scritta ma tramandata in forma proverbiale, secondo cui a una generazione di accorti risparmiatori che accumulano un gruzzolo di soldi (es. i nonni) ne segue una che riesce a ben conservarli (es. i figli) ed un’altra infine che li dilapida facilmente (es. i nipoti).
Un proverbio simile dice: “La roba uno la fa, uno la gode e uno la distrugge”.
Vedi anche: “Carne che non duole, dalla a chi la vuole”.
I soldi mandano l’acqua in sù.
Le solde mannono l’acqua pe l’insù.
Coi soldi si può fare e ottenere tutto, o quasi.
L’acqua, per la legge di gravità, scende dall’alto in basso, ma con i soldi possono essere comprati motori che riescono a spingerla dal basso verso l’alto. Il proverbio è stato coniato dopo l’avvento delle pompe a motore.
I soldi non fanno la felicità.
Le solde nun fanno la felicità.
E’ una verità che il mondo ha conosciuto da sempre.
La felicità non ci è data dalle ricchezze né dall’alta posizione sociale, ma da una vita semplice secondo natura, come scriveva Orazio (Le odi II, 16, 9-16): “Non le favolose ricchezze né il littore che precede il console valgono a sgombrare i miseri affanni dell’animo e i pensieri che svolazzano attorno ai soffitti intarsiati d’oro e d’avorio. Si può vivere bene con poco, da parte di colui al quale brilla sulla modesta tavola la saliera trasmessagli dal padre: a lui non il timore, non l’ingorda cupidigia tolgono i sonni tranquilli”. E ancora Orazio (Le epistole, 10, 32-33): ”Fuge magna: licet sub paupere tecto reges et regum vita praecurrere amicos” (Fuggi le grandezze: si può vivere bene sotto un umile tetto, più felici dei re e degli amici dei re). Anche Varrone (116-27 a. C.) (Saturae Menippeae, Trikaranos) sentenziava: “L’animo non si libera degli affanni né coi tesori né con l’oro; le ricchezze non ci tolgono le preoccupazioni e i timori”.
Invece Saffo, la famosa poetessa greca diceva: “la ricchezza senza virtù è un vicino incomodo, ma l’unione di entrambe dà il culmine della felicità”. (Libro incerto, 128).
E Seneca: “Per vivere più felicemente (l’uomo saggio) deve vivere più virtuosamente” (Rectius vivat oportet ut beatius vivat) (Lettera a Lucilio, 92,24).
I soldi sono come i dolori, chi ce li ha se li tiene.
Le solde so come le dolore, chi ce l’ha se le tiene.
C’è un detto latino che dice: “unicuique suum”(a ciascuno il suo), nel bene e nel male.
I soldi vanno e vengono.
Le solde vanno e vengono.
Gli uomini esercitano un lavoro che viene remunerato in soldi che servono per vivere e quindi devono essere restituiti e rimesi sul mercato in cambio dei generi che servono per vivere.
L
La bellezza non si mangia.
La (b)bellezza nun se magna.
Il proverbio ammonisce a non limitarsi a guardare la bellezza esteriore delle persone e delle cose, all’apparenza, ma badare di più alla sostanza. Si dice a chi si marita senza ricevere dote o è senza patrimonio. Vero è che quando due persone si sposano è importante provvedere il denaro senza il quale non si riesce a vivere.
La benedizione passa sette mura.
La (b)benedizione passa sette mure.
Questo detto è imperniato sul numero sette, il numero sacro degli Ebrei, che ricorre senza fine. Si comincia dalla cosmogonia, in cui Dio completa la creazione del mondo in sette giorni. Poi Noè venne comandato di portare nell’arca sette paia di ogni animale mondo e sette paia di ogni uccello mondo, “perché fra sette giorni farò piovere sulla terra… e dopo sette giorni le acque del diluvio furono sopra la terra”(Genesi 7, 2-10)… Giacobbe lavorò sette anni per Lia e sette per Rachele (Genesi 29, 18-20; 29,27). Sette giorni dura la settimana nuziale (Genesi 29,28). Il Faraone sogna sette vacche grasse e sette vacche magre, sette spighe piene e sette spighe vuote (Genesi 41, 17-24). Il sacerdote di Madiana aveva sette figlie e Mosè ne prese una in moglie (Esodo 2, 16-21). La Pasqua durerà sette giorni: “Per sette giorni mangerete azzimi”(Esodo 11,15). Dal secondo giorno di Pasqua: ”Conterete sette settimane complete… (Levitico 23 15-18). Sette settimane dopo la Pasqua sarà la Pentecoste.
E ancora nei Proverbi attribuiti al re Salomone si legge: “Sei cose odia il Signore, anzi sette gli sono in abominio: occhi alteri, lingua bugiarda, mani che versano sangue innocente, cuore che trama progetti iniqui, piedi che corrono verso il male, falso testimone che diffonde menzogne e chi provoca litigi tra fratelli” (Proverbi 6, 16-19).
Giobbe aveva sette figli, settemila pecore (Giobbe 1, 1-18).
Nel Vangelo: “Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: Signore, quante volte dovrò perdonare la mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”: (Matteo 18-21). E ci sono moltissime altre circostanze in cui compare il numero sette.
La Menorah, la lampada che diventerà il simbolo della sovranità ebraica, ha sette bracci.
Anche la benedizione della casa, un atto che si fa nel nome del Signore, va ben oltre la dimensione circoscritta delle proprie mura perimetrali, ma ha un valore immensamente più grande.
L’abito non fa il monaco.
L’a(b)bito nun fa ‘l monaco.
L’aspetto di una persona non sempre corrisponde a quello che realmente essa è. Durante il Medioevo molti viaggiatori erano monaci e venivano accolti in virtù del loro abito. Spesso capitava che i malfattori si travestissero da monaci e per questo circolavano espressioni del tipo di questo proverbio.
Anche il poeta latino Fedro aveva trattato questo argomento (Le capre barbute, IV, 16) raccontando la favola che le caprette avevano chiesto a Giove di avere la barba ma i caproni si mostrarono contrariati perché così le loro femmine avrebbero uguagliato la loro dignità. Giove allora disse ai caproni che se le femmine, per ostentare la vanagloria, avessero l’ornamento della barba, tuttavia dovrebbero sottostare comunque alla forza di loro maschi.
La bocca porta le gambe.
La bocca porta le gamme.
Per stare in piedi forti e in buona salute ocorre anche alimentarsi bene e a sufficienza.
La carità, beato chi la fa.
L’espressione ha un doppio significato, uno di carattere etico e uno di carattere pratico. Nel primo caso, fare la carità è ubbidire al comando di Gesù: “ama il prossimo tuo”, nel secondo fare la carità è meglio che riceverla perché è evidente che chi dà non è in condizioni di bisogno, chi riceve sì.
La casa nasconde ma non ruba.
La casa ringuatta ma nun ru(b)ba.
Gli oggetti smarriti in casa prima o poi saltano fuori.
Si usa dire questo proverbio quando si ha difficoltà a ritrovare un oggetto, lasciato sicuramente in casa (ma anche in ufficio ecc…) senza ricordarsi in quale posto preciso.
La coda è la più dura da scorticare.
La coda è la più dura da scorticà.
Al termine di un affare si presentano le maggiori difficoltà. Gli affari si lasciano dietro di sé una coda dura da venirne a capo, perché impensata o non curata da principio.
La corda quand’è troppo tirata si spezza (o si stronca).
La corda quann’è troppo tirata se spezza (o se stronca).
Come per la corda, così per tutte le cose c’è un limite di sopportazione, di pazienza e resistenza che non bisogna superare.
L’acqua cheta rovina i ponti.
L’erosione che l’acqua dei fiumi esercita alla base dei piloni di sostegno dei ponti è più marcata dove la corrente è più calma ma esercita un’azione ininterrotta.
Fuor di metafora, ci sono persone apparentemente tranquille, capaci però di farsi valere più degli altri.
L’acqua purifica, (scarcagnifica) e lascia come trova.
Si insiste molto da parte di medici e salutisti sulla necessità di assumere abbondante acqua perché aiuta a eliminare dal nostro corpo le scorie, ma alla fine l’acqua non è un medicamento e certo non ha alcuna efficacia su eventuali mali o difetti organici.
La donna è come la castagna: bella di fuori e dentro ha la magagna.
E’ un giudizio severo che ripropone il tema della bellezza femminile in contrasto, talvolta, con un animo cattivo.
In tema di bellezza femminile c’è una poesia in dialetto romanesco che dice: “Sette bellezze cià d’avè la donna / prima che bella se possi chiamà: / arta dev’esse, senza la pianella, / e bianca e rossa senza l’alliscià. / La bocca piccolina e l’occhio snello / graziosetta dev’esse nel parlà: / larga de spalle e stretta in centurella / quella se po’ chiamà na donna bella: / larga de spalle e stretta de cintura / quella è na donna bella pe natura”.
La fame caccia il lupo dal bosco.
Il proverbio sottolinea la forza coercitiva del bisogno del cibo. Quando i lupi hanno fame, specie negli inverni lunghi e rigidi non esitano a uscire dai boschi, discendere dalle montagne e avvicinarsi ai centri abitati in cerca di cibo.
In modo analogo si dice che la povertà spinge gli uomini a fare, per vivere, anche mestieri che non si sarebbero sognati di fare.
Quinto Orazio Flacco, il famoso Orazio scrisse (Epistole, II, 2, 51-52): ”paupertas impulit audax ut versus facerem” (la povertà mi ha spinto audacemente alla poesia).
La fame è il miglior companatico.
Chi ha fame si accontenta di mangiare di tutto, senza scelta di cibi. Companatico è ciò che si mangia col pane: dal latino cum e panis.
La frase è di Cicerone (De finibus, II, 28): “Il miglior condimento del cibo è la fame”(Optimum cibi condimentum fames).
Nella cantica del Purgatorio, Dante ha commentato così questa condizione: “Lo secol primo, quant’oro fu bello, fe favolose come fame le ghiande, e nettare con sete ogni ruscello” (XXII, 148-150), cioè nell’età dell’oro la fame fece sembrare saporite le ghiande e la sete fece sembrar nettare l’acqua del ruscello.
La farina del diavolo non fa fortuna.
Vuol dire che i beni, le ricchezze e i vantaggi ottenuti con mezzi illeciti sono illusori e si dissolvono.
La morale di questo modo di dire è la stessa che conoscevano già i latini che dicevano, come Plauto (Poenulus, IV, 2, 22) male partum, male disperit (ciò che si è acquistato malamente, finisce malamente) o come Cicerone (Filippiche, II,27) male parta, male dilabuntur, cioè “le cose male acquistate finiscono male”.
La fortuna aiuta gli audaci.
Viene dall’espressione latina “Audaciae fortuna iuvat”.
Qualsiasi impresa comporta una parte di rischio. Chi non rischia mai, non perderà nulla, però difficilmente incrementerà il suo patrimonio. Quando uno ha il coraggio di rischiare può anche contare sull’aiuto della fortuna. Non per nulla D’Annunzio coniò il motto “Memento Audere Semper“.
Nicolò Machiavelli nell’opera Il Principe dice: “La fortuna è amica più di chi assalta che di chi si difende”.
La fortuna è spesso come uno se la immagina o se la sogna. Un adagio popolare romanesco la immagina così: “E’ na paciocca che intravedo spesso / ogni quarvorta la speranza mia / me dà na voce pe portamme appresso / lungo la strada della fantasia. / A sta maniera armeno ciò er permesso / d’entrà in un monno fatto de maggia, / dove un proggetto o un desiderio espresso / nun vanno in mano a la burocrazia. / Defatti la Fortuna co la scusa / che sopra all’occhi cià na pezza nera, / le pratiche le firma a la rinfusa. / Spero che un giorno, lo volesse Dio!, / je caschi quela pezza giù per tera / p’aritrovà l’incartamento mio”.
La gatta di San Giovanni un po’ ride un po’ piange.
La gatta de San Giovanne ‘n po’ ride ‘n po’ piagne.
Il proverbio si riferisce a chi ha un’espressione enigmatica, difficile da capire come quella della gatta della raffigurazione in questione, che assume una sembianza diversa a seconda del lato da cui si guarda.
La gatta presciolosa fa i gattini ciechi.
La gatta presciolosa fa le gattine ceche.
Per voler troppo accelerare le cose la gatta mise al mondo gattini ciechi. Così chi agisce in modo troppo frettoloso e brigativo ottiene cattivi risultati.
Anche Machiavelli la pensava pressappoco così: “Nelle azioni nostre lo indugio arreca tedio e la fretta pericolo” (Istorie Fiorentine, III, XXVI).
La goccia scava la roccia.
La frase è di Ovidio (Epistole dal Ponto, IV, 10, 5) e dice precisamente: Gutta cavat lapidem, consumitur anulus usu (la goccia scava la pietra, l’anello si consuma con l’uso).
Questo proverbio invita alla perseveranza e alla tenacia per ottenere uno scopo, così come una goccia d’acqua lentamente, ma continuamente, può arrivare a scavare anche una pietra.
Analoga è la locuzione latina reperita iuvant (giova ripetere le cose).
L’agonia è lunga ma la morte è sicura.
Si dice a proposito di una cosa per la quale non conviene più lottare perché va sempre a peggiorare senza alcuna speranza di essere recuperata o salvata. Lo stesso che accade alle persone che dopo un’agonia più o meno lunga sono naturalmente destinate a morire.
Lo sappiamo tutti, ma Cicerone l’ha anche scritto: “mors est necessitas naturae” cioè la morte è una legge di natura.
La grandine non porta carestia.
Le grandinate, sempre temute dagli agricoltori, non tutte le volte distruggono i raccolti completamente. Alcuni germogli vengono risparmiati e altri nuovi rinascono, nella fase di maturazione una parte del prodotto viene intaccato dai chicchi di grandine che centrano i bersagli ma una parte viene risparmiata. Del resto, anche le provvidenze pubbliche scattano in caso di calamità naturali solo quando il danno prodotto dalle grandinate è superiore al 35% della produzione. E’ per queste ragioni che si dice: “La grandine non porta carestia”.
La lingua batte dove il dente duole.
La lingua batte dove ‘l dente dole.
E’ riferito a chi insiste sempre sullo stesso argomento.
Come quando un dente dà fastidio, lo si tocca spesso con la lingua, analogamente si tende a parlare sempre di quello che ci preoccupa di più. Il proverbio completo, secondo alcuni, sarebbe: ”La bocca parla e dice le parole e la lingua batte dove il dente duole”.
La lingua nun ha le ossa ma le fa rompere.
La lingua nun cià l’osse ma le fa rompe.
La maldicenza e il pettegolezzo possono fare delle vittime.
Già lo scrittore Alceo (630 a C.), contemporaneo della poetessa Saffo, al suo tempo ammoniva: “Se dici ciò che vuoi, potresti udire a tua volta ciò che non desideri” (Libro incerto, 33).
La malattia vuole il suo sfogo.
La malattia vole ‘l su sfogo.
Perciò a volte è controproducente forzare i tempi di risoluzione con troppi rimedi.
La matassa, chi l’ha intrigata, la striga.
La matassa chi l’ha ‘ntrigata la striga.
Tocca a chi ha imbrogliato le stiuruazioni doverle anche districare.
Episodio di Gigi CupelloVedi: “Chi è causa del suo mal…” e “Chi rompe, paga…”.
La merda più si maneggia e più puzza.
Questo proverbio colorito vuol dire che a rimestare continuamente le situazioni poco favorevoli si peggiorano.
L’amico è come il vino, se è buono col tempo migliora.
L’amico è come ’l vino, si è bono col tempo mijora.
Nell’opera Laelius de amicizia ( XIX, 67), Cicerone ha scritto: “Non si deve provare sazietà delle amicizie come delle altre cose; anzi, quanto più le amicizie sono vecchie, tanto più devono essere care, come quei vini che reggono al tempo”.
L’amico si conosce nel bisogno.
L’amico se conosce nel bisogno.
Le amicizie vere danno prova di sé nei momenti più duri della vita.
Lo scrittore latino Ennio (239-169) scrisse “Amicus certus in re incerta cernitur”, l’amico certo si vede nella sorte incerta.
Si dice anche: “Gli amici si conoscono nelle disgrazie”.
La miglior difesa è l’attacco.
Vedi “Chi prima arriva…“.
La moglie degli altri è sempre più bella.
La mojje dell’altre è sempre più (b)bella.
A chi desidera avere oltre la propria anche altre donne, e le corteggia non solo con apprezzamenti verbali, può adattarsi l’Elogio della Chanteuse (Roberto Bracco, 1920):
“Vedete: io la chanteuse ho in gran concetto,
ché, come donna, essa è la più…costante.
Ma se offre solamente un do di petto,
non è chanteuse autentica: è cantante.
Or dunque la chanteuse dà un diletto
profondo, ponderale e…toccante;
e nondimeno a dichiarar m’affretto
che c’è delle chanteuses integre e sante.
Le brutte, per esempio, chi le tocca?
E le altre, le carine, o sagge o strambe,
io tutte, in certo modo, ammiro e apprezzo.
Ma tra quella che canta con la bocca
e quella poi che canta con le gambe,
io scelgo, in verità… la via di mezzo”.
La montagna ha partorito il topolino.
E’ un’espressione usata per dire che un’iniziativa ha dato risultati minimi e banali.
Ha la propria origine nella favolistica antica. Fedro (Favole, IV, 23) parlando di scrittori che fanno grandi progetti di scrivere poemi e tragedie ma non fanno poi niente scrive: “Una montagna stava partorendo e mandava forti grida. E c’era nella terra una grandissima attesa. Ma essa partorì un topo. Questo è scritto per te che fai delle grandi promesse e poi non tiri fuori nulla”. Anche Orazio nell’Ars poetica (138-139) dice la stessa cosa con parole simili: “Che cosa mai produrrà questo borioso degno di una bocca così aperta? Partorisono i monti e nasce un ridicolo topo”.
L’amore non è bello se non è litigarello.
L’amore nun è (b)bello si nun è stuzzicarello.
Vuol dire che in un rapporto di coppia basato sull’amore, come quello fra un uomo e una donna, ci possono essere dei momentanei contrasti, incomprensioni e litigi, ma se si superano l’amore si rinsalda e diventa più forte e più bello.
Terenzio (190-159 a.C.) nell’Andria (v.555) ha scritto: “amantium irae, amoris redintegratio est” (baruffe di amanti, amor che si rinnova).
La morte del lupo, è la salvezza delle pecore.
Come la morte del lupo mette al sicuro le pecore da razzie, così si trova sollievo e sicurezza quando si allontana o viene meno un pericolo che ci minacciava.
La necessità (o la fame) aguzza l’ingegno.
La derivazione del proverbio è di origine latina e sta a significare che l’uomo pur di sopperire ai bisogni sa mettere a frutto il proprio ingegno, sa cercare le soluzioni adoperando il cervello. Il favolista latino Fedro (nella favola L’orso affamato, Appendice, 20) dice: “La fame aguzza l’ingegno persino ai poveracci” (ergo etiam stultis acuit ingenium fames).
Lo stesso vale anche per gli animali a proposito dei quali si veda il proverbio “La fame caccia il lupo dal bosco”.
La neve marzolina dura dalla sera alla mattina.
La neve marzolina dura da la sera a la mattina.
Il proverbio è preso dalla meteorologia. A marzo possono ancora arrivare perturbazioni nevose ma, poiché in questo periodo la temperatura è più mite, la neve dura poco perché si scioglie più facilmente.
La notte porta consiglio.
Il proverbio suggerisce di prendere tempo per riflettere sulle decisioni da adottare.
La patria è dove si sta bene
La patria è do’ se sta bene
Il detto è la traduzione della frase latina: “patria est ubicumque bene est“ che Cicerone nelle Tusculanae disputationes riprende da Pacuvio).
La paura fa novanta.
Il modo di dire ha le sue origini nella Cabala dei sogni, in cui il numero novanta corrisponde alla parola paura. Ad ogni avvenimento importante, ai sogni e alla combinazione delle carte vengono attribuiti specialmente nell'Italia meridionale, i numeri dall'uno al novanta ricavati dalla Cabala o da La Smorfia. Il novanta è proprio quello riferito alla paura. Da ciò è derivato il detto.
La pecora che bela perde il boccone.
La pecora che (b)bela perde ‘l boccone.
L’espressione è presa dalla vita animale e significa che il perdersi in chiacchiere e disattenzioni fa perdere a volte occasioni ghiotte e importanti.
Rifacendoci a Esopo e a La Fontane, possiamo ricordare la favola del corvo che, per far sentire alla volpe la bellezza del suo canto, spalanca il becco e lascia cadere il formaggio.
La peggior transazione è migliore di una causa vinta.
E’ una massima del linguaggio forense e sta a significare che è meglio riuscire a mediare un conflitto tra le parti anziché fare emettere una sentenza dal giudice perché non si sa mai con certezza a chi e quanto darà ragione.
La pera quand’ è matura cade da sola.
La pera quann’ è matura casca da sola.
Non c’è dunque bisogno di sforzarsi per coglierla. Il proverbio esorta ad attendere con pazienza il naturale evolversi e maturare degli eventi.
La pianta che ha molti frutti, non li matura tutti.
La pianta che c’ ha molte frutte, nu le matura tutte.
In natura avviene una selezione, nella vita ugualmente e non tutti gli uomini arrivano a godere dei frutti della aturità, nel senso che non conseguono ambiti risultati e arrivano al termine della vita senza conoscere l’età matura o senile.
La porta è aperta per chi porta, e chi non porta, parta.
Chi porta denari o altro è certo di essere il benvenuto.
Vedi: “Per un punto, Martin perse la cappa”.
L’apparenza, inganna.
Non bisogna mai fermarsi alla prima impressione, sia negativa che positiva. E’ in un certo modo simile al proverbio “L’abito non fa il monaco”.
Il favolista latino Fedro (Il beccaio e la scimmia, III, 4) dice di aver trovato spesso i belli, pessimi, e conosciuto poi per ottimi molti dall’aspetto orrendo.
L’appetito vien mangiando.
Si usa per dire che più si ha e più si vuole avere. Talvolta si impiega per sottolineare che un’attività può cominciare a piacere dopo averla iniziata.
Questo proverbio è preso dallo scrittore francese François Rabelais (1494 - 1553) (Gargantua, I, 5) che dice “l’appetit vient en mangeant… la soif s’en va en beuvant” (l’appetito vien mangiando, la sete se ne va bevendo). Rabelais attribuisce la frase a Angeston Mans, prelato e professore della Sorbona, vissuto tra il Quattrocento e il Cinquecento. Altri ne attribuiscono la paternità al vescovo di Auxerre, Amyot, che rispondeva con questa frase a Carlo IX che gli domandava spiegazioni sulla sua smania di chiedere nuovi benefici e prebende.
Il proverbio però è molto più antico. Ovidio (43 a. C. – 17 d. C.) nelle Metamorfosi (VIII, 11) parla del mito di Erysichthon che abbatté gli alberi sacri del bosco di Demetra per farsi una sala. Per questo fu condannato dalla dea a una fame insaziabile per cui “… cibus omnis in illo causa cibi est” (ogni cibo suscita in lui desiderio di altro cibo).
La prima gallina che canta è quella che ha fatto l’uovo.
La prima gallina che canta è quella c’ha fatto l’ovo.
Insinua più o meno maliziosamente che qualcosa si cela sotto certe allegre apparenze. Si dice di qualcuno che nasconde dietro un atteggiamento allegro, qualche malefatta.
La processione, da dov’esce, rientra.
La procissione, da do esce, rientra.
Il proverbio è rivolto a coloro che sono soliti lanciare invettive di malaugurio, col monito di fare attenzione perché le maledizioni possono ricadere addosso a chi le pronuncia. L’esempio è preso dalle funzioni liturgiche della Chiesa cattolica in cui le processioni rientrano, di solito, negli stessi templi da cui escono perché lì sono conservate le reliquie e/o le statue dei santi che vengono venerati.
La prudenza non è mai troppa.
La prudenza nun è mae troppa.
Vedi: “Chi ha più prudenza l’adopera”.
La pubblicità, è l’anima del commercio.
E’ simile al proverbio “Chi non mostra, non vende”.
La pulizia sta bene dappertutto meno che in saccoccia.
La pulizia sta (b)bene dapertutto meno che ‘n saccoccia.
Avere le tasche pulite è come dire non avere un soldo in tasca, perciò non è bene perché chi si trova in questa condizione è povero e misero.
L’aquila volò con le sue penne, la roba se ne andò così come venne.
L’aquila volò co le su penne, la robba se n’annò sì come venne.
Vuol dire che chi si è procurato beni e ricchezze in modo illecito, senza fatica, trova chi li dissipa con leggerezza. Analogo è il proverbio: “Una (generazione) la fa, una la gode e una la distrugge”.
La roba proferita, rimane in piazza.
La robba proferita, rimane ‘n piazza.
Se il commerciante insiste troppo a proporre la vendita di un oggetto, l’acquirente si può insospettire e credere che l’offerta nasconda qualche fregatura e non compra.
La roba fa il prezzo.
La robba fa ‘l prezzo.
La merce di buona qualità costa più di quella in cui la qualità scarseggia, in cui le rifiniture lasciano a desiderare ecc…, perché la qualità della materia prima, le tecnologie sofisticate di produzione e altro, incidono di più su prodotti eccellenti e buoni, per questo costano di più.
La roba in tavola, se non avanza, non basta mai.
La robba a tavola, si nun avanza, nun basta mae.
Se alla fine del pasto in tavola non rimanesse niente, potrebbe anche darsi che i commensali non abbiano mangato abbastanza. Per evitare ciò e perché l’ospite non faccia brutta figura si costuma piuttosto abbondare con le vivande.
La roba non è di chi la fa ma di chi la gode.
La robba nun è de chi la fa ma de chi la gode.
Il proverbio vuole insegnare che chi si affanna per accumulare ricchezze non ha il tempo di godersele.
Dicevano i latini: “senex serit arbores quae altero saeculo prosint”, il vecchio pianta alberi che saranno utili a un’altra generazione.
La ruota se non si unge non gira.
La rota si nun se ugne nun gira.
Il proverbio vuol dire che occorre facilitare le cose. Ad esempio, se il perno di una ruota ha delle incrostazioni, funzionerà meglio passandoci dell’olio che lo fa scivolare di più. In termini metaforici significa che si ottengono meglio le cose se si fa un regalo alla persona da cui dipende il loro esito.
Il riferimento però è anche alla Sacra Rota, il tribunale ecclesiastico istituito nel XIV secolo dal papa Giovanni XXII, con competenza in materia ecclesiastica e, fino al 1870 (caduta del potere temporale) anche in materia civile. Si occupa, tra l’altro, dell’annullamento dei matrimoni, e i suoi membri sono dal popolo ritenuti inclini a pronunciare un responso favorevole previa elargizione di doni. Il che è tutto da provare.
La scopa nuova fa buttare quella vecchia.
La scopa nova fa buttà quella vecchia.
Le cose nuove sono sempre migliori e fanno scordare quelle vecchie. Si usa per dire che gli affetti finiscono e ne nascono altri sempre nuovi.
L’asino levato fuori dal loto, tira i calci.
‘L somaro cavato dal loto, tira le calce.
La similitudine si riferisce alle persone che dopo aver ricevuto aiuto e beneficio si mostrano irriconoscenti e ingrati verso i loro benefattori al punto da far loro del male.
L’esempio è preso dall’abitudine delle bestie quadrupedi di scalciare per scrollarsi il fango dalle zampe.
Secondo Machiavelli:
“Quando a le stelle, quando al ciel dispiacque
la gloria de’ viventi, in lor dispetto
allor nel mondo Ingratitudo nacque.
Fu d’Avarizia figlia e di Sospetto:
nutrita ne le braccia de la Invidia,
de’ principi e de’ re vive nel petto.
(Capitoli. Dell’Ingratitudine, vv. 22-27).
Un proverbio simile recita: “A fare del bene, si ricevono calci”.
La soma da qualche parte pende.
La soma da qualche parte penne.
La soma è il carico che si pone sulla groppa di un quadrupede avendo cura di bilanciarlo. Se la soma pende da una parte o dall’altra vuol dire che il carico non è stato distribuito in modo equilibrato. In senso figurato l’espressione vuol dire che se non si fanno le cose giuste c’è sempre qualcuno che sopporta un onere maggiore.
La speranza è l’ultima a morire.
La speranza è l’ultima a morì.
Viene da un detto latino Spes ultima dea, ripreso anche dal poeta Ugo Foscolo nell’ode I Sepolcri “anche la speme ultima dea fugge i sepolcri.
La superbia andò a cavallo e tornò a piedi.
La superbia annò a cavallo e tornò a piedi.
Chi è superbo, baldanzoso, troppo sicuro di sé può cadere in un insuccesso e la sua baldanza può trasformarsi in un’umiliazione.
La superbia è figlia dell’ignoranza.
Solo chi poco sa presume molto di sé.
La vaccina fa vergogna a chi la cucina.
Perché con la cottura si restringe e diventa più piccola.
La vanga: dove la trovi, rimanga.
La vanga è un arnese usato in agricoltura per dissodare il terreno, un lavoro molto faticoso e che finchè si può evitare… .
La vendetta è un piatto che si serve freddo.
Chi vuole vendicarsi veramente e cinicamente di un torto subito rinuncia a mettere in atto una reazione emotiva immediata perché prova più piacere e soddisfazione a disporre il proprio animo e la propria mente alla ricerca di situazioni propizie in cui mettere in atto il piano.
La vendita del vino è la vendita del poverino.
Si dice anche “Mercante di vino, mercante poverino”, perché da questa vendita si ricavano pochi guadagni.
La verità, scotta.
Cioè fa male.
La verità viene sempre a galla.
Secondo un’antica leggenda a Adrano, piccola cittadina ai piedi dell’Etna, c’erano molte sorgenti che scaturivano dalla roccia lavica dando vita alle fonti degli dei Palaci. Qui, sotto gli occhi del Dio Adrano, si conducevano le persone accusate di gravi delitti. Su una tavola di ferro o un mattone d’argilla, si scriveva il nome dell’accusato o la sua dichiarazione d’innocenza. Se la tavola affondava l’imputato era considerato spergiuro e condannato a morte; se la tavola veniva a galla, era prova d’innocenza. Forse allora, secondo Vincenzo Tardino (in Sangue di Giuda) nacque il modo di dire “La verità viene sempre a galla”.
A spiegare questo proverbio può giovare anche il richiamo a Fedro (Il pastore e la capretta, Appendix, 22). Il pastore in un impeto di rabbia percuote la capra e gli rompe un corno con un bastone. Poi pentito e spaventato prega la capra di non dire niente al padrone. La capra promise che non avrebbe fatto la spia ma fece notare che il misfatto si vedeva comunque.
Vedi anche “Le bugie hanno le gambe corte”.
Le bugie hanno le gambe corte.
Le (b)bucie c’ hanno le gamme corte.
La bugia è il mezzo più insensato e più stupido usato da chi crede di farla franca e dimentica che invece le bugie prima o poi vengono scoperte perché la verità trionfa sempre.
La storia di Pinocchio è emblematica (C. Collodi, Capitolo 69): ”Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie: vi son le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo”. Il burattino di legno, infatti, non può mentire facilmente perché ha il naso che si allunga quando le spara grosse.
E Giuseppe Giusti (Epistolario, III, 176):”Se c’è una donna che dica di no, guardala bene nel viso, e le vedrai correre la bugia su per il naso”.
Una storiella in dialetto romanesco recita: “Guardateme! Chi so? so la Bucia / e trovo sempre er modo e la maniera / d’intrufolamme ne fa fantasia / de quela gente che nun è sincera. / Mi madre, che se chiama Ipocrisia, / sposò l’Inganno e fa la fattucchiera; / la Truffa pure è na parente mia, / ma appena sbaja va a dormì in galera. / Se me volete véde è sufficiente / fissà nell’occhi chi ve sta vicino, / perché me ce trovate certamente. / Però si sbajo scappo e certe volte /inciampico pe corpa del destino / che m’ha voluto fa le cianche corte./ Assieme a mi sorella Maldicenza / frequento li salotti e sto benone, / perché ner gusto de la confidenza / io tengo viva la conversazione. / Eppoi lavoro pure de pazzienza / p’ammascherà er cervello a le persone, / sinnò je scapperebbe quer che pensa / e nun sarebbe bona educazione. / Me dicheno cattiva e velenosa, / eppure tante volte ciò er permesso / de mutà strada e diventà pietosa; così nasconno co la faccia mia / la Verità che se presenta spesso / più perfida de me che so Bucia”.
L’eccezione conferma la regola.
L’eccezione esiste in quanto c’è la regola.
Ogni regola, ogni legge non può essere sempre applicata in modo rigido, a volte deve adeguarsi alle varie situazioni, creando così delle eccezioni che comunque non svuotano il valore della norma. Anche quando è dato riconoscere una generale uniformità di comportamenti, di eventi ecc. (e cioè una regola), esistono però sempre casi anomali ossia non corrispondenti alla regola.
Le cose lunghe diventano serpenti.
Discussioni, affari, trattative ecc. che vanno troppo per le lunghe si aggrovigliano, imbrogliano, confondono.
Le disgrazie non vengono mai sole.
Le disgrazie nun vengono mae da sole.
Commenta le situazioni in cui a un guaio se ne aggiunge un altro.
Le donne dicono sempre il vero; ma non lo dicono tutto intero.
Le donne dicono sempre ‘l vero; ma nu lo dicono tutto ‘ntero.
Fedro nella favola Esopo e la signora (XV) commenta: “ quam noceat saepe verum dicere”, ossia com’è rischioso, per lo più, dire la verità.
Le donne ne sanno una più del diavolo.
Vuol dire che sono furbissime, astutissime, conoscono tutti i trucchi. L’espressione ricorre già nel Dizionario del Tommaseo.
Legare l’asino dove vuole il padrone.
Legà ‘l somaro, do vole ‘l padrone.
Obbedire agli ordini di chi ti paga. Se qualcuno da cui si dipende esige azioni che lo danneggiano, bisogna eseguirle lo stesso e tanto peggio sarà per lui.
Giuseppe Giusti (Proverbi toscani, 331) aggiunge: “e se si rompe il collo suo danno”. Il Carducci (Lettere, 16, 302) dice che la frase ha esempi fino dai tempi di Torquato Tasso (1544-1595).
Le meglio mele, vanno ai peggiori porci.
Le mejjo mele, vanno a le peggio porce.
Il proverbio vuol dire che le cose migliori vanno a chi non sa apprezzarle.
Nel Vangelo di Matteo (VII, 6) è detto:” Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”.
Le montagne stanno ferme e le persone s’incontrano.
E’ analogo a: “Chi non muore, si rivede”.
Le ore del mattino hanno l’oro in bocca.
Cioè sono le più preziose della giornata perché sono quelle in cui si rende di più, in cui le cose ci riescono meglio perché siamo più riposati, a mente fresca, sgombra cioè da tanti pensieri.
Le parole non riempiono il corpo.
Le parole nun empono ‘l corpo.
Vuol dire che non ci si può fidare delle promesse fatte solo a parole, specie quando si ricerca un lavoro come fonte di vita e di sicurezza economica.
All’origine c’è la frase che conoscevano già i latini: “Carmina non dant panem” (Le poesie non danno pane) e sotto altra forma conoscevano anche quella che dice: “Primum vivere deinde philosophare” (Prima bisogna cercare le cose che ci servono per vivere, poi possiamo anche perderci in discussioni).
L’Epifania tutte le feste porta via.
Chiude il ciclo festivo di fine e inizio d’anno.
Si dice anche “Pasqua Befania” perché fino alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento tutte le principali ricorrenze religiose erano definite pasqua.
L’erba cattiva non muore mai.
L’erba cattiva nun more mae.
Mette in guardia dai pericoli che si presentano improvvisamente, quando si pensa di averli ormai scongiurati. E’ riferito ad elementi negativi come i vizi e le cattive abitudini che esistono sempre, nonostante i tentativi compiuti per eliminarli. La scelta dell’immagine della gramigna (l’erba infestante che toglie spazio alle coltivazioni) ci riporta all’ambito contadino, dove questo adagio ha avuto origine in epoca medievale per stigmatizzare il comportamento di quelle persone che, pensando al proprio interesse con incredibile caparbietà, tolgono spazio vitale agli altri.
In realtà, la “caparbietà” della gramigna deriva semplicemente dal suo grado di adattamento al clima mediterraneo: resistenza alla siccità e veloce rinascita all’arrivo delle piogge. E’ quindi un lato positivo.
L’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re.
L’erba vojo nun cresce manco nel giardino del re.
Non tutto ciò che si vuole si può ottenere. Questo proverbio è rivolto soprattutto a chi chiede una cosa con insistenza, specialmente ai bambini capricciosi che chiedono tutto quello che hanno in mente.
Le società sono belle dispari e che non arrivano a tre.
Le società so (b)belle dispare e che nun arrivono a tre.
Cioè costituite da una persona, la sola a prendere le decisioni. La maggior parte delle persone è diffidente, non crede nell’associazionismo fra più soggetti per gestire attività, specialmente di carattere economico, e non è disponibile a mettere a rischio i propri soldi e il proprio lavoro, nel timore di essere fregata dagli altri, perciò preferisce organizzarsi da sola. Da qui il proverbio.
Levare le castagne dal foco con le mani degli altri.
Levà le castagne dal foco co le mano dell’altre.
Il proverbio significa voler raggiungere un risultato positivo da una situazione pericolosa, sfruttando l’intervento altrui.
A seconda del contesto in cui esso è usato, vuol dire far qualcosa per qualcun altro, rischiando in prima persona, oppure, al contrario, far si che qualcun altro affronti il pericolo, senza però poter godere dei benefici ottenuti.
Le vie del Signore sono infinite.
Quando un progetto appare umanamente irrealizzabile, quando per un problema non sembrano esserci vie d’uscita, ci si affida al Signore.
Il proverbio si usa anche per commentare ironicamente aspirazioni o speranze che appaiono sproporzionate.
L’ha lasciata lui perché non lo voleva più lei.
L’ha lasciata lue perché nu lo voleva più lee.
Si dice quando una coppia di fidanzati si lascia e non si sa bene per volere di quale dei due partner.
A questa situazione si addice la morale della favola di Fedro (La volpe e l’uva) quando si finge disinteresse o disprezzo per ciò che non si ha o che non si può avere, come appunto la volpe della favola che non potendo raggiungere l’uva se ne andò dicendo che non era matura.
La poetessa greca Saffo (Odi, Libro IX, 85) ha scritto: ”Come la mela rosseggia sopra la cima di un ramo, in alto sulla più alta, e i coglitori la dimenticarono, ma non la dimenticarono, invece non poterono arrivarci”.
L’ho capito dal brodo che sei pecora.
L’ho capito dal (b)rodo che see pecora.
La carne di pecora è la meno adatta per fare il brodo che viene scuro e di sapore cattivo.
Il detto sta a significare che dai comportamenti si capisce la natura e l’indole dell’individuo. Se fa azioni cattive è di certo una persona cattiva.
L’inferno è lastricato di buone intenzioni.
C’è molta differenza tra i dire e il fare: molti a parole sono disposti a fare il bene e poi non lo fanno.
Ha un po’ il senso di Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
L’interesse non guasta amicizia.
Gli affari, gli interessi di carattere economico è lecito farli anche in concorrenza con gli amici.
L’obbidienza è santa, chi la fa poco campa.
L’ubbidienza è santa, chi la fa poco campa.
E’ un proverbio che mi ripeteva spesso mia nonna quando non obbedivo da piccolo ai suoi comandi che esigevano una risposta pronta e assoluta. Ai ragazzi, con le altre norme e sani principi per farli crescere obbedienti, si insegna che i buoni bambini meritano il paradiso e Dio li sceglie per sè ancora quando sono intenera età. Per contro i bambini disobbedienti, non sono graditi a Dio, che perciò li fa campare a lungo.
L’occasione fa l’uomo ladro.
Sottolinea che spesso non si contravviene alle norme solo perché manca l’occasione propizia.
L’occhio del padrone, ingrassa il cavallo.
L’occhio del padrone,’ngrassa ‘l cavallo.
Vuol dire che l’attenzione costante che il padrone porge alle proprie cose le conserva e le fa crescere.
Si veda in proposito la favola dello scrittore latino Fedro Il cervo nella stalla dei buoi (Favole, II, 8) che termina col verso “dominum videre plurimum in rebus suis “ che significa che ogni padrone intende meglio di chicchessia le sue faccende.
Per analogia vedi “Chi fa sa sé, fa per tre”.
L’occhio è lo specchio dell’anima.
Significa che attraverso gli occhi si possono leggere i sentimenti di una persona quali la dolcezza, la tenerezza, l’amore, la tristezza, la noia, la malinconia ecc…
Lo scrittore latino Plinio (23–79 d.C.) (Storia naturale, XI, 54, 14) usa l’espressione in oculis animus habitat (l’anima abita negli occhi).
L’occhio vuole la sua parte.
L’occhio vole la su parte.
Vuol dire che l’occhio serve per ammirare la bellezza estetica delle cose. L’espressione si usa riguardo all’arredamento di ambienti ma anche all’ornamento e decoro di tante altre cose come la tavola apparecchiata, l’impaginazione di un libro ecc…Detto usato per indicare che tanto chi espone qualcosa quanto chi l'acquista hanno interesse che si presenti bene, perchè anche la vista ne rimanga appagata.
Lo compra chi non lo conosce.
Lo compra chi nu lo conosce.
Lo può stimare solo chi ancora non lo conosce.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Lontano dall’ occhie, lontano dal core.
La lontananza, prolungata nel tempo, affievolisce anche il più grande amore.
E’ una libera riduzione di un pensiero della Imitazione di Cristo (I, 23, 1) di Thomas Hemrken (1380-1471): “Cum autem sublatus fuerit ad oculis, etiam cito transit e mente” (Qundo poi sarà sottratto agli occhi, passa presto anche di mente).
L’ora del coglione passa a tutti.
L’ora del cojone passa a tutte.
Ad ognuno può capitare durante la vita qualche momento in cui non è del tutto presene a se stesso e per questo può commettere degli errori che in condizioni normali non farebbe.
L’ospite è come il pesce, dopo tre giorni puzza.
L’ospite è come ‘l pesce, do(p)po tre(g)giorne puzza.
Gli ospiti sono più graditi se le loro visite non sono troppo frequenti. Inoltre anche le permanenze devono essere brevi.
Plauto (Miles Gloriosus, III, 1, 144-147) dice che l’ospite dopo tre giorni diventa odioso, se poi si ferma dieci giorni, anche se il padrone lo sopporta, i servi cominciano a brontolare. E un distico medievale aggiunge: “Post tres saepe dies piscis vilescit et hospes: ni sale conditus sit vel specialis amicus” (Spesso dopo tre giorni il pesce e l’ospite perdono la loro freschezza, a meno che sia condito col sale o sia un amico particolare).
L’ozio è il padre dei vizi.
L’ozzio è ‘l padre de le vizzie.
Se si perde tempo, senza un’occupazione seria e importante, va a finire che ci si dedichi a cattive abitudini.
Catone il Censore nel Carmen de moribus (Carme dei costumi) dice: ”La vita umana è pressoché come il ferro: se l’adoperi, si consuma; e se non l’adoperi, te lo logora la ruggine. Così vediamo che gli uomini lavorando si consumano; d’altra parte se non fai niente, l’inerzia e l’indolenza procurano danno maggiore che non il lavoro”.
L’uccello in gabbia, non canta per amore ma per rabbia.
L’ucello ‘n gabbia, nun canta per amore ma pe rabbia.
Come l’uccello in gabbia preferirebbe in realtà vivere libero in un bosco, così a volte chi mostra di essere allegro lo fa per dissimulare una condizione di sofferenza, cioè “fa buon gioco a cattiva sorte”.
L’ultima goccia è quella che fa traboccare il vaso.
L’ultima goccia è quella che fa traboccà ‘l vaso.
Si dice di un atto, di una parola, di un atteggiamento, anche di scarso rilievo, che fa prorompere un dolore, un’ira, un rancore lungamente represso e lentamente accumulato.
L’ultimo ad arrivar fu Gambacorta.
L’ultimo a arrivà fu Gambacorta.
Il proverbio è di origine pisana e gioca sul cognome di una tra le più illustri famiglie di Pisa, quella dei Gambacorta, che sul finire del Trecento furono signori della città.
L’ultimo vestito ce lo fanno senza tasche.
Perché di la non si porta niente.
L’unione fa la forza.
In molti, e concordi, si può quel che non si potrebbe da soli e divisi.
L’uomo che non sente a prima voce, dimostra che il discorso non gli piace.
L’omo che nun sente a prima voce, è segno che ‘l discorso nun je piace.
Questo proverbio si adatta a coloro che a parole sminuiscono le cose che non possono fare (qui facere quae non possunt verbis elevant). E’ una sentenza che ha scritto già Fedro (La volpe e l’uva).
L’uomo è lupo all’uomo.
La frase esprime la concezione pessimistica della natura umana.
E’ del commediografo latino Plauto (250 – 184 a C) Homo homini lupus (l’uomo è lupo all’uomo) e si trova nell’opera Asinaria.
Si conosce in senso ironico la stessa frase anche al grado comparativo Uxor uxori lupior (il coniuge è più lupo con l’altro coniuge) e al grado superlativo Sacerdos sacerdoti lupissimus (un prete è lupissimo verso un altro prete).
L’uomo propone e Dio dispone.
Ricorda che ci sono fattori imponderabili e imprevedibili (la volontà divina, il caso ecc.) che modificano anche radicalmente lo svolgimento e i risultati dei nostri progetti.
Nella Bibbia (Proverbi, XVI, 9) è scritto: “Il cuore dell’uomo fa i suoi disegni ma il Signore dirige i suoi passi”.
M
Magari si spezza, ma non si piega
Magare se spezza, ma nun se piega
Deriva dal detto latino frangar, non flectar “mi spezzerò ma non mi piegherò” (Orazio, Odi, III, 3).
Per un verso è la fotografia dell’uomo di carattere, tutto d’un pezzo, ma dall’altra si usa anche per indicare chi non vuol obbedire a ordini e suggerimenti. In questo secondo caso viene spesso indicato dalle mamme alle prese con i figli recalcitranti.
Mal comune, mezzo gaudio.
Quando tocca a molti, e non a noi soltanto, il danno, il disagio ecc. sembrano o divengono più sopportabili.
Già Lucio Anneo Seneca aveva scritto: ”Pudorem rei tollit multitudo peccantium” (La moltitudine dei peccatori toglie la vergogna del peccato).
Male non fare e paura non avere.
Male nun fa e paura nun avè.
Quando non si opera scorrettamente si può stare sicuri di sé, senza timori.
Mancare sempre la terra sotto i piedi.
Manca’ sempre la terra sotto le piede.
Si dice di chi fa le cose sempre in fretta, come se stesse per cadere la casa.
Mancare sempre un centesimo per fare una lira.
Manca’ sempre ‘n centesimo pe fa na lira.
Si dice per intendere che i soldi non bastano mai a coprire le spese necessarie o anche a proposito di una persona che non è mai soddisfatta di nulla e crede che le manchi sempre qualcosa.
Mandare da Erode a Pilato.
Mannà da Erode a Pilato.
Il detto viene dal Vangelo di Luca (23, 7-12). Dopo che l’Assemblea aveva condotto Gesù da Pilato questi lo interrogò: ”Sei tu il re dei Giudei? Ed egli rispose: Tu lo dici. Pilato disse ai sommi sacerdoti e alla folla: Non trovo nessuna colpa in quest’uomo. Ma essi insistevano, Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui. Udito ciò, Pilato domandò se era Galileo e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme. Erode…lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla…Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato”.
Il proverbio vuol dire fare a scaricabarili. Scaricabarili è un gioco che si fa in due, mettendosi di spalle l’un l’altro e, intrecciando le braccia scambievolmente, s’alzano vicendevolmente l’un l’altro.
Mangiare il vitello nel ventre della vacca.
Magnà ‘l vitello nel ventre de la vacca.
Vuol dire dissipare un patrimonio prima di entrarne pienamente in possesso.
Mangiare un bue e lasciare un corno.
Magnà ‘n bovo e lascià ‘n corno.
In senso figurato vuol dire che non è bene lasciare una cosa incompiuta, specie se ha richiesto molto impegno e ciò che rimane da fare è di poca entità.
Meglio assolvere un peccatore che condannare un innocente.
Mejjo assolve ‘n peccatore che condannà ‘n innocente.
Non si dice solo con riferimento alle sentenze dei giudici ma anche ai giudizi degli uomini.
Meglio aver paura che buscarle.
Mejjo avè paura che (b)buscalle.
Consiglia di sottrarsi davanti a un pericolo per prevenire conseguenze dannose. A volte, la ritirata è preferibile alla sconfitta.
Meglio consumare le scarpe che le lenzuola.
Mejjo consumà le scarpe che le lenzola.
E’ un paragone che serve ad esorcizzare il male. Se uno sta bene si muove, cammina e perciò usura le scarpe, se uno invece consuma le lenzuola vuol dire che è a letto ammalato. E’ ovvia la scelta di desiderare di star bene.
Meglio essere cornuti che bastonati.
Mejjo esse cornute che bastonate.
Con questo proverbio si vuole significare che le bastonate procurano dolori fisici e le corna no. Evidentemente chi l’ha coniato era più sensibile al dolore fisico che a quello morale.
Meglio essere il primo a casa sua che il secondo a casa d’altri.
Mejjo esse ‘l primo a casa sua che ‘l secondo a casa d‘altre.
Si dice anche “Meglio essere primo a Milano che secondo a Roma”. In realtà questi modi di dire non sono che adattamenti della più celebre frase di Giulio Cesare “Meglio il primo in un villaggio che il secondo a Roma”.
Meglio essere invidiati che compatiti.
Mejjo esse invidiate che compatite.
Si compatisce chi sta male, perciò è preferibile essere invidiati. Si dice in genere per confortare o commentare qualche nostra scelta egoistica.
Meglio l’uovo oggi che la gallina domani.
Mejjo l‘ovo ogge che la gallina domane.
Vuol dire che è meglio accontentarsi del poco subito che sperare nel molto di domani.
E’ un invito a non lasciare il certo per l’incerto anche se quest’ultimo appare più desiderabile.
Vedi, per analogia, “Chi lascia la via vecchia…”.
Meglio nascere fortunato che ricco.
Mejjo nasce fortunato che ricco.
Se una persona è fortunata vuol dire che ha poi la possibilità, essendo baciata dalla fortuna, di diventare anche ricco.
Meglio perderlo che trovarlo.
Mejjo perdelo che trovallo.
Quando una persona ci procura molti fastidi e grattacapi, si usa dire che è meglio averlo lontano, come familiare, come amico, come conoscente ecc…piuttosto che dover subire sempre le sua azioni cattive.
Meglio poco che niente.
Mejjo poco che gnente.
Si dice come commento rassegnato o ironico sulla quantità di qualcosa che aspettavamo o desideravamo ma che ci viene in msura inferiore alle nostre aspettative.
Meglio solo che male accompagnato.
Mejjo solo che mal accompagnato.
Anche se non è piacevole, la solitudine è sempre preferibile ad una compagnia sgradevole o cattiva.
Meglio tardi che mai.
Mejjo tarde che mae.
Si dice come commento rassegnato o ironico per il ritardo con cui finalmente accade qualcosa che aspettavamo o desideravamo da tempo. Si dice anche con riferimento a correggersi, rinsavire ecc….
Meglio un aiuto che cento consigli.
Mejjo ‘n aiuto che cento consijj.
Quando si fa un lavoro capita spesso che si avvicini qualche curioso osservatore (o più d’uno) pronto a dare consigli d’ogni genere ma non a muovere una mano per aiutare a compiere l’opera.
Meglio un amico che cento parenti.
Mejjo ’n amico che cento parente.
Chi ha scritto questo proverbio conosceva quelli che dicono “Chi trova un amico, trova un tesoro” e “Parenti, serpenti”.
Meglio un asino vivo che un dottore morto.
Questo proverbio vuol dire che la salute vale più del sapere e che non bisogna rovinarsela eccedendo in cose serie come lo studio.
L’origine risale alla Bibbia (Ecclesiaste, 9, 4) dove è scritto: “Melius est canis vivus leone morto” (meglio un cane vivo che un leone morto). Il verso si ritrova anche ne La Cortigiana (atto IV, scena III) di Pietro Aretino.
Vedi anche Il troppo stroppia.
Meglio un mal campare che un bel morire.
Mejjo ‘n mal campà che ‘n bel morì.
Il proverbio è nato dall’attaccamento dell’uomo alla vita e vorrebbe che non finisse mai, anche quando procura dolori e sofferenze.
Racconta una storiella che una vecchina recidando la Salve Regina quando arrivava a pronunciare la frase “in questa valle di lacrime” (cioè il mondo) fosse solita aggiungere: “dove si piange tanto bene!” per significare appunto che, nonostante tutte le sofferenze, era preferibile vivere.
Meglio un morto in casa che un marchigiano sulla porta.
Mejjo ‘n morto ‘n casa che ‘n marchigiano su la porta.
Il proverbio si è diffuso quando esisteva lo Stato Pontificio che comprendeva Lazio, Umbria, Marche, Emilia Romagna e gli esattori delle tasse era di solito marchigiani, invisi per queste loro sgradite funzioni.
Meglio un uovo oggi che una gallina domani.
Mejjo n'ovo ogge che na gallina domane.
E’ più sicuro accontentarsi di quello che si ha al momento e non rischiarlo per avere sempre di più.
Meglio vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora.
Mejjo vive ‘n giorno da leone che cent’anne da pecora.
Questa celebre frase trovata scritta sul muro di ua casa a Fagarè nel giugno del 1918 è stata sempre attribuita ad un soldato ignoto. In realtà l’autore della scritta è un ex combattente, Bernardo Vicario, che in una lettera del 23 ottobre 1931 chiarì: “ … tale leggenda è stata scritta da me la sera del 14 giugno 1918, alle ore 19, cioè sei ore prima del grande bombardamento che provocò la scomparsa del mio battaglione di cui non restarono che pochi superstiti. Tale leggenda mi è stata dettata dal compianto Maggiore Rigoli Cav. Carlo ed io, come zappatore presso il comando del battaglione, eseguii tale ordine scrivendo come potei su quel rozzo muro all’entrata del paese ove aveva sede il 1° Battaglione del 201° Reggimento Fanteria…” (da Piero Tessaro, Aquile e Angeli sul Grappa e sul Piave, 1997).
Moglie e buoi dei paesi tuoi.
Mojje e boi de paesi tuoi.
Mettendo sullo stesso piano bestie e persone, il proverbio sollecita ad avvalersi di cose che ci sono meglio note nelle loro qualità positive e negative.
Morte desiderata, vita allungata.
Se si desidera intensamente la morte di qualcuno, sembra che il tempo che lo separad alla sua dipartita non passi mai. Ciò fa pensare al fatto che l’augurio di morte, anziché avverarsi, possa sortire l’effetto contrario.
Morte non venga e guai con la pala.
Morte nun venga e guae co la pala.
Vedi il proverbio: “Meglio un mal campare che un bel morire ”.
Morto Cristo, spenti i lumi.
E’ analogo a “Passata la festa, gabbato lo Santo”.
Morto io, accidenti a chi resta.
La frase denota un certo menefreghismo. Non disprezzo per la morte, ma forse un senso d’invidia per chi rimane ancora in vita.
Epicuro (342-270 a.C.) diceva: “Il più orrendo dei mali, la morte, non è nulla per noi: poiché quando noi siamo, la morte non c’è; e, quando c’è la morte, allora noi non ci siamo più”.
Pietro Metastasio (1698 – 1782) ha scritto invece nell’opera Adriano questo aforisma: “Non è ver che sia la morte / il peggior di tutti i mali / è un sollievo dei mortali / che son stanchi di soffrir”.
Morto un papa se ne fa un altro.
Morto ‘n papa se ne fa ‘n altro.
Le istituzioni continuano anche se scompare chi le impersona temporaneamente. Si usa anche per questioni di cuore (si dice in caso rottura di un fidanzamento per consolare il partner abbandonato).
Significa insomma che nessuno è indispensabile.
Muoiono più agnelli che pecore.
Mojjono più agnelle che pecore.
Muoiono più giovani che vecchi. Il proverbio un tempo poteva essere riferito a tutti i bambini che non sopravvivevano alle malattie ed epidemie e a quei giovani che venivano mandati a morire in guerra, ma ha una sua “attualità” anche oggi: si pensi a quanti giovani muoio per incidenti stradali o per l’uso di stupefacenti.
Muoversi con i piedi di piombo.
Movise con le piede de piombo.
Oggi questa frase viene rivolta a chi ha l’abitudine di essere eccessivamente cauto e perciò lento nel prendere decisioni e nel compiere qualsiasi cosa.
La frase è legata in un certo modo agli antichi monaci cristiani erranti, detti “santi siriani delle catene”, che per imitare i primi martiri giravano incatenati. Uno di essi, molto famoso, era Marcanio: quando questi morì, Sant’Agapito e Sant’Eusebio si divisero le sue catene aggiungendole alle proprie. In tal modo si trovarono addosso rispettivamente 45 e 80 chili. Avanti di questo passo, alla morte di Sant’Agapito, Sant’Eusebio ebbe in eredità anche le sue catene. Si trovò così con addosso 125 chili di catene e non potè più muoversi. Visse pertanto in un fosso dove riceveva continue visite da parte di pellegrini.
N
Nata la creatura e scritta la sventura.
Lo dice chi crede che nel DNA di ciascuno di noi ci sia la fotografia delle cose che ci sono predestinate, di più quelle negative.
Natale al sole, Pasqua al tizzone.
E’ un proverbio che gli antichi derivarono dall’osservazione delle condizioni metereologiche, cioè se fa bel tempo a Natale sarà freddo a Pasqua.
(Quando è nato il proverbio non c’era l’effetto serra).
Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi.
Si usa dire così perché le feste natalizie sono più familiari ed intime.
Serve anche a distinguere tra obblighi e libertà.
Ne ammazza più la lingua che la spada.
L’ ammazza più la lingua che la spada.
E’ un proverbio che si riferisce ai danni morali e materiali che produce la maldicenza, un malvezzo talmente diffuso da procurare più morti della spada.
Qui la spada richiama la frase del Vangelo con cui Gesù dice: “Chi di spada ferisce, di spada perisce” (Matteo, 26, 52).
Nella botte piccola c’è ‘l vino buono.
Ne la botte piccola c’è ‘l vino (b)bono.
I produttori di vino tendono a conservarne una parte di quello di più buona qualità mettendolo in piccole botti che vengono aperte per le ricorrenze più importanti. Si usa ricordare questo proverbio, in modo consolatorio, anche alle persone di piccola statura che però è compensata dalla bontà d’animo. Un proverbio latino dice: “homo lungus, raro sapiens”.
Nell’oro non ci attacca ruggine.
Nell’oro ‘n c’attacca ruggine.
Si dice a proposito di persone rette e integerrime, che tengono una condotta morale e semplare per cui non possono essere intaccate da nessun sospetto o maldicenza.
Nel mese di maggio, acquista legna e formaggio.
Il proverbio spiega che la legna va acquistata nella bella stagione per rimetterla asciutta nel cellaio così brucia meglio. Quanto al formaggio è ancora viva da qualche parte la consuetudine di andare dai contadini nel giorno che la Chiesa dedica all’Ascensione del Signore per mangiare il latte accajato e fare acquisti di formaggio.
Nel piatto dove si sputa ci si mangia.
Nel piatto do se sputa ce se magna.
Ha lo stesso significato del proverbio: “Chi disprezza, compra!”.
Nel pozzo cupo c’è l’acqua puzzolente.
Si dice cupo il pozzo oscuro, specie per la sua profondità, e che contiene acqua putrida. Analogamente la persona chiusa e corrucciata è anche torbida, cioè poco schietta.
Un divertente scioglilingua dice: “In un pozzo poco cupo si specchiò una volta un lupo, che nel poco cupo pozzo andò a sbattere di cozzo con un cupo tonfo fioco da smaltire a poco a poco e credette di azzannare un feroce suo compare; ma rimase brutto e cupo il feroce sciocco lupo”.
Nel regno dei ciechi, beato chi c’ha un occhio.
L’espressione viene dal Vangelo Beati monoculi in terra coecorum.
Non è difficile emergere in confronto a persone totalmente sprovvedute.
Nessuna nuova, buona nuova.
Nessuna nova, bona nova.
Invita ad interpretare con ottimismo l’assenza di notizie su persone e fatti che ci stanno a cuore. Se non ci sono cose nuove, vuol dire che tutto va bene. Per contro si dice: ”Le notizie brutte si sanno subito”.
Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria.
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, V canto, vv. 121-123).
E’ il famoso canto di Paolo e Francesca. Francesca, figlia di Guido da Polenta signore di Ravenna, andò sposa a Giovanni (detto ciotto, cioè sciancato) Malatesta, signore di Rimini. Paolo, fratello di suo marito, si accese d’amore per lei. Giovanni, trovandoli in colpa, li uccise entrambi.
Con le parole accorate di questa frase Francesca rimpiange il tempo felice passato e tuttora si usa per lo stesso motivo.
Nessuno è profeta in patria.
E’ la traduzione della frase latina nemo est propheta in patria, riadattata dai Vangeli di Matteo (13, 57), Marco (6, 4), Luca (4, 24) e Giovanni (4, 44). In senso più esteso vuol dire che raramente un uomo di prestigio gode dello stesso carisma e fascino nella terra in cui è nato e cresciuto e dove si sa ogni cosa di lui e della sua famiglia.
Nessuno fa niente per niente.
Nessuno fa gnente per gnente.
Ogni impres richiede impegno er spese (e comporta rischi), perciò chi la fa esige un compenso per il lavoro fatto e per il pagamento delle spese sostenute.
Un proverbio analogo recita “Per niente non muove la coda neanche il cane”, ed infatti quanto agita la coda il cane aspetta dal padrone il cibo o le coccole.
Niente? fa bene per gli occhi.
Gnente? fa (b)bene pe l’occhje.
Quando uno riceve un piccolo servizio e vorrebbe pagarlo può darsi che si senta rispondere: “Quanto deve darmi? Niente”. Ed egli allora con un sorriso: “Niente? Fa bene agli occhi”. Anche in altre occasioni, alla parola niente si fa seguire fa bene agli occhi. La ragione è questa: gli occhi bisogna toccarli il meno possibile. E anche in fatto di medicine, con gli occhi bisogna avere molta prudenza, e non si dovrebbero assumere se non quelle prescritte dall’oculista.
Non averci il becco d’un quattrino.
Nun avecce ‘l becco d’en quatrino.
Il “quattrino” era un’antica moneta toscana che valeva quattro denari o spiccioli equivalenti ai nostri centesimi. Nelle monete di rame di quel tempo si usava disegnare il rostro che era lo sperone di bronzo col quale le navi da guerra romane cozzavano e perforavano nel combattimento le navi nemiche. Il rostro era simile al becco di un uccello rapace e da questa similitudine è nata la frase in questione che vuol dire non avere una sola di quelle piccole monete col becco, o come diremmo oggi, non avere un centesimo.
Non averci neanche gli occhi per piangere.
Nun avecce manco l’occhje pe piagne.
Si dice di chi ha pianto e sofferto molto. Si veda ne I Promessi Sposi (Capitolo XXXIV) l’episodio della madre di Cecilia che il Manzoni ha tratteggiato con una commozione intensa ”…gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante”.
Non avere né arte né parte.
Nun avecce né arte né parte.
Significa non saper fare nulla.
Arte ha il significato di mestiere qualificato, e nel Medioevo i mestieri maggiormente riconosciuti si dividevano in Arti Maggiori e Arti Minori, le prime comprendevano i giudici, i banchieri, i mercanti ecc…, le seconde i piccoli e medi artigiani. Parte ha qui il significato di partito, per cui la locuzione si riferisce a chi non solo non sa far nulla, ma non ha neppure chi possa appoggiarlo. Un povero disgraziato, senza futuro.
Esiste anche il proverbio contrario “Chi c’ha arte, c’ha parte”.
Non avere né capo né coda.
Nun avecce né capo né coda.
Si dice di cosa disordinata, che non ha né principio né fine.
Alcuni fanno risalire questo modo di dire al pesce pastinaca, un tipo di razza col corpo molto appiattito a forma quasi di disco in cui la testa non si distingue bene. Ha però la coda con un aculeo velenoso che viene tagliata dai pescatori prima di essere messo nei mercati, dove appare quindi senza capo né coda.
Non avere un soldo per fare cantare un cieco.
Nun avecce ‘n soldo manco pe fa cantà ‘n ceco.
Essere poverissimo. Avere ancor meno disponibilità economiche di un cieco che un tempo chiedeva l’elemosina sui cigli delle strade attirando i passanti col canto.
Non bisogna fasciarsi la testa, prima d’averla rotta.
Nun bisogna fasciasse la testa, prima d’avella rotta.
Il proverbio vuol dire che non bisogna disperarsi finché le cose non sono realmente e irrimediabilmente compromesse. E’ perciò un invito a nutrire speranze.
Non c’è due senza tre.
Fra i proverbi della lingua italiana questo è uno fra i più diffusi e conosciuti. Vuol dire che qualcosa di buono o di cattivo accaduta già due volte, accadrà anche una terza.
Il proverbio, alla lontana, si rifà all’antica idea del numero tre come numero perfetto (Omne trinum est perfectum). Invita a far tesoro delle proprie esperienze e a fare economia delle proprie risorse e energie.
Non c’è fumo senz’arrosto.
Sta a significare che in certe situazioni, in certi casi, dove c’è un semplice indizio c’è anche il fatto.
Non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire.
Nun c’è peggior sordo di chi nun vole sentì.
Mentre la sordità reale in qualche modo può essere vinta, quella volontaria di chi si rifiuta di ascoltare è insormontabile.
Non c’è regina che non ha bisogno della vicina.
Nun c’è re(g)gina che nun ha (b)bisogno de la vicina.
Per quanto si possa essere ricchi e potenti, in qualche evenienza si può avere bisogno del prossimo e ciò non dev’essere dimenticato.
Non c’è rosa senza spine.
Sta a significare che ogni cosa piacevole ha i suoi lati brutti.
L’espressione è tratta dalla pianta della rosa, la regina dei fiori per la bellezza, i colori e il profumo, che ha lo stelo rivestito di spine e quindi può pungere chi la coglie facendo male alle dita.
Vedi anche “Ogni medaglia ha il suo rovescio” e “Non tutto il male viene per nuocere”.
Non c’è trippa per gatti.
E’ una frase attribuita al famoso sindaco di Roma Ernesto Nathan (1907) che, alle prese con le ristrettezze economiche del Comune, iniziò una serie di tagli al bilancio, tra cui anche la somma che si stanziava per sfamare i gatti che, allora come oggi, vivevano tra gli antichi ruderi della capitale.
Non ci sono Santi né Madonne che tengano (Se Dio non vuole).
Nun ce so Sante né Madonne che tengono (Si Dio nun vole).
Si usa dire così quando non si è disposti a cambiare parere e atteggiamento neanche se succedesse un miracolo.
Non datemi consigli, so sbagliare da solo.
Nun datime consijj, so s(b)bajà da solo.
Quando ci si trova davanti a persone che si ritengono depositari della verità e vogliono darci a tutti i costi il loro parere su tutto, possiamo difenderci con la frase “Non datemi consigli, so sbagliare da solo”.
Non dire di me quel che di me non sai, prima parla di te e poi di me dirai.
Nun di’ de me quel che de me nun sae, prima parla de te e poe de me dirae.
Il proverbio si addice a chi ha l’abitudine di sbandierare i difetti degli altri senza avvedersi dei propri. Deriva dal Vangelo (Matteo, 7, 1-5) che dice: ”Non guardare la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello. Guarda piuttosto la trave che c’è nel tuo occhio”.
Anche Fedro (I vizi degli uomini, IV, 10) aveva messo in luce questo stesso concetto: ”Di sacche Giove ce ne impose due: una dei nostri vizi rimpinzata, ci appoggiò sulla schiena; l’altra, pesante degli altrui, ci appese davanti al petto. Perciò non ci è possibile vedere in noi nessun difetto, e appena gli altri sgarrano li censuriamo”.
Non dire quattro se non l’hai nel sacco.
Nun dì quattro si nun l’hae nel sacco.
Invita a non considerare come certi e già realizzati gli eventi favorevoli che ancora non si sono verificati.
Come origine del proverbio, si racconta che un frate, mentre stava sulla strada aspettando la carità dai passanti venne chiamato da una donna che dalla finestra gli lanciò alcuni pani che il frate faceva cadere nel sacco mentre li contava. Al quarto, il frate disse “e quattro” ma il pane invece di cadere nel sacco gli sbattè sulla testa.
Analogamente si dice “Non vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso”.
Non è bella la Pasqua, se non goccia la frasca.
Nun è bella la Pasqua, si nun goccia la frasca.
Non è bello quello che è bello, è bello quello che piace.
Nun è (b)bello quel chè (b)bello, è (b)bello quel che piace.
Vedi “Sui gusti non si sputa”.
Non è più il tempo che Berta filava.
Nun è più ‘l tempo che Berta filava.
Secondo la sua favola, Berta era una brava ragazza, figlia di poveri contadini, sempre dedita al lavoro della filatura. La regina Cunegonda, che aveva sentito parlare bene di lei, andò a trovarla e volle vederla filare. Ammirata dalla sua bravura e dalla sua laboriosità volle farla conoscere anche al re che decretò che gli avrebbe concesso tanta terra per quanto fosse il filo da essa prodotto. Quando Berta ebbe la terra diventò superba e cattiva e a chiunque le chiedeva un favore rispondeva altezzosamente: “Non è più il tempo che Berta filava!”.
Oggi la frase si usa per intendere che le cose sono cambiate, che quanto si faceva un tempo ora non si fa più.
Non è tutt’oro quello che riluce.
Nun è tutt’oro quello che luccica.
Non tutto ciò che splende esteriormente è in realtà prezioso.
E’ un modo più immaginoso per dire “L’apparenza inganna”.
Non fare come l’allocco…
Nun fa come l’alocco…
che aveva sette magazzini pieni di fave, ne mangiava una al giorno eppure finirono.
E’ un invito a non dissipare le sostanze.
Non fare del male ch’è peccato, non fare del bene ch’è sprecato.
Nun fa’ del male ch’è peccato, nun fa del bene ch’è sprecato.
Si dice con rammarico o con malizia, ma comunque con evidente sfiducia verso le cose del mondo e verso l’ingratitudine.
Non fare di tutta l’erba un fascio.
Nun fa de tutta l’erba ‘n fascio.
In senso figurato significa mettere insieme cose diverse l’una dall’altra, senza distinzione.
L’espressione è presa dalla vita campestre, dal modo di raccogliere il fieno da dare alle bestie che i contadini tagliano senza distinguere una specie d’erba dall’altra. E’ un invito a non giudicare tutti allo stesso modo ma a saper distingere vizi e pregi di ognuno.
Non guardare chi ero, guarda chi sono adesso.
Nun guardà chi ero, guardime chi so.
Il proverbio si trova in bocca a quanti vogliono far dimenticare il loro passato, specie quelli che da poveri sono diventati ricchi o da cattivi sono diventati buoni.
Nella Bibbia si condanna questo modo di pensare: “Non dire: come va che le antiche età erano migliori di queste nostre? Perché questa che tu fai è una domanda che non deriva dalla saggezza” (Ecclesiaste, 7, 10).
L’espressione, invito a non badare alla sorte passata ma a quella presente, si trova anche in Fedro (La farfalla e la vespa, XXIX) “Non quid fuerimus, sed qui nunc sumus, vide” (Pensa chi siamo, non pensar chi fummo).
Non parlare di corda in casa dell’impiccato.
Il significato letterale di queste parole è chiaro. Chi va in una casa dove un componente della famiglia è stato impiccato deve evitare ogni accenno a questo triste avvenimento.
Invita a evitare ogni accenno, anche indiretto, ad argomenti scottanti o dolorosi per chi ci ascolta.
Si dice anche: “Non tocchiamo certi tasti”.
Non rimandare a domani quello che potresti fare oggi.
E’ come Chi ha tempo non aspetti tempo.
Non sapere a chi santo votarsi.
Nun sapè a che santo votasse.
Vuol dire non riuscire a trovare una soluzione, non sapere a chi rivolgersi.
Il modo di dire, conosciuto fin dall’antichità, deriva dal bisogno di rivolgersi a qualche divinità nei momenti difficili. Gli antichi hanno risolto queste necessità individuando in molti dei i protettori per ogni situazione, per i raccolti, per la fioritura ecc.. La tradizione è passata poi nel cristianesimo in cui ai santi è stata affidata la protezione di parti del nostro corpo e dei mestieri.
Così S. Biagio è invocato per il mal di gola, Santa Lucia per la vista, Santa Apollonia per il mal di denti, Santa Barbara contro i fulmini, Santa Rita per le questioni difficili o ritenute impossibili, Santa Cecilia protegge i musicisti, San Crispino i calzolai, San Giuseppe i falegnami, Sant’Isidoro i contadini, San Luca i pittori, Sant’Ubaldo i cacciatori, Sant’Urbano i vignaioli, Sant’Antonio abate protegge gli animali.
San Pasquale Baylon è il protettore delle donne e a lui il 17 maggio le nubili napoletane rivolgono l’ansiosa supplica:
“San Pasquale Baylonne
protettore delle donne
fateme trovà marito
sano, bello e colorito
come voi, tale e quale,
glorioso san Pasquale!”
Il Santo, nella poesia di Vincenzo Cardarelli (1887-1959), è rappresentato così:
“Ce ne sono di chiese e di chiesuole,
al mio paese, quante se ne vuole!
E santi che dai loro tabernacoli
son sempre fuori a compiere miracoli.
Santi alla buona, santi famigliari,
non stanno inoperosi sugli altari.
E chi ha cara la subbia, chi la pialla,
chi guarda il focolare, chi la stalla,
chi col maltempo, di prima mattina,
comanda ai venti, alla pioggia, alla brina.
Chi fra cotanti e così vari stati,
ha cura dei mariti disgraziati.
Io non so se di me qualcuno ha cura,
che nacqui all’ombra delle antiche mura.
Vien San Martino che piove e c’è il sole,
vedi le vecchie che fanno all’amore.
Rustico è San Martin, prospero, antico,
e dell’invidia natural nemico.
Caccia il malocchio di dosso al bambino,
dà salute e abbondanza San Martino.
Sol che si nomini porta fortuna
e fa che abbiamo sempre buona luna.
Volgasi a lui, chi vuol vita beata,
in ogni ora della sua giornata.
Vien Sant’Antonio, ammazzano il maiale.
Col solicello è entrato carnevale.
L’uomo è nel sacco, il sorcio al pignattino,
corron gli asini il palio e brilla il vino.
Viene, dopo il gran porcaro,
San Giuseppe frittellaro,
San Pancrazio suppliziato,
San Giovanni Decollato.
E San Marco a venire non si sforza,
che fece nascer le ciliegie a forza.
E San Francesco, giullare di Dio,
è pure un santo del paese mio.
Ce ne sono di santi al mio paese
per cui si fanno feste, onori e spese!
Hanno tutti un lumino e ognuno ha un giorno
di gloria, con il popolino intorno”.
Analogo a questo proverbio è “Non sapere dove sbattere la testa”.
Non sapere né chiacchierare ne stare zitto.
Nun sapè né chiacchierà ne sta zitto.
Essere una persona insignificante, un buono a nulla.
Non sapere quanti giri fa una boccia.
Nun sapè quante gire fa na (b)boccia.
Non sapere dove le cose andranno a parare, così come si ignora dove andrà esattamente a fermarsi una boccia dopo essere stata lanciata e avere fatto tanti giri su se stessa.
Non sapere ritenere neanche le pere cestelle.
Nun sapé ritené manco le pere cestelle.
L’espressione è usata con riferimento alle persone che non essere capaci di tenere pedr sé questioni riservate, non sanno mantenere un segreto, fanno uscire di bocca tutto quello che sanno, incuranti delle conseguenze del loro dire e sparlare.
Può derivare dal fatto che anticamente le pere cestelle, una varietà autoctona specialmente della Toscana, per farle durare a lungo, venivano poste in ceste di vimini a trama larga per far circolare meglio l’aria. A volte però la maglia della trama risultava troppo larga e le pere fuoriuscivano.
Il Manzoni (I Promessi Sposi, Cap. XI) per descrivere la gran fatica che faceva Perpetua a non parlare del fallito tentativo di Renzo e Lucia di sposarsi a sorpresa davanti a Don Abbondio usa questo paragone: “Don Abbondio poteva ben comandarle risolutamente, e pregarla cordialmente che stesse zitta; lei poteva ben ripetergli che non faceva bisogno di suggerirle una cosa tanto chiara e tanto naturale; certo è che un così gran segreto stava nel cuore della povera donna, come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che grilla e gorgoglia e ribolle, e, se non manda il tappo per aria, gli geme all’intorno, e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di qua e di la, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un di presso che vino è”.
Non si muove foglia che Dio non voglia.
Nun se move foja che Dio nun voja.
L’espressione commenta il sentire religioso secondo cui ogni avvenimento, anche il più piccolo e insignificante, dipende dal volere divino.
Non si può cantare e portare la croce.
Il modo di dire significa che non si possono fare due cose insieme, specie se sono tra loro contrastanti.
Non si può far la frittata senza rompere le uova.
Nun se pò fa la frittata senza rompe l’ova.
Si dice quando per ottenere uno scopo bisogna pagare un prezzo più o meno lecito. In tema di frittata ci sono altri detti come “fare una frittata” (si riferisce ad una cosa malriuscita o ad un disastro sia pratico che figurato), “ormai la frittata è fatta”(si dice quando una situazione, un'azione è già compiuta e non ci si può porre più rimedio), ”rigirare la frittata” (si dice quando qualcuno rigira un argomento di discussione in tutti i modi, pur di avere ragione).
Non si sa che sorte tocca, finché si hanno i denti in bocca.
Nun se sa che sorte tocca, finché ce so le dente ‘n bocca.
Il futuro è sempre un’incognita.
Non si va in Paradiso a dispetto dei Santi.
Nun se va ‘n Paradiso a dispetto de le Sante.
Nojn ci si intromette dove non si è graditi. Non si entra in un gruppo senza il consenso dei suoi componenti; c’è dunque da pagare lo scotto di un comportamento che sia loro gradito. Se poi il prezzo è alto, lo paghi chi se la sente. In quest’ultimo caso si dice “Chi vuole Cristo, se lo preghi”.
Non svegliare il cane che dorme.
Nun stuzzicà ‘l cane quanno dorme.
Non svegliare il cane quando dorme. Potrebbe mordere.
Il proverbio esorta a non agitare situazioni che sono al momento tranquille. In qualche modo ricorda il detto latino “Queta non movere” (non muovere le cose che stanno quiete).
Non te ne fare del mio duolo, che quando il mio è vecchio, il tuo è nuovo.
Nun te ne fa del mi dolo, che quanno ‘l mio è vecchio, ‘l tuo è novo.
Dal latino “Hodie mihi, cras tibi” (oggi a me, domani a te). Quello che oggi tocca a me, domani toccherà a te; le sorti buone e cattive giustamente si alternano. Analogo è il proverbio “Oggi a me, domani a te”.
Non ti mettere in cammino, se la bocca non sa di vino.
Nun te mette ‘n cammino, si la bocca nun puzza de vino.
Il vino conferisce energia perciò questo proverbio ne consigliava l’assunzione quando si dovevano fare viaggi lunghi e faticosi.
Non ti scoprire al primo caldo, non ti coprire col primo freddo.
Nun te scoprì col primo callo, nun te coprì col primo freddo.
I primi giorni che annunciano il cambiamento delle stagioni non sono stabili sotto l’aspetto climatico, perciò è prudente non mutare il modo di vestirsi, di più o di meno, finché il clima non si sarà stabilizzato.
Non tutte le ciambelle riescono col buco.
Nun tutte le ciammelle vengono col buco.
Non sempre ciò che abbiamo predisposto, e magari tramato, riesce secondo i nostri progetti.
Non tutti possono avere la casa in piazza.
Nun tutte possono avè la casa ‘n piazza.
Cioè, non tutti possono trovarsi nel terreno migliore. Il proverbio, che sottolinea le diversità di condizione sociale, deriva dal fatto che anticamente le famiglie patrizie fiorentine avevano le loro case nel centro della città mentre le famiglie del contado abitavano nei borghi e oltrarno.
Non tutto il male viene per nuocere.
Nun tutto ‘l male viene pe noce.
Talvolta certi eventi che sono (o appaiono) dannosi, sono viceversa anche giovevoli. Invita a considerare gli aspetti positivi che possono esservi anche nei fatti negativi, oppure a riflettere se certe cose sgradevoli (delusioni, insuccessi ecc.) non siano in realtà da apprezzare come stimoli e avvertimenti vantaggiosi.
Non vendere la pelle dell’orso prima d’averlo ammazzato.
Nun venne la pelle dell’orso prima d’avello ammazzato.
Il proverbio si ricollega ad una favola di Esopo, ripresa poi dal narratore francese La Fontane, in cui si narra che due amici per risolvere i loro problemi economici, andarono a caccia di orsi dalla pelle pregiata e richiesta. Durante il tragitto facevano progetti su come utilizzare il ricavato dalla vendita, e già si immaginavano ricchi e felici, ma dal bosco uscì un orso gigante che li terrorizzò, così i due amici fuggirono spaventati, senza poter realizzare i loro progetti e restando poveri come prima.
Vuol dire fare assegnamento su una cosa che non si ha ancora e che molto difficilmente si potrà avere, farsi delle illusioni su progetti difficili da realizzare.
O
O a Napoli in carrozza o alla macchia a far carbone.
O a Napole ‘n carrozza o a la macchia a fa ‘l carbone.
Lo dice chi non accetta le mezze misure, chi rischia tutto, mette in gioco tutto sperando che la fortuna, la sorte, o il gioco, gli cambino la vita radicalmente, fino a permettergli di condurre un’esistenza da principe, altrimenti, pazienza!, sarà costretto ad accontentarsi di fare un mestiere umile e faticoso.
Occhio non vede e cuore non duole.
Occhio nun vede e core nun dole.
Il male o i torti che si fanno ad una persona non le procurano dispiacere se essa non ne è a conoscenza. E’ la semplificazione di una frase di Seneca che evidenzia quanto sia più facile non pensare a ciò che non accade in nostra presenza. Si dice anche “Se occhio non mira, cuor non sospira”. Vedi “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.
Occhio per occhio, dente per dente.
Chi provoca un danno deve aspettarselo uno analogo.
Questa proverbio sintetizza la filosofia che ispirò le prime leggi scritte emanate nel 1780 a C. da Hammurabi, re di Babilonia. E’ la cosiddetta Legge del Taglione che conoscevano gli antichi prima dell’avvento del Cristianesimo e che prevedeva che chi arrecava un danno doveva subirne uno di uguale entità. Era considerato un atto di giustizia, ma era piuttosto una vendetta.
La Legge del Taglione è stata superata dagli insegnamenti della Bibbia (Matteo 5, 38 e segg.): “è stato detto occhio per occhio e dente per dente. Io (Gesù) invece vi dico di non fare resistenza al malvagio: ma se uno ti avrà percosso sulla guancia destra, porgigli anche la sinistra”.
O di paglia o di fieno, basta che il corpo sia pieno.
O de pajja o de fieno, abbasta che ‘l corpo sia pieno.
In senso pratico, la frase vuol dire che la persona che ha veramente fame, non fa tanti complimenti e mangia tutto quello che gli mettono in tavola. (Si veda anche il proverbio: “La fame è il miglior companatico”. In senso figurato, il proverbio è rivolto a certi individui senza scrupoli che, pensando solo ad arricchirsi, non guardano ai mezzi e non fanno distinzione tra il lecito e l’illecito.
Oggi a me, domani a te.
Quello che oggi tocca a me, domani toccherà a te.
La frase viene usata contro coloro che si compiacciono delle disgrazie altrui. Espressioni analoghe sono “Una volta per uno non fa male a nessuno”, “ Il latte e caffè per tutti ce n’è” e ”La vita è una ruota”. Il latte (bianco) sta a significare il bene e il caffè (nero) il male e le disgrazie. A tutti infatti la vita riserva gioie e tristezze, cose buone e cose meno buone.
Ogni bel canto viene a noia.
Anche le cose belle finiscono per stancare.
E’ il contrario del proverbio latino: “Repetita iuvant” (Giova ripetere le cose).
Ogni bella scarpa, diventa ciabatta.
Vuol dire che l’uso provoca il logorio delle cose.
Il proverbio viene usato anche con riferimento al fisico delle persone, infatti una bella ragazza non mantiene nella vecchiaia gli stessi connotati di bellezza.
Ogni bene, da Dio viene.
Già il pensiero di Seneca, che mostra una singolare vicinanza con Cristianesimo, ci ha insegnato questa verità: “Deus ad homines venit; immo quod proprius est, in homines venit. Nulla sine deo mens bona est”. Dunque Dio è in noi e soprattutto non si può essere buoni senza di lui.
Ogni casa ha la sua croce.
‘Gni casa ha la su croce.
In ogni famiglia ci sono dei problemi, delle contrarietà che impongono fatiche o sofferenze, come a Gesù portando la croce per salire al monte Calvario. In tono consolatorio si usa aggiungere che se ognuno le sue contrarietà le portasse in piazza (cioè a conoscenza di tutti) se ne ritornerebbe via riprendendo le proprie.
Ogni causa ha il suo effetto.
‘Gni causa c’ha ‘l su effetto.
La legge di causa ed effetto è simboleggiata nella Bibbia dalla frase: ”ciò che semini, raccoglierai”, che vuol dire che se si fanno le cose giuste, tutto andrà bene, se si fanno le cose sbagliate, tutto andrà male. Nelle scienze il detto è tradotto coll’espressione: “Ad ogni azione, corrisponde una reazione uguale e contraria”.
Ogni frutto alla sua stagione.
‘Gni frutto a la su sta(g)gione.
Si diceva quando non esistevano ancora le coltivazioni in serra e i mezzi di trasporto così veloci per trasportare le merci da un continente all’altro in poco tempo. Oggi, con le tecniche di riscaldamento è possibile far maturare tutti i prodotti in ogni stagione, senza dover aspettare i cicli naturali.
Il detto però è rimasto, a testimoniare che ogni cosa deve avere il tempo necessario per diventare matura e pronta per l’uso.
Ogni lasciata è persa.
‘Gni lasciata è persa.
Ogni occasione di cui non abbiamo saputo o voluto approfittare al momento opportuno è definitivamente perduta.
Già i latini con l’espressione “Carpe diem quam minimum credula postero” (Orazio, Odi, I, 11) invitavano a cogliere al volo l’attimo e la situazione favorevole senza lasciarla scappare.
Ogni medaglia ha il suo rovescio.
‘Gni medaja ha ‘l su rovescio.
Tutte le situazioni, o tutti gli eventi, hanno due facce come le medaglie: se una è buona l’altra non lo è o può non esserlo.
Seneca scrisse a Lucilio: “Alle nuvole tien dietro il sereno; il mare si agita dopo la bonaccia; i venti ora spirano in un senso, ora in quello opposto; il giorno segue alla notte; una parte della volta celeste sorge, mentre l’altra tramonta; tutto deriva da questo continuo avvicendarsi” (Nubilo serena succedunt; turbantur maria cum quieverunt; flaus in vicem venti; noctem dies sequitur; pars coeli consurgit, pars mergitur; contrariis rerum aeternitas constat) (Lettera a Lucilio, 107,8).
Ogni pecora ama il suo agnello.
‘Gni pecora ama ‘l su agnello.
Ogni mamma vuole bene al proprio figlio e ciò vale sia nel consesso umano che nel regno animale. Si tratta di un bene secondo natura.
Ogni promessa è debito.
‘Gni promessa è de(b)bito.
Tutto ciò che si promette diventa un obbligo. Il proverbio sottolinea che mentre il promettere è un atto che dipende da noi, il mantenere diventa un dovere verso gli altri.
Lo scrittore latino Orazio dice: “Promissio boni viri est obbligatio” (E’ un obbligo, per un uomo dabbene, mantenere la promessa). I nostri vecchi usavano dire, a commento di questo proverbio, che una parola data vale più di una carta scritta.
Ogni simile ama il suo simile.
‘Gni simile ama ‘l su simile.
Può derivare dalla frase latina Pares cum paribus facillime congregantur (Ognuno con grande facilità frequenta i suoi simili) (Cicerone, De Senectute, III).
Ognuno è artefice della propria fortuna.
Significa che ogni persona è responsabile del proprio successo.
E’ la traduzione della frase latina faber est suae quisque fortunae, pronunciata da Appio Claudio Cieco, riportata dallo Pseudo-Sallustio (Epistola ad Caesarem, I, 1, 2) e consacrata da Bacone.
Nella Storia naturale (18, 8, 4), Plinio racconta che un contadino otteneva dalla terra molto più dei propri vicini. Accusato di ricorrere a pratiche magiche, egli si presentò in tribunale con tutta la sua famiglia, gli animali e gli arnesi da lavoro, raccontò le sue fatiche e i suoi sacrifici esclamando: ”Ecco gli strumenti della mia magia”. E fu assolto.
Ci sono però altri proverbi che affidano la buona sorte non tanto al lavoro o ad un progetto quanto piuttosto a un atto risolutivo. Perciò, come dice Virgilio (Eneide, X, 284) audentes fortuna iuvat (la fortuna aiuta gli audaci)
Ognuno per sé e Dio per tutti.
Ognuno provveda alle sue necessità, Dio provvederà a tutti.
Si dice così quando si vuole comunicare l’intenzione di separare in modo chiaro e definitivo i propri interessi da quelli degli altri.
Ognuno tira l’acqua al suo mulino.
Commenta certe contese in cui le argomentazioni contrapposte sembrano disinteressate e invece non lo sono. L’espressione deriva dai mulini che erano azionati dalla forza dell’acqua e i mugnai che ne avevano bisogno la canalizzavano presso i propri impianti non curandosi dei bisogni degli altri. Oggi con questa frase ci si riferisce a chi fa i propri interessi non curandosi di quelli degli altri.
O mangi la minestra o salti la finestra.
O magne sta minestra o salte sta finestra.
Le parole che compongono questo proverbio (minestra e finestra) non hanno altro legame tra loro che la rima.
Si usa questa frase per significare che ci si trova di fronte ad una situazione non modificabile e che non c’è una terza via d’uscita.
Analogo è anche “O bere o affogare” e l’altro “O prendere o lasciare”.
P
Paese che vai, usanza che trovi.
Paese che vae, usanza che trove.
Ogni luogo ha le sue usanze. Il proverbio avverte che i propri modi di vivere non sono gli unici al mondo e che bisogna capire e rispettare quelli degli altri, anche adattandovisi, se necessario.
Paga il giusto per il peccatore.
Paga ‘l giusto pel peccatore.
Spesso sono gli innocenti che moralmente, materialmente, giudiziariamente ecc. scontano le colpe dei veri responsabili.
Pagare alla romana.
Vuol dire pagare ognuno per proprio conto quando si va in più persone al ristorante, al bar, al cinema. Non si conoscono le origini di questo detto.
Pagare lo scotto.
Deriva dalla parola di origine francone skot che significa tassa, contributo. Indicava in origine il contributo, spesso anche in natura, che si pagava per un servizio comune. Di qui acquistò anche il significato di vitto, come si deduce dalle frasi, non più usate, tenere a scotto (tenere a pensione), stare a scotto da uno (mangiare da uno).
Pancia piena non pensa a quella vuota.
Panza piena nun pensa a quella vota.
Constata e condanna l’indifferenza e l’incomprensione di chi ha verso chi non ha.
Parenti con parenti centottanta, quando il pane non c’è, l’arca non canta.
Parente con parente centottanta, quanno il pane nun c’è, l’arca nun canta.
Il proverbio mette insieme le due parole “centottanta“ e “canta” ai soli fini della rima.
Vuol dire che se non riesci da solo a provvedere ai tuoi bisogni non devi aspettarti aiuto dai parenti. Le incomprensioni fra parenti, i cattivi rapporti sono antichi come il mondo. Lo dice anche il Vangelo (Matteo, 10, 36): “Inimici hominis, domestici eius” (I nemici dell’uomo sono i suoi familiari).
Parere e non essere, è come filare e non tessere.
Vuol dire apparire solo come aspetto esteriore senza alcuna sostanza, cioè come se si avesse del filato che rimane inutile se non diventa un tessuto.
Parlare a nuora perché suocera intenda.
Parlà a nora perché socera ‘ntenda.
A volte, quando non si ha il coraggio di affrontare a viso aperto una persona, si fa finta di indirizzare i propri discorsi ad altri che stanno a sentire. Sappiamo bene che così facendo intendiamo rivolgerci proprio al soggetto che non vogliamo prendere di petto.
Si sa che tra suocere e nuore non corre sempre buon sangue, per questo il proverbio si serve di queste categorie di persone.
Parlare del diavolo e vedere spuntare le corna.
Parlà del diavolo e vedè spuntà le corne.
Si dice quando si sta parlano, bene o male, di una persona e in quel momento la si vede arrivare. Un proverbio analogo è: “Persona trista, nominata e vista”.
Parola detta e sasso lanciato non si riacchiappono più.
Parola detta e sasso lanciato nun se riacchiappono più.
Partita arrivata, non fu mai vinta.
Partita arrivata, nun fu mae vinta.
Significa che chi parte svantaggiato in una competizione di solito risulta perdente, anche se durante il percorsopuò guadagnare punti importanti.
Passata la cinquantina, un dolore per mattina.
Passata la cinquantina, ‘n dolore pe mattina.
Col passare degli anni il fisico va soggetto all’invecchiamento e a un progressivo mal funzionamento degli organi e delle altre parti del corpo, per ciò si dice che dopo i cinquant’anni i dolori si fanno sentire con maggior frequenza. Si dice anche: “Crescono gli anni e crescono i malanni”.
Passata la festa, gabbato lo Santo.
Terminata la festa, ci si dimentica del Santo, dunque è come se lo si fosse preso in giro.
Il proverbio vuol dire che certe manifestazioni celebrative sono superficiali e insincere, o anche che gli impegni assunti in certe circostanze gravi o solenni vengono spesso dimenticati appena la situazione è tornata normale.
La frase si usa per far notare l’ingratitudine di coloro che si mostrano premurosi e gentili, ma solo per interesse, e quando hanno ricevuto qualche favore non si curano più di chi li ha aiutati.
A questo proposito Fedro (Il lupo e la gru, Favole, I, 8) racconta la storia di un lupo malvagio che, in preda al dolore per un osso che gli si è conficcato nella gola, supplica una gru di toglierglielo promettendole una ricompensa. Cavato l’osso e scomparso il dolore, all’ingenua gru che aspetta la paga il lupo prepotente risponde beffardamente: “Che pretesa! Che ingratitudine. Non mi ringrazi neppure che non ti ho divorata?”. Chi si aspetta la ricompensa dai malvagi – dice il favolista – sbaglia due volte: prima perché aiuta gli indegni, poi perché non se la cava senza rischio.
Patti chiari, amicizia lunga.
Patte chiare, amicizia lunga.
L’amicizia è duratura se fondata sulla lealtà. Se gli accordi presi sono precisi non sorgeranno contrasti.
Si usa spesso come avvertimento di una delle due parti all’altra, al momento di fissare i reciproci impegni in affari, o anche in faccende di minor conto.
Peccato confessato è mezzo perdonato.
Se si riconoscono, le proprie colpe e i propri sbagli sono meno gravi. L’ammissione di colpa fa acquisire alcune attenuanti. L’espressione ricorre anche nel Decameron di Boccaccio (giornata I, novella IV).
Per anno novo ogni gallina ha il suo uovo.
Pe anno novo ‘gni gallina ‘l su ovo.
Il proverbio è preso dalla vita dei campi. Le galline dopo aver a lungo prodotto le uova attraversano un periodo, tra autunno inoltrato e l’inizio dell’inverno, in cui non sono produttive, ma riprendono a esserlo nei primi giorni dell’anno nuovo. Come le galline, vuol dire il proverbio, anche l’uomo, dopo essersi riposato negli ultimi giorni dell’anno, deve riprendere con lena le proprie attività.
Per Candelora dall’inverno semo fora.
(Ma si piove e tira vento semo a mezz’inverno).
Il 2 febbraio, giorno della presentazione di Gesù al tempio, è chiamato La Candelora e deriva da festum candelarum, la festa delle candele. Il detto si riferisce alla circostanza che in quel giorno, generalmente, la fase acuta dell’inverno, cioè i mesi di dicembre e gennaio, è già passata, salvo condizioni metereologiche particolari.
Per Pasqua ogni poeta busca.
Pe Pasqua ogne poeta (b)busca.
Il verbo buscare ha anche il significato di procurarsi qualcosa cercando e abbusco nel dialetto napoletano vuol dire “lucro, guadagno”.
Il detto deriva dall’antico uso, tuttora vivo in alcuni paesi, di persone che si improvvisano poeti e vanno per l’Epifania e per Pasqua di casa in casa recitando e cantando stornelli in rima come augurio di buona fortuna, ricevendo in cambio (buscando) qualche dono, per lo più cibarie.
Per San Benedetto la rondine sotto il tetto.
Pe Sam Benedetto la rondine sotto ‘l tetto.
L’arrivo delle rondini è considerato uno dei segni evidenti che è iniziata la primavera, che comincia appunto il 21 marzo, festività di San Benedetto. In quel giorno, di solito, le rondini sono arrivate nel nostro Paese.
Per San Martino ogni mosto è vino.
Pe San Martino ‘gni mosto è vino.
Nel Calendario liturgico la festa di San Martino ricorre l’11 novembre e in questi giorni il mosto tirato fuori dalle uve ha terminato la fase di fermentazione, si è trasformato in vino e si può consumare.
Un recente Decreto della Comunità Europea ha fisato al 6 novembre il giorno in cui il vino novello d’annata può essere messo in commercio.
Altro proverbio analogo dice: “Per San Martino si assaggia la botte del miglior vino”.
Per Santa Caterina si coglie l’oliva bianca e la nerina.
Pe Santa Caterina se cojje la (oliva) bianca e la nerina.
Nel Calendario liturgico della Chiesa cattolica, Santa Caterina si ricorda il 25 novembre. Secondo la loro esperienza, gli agricoltori che hanno coniato questo detto ritengono che da questo giorno in avanti sia possibile raccogliere le olive perché tutte le specie di color bianco (come il raggio, verde in realtà) e quelle di colore nero (come il morello) sono mature.
Per Sant’Ansano (1 dicembre), uno sotto e uno in mano.
Pe Sant’Ansano (1 dicembre), uno sotto e uno ‘n mano.
E’ un proverbio toscano e si riferisce allo scaldino, anzi a due scaldini perché uno solo non basta a riparare dal freddo intenso di dicembre.
Per settembre il fico è maturo e l’uva pende.
Pe settembre ‘l fico è maturo e l’uva penne.
Il proverbio indica che settembre è il mese in cui maturano molti frutti tardivi. In senso figurato vuol dire che a un certo punto, quando il tempo è maturo non si deve aspettare oltre per compiere un’azione, non si possono avere più esitazioni, né tentennamenti.
Per un punto Martin perse la cappa.
Pe ‘n punto Martin perse la cappa.
Si usa quest’espressione con riferimento a chi perde una opportunità o una grande occasione per un nonnulla. E’ legata alla storiella dell’abate Martino il quale, per dare il benvenuto agli ospiti, diede ordine di far incidere sulla porta del convento la scritta: “Porta patens esto. Nulli claudaris onesto”, che voleva dire: “Porta, stai aperta. Non ti chiudere davanti a nessuna persona onesta”. Senonché lo scalpellino commise il grossolano errore di mettere il punto non dopo la parola esto ma dopo nulli stravolgendo il significato della frase che venne così a significare: “Porta, non stare aperta per nessuno. Chiuditi di fronte alle persone oneste”. L’esatto contrario del linguaggio ospitale. L’abate Martino pagò l’errore dello scalpellino perdendo appunto la dignità della carica, cioè la cappa che portava in segno di distinzione.
Piano piano, dalla Rocca si va a Bardano.
Piano piano, da la Rocca se va a (B)Bardano.
Il modo di dire è nato forse più per esigenze di rima che per altro, dal momento che la distanza tra queste due piccole frazioni del comune di Orvieto non è molta e, quando si andava a piedi, poteva essere coperta agevolmente andando piano perché non ci si impiegava molto tempo.
Piantare baracca e burattini.
Piantà baracca e burattine.
Significa lasciare tutto improvvisamente e andarsene.
L’immagine è presa dal mondo degli spettacoli delle marionette e fa pensare a un povero burattinaio che invece di divertire annoia e che di fronte ai fischi del pubblico chiude il sipario e se ne va via.
Piglia marito che il bene è finito.
Pija marito che ‘l (b)bene è finito.
Vedi: “Dopo i confetti, si scoprono i difetti”.
Piglia moglie e azzecca bene che peggio non puoi star.
Pija mojje e azzecca (b)bene che peggio nun poe sta.
Vedi il proverbio precedente.
Poca brigata, vita beata.
Il proverbio viene usato per evidenziare che, quando non si è in molti, si vive e ci si diverte meglio.
Portare l’acqua con le orecchie.
Portà l’acqua coll’orecchie.
Vuol dire essere disposti a rendere tutti i servizi possibili. Essere così buono d’animo da fare qualsiasi cosa per la persona amata.
Predicare bene e razzolare male.
Predicà bene e razzolà male.
Vedi “Fare quello che ‘l prete dice… ”.
Predicatore che predichi in avvento, non predicar per me che non ti sento.
Predicatò che predichi ‘n avvento, nun predicà per me che nun te sento.
Il proverbio sta a significare che non si vogliono ascoltare e sentire certi discorsi e moniti ripetuti più volte. A chi non intende, è inutile predicare. Vedi anche “Non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire”.
Prendere due piccioni con una fava.
Pijà du piccione co na fava.
Significa ottenere due vantaggi in una volta sola.
La frase è presa probabilmente dal linguaggio dei cacciatori dei colombi selvatici ma non ci sono spiegazioni attendibili. L’espressione deriva probabilmente da un metodo, poco ortodosso, usato per cacciare i piccioni, mediante un filo a un’estremità del quale era assicurata una grossa fava secca. Una volta inghiottita l’esca, il volatile non era più in grado di espellerla, come il pesce che abbocca all’amo.
Prendere fischi per fiaschi.
Pijà fischie pe fiasche.
Significa prendere un abbaglio, una cantonata.
La locuzione è nata dalla somiglianza del suono di queste due parole facilmente confondibile. Per questo si usa per prendere in giro chi confonde le parole fidandosi di assonanze e di affinità casuali.
Vedi anche il proverbio “Prendere lucciole per lanterne”.
Prendere il mondo come viene.
Pijà ‘l monno come viene.
Accettare la sorte com’è senza volerla forzare.
Prendere il toro per le corna.
Pijà ‘l toro pe le corne.
In senso figurato significa affrontare una situazione con energia.
Dicono che il modo migliore per affrontare un animale cornuto sia quello di prenderlo per le corna per bloccargli la testa. Provare per credere.
Prendere le cose al volo.
Pijà le cose al volo.
Significa coglier le cose al volo, rapidamente, senza indugio, non lasciandosi sfuggire l’occasione propizia. In letteratura e nel linguaggio del cinema, l’espressione è stata tradotta “cogli l’attimo fuggente”. Si rifà al detto latino di Orazio (Odi, I 11,8) “carpe diem, quam minimum credula postero” (cogli l’oggi, vivi alla giornata, e nel domani credi il meno possibile). Saper godere del presente, ci insegna Orazio, è una grande virtù e una grande fortuna. Anche Seneca (Trattato sui terremoti, 32, 10) si esprimeva così: “Il tempo vola e abbandona coloro che non se ne saziano mai. Né il futuro è in mano mia né il passato; io sto sospeso all’attimo fuggente ed è gran cosa non esserne avido”.
Sulla scia di Seneca e Orazio, Lorenzo il Magnifico nel Trionfo di Bacco e Arianna ha scritto: “Com’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”. Una strofa gagliarda nella musicalità ma che nella sostanza fa a pugni coll’etica cristiana della vita eterna.
Anche Giuseppe Verdi ha affrontato quest’argomento ne La Traviata (Atto I, scena II): “Libiam nei lieti calici che la bellezza infiora e la fuggevol ora s’inebri a voluttà”.
Prendere le cose sottogamba.
Pijà le cose sottogamma.
Vuol dire prendere le cose con leggerezza, senza dar loro la dovuta importanza. Sembra che il proverbio sia nato dal gioco delle bocce. Un giocatore che voleva dare prova della sua abilità usava dire che avrebbe colpito il pallino tirando con il braccio fatto passare sotto la gamba. Siccome però spesso non ci riusciva fu coniato allora questo modo di dire con il significato di essere facilone, far le cose alla leggera.
Prendere lucciole per lanterne.
Pijà lucciole pe lanterne.
Gli Arabi antichi, di notte, accendevano nelle loro tende un lumicino tanto piccolo che illuminava appena. Avevano poco grasso e dovevano farne economia. Quando invasero l’Egitto, un gruppo di soldati si trovò, di notte, di fronte a uno sciame di lucciole, che in quel paese sono di non comune grandezza. I soldati, che vedevano per la prima volta simili insetti, ebbero la sensazione di trovarsi di fronte ad uno sterminato esercito che avanzava contro di loro al lume di minuscole lanterne e perciò fuggirono impauriti. Da allora si dice che uno “vede lucciole per lanterne” se scambia una cosa per un’altra.
L’espressione significa “equivocare”, “scambiare qualcosa per un’altra cosa solo apparentemente affine”. Compare già in un discorso di Girolamo Savonarola (Prediche sopra l’Esodo, II, 155): “(La lussuria) inebria l’uomo e fagli vedere lucciole per lanterne e non gli lascia conoscere la verità”.
Prendere un granchio.
Pijà ‘n granchio.
In senso figurato significa prendere un grosso abbaglio, fare un grave errore, prendere una cantonata, prendere una svista ecc… In origine questo modo di dire significava “provare una grande delusione” ed era un termine del gergo dei pescatori che, dopo aver gettato le reti con la speranza di rirare su qualche crostaceo pregiato, dovevano accontentarsi di un granchio di scarso valore.
Può darsi anche che derivi sempre dalla pesca ma dal modo di dire più antico pigliare un granchio per un gambero, cioè confondere a prima vista i due crostacei.
Prendere una cantonata.
Pijà na cantonata.
In senso figurato significa prendere un abbaglio, fare un grosso errore. Tommaseo (Dizionario della lingua italiana) spiega in questo modo: “Pigliare o prendere una cantonata dicesi di barroccio o simile, che svoltando troppo stretto, urti con il mozzo della ruota nell’angolo della strada. Nel figurato vale pigliare un grave errore, come chi inciampa in una cantonata. E’ moto che tiene della celia. ‘Certi deputati pigliano cantonate che non le piglierebbe un cieco”.
Prendere una cosa per oro colato.
Pijà ‘na cosa pe oro colato.
Tutti dobbiamo esaminare criticamente le cose e i fatti e non accettare tutto passivamente, come se tutto fosse bello, buono, utile e legittimo. Già Seneca ci ammoniva che: “La verità è accessibile a tutti (Patet omnibus veritas) (Lettera a Lucilio,33,11).
Prendere una scuffia.
Pijà ‘na scuffia.
Vuol dire innamorarsi pazzamente.
Sull’origine di questo modo di dire si fanno molte ipotesi. Secondo alcuni deriva dalla parola scuffia che nel dialetto milanese significa ubriacatura (Cherubini, Vocabolario milanese-italiano) e l’ubriacatura fa perdere il lume degli occhi. Secondo altri deriva dalla locuzione marinaresca far cuffia che indica il capovolgersi di una imbarcazione per effetto del vento. In questo senso chi si innamora perde il controllo e rischia di essere travolto.
Prenderla per Santa Maria del Piano.
Pijassela pe Santa Maria del Piano.
Fare le cose,o camminare, con calma esagerata, con eccessiva lentezza.
Il proverbio gioca sul doppio significato della parola “piano”, che come sostantivo vuol dire pianura e come avverbio è un sinonimo di lentamente.
Presto e bene non stanno assieme.
Presto e (b)bene nun stanno ‘nsieme.
Vuol dire che ogni lavoro ha bisogno del suo tempo, la fretta non permette di fare bene le cose.
Preti, frati e polli non si trovano mai satolli.
Prete, frate e polle nun se trovano mae satolle.
Il proverbio, di stampo anticlericale, sottolinea ironicamente che così come i polli hanno l’abitudine di beccare continuamente il cibo, così i preti e i frati questuanti sono continuamente a chiedere offerte alla gente per le opere di Chiesa.
Sulla cosiddetta avidità del clero ha ironizzato anche il poeta Gioacchino Belli (I regali di Natale a Papa e Cardinali):
“Mo entra una cassetta de torrone,
mo entra un barilozzo de caviale,
mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone,
e mmo er fiasco de vino padronale.
Poi entra er gallinaccio, poi l’abbacchio,
l’oliva dorce, er pesce de Fojjano,
l’ojjo, er tonno, l’anguilla de Comacchio”.
Preti, toscani e passeri, dove li trovi ammazzali.
Prete, toscane e passere, do le trove ammazzale.
Esprime un’avversione per alcune categorie di persone al punto da desiderare di sopprimerle come si fa a caccia delle specie di uccelli.
Promettere e mantenere è da paurosi.
Promette e mantenè è da paurose.
Promettere qualcosa è facile, mantenere la promessa, specie se ci comporta un impegno lungo nel tempo, è più difficile. In senso ironico, il proverbio sfida la lealtà dando un cattivo esempio a chi spavaldamente non cura di essere coerente.
Su questo tono Roberto Gervaso (La volpe e l’uva, 13, 2) che scrive: “Le promesse si possono anche fare purché, poi, si dimentichino”.
Provare, per credere.
Provà, pe crede.
Vedi: “Essere come San Tomasso”.
Q
Quale il padre, tale il figlio.
Quale ‘l padre, tale ‘l fijo.
Sostiene che i figli hanno le stesse caratteristiche (soprattutto morali) dei padri, e in genere serve come commento non favorevole.
Quando a Roma siam condotti, ognuno pensa per sé e Dio per tutti.
Questo adagio ironico cominciò a girare per le città d’Italia dopo il 1870, l’anno della breccia di Porta Pia e di Roma capitale, quando, benché non fossero molti a votare, iniziarono ad essere eletti deputati e senatori. Il detto, in effetti, che riecheggiava un proverbio francese (“Chacun pour soi, Dieu pour tous“) vuole stigmatizzare quei politici che, una volta eletti dal popolo, se ne infischiano delle promesse elettorali e si godono i vantaggi che il potere garantisce loro.
Quando c’è la salute, c’è tutto.
Quanno c’è la salute, c’è tutto.
E’ il convincimento della maggior parte delle persone perché la salute è il bene più prezioso della vita con la quale possiamo fare bene e volentieri tutte le altre cose.
E’ una frase tratta dalla commedia “Il Professor Papetti” del giornalista Luigi Arnaldo Vassallo rappresentata a Milano al teatro Manzoni il 13 dicembre 1889.
Quando il cocomero è maturo, il gambo è secco.
Quanno ‘l cocommero è maturo, ‘l gammo è secco.
Si dice ad una persona dalla pancia grossa, con allusione alla virilità perduta.
Quando il gatto non c’è, i sorci ballano.
Quanno ‘l gatto ‘n c’è, le sorce ballano.
Si dice per constatare che quando manca temporaneamente chi comanda, ed è perciò temuto, ognuno fa i propri comodi.
Quando la campana suona a festa, è segno che la domenica s’accosta.
Quanno la campana sona a festa, è segno che la domenica s’accosta.
Nei giorni festivi e prefestivi, in molti centri abitati le campane suonano con rintocchi festosi, in modo più solenne rispetto ai giorni feriali.
Quando la donna rimena l’anca, se non è puttana poco ci manca.
Quanno la donna rimena l’anca, si nun è puttana poco ce manca.
Secondo questo proverbio, quando una donna ha l’andatura troppo sinuosa potrebbe essere di facili costumi.
Quando la montagna mette il cappello, il pastore piglia l’ombrello.
Quanno la montagna mette ‘l cappello, ‘l pastore pijja l’ombrello.
Per cappello si intende un cerchio di nuvole nere che portano la pioggia.
Quando la nave affonda, i topi scappano.
Quanno la nave affonna, le tope scappano.
Si dice a proposito di chi fa il bravo nella sorte propizia ma se vede un rischio si allontana subito, fugge senza affrontarlo.
Anche in questo caso il riferimento originario è il favolista latino Fedro (I viandanti e il malandrino, V, 2) che raccontò di due soldati imbattutisi in un malandrino. Uno di essi fuggì mentre l’altro affrontò il brigante e l’uccise. Dopo che fu ucciso si ripresentò il soldato fifone facendo mostra di spavalderia e di coraggio ma il primo lo rimproverò non riconoscendo, anzi disprezzando, il suo comportamento privo di valore.
Quando la vedova si rimarita, è segno che la croce non è finita.
Quanno la vedova se rimarita, è segno che la croce nun è finita.
Vuol dire che anche nelle seconde nozze si ripetono le vicende delle prime, cioè l’alternanza tra gioie e dolori. Insomma le seconde nozze non sono tutte rose e fiori ma hanno, al solito, nuove spine. Vedi anche i proverbi “Piglia marito che il bene è finito “ e “Pglia moglie e azzecca bene che peggio non puoi star”.
Quando le rondini volono basse, è segno che piove.
Quanno le rondine volono basse, è segno che piove.
Ci sono tanti modi empirici di fare le previsioni del tempo molto cari ai nostri avi che presagivano l’arrivo del maltempo da una precisa collocazione di nuvole nere all’orizzonte, dall’acutizzarsi di dolori reumatici e delle ferite, ecc…. Uno di questi è appunto quello di osservare il volo degli uccelli, un po’ alla maniera dei vecchi aruspici.
Quando le tasche piangono, le scarpe ridono.
Quanno le saccocce piagnono, le scarpe ridono.
Il detto esprime una pessima situazione economica. Infatti, chi non ha soldi in tasca non può comperare capi di abbigliamento e calzature ed è costretto a vestirsi in malo modo e calzare scarpe che perdono le suola. Il distacco tra la tomaia e la suola delle scarpe è qui paragonato a una bocca aperta, che ride.
Quando l’oste è sulla porta, nell’osteria non c’è nessuno.
Quanno l’oste è su la porta, nell’osteria nun c’è nessuno.
Altrimenti starebbe all’interno a servire i clienti.
In senso figurato si adatta alle iniziative a cui sono state invitate più persone e non si è presentata nessuna, tantoché gli organizzatori stanno sulla porta ad aspettare.
Quando non c’è di meglio, con la moglie si va a letto.
Quanno ‘n c’è de meijo, co la moje se va a letto.
Si dice quando non si può fare altrimenti o non ci si può permettere altro.
Quando non c’è il guadagno, la remissione è certa.
Quanno ‘n c’è ‘l guadagno, la remissione è certa.
Chi intraprende attività economiche lo fa per guadagnare, altrimenti, è ovvio, rimette. Il pareggio non viene neppure considerato perché denota che l’impresa non è valsa la spesa, perciò il fallimento dell’obiettivo guadagno è una perdita secca, di tempo e di mancati introiti.
D’altro canto si dice: “Per niente neanche il cane muove la coda”.
Quando piove col sole i vecchi fanno all’amore.
Quanno piove col sole le vecchie fanno l’amore.
Commenta immaginosamente la rarità del fenomeno atmosferico.
Quando piove e maltemp’è, in casa d’altri non si sta ben.
Quanno piove e maltemp’è, ‘n casa d’altri nun se sta (b)ben.
Fa pensare all’altro detto “Casa, dolce casa”.
Quando piove e tira vento, il cacciatore perde tempo.
Quanno piove e tira vento, ‘l cacciatore perde tempo.
Perché la selvaggina rimane intanata e nascosta.
Quando si racconta, non è niente.
Quanno s’aricconta, nun è gnente.
Si riferisce ovviamente al racconto di uno scampato pericolo, di un incidente o di una disgrazia.
Quando sono troppi galli a cantare non si fa mai giorno.
Quanno so troppe galle a cantà ‘n se fa mae giorno.
Se molti (o troppi) pretendono di comandare o impartiscono ordini non si sa a chi obbedire e le imprese non si realizzano.
Questa verità era già nota al tempo dei Romani. Ce lo ricorda Tacito (Annales, I, 9, 6): “Non aliud discordantis patriae remedium fuisse quam ut ab uno regeretur” (nessun altro rimedio c’era stato alle discordie della patria che il governo di uno solo).
Quando tuona, da qualche parte piove.
Quanno tona, da qualche parte piove.
E’ come dire che ogni causa ha il suo effetto e, per esempio, che alle minacce possono seguire i fatti. Si dice anche: “Tanto tuonò, che piovve”.
Quattrini e santità, metà della metà.
Quatrine e santità, metà de la metà.
A chi racconta l’entità dei propri averi ed esalta le proprie virtù, bisogna fare la tara fino a metà della metà di quello che dice.
Quattr’occhi vedono meglio di due.
Quattr’occhie vedono mejo de due.
Il punto di vista di due o più persone riesce a far comprendere meglio tutti i vari aspetti e risvolti di una questione. Si vede e si giudica meglio, quando si è in più d’uno.
Quello che ha da venire non ha fatto mai male a nessuno.
Quel c’ha da venì ‘n ha fatto mae male a nessuno.
Nessuno sa cosa ci riserverà il futuro, sia che si tratti di cose belle o dolorose. Seneca diceva :“Non vi è nulla di più stolto che angustiarsi di quello che potrà accadere”. Un proverbio simile è: “Non bisogna fasciarsi la testa, prima d’averla rotta”.
Quello che ho nel cuore, ho sulla bocca.
Quello c’ho nel core, ho sulla (b)bocca.
Il proverbio deriva da una frase della lingua latina: “Ex abundantia cordis, os loquitur” (la bocca parla per l’abbondanza del cuore). Vuol dire appunto che uno si esprime con sincerità, esprimendo con le parole i sentimenti che prova.
Quello ch’è mio è mio e quello ch’è tuo è mio.
Si dice di chi cerca di far suo, avidamente e indebitamente, ciò che è degli altri.
Interpreta questa bramosia, in tono umoristico, la strofa del café-chantant:
“ Il tuo non è più tuo;
il mio non è più mio;
se producete voi,
debbo produrre anch’io?
Avete dei risparmi?
Embè, mettete cca…
Bisogna riconoscere
la Collettività !!”
Quello che non strozza, ingrassa.
Quello che nun strozza, ‘ngrassa.
Se una cosa non fa male, fa bene di sicuro. Si dice a chi è titubante a mangiare cibi igienicamente non curati e di aspetto non invitante.
Quello che non succede in un anno, succede in un giorno.
Quello che nun succede ne ‘n anno, succede ne ‘n giorno.
E’ un detto attribuito all’imperatore d’Austria Ferdinando I per evidenziare quanto sia improvviso e imprevedibile il succedersi degli avvenimenti.
Quello che non va nel manico, va nel canestro.
Quello che non serve a una cosa, serve ad un’altra.
Quello ch’è troppo, è troppo.
Vedi per analogia: “ ‘L troppo, stroppia”.
Quello e niente son parenti.
Quello e gnente so parente.
Si dice di una cosa talmente scarsa da rasentare il niente.
Questo e quello per me pari sono.
Il proverbio è ripreso anche in un’aria de Il Rigoletto di Giuseppe Verdi. Chi la canta non fa differenza tra una donna e un’altra.
Qui, gatta ci cova.
Significa che qualcosa non va, che sotto c’è un trucco, un insidia, un inganno.
Il Bianchini (Modi proverbiali e motti popolari, 63) spiega così la locuzione: “Quando il gatto ha posto gli occhi su qualcosa che cerca di rubare suole porsi in agguato aspettando il destro che nessuno lo veda”.
R
Raglio d’asino non arriva mai in cielo.
E’ un proverbio adoperato spesso da Martin Lutero contro i suoi avversari. E’ usato per indicare che la maldicenza presuntuosa degli sciocchine degli ignoranti non può nuocere al reale valore di qualcuno, non offende chi è superiore.
Ragno porta guadagno.
A parziale spiegazione di questa superstizione sono due leggende: la prima narra che per festeggiare la nascita di Gesù i ragni adornarono con una splendida tela la capanna di Betlemme; la seconda ha per oggetto la Sacra Famiglia che non sapeva dove nascondersi per sfuggire ai soldati di Erode. L’epilogo, per farla breve, vide Gesù, Giuseppe e Maria salvati da un provvidenziale ragno che, con una grande tela, celò alla vista degli sbirri l’ingresso della caverna dove si erano nascosti. Per questo, prima di ripartire, Giuseppe benedì il ragno dicendo: «Per la tua pietà sarai bene accolto nelle case dei cristiani, dove porterai fortuna e dove gli uomini ti risparmieranno».
Fino a qualche decina di anni fa, le tele di ragno rappresentavano il migliore e più economico emostatico. Da sole, o bagnate nell’olio di scorpione, le tele venivano poste sulle ferite affinché il sangue coagulasse e si rimarginassero velocemente.
Secondo alcuni, il liquido secreto dalla bocca dei ragni aveva proprietà medicamentose. Per ottenere questa preziosa "medicina", i ragazzi prendevano per una zampa i malcapitati e, minacciandoli, cantavano questa filastrocca: “Ragno, ragno bacucco, dammi una goccia d’acqua, se no, t’allucco). Se il ragno si faceva convincere, il ragazzino lo liberava, altrimenti gli staccava una zampa. Così, almeno, restando con sette, avrebbe portato fortuna. La proverbiale fortuna dei ragni veniva anche sfruttata per scoprire i numeri vincenti da giocare al lotto. Di solito, per farlo, si prendeva un ragno e lo si legava per una zampa, tenendolo sospeso su un sottile strato di sabbia. Dai segni che disegnava sulla rena, nell’improbabile tentativo di liberarsi, i giocatori, con fantasia e buona volontà, ricavavano i numeri da giocare.
Rendere pane per focaccia.
Rende pan per focaccia.
In senso figurato significa rispondere ad un’offesa con un’altra offesa o ingiuria.
Il proverbio viene dall’usanza che si aveva in campagna di scambiarsi non solo giornate di lavoro ma anche altri favori, come prestarsi il pane che non veniva fatto tutti i giorni e poteva capitare di aver bisogno di chiederne in prestito. A volte però anziché il pane veniva restituita una focaccia. Da qui il proverbio.
Restare con un palmo di naso.
Restà co ‘n palmo de naso.
Significa rimanere deluso, insoddisfatto, burlato, uscirne col danno e con le beffe.
La locuzione è da ricollegarsi forse a quel gesto di scherno, di derisione e di furbizia che si fa appoggiando sulla punta del naso il dito pollice tenendo la palma aperta e muovendola in senso rotatorio, cioè fare marameo.
Ride bene chi ride ultimo.
Vedi “Non dire quattro se non l’hai nel sacco ”.
Ridere, per non piangere.
Ride, per nun piagne.
A volte quando ci capitano tante contrarietà è meglio non prendersela troppo e far buon viso a tristo sorte. Questo vuol dire il proverbio. Anche Machiavelli la pensava così: “Però se alcuna volta io rido o canto facciol perché non ho se non quest’una via da sfogar il mi’ angoscioso pianto”.
Rispondere per le rime.
Risponne pe le rime.
La frase significa rispondere con la necessaria determinazione, a tono, ribattere punto su punto. E’ tratta dalla Poesia, cioè dalla produzione letteraria in versi che si contrappone alla Prosa.
I poeti medievali avevano l’abitudine di rispondere ad una poesia altrui scrivendone un’altra costruita sulle stesse rime.
Roba trovata e non consegnata, è come rubata.
Robba trovata e nun consegnata, è come ru(b)bata.
Se non si cerca il proprietario.
Rompere le uova nel paniere.
Rompe l’ova nel paniere.
Si dice di qualcuno che poco opportunamente si intromette per ostacolare l'operato di un'altra persona.
Rosso di sera bel tempo si spera; rosso di mattina la pioggia s’avvicina.
Rosso de sera (b)bel tempo se spera; rosso de mattina la pioggia s’avvicina.
Uno stesso colore del cielo in momenti diversi della giornata è segno di un cambiato andamento del tempo.
S
S’acchiappano più mosche con una goccia di miele che con un barile d’aceto.
Se chiappono più mosche con ‘na goccia de miele che con barile d’aceto.
Vuol dire che si raggiungono maggiori e più validi risultati usando buone maniere e mezzi concilianti anziché le maniere forti.
Salire al settimo cielo.
Salì al settimo celo.
Vuol dire essere felicissimo, provare gran contentezza, non stare in sé dalla gioia.
Il proverbio ha radici dalla concezione tolemaica dell’universo: Tolomeo divide la regione celeste in dieci cieli, retti ciascuno da un pianeta. Di questi solo i primi sette erano accessibili all’uomo, l’ottavo (cielo stellato), il nono (primo mobile) e il decimo (empireo) ai beati, agli angeli e a Dio. Perciò il settimo cielo rappresenta il punto massimo di beatitudine dell’uomo.
Salta chi zompa.
Mentre il ricco può liberamente operare secondo le sue scelte o voglie, il povero è schiavo delle sue limitate possibilità.
Saltare di palo in frasca.
Saltà de palo ‘n frasca.
Passare da un argomento all’altro in modo sconnesso, senza seguire un filo conduttore, come fanno gli uccelli che saltellano da un ramo ad un altro qualsiasi.
Il Manzoni (I Promessi Sposi, Cap.XXXVIII), nell’episodio in cui Agnese e Lucia tornano da Don Abbondio per parlare di nuovo del matrimonio dice del curato:.”Era sordo da quell’orecchio. Non che dicesse di no; ma eccolo di nuovo a quel suo serpeggiare, volteggiare e saltare di palo in frasca”.
Salvare capra e cavoli.
Salvà capra e cavole.
In senso figurato significa uscire incolumi da una situazione difficile o disagiata, riuscendo a mantenere interessi diversi o a conciliare opposte esigenze. Questo proverbio si basa sul noto racconto in cui un uomo doveva trasportare dalla riva di un fiume all’altra una capra, dei cavoli e un lupo. La barca che egli aveva a disposizione poteva trasportare oltre a lui solo un altro dei tre. L’uomo dovette essere accorto e organizzare il trasporto in modo tale da non lasciare la capra sola con i cavoli, né il lupo solo con la capra: egli trovò il modo riuscendo così a salvare sia la capra che i cavoli. Dapprima trasportò sull’altra sponda la capra e ritornò indietro. Prese quindi il lupo e iniziò il secondo trasbordo scaricando questa volta il lupo sull’altra sponda riportandosi indietro la capra. Prese quindi il cavolo, trasportò anche questo e tornò indietro a prendere per ultima la capra.
Salvarsi dai pidocchi rifatti.
Salvite da le pidocchje rifatte.
Già i romani ci hanno messo in guardia contro i comportamenti di coloro che dopo essersi arricchiti diventano superbi (oggi, diremmo, hanno la puzza sotto il naso). Ad esempio lo scrittore latino Orazio (Epodi, 4°) ha scritto: “licet superbus ambules pecunia, fortuna non mutat genus” (la fortuna non cambia l’origine).
Salvarsi per il rotto della cuffia.
Salvasse pel rotto de la cuffia.
In senso figurato significa riuscire a cavarsela con poco o nessun danno, cavarsela alla meglio, liberarsi da un impaccio. Deriverebbe dal gioco medievale del saracino o della quintana in cui il concorrente doveva colpire un bersaglio rotante senza farsi colpire a sua volta dal bersaglio stesso. Se il bersaglio colpiva il concorrente sulla cuffia (copricapo), il colpo (benché inferto) era ritenuto nullo.
Salvati che Dio ti salva.
Salvite che Dio te salva.
Vedi “Aiutati, che Dio t’aiuta”.
Santa Lucia è la giornata più corta che ci sia.
Il proverbio si dice tuttora, anche se in realtà questo valeva prima della riforma gregoriana del calendario, introdotta dal papa Gregorio XIII il 24 febbraio 1582.
Sant’Antonio dalla barba bianca, se non piove la neve non manca.
Sant’Antonio dalla barba bianca, si nun piove la neve nun manca.
La festa di Sant’Antonio abate (17 gennaio) cade in pieno inverno perciò è facile che la giornata sia contrassegnata dalle avversità atmosferiche proprie della stagione.
Sant’Antonio la gran freddura, San Lorenzo la gran callura,
l’una e l’altra poco dura.
Gennaio è considerato il mese più freddo dell’inverno e in esso cade la festività di Sant’Antonio abate. Analogamente, il solleone, cioè il periodo più caldo dell’anno, interessa solo i primi quindici giorni del mese di agosto in cui cade la festività di San Lorenzo (10 agosto).
Si tratta comunque di periodi climatici brevi.
San Giovanni non vuole inganni.
San Giovanne nun vole inganne.
Il detto si riferisce all’effigie del Santo Patrono di Firenze raffigurata sul Fiorino (la moneta coniata a Firenze in argento dal 1235 e in oro dal 1252), dietro il Giglio, rendendo il Protettore della città garante della lega metallica di cui era composta la moneta, che doveva contenere esattamente 3,54 grammi d’oro.
San Martino è la semina del poverino.
San Martino è la simenta del poverino.
Si dice così perché la semina del grano, la coltura di questo cereale in genere rende poco.
Saper fare anche gli occhi alle pulci.
Sapè fa anche l’occhie a le pulce.
Vuol dire essere capaci di fare anche le cose più delicate e minuziose. La pulce è un insetto di piccolissime dimensioni e doverne costruire gli occhi è proprio una gran impresa.
Sbaglia anche il prete sull’altare.
Sbaja anche ‘l prete sull’altare.
E’ pacifico che gli esseri umani sbaglino, ma acquista maggiore gravità in mezzo al popolo il fatto che cadano in errore anche i preti quando celebrano la Messa perché quell’atto che essi compiono sull’altare è chiamato “il sacrificio divino”.
Sbagliando, s’impara.
Sbajanno, s’empara.
Viene dal latino Errando, discitur.
Si usa come commento benevolo per errori propri o altrui, e come esortazione a non perdersi d’animo sulla via dell’apprendimento.
Sbagliare è umano
Sbajà è umano
E’ proprio della natura umana poter sbagliare, involontariamente, per ignoranza o anche deliberatamente.
Il profondo senso dell’umano ha trovato fin dall’antichità una degna espressione nel famoso verso di Publio Terenzio Afro (nato nel 190 a C): “Homo sum: humani nihil a me alienum puto” (Punitore, 77) (Sono uomo: quindi nulla di ciò che accade agli uomini lo ritengo estraneo a me).
Sbarcare il lunario.
Sbarcà ‘l lunario.
Significa campare stentatamente. In pratica significa dover fare tante cose con pochi mezzi.
Il Lunario è un almanacco popolare che riporta i mesi, i giorni dell’anno, i santi, le fasi lunari, le previsioni meteorologiche, fiere e mercati, cioè tante cose. Chi non conosce il Lunario Barbanera?
Scappare con i piedi fuori dal letto.
Scappà le piede fora del letto.
Avere cioè un letto piccolo, non della propria misura, perciò rimediato alla meglio. E’ sinonimo di essere povero. Non avere mezzi sufficienti.
Scherza coi fanti e lascia stare i Santi.
Scherza co le fante e lascia sta le Sante.
Significa che si può scherzare con cose profane ma non con quelle sacre, e anche prendere confidenza con le persone alla buona ma non con quelle superiori. Non si debbono prendere alla leggera le cose serie.
Scherzi di mano, scherzi da villano.
Scherze de mane, scherze da villane.
E’ grossolano e ineducato mettere le mani addosso agli altri anche per gioco.
Scoprire gli altarini.
Scoprì l’altarine.
In senso figurato significa scoprire segreti e marachelle di qualcuno e anche far sapere cose e discorsi che dovevano rimanere segreti. Viene usato per lo più in modo scherzoso. Il modo di dire è legato alle liturgie cristiane della Settimana Santa in cui l’altare, il tabernacolo e le immagini sacre vengono coperti con dei teli violacei in segno di lutto per la morte del Signore, panni che vengono poi tolti quando si annuncia la Risurrezione.
Scoprire un altare per rivestirne un altro.
Scoprì ‘n altare per rivestinne ‘n altro.
Vuol dire non aver mezzi sufficienti per far fronte a tutte le necessità e dover ricorrere perciò allo stesso strumento per fare più cose. In tempi di assoluta povertà uno stesso indumento poteva servire a più persone ecc…
Se a casa vuoi la pace, fa che la gallina canti e il gallo tace.
Si a casa voe la pace, fa che la gallina canta e ‘l gallo tace.
Tante volte, per favorire la pace e l’armonia familiare è opportuno che un coniuge non raccolga le provocazioni dell’altro.
Un proverbio veneto, riferito alla moglie, recita: “che la piasa, che la tasa, che la stia in casa” (che sia piacente, che stia zitta e che stia in casa).
Se canta il cuculo la mattina, la pioggia s’avvicina, se canta la sera si rasserena.
Si canta ‘l ciculo la mattina, la pioggia s’avvicina, si canta la sera s’arisserena.
Segreto di uno, segreto di Dio, segreto di due, segreto di tutti.
Segreto de uno, segreto de Dio, segreto de due, segreto de tutte.
Finché una cosa rimane dentro di noi la conosce solo Dio; certo è che quando un segreto lo abbiamo confidato non è più nostro e possiamo sempre temere qualche indiscrezione. Perciò il proverbio ammonisce che, se la confidenza è qualche volta necessaria, conviene essere accorti nella scelta del confidente per evitare che il segreto venga conosciuto da tutti, e quindi non sia più un segreto.
In quest’ultimo caso può sovvenire l’altro detto: ”Il segreto di Pulcinella”. Si sa che Pulcinella è una maschera napoletana che rappresenta l’uomo volgare, sciocco, leggero e chiacchierone, affidargli un segreto sarebbe una pazzia.
Se la donna non vuol, l’uomo non può.
Si la donna nun vole, l’omo nun pole.
Il proverbio dice che gli uomini si debbono rassegnare al volere delle donne, non solo negli affari domestici, ma anche in faccende di altro tipo. L’esatto contrario di quello che scriveva ai suoi tempi Cielo d’Alcamo: “Molte sono le femmine c’hanno dura la testa, e l’omo con parabole (= parole) l’adimina e amonesta (= le domina e ammonisce): tanto intorno procazzala (= la incalza) finché l’ha in sua podestà”.
Se la montagna non va da Maometto, Maometto andrà alla montagna.
Si la montagna nun va da Maometto, Maometto annarà a la montagna.
Si usa quando, se si vuole incontrare qualcuno che non si fa vedere, si decide di andarlo a trovare personalmente.
Si dice che questa frase, divenuta proverbiale, fu pronunciata da Maometto quando il profeta, sollecitato a compiere un miracolo, promise che l’avrebbe compiuto con l’aiuto di Dio, facendo spostare una montagna; si allontanò dal monte e cominciò a pregare, ma siccome la montagna non si spostava, Maometto le andò incontro, pronunciando la frase divenuta poi famosa.
Senza lilleri non si lallera.
Senza lillere nun se lallera.
Vuol dire che senza soldi non si fa nulla. E’ un proverbio di invenzione popolare.
Uno analogo è: ”Senza soldi non si cantano messe”.
Senza sacrificio non viene beneficio.
E’ un espressione rivolta come sprone a sacrificarsi e lottare per conseguire traguardi e mete importanti
Se piove il quattro aprilante, quaranta dì durante.
Si piove a le quattro aprilante, quaranta giorne durante.
Era credenza che le condizioni metereologiche dei primi quattro giorni del mese di aprile si sarebbero protratte per altri quaranta giorni.
Questo detto sembra inserirsi nei pronostici che riguardano la pioggia. Il numero quaranta era collegato con la pioggia già ai tempi del diluvio universale. Quaranta sono i giorni passati dagli ebrei nel deserto, quaranta i giorni del digiuno di Cristo, i giorni della quaresima, quelli tra la Resurrezione e l’Ascenzione e quelli da Natale alla Candelora.
Se sono rose, fioriranno.
Si so rose, fioriranno.
La pianta si riconosce dal frutto.
Esprime una dubbiosa sospensione di giudizio di fronte a situazioni ancora incerte; se ne giudicherà dagli sviluppi e dagli effetti.
L’espressione è affine a quanto si legge nel Vangelo di Luca (6, 44): ”Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo”. Nel Vangelo di Matteo (7, 16) si legge inoltre: “Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine?, o fichi dai rovi?”.
Anche Dante nella Divina Commedia dice: “Se non mi credi, pon mente alla spiga, ch’ogn’erba si conosce per lo seme” (Purgatorio, XVI, 112-113).
Se vedete la nespola, tremate….
La spiegazione sta nell’ultima parte del proverbio: ”perché è l’ultimo frutto dell’estate”; poi verrà l’autunno e quindi l’inverno con il suo carico di miseria e fame legata alla mancanza di prodotti della terra.
Se vuoi che il tempo dura, scirocco chiaro e tramontana scura.
Si voe che’l tempo dura, scirocco chiaro e tramontana scura.
Un proverbio simile è riportato anche dal Verga ne I Malavoglia (I, 15) con la variante “… mettiti in mare senza paura”.
Se vuoi che l’amicizia tenga, una mano vada e l’altra venga.
Si voe che l’amicizia tenga,’na mano vada e l’altra venga.
Al mondo l’amicizia duratura dev’essere alimentata con scambi reciproci di doni, di cortesie e di rapporti sinceri.
Se vuoi scacciare un amico, carne di troia e legno di fico.
Si voe scaccià ‘n amico, ciccia de troja e legno de fico.
Se invitiamo un amico a casa nostra vuol dire che desideriamo la sua compagnia e per dimostrargli la simpatia cerchiamo di fare del nostro meglio per farlo star bene. Questo proverbio sconsiglia di offrirgli però la carne di troia, perché è quella che cuoce più tardi di tutte e di mettere sul fuoco il legno della pianta di fico perché è un’essenza poco adatta alla combustione, brucia molto lentamente e scalda poco.
Se vuoi vedere una donna da poco, mettila ad accendere il fuoco.
Si voe vedè na donna da poco mettela a accenne ‘l foco.
Nell’Odissea quello di saper accendere il fuoco è un vanto di Ulisse e nessuno in ciò potrebbe contendere con lui.
Si capisce dal brodo che sei pecora.
Se capisce dal brodo che see pecora.
Capisco chi sei da come ti presenti.
Si chiude una porta e si apre un portone.
Se chiude ‘na porta e s’apre ‘n portone.
Il proverbio ha un tono consolatorio e sta a significare che dopo un periodo che chiude un’esperienza se ne apre uno ancora più positivo. E’ un invito ad avere fiducia in se stessi.
Si parla del diavolo e spuntano le corna.
Se parla del diavolo e spuntono le corne.
Si dice di una persona che appare proprio nel momento in cui si sta parlando di lei.
Si sa quando si nasce, non si sa quando si muore.
Se sa quanno se nasce, nun se sa quanno se more.
Nel Vangelo di Luca (12, 39-40) è riportata la parabola cosiddetta della vigilanza: “ Sappiate bene questo: se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate”.
Sul quadrante dell’orologio della torre sinistra del duomo di Monreale c’è una scritta che ammonisce Tuam nescis, la tua (ora) non conosci. L’ora di morire.
Sono inviti a pensare per tempo alle sorti dell’al di la.
Si stava meglio, quando si stava peggio.
Se stava mejo, quanno se stava peggio.
E’ un’espressione molto usata da quelle persone che preferiscono i costumi del passato rispetto all’andamento del presente, specialmente per quanto attiene i costumi morali e la politica. Questi individui, che sono sempre esistiti, i latini li chiamavano laudatores temporis acti (stimatori del tempo passato). Un esempio lo troviamo nella favola di Fedro (Il cane, il cinghiale e il cacciatore), ove si dice: ”Puoi lodare quello che fu se ora biasimi il presente” (Quod fuimus, lauda, si iam damnas quod sumus).
Stai zitta, lingua, se no ti taglio.
Sta zitta, lingua, si no te tajo.
L’espressione deriva dall’abitudine in uso nell’Impero Romano d’Oriente di infliggere cioè la punizione del taglio della lingua agli imperatori spodestati ed ai loro congiunti o alleati. Il taglio avveniva di traverso, a mò di lingua biforcuta. Dopo una pratica del genere si poteva ancora parlare (sempre se si sopravviveva, dato che non ci doveva essere molto rispetto per le norme igieniche), ma la parola era deformata grottescamente. Il vero danno perciò non era quello fisico ma quello morale.
A volte, anche se siamo arrabbiati con qualcuno, preferiamo scegliere di essere prudenti, per evitare, parlando, di compromettere i rapporti. Scriveva la poetessa greca Saffo: “Quando la collera preme nel petto, trattenere la lingua insolente” (Libro incerto, 137). Gli faceva eco Alceo: “Se dici ciò che vuoi, potresti udire a tua volta ciò che non desideri” (Libro incerto, 33).
Strada buona non fu mai lunga.
Strada ( b)bona nun fu mae lunga.
Allude alle cose che non presentano grossi impegni e difficoltà e che, se anche lunghe e impegnative, non fanno sentire il peso e la fatica, come appunto è facile camminare a lungo e senza stancarsi lungo una strada pianeggiante e non tortuosa.
Strada facendo, si aggiusta la soma.
Strada facenno, s’aggiusta la soma.
Il proverbio, in senso figurato, vuol dire fare le cose con giusta misura, in modo equilibrato, riuscendoci anche a poco a poco. Significa anche che lavorando si impara a vincere le difficoltà. L’esempio è preso dal carico (soma) posto sulla groppa di un quadrupede e che durante il viaggio viene distribuito in identica quantità da una parte e dall’altra per agevolare l’andatura dell’animale.
Sui gusti non si “sputa”.
Su le guste nun ce se “sputa”.
Sta a significare che in fatto di gusti ognuno ha i propri, e ha diritto di averli, perciò non bisogna discuterne.
Il proverbio è in realtà una storpiatura del detto latino De gustibus non est disputandum, e cioè sui gusti non si può discutere. Si dice anche “Tutti i gusti sono gusti”.
Sull’oro non attacca ruggine.
Sull’oro nun c’attacca ruggine.
L’oro è un metallo prezioso che non può essere rovinato da sostanze ossidanti e distruttive.
L’espressione si usa per dire che le maldicenze non riescono ad intaccare l’onorabilità di una persona conosciuta per la sua rettitudine e moralità.
Sul piatto dove si mangia, non ci si sputa.
Sul piatto do se magna, ‘n ce se sputa.
Vuol dire che non è da saggi disprezzare le cose che sono utili per la nostra vita come, ad esempio, il lavoro che ci da da vivere. Il paragone è preso dal gesto volgare, per quanto irreale, di lordare con gli sputi le stoviglie che ci servono per mangiare.
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Tanto a vespero che a massa cantata.
Tanto a vespro che a massa cantata.
Il vespero è una preghiera che si recita il tardo pomeriggio mentre la messa cantata di solito si celebra al mattino. Il proverbio può quindi voler dire che se una cosa va fatta è bene farla subito senza rimandi, cioè senza rimandare a domani quello che potremmo fare anche oggi stesso.
Tanto è ladro chi ruba che chi tiene il sacco.
Tanto è ladro chi ru(b)ba che chi tiene ‘l sacco.
Entrambi sono complici di un medesimo misfatto.
Tanto fumo e niente arrosto.
Tanto fumo e gnente arrosto.
Molta apparenza e poca sostanza.
Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.
Il proverbio è desunto dalla vita degli animali domestici, in particolare dei gatti che sono molto golosi di tutto quello che è grasso.
Se la gatta va troppe volte a rubare il lardo, verrà il momento che la zampa sarà presa nella trappola.
Si dice per avvertire del rischio crescente che si corre nel ripetere troppo volte imprese azzardate, pericolose ecc. , e soprattutto se condannabili.
Tenere il coltello dalla parte del manico.
Tenè ‘l coltello da la parte del manico.
Il galateo insegna che quando si dà un coltello, si deve darlo dalla parte del manico, per evitare che la persona a cui si porge possa tagliarsi, ma anche per un’altra ragione: sembrerebbe, altrimenti, che facessimo il brutto gesto di voler ferire. Solo chi tiene il coltello impugnandone il manico è in condizione di ferire. Perciò si dice “tenere il coltello per il manico” nel senso di avere la sicurezza di vincere.
Tenere il piede in due staffe.
Tenè ‘l piede su du staffe.
Le staffe, com’è noto, sono quegli arnesi di ferro che pendono dalla sella e dove chi va a cavallo infila i piedi. Dapprima questa frase significava stare saldamente a cavallo e, per estensione, avere una situazione solida, sicura, in qualsiasi cosa. Poi ha mutato significato e oggi vuol dire non sbilanciarsi, non prendere alcun partito, mantenersi prudentemente fuori da competizioni e questioni pericolose: e si dice con disprezzo.
Fonte: http://digidownload.libero.it/urbani.ccu/Proverbi%20definitivo.doc
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