Contratti di inserimento

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Contratti di inserimento

I CONTRATTI D’INSERIMENTO DOPO L’ACCORDO INTERCONFEDERALE

La sottoscrizione dell’accordo interconfederale avvenuta l’11 febbraio 2004 consente di attivare una nuova tipologia contrattuale prevista al Capo II del Titolo VI del D. L.vo n. 276/2003. Si tratta del contratto di inserimento destinato a realizzare, attraverso un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro di alcune categorie di lavoratori.
Vale la pena di sottolineare come il contratto di inserimento non vada a sostituire il contratto di formazione e lavoro (al limite, l’erede sarà rappresentato, anche per quale che concerne gli incentivi, dal c.d. “apprendistato professionalizzante” che prevede limiti di età per i giovani compresi tra i diciotto ed i ventinove anni), ma sia una nuova tipologia contrattuale destinata a favorire i soggetti di difficile inserimento sul mercato del lavoro. Infatti lo stesso, pur essendo previsto anche per la fascia di giovani al di sotto dei ventinove anni, non comporta per i datori di lavoro che intendono assumere tali soggetti, benefici contributivi.
Ovviamente, in questo momento, i contratti di inserimento, pur se riferiti alle assunzioni di quella fascia di giovani per i quali non sono previste agevolazioni di natura previdenziale, possono avere un loro “appeal” atteso che i datori di lavoro (quanto meno per i soggetti di età superiore ai 29 anni che non si possono assumere con rapporto di apprendistato, non essendo in vigore la nuova normativa) ricorrono sovente per le loro necessità, ai contratti a termine ex d.l.vo 368/01, rispetto ai quali non c’è la possibilità di erogare una retribuzione inferiore di 2 livelli rispetto alla categoria spettante.
C’è, poi, mettere in evidenza come, rispetto ai contratti di formazione e lavoro, la fase formativa assuma una minore importanza: lì c’era un progetto approvato da organi collegiali o di origine sindacale a ciò deputati (es. commissione regionale tripartita, enti bilaterali, ecc.) che aveva un proprio svolgimento durante l’arco temporale della formazione, qui c’è un progetto individuale definito con il consenso del lavoratore, finalizzato a garantire l’adeguamento della professionalità di quest’ultimo al contesto lavorativo.
L’esame dell’accordo, correlato alle novità specifiche dell’articolato legislativo, consente di focalizzare alcune problematiche e soluzioni riferite al nuovo istituto.
La prima conseguenza derivante dalla sigla del verbale è che a partire dall’ 11 febbraio 2004, possono essere stipulati da tutti i datori di lavoro contratti di inserimento. L’accordo interconfederale che, peraltro, trova la propria ragion d’essere nell’art. 86, comma 13, del D. L.vo n. 276/2003, attraverso il quale le parti sociali sono abilitate a gestire il c.d. “regime transitorio” e ad attuare i rinvii alla contrattazione collettiva, ha, per espressa disposizione delle parti, una valenza transitoria e, in ogni caso, sussidiaria rispetto alla contrattazione collettiva di settore. Esso trova giustificazione nella necessità di trovare una soluzione di continuità nelle assunzioni, soprattutto dei lavoratori di difficile collocazione, particolarmente urgente dopo la fine dell’istituto del contratto di formazione e lavoro. I contraenti si sono posti il problema della durata dell’accordo: essa è, per così dire “variabile”, nel senso che cessa nel momento in cui la contrattazione collettiva di settore, postulata dall’art. 55, comma 2, disciplinerà le modalità di definizione dei piani individuali di inserimento e detterà gli orientamenti, le linee – guida ed i codici di comportamento finalizzati ad agevolare l’inserimento del lavoratore nella struttura produttiva.
Ma per quali soggetti è possibile attivare il contratto di inserimento?
Qui la disposizione legislativa è chiara (pur se gli effetti, sotto l’aspetto del “bonus contributivo” sono diversi):

  1. i lavoratori di età compresa tra i diciotto ed i ventinove anni. Vale la pena di ricordare come per un indirizzo amministrativo costante del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali espresso più volte in situazioni analoghe, quando si parla di limite massimo di età ci si riferisce al giorno del compimento dello stesso;
  2. i disoccupati di lunga durata da ventinove fino a trentadue anni. L’accordo interconfederale, riprendendo quanto esplicitato nell’art. 2 del D. L.vo n. 297/2002 afferma che con tale definizione ci si riferisce a coloro che, dopo aver perso un posto di lavoro o cessato un’attività di lavoro autonomo, siano alla ricerca di una nuova occupazione da più di dodici mesi. La disposizione legislativa parla soltanto di disoccupati (e, conseguentemente, l’accordo non poteva fare altrimenti) ma è opportuno sottolineare come il D. L.vo n. 297/2002 parli anche di “inoccupati di lunga durata” i quali sono coloro che, senza aver svolto un’attività lavorativa, siano alla ricerca di un’occupazione da più di dodici mesi. Ebbene, a stretto tenore letterale, sembrerebbe che il contratto di inserimento non possa riferirsi a tali soggetti, anche se, regole di buon senso, attivabili anche con un chiarimento amministrativo, potrebbero portare ad una soluzione positiva;
  3. i lavoratori ultracinquantenni privi del posto di lavoro;
  4. i lavoratori che intendano riprendere un’attività e che non abbiano lavorato negli ultimi due anni. La disposizione appare finalizzata a favorire il reingresso, ad esempio, delle lavoratrici dopo la maternità;
  5. le donne di qualsiasi età residenti in aree geografiche ove il tasso occupazionale sia inferiore almeno del 20% a quello maschile o nelle quali il tasso di disoccupazione femminile superi del 10% quello maschile. Qui, la individuazione delle aree geografiche è rimessa ad un decreto “concertato” tra il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali e quello dell’Economia e Finanze che, al momento, non è stato ancora emanato;
  6. le persone affette da handicap psico – fisico o mentale e come tali riconosciute da una commissione medica pubblica.

Continuando l’esame correlato tra l’accordo e la disposizione legislativo occorre soffermarsi sul comma 2 dell’art. 54 che individua le categorie dei datori di lavoro che possono stipulare contratti di inserimento. Nella vasta gamma individuata (Enti pubblici economici, imprese, loro consorzi, gruppi di imprese, associazioni professionali, socio – culturali e sportive, Fondazioni, Enti di ricerca pubblici e privati, organizzazioni ed associazioni di categoria) non sono stati ricompresi dal Legislatore delegato, i professionisti, cosa che sotto l’aspetto puramente razionale, appare poco comprensibile.
Nella premessa dell’accordo le parti condividono l’obiettivo di ottimizzare la prescrizione legislativa che subordina la possibilità di nuove assunzioni con contratto di inserimento al mantenimento in servizio di almeno il 60% dei lavoratori il cui contratto sia venuto a scadere nei diciotto mesi precedenti. In tale ottica, si è convenuto che la contrattazione di settore individui forme di stabilizzazione anche nell’ambito dei futuri provvedimenti “incentivanti”.
Ma come si calcola la percentuale del 60%?
Nel computo non vanno compresi i lavoratori dimissionari, i licenziati per giusta causa, coloro che hanno visto il proprio rapporto risolto durante o al termine del periodo di prova, i soggetti che abbiano rifiutato la trasformazione a tempo indeterminato, nonché i contratti di inserimento non trasformati in numero non superiore a quattro (quest’ultima si inserisce in un’ottica finalizzata a favorire questa tipologia contrattuale). Rientrano nel computo,  in qualità di  mantenuti in servizio, quei lavoratori il cui contratto di inserimento sia stato trasformato a tempo indeterminato durante lo svolgimento. Tutte queste disposizioni (contenute nel comma 3 dell’art. 54) non trovano applicazione se nell’anno e mezzo precedente sia scaduto un solo contratto di inserimento.
Su questo argomento si rendono necessarie alcune riflessioni.
La prima è che la disposizione di per se stessa non è nuova nel nostro ordinamento. Essa ripete, pressochè integralmente, quella, a suo tempo, prevista per i contratti di formazione e lavoro dall’art. 8, comma 6, della legge n. 407/1990.
La seconda concerne la base di calcolo. La disposizione afferma che oltre a coloro che si sono dimessi (per i quali è necessario che risulti la rinuncia del lavoratore) non rientrano i licenziati per giusta causa che è quella che non consente la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto. Ad avviso di chi scrive, la non computabilità di questi ultimi è sostenibile fino al momento in cui una sentenza del giudice di merito ne dichiari la illegittimità. Ovviamente, il discorso, valido da un punto di vista teorico, può avere effetti pratici diversi se si tiene conto della possibile soluzione della controversia giudiziale.
La terza considerazione riguarda gli eventuali licenziamenti di lavoratori con contratto di inserimento avvenuti per giustificato motivo oggettivo, giustificato motivo soggettivo o procedure collettive di riduzione di personale: stando al tenore letterale della norme sembra che gli stessi rientrino nella base di calcolo.
La quarta riflessione riguarda il rifiuto della conversione e la risoluzione del rapporto durante la prova: nel primo caso è opportuno che risulti agli atti l’espressa rinuncia del lavoratore, nel secondo il Legislatore delegato ha, opportunamente, preso in considerazione il fatto che il rapporto non è stabilizzato, essendo sottoposto alla condizione libera del recesso a favore di ambedue le parti.
Il punto 3 dell’accordo riguarda la forma del contratto di inserimento e va letto in correlazione con gli articoli 56 e 57 . Il contratto deve essere stipulato per iscritto, deve contenere il progetto individuale ed, inoltre, la carenza della forma scritta determina la nullità del contratto con la conseguenza che il lavoratore si intende assunto sin dall’inizio a tempo indeterminato. Ciò, indubbiamente, è rilevabile anche attraverso l’attività ispettiva di un organo di vigilanza, cosa che comporta il disconoscimento degli sgravi contributivi, con tutte le conseguenze connesse.
L’accordo ricorda quali sono gli elementi essenziali che vanno inseriti nel contratto:

  1. la durata: la norma prevede che esso si svolga in un arco temporale compreso tra i nove ed i diciotto mesi, cosa che, a regime, potrebbe consentire alla contrattazione collettiva di settore di “tararne” la durata in ordine alla complessità del progetto individuale ed alla qualifica finale di inserimento. L’arco temporale del rapporto può arrivare fino a trentasei mesi qualora siano coinvolti i portatori di handicaps psico – fisici o mentali. Dal limite massimo di durata sono esclusi il servizio di leva e quello civile, e quello di astensione per maternità. Queste previsioni di non computabilità di tali periodi già si trovano, per effetto di un’interpretazione amministrativa che risale al 1959 (cir. Min . Lavoro n. 196/1959), in essere per gli apprendisti. Il contratto di inserimento non è rinnovabile ma può essere prorogato nel limite di durata massima (diciotto mesi o trentasei mesi per i portatori di handicap). La norma legislativa parla di “proroghe” al plurale: quindi le stesse possono essere più di una (sempre nel tetto massimo) e qui, come si vede, c’è una differenza con quanto prevede il D. L.vo n. 368/2001 per i contratti a termine ove la proroga è una soltanto. Ad avviso di chi scrive, le proroghe  devono trovare una loro motivazione sulla base del progetto individuale di inserimento. La non rinnovabilità del contratto di inserimento non esclude la possibilità, in presenza di presupposti individuabili nel progetto, di una nuova stipula con altro datore di lavoro. In ordine alla durata l’accordo afferma che nel caso di reinserimento di soggetti aventi una professionalità compatibile con il nuovo contesto organizzativo, possono essere previste, da parte della contrattazione collettiva di settore, periodi temporali minori rispetto alla durata massima, alla luce delle competenze possedute dal lavoratore;
  2. l’eventuale periodo di prova: l’accordo afferma che qualora le parti ritengano di doverlo porre, ex art. 2094 c.c., occorre far riferimento al contratto collettivo applicato ed al livello di inquadramento attribuito al lavoratore;
  3. l’orario di lavoro: esso va determinato in base al contratto collettivo. Ovviamente, ciò vale anche nell’ipotesi in cui il contratto di inserimento sia a tempo parziale: in questo caso, se la pattuizione collettiva prevede un “minimum” orario, al di sotto di quello non si può scendere;
  4. il livello di inquadramento: il lavoratore può essere inquadrato anche in due livelli contrattuali inferiori rispetto alla categoria che, secondo il contratto collettivo, spetta ai lavoratori addetti a mansioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al conseguimento delle quali è preordinato il progetto. La norma di per se stessa non è nuova (nel D. L.vo n. 276/2003 si trova anche per l’apprendistato): in passato, sia pure limitatamente ad un solo livello inferiore, era previsto anche per il contratto di formazione e lavoro;
  5. il trattamento di malattia e di infortunio non sul lavoro: le parti hanno stabilito il mantenimento del trattamento economico e la conservazione del posto in misura proporzionale rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato e, comunque, non inferiore a settanta giorni;
  6. il progetto individuale di inserimento: va definito con il consenso del lavoratore e deve garantire l’adeguamento delle competenze professionali rapportate al contesto lavorativo ove lo stesso va ad inserirsi, con valorizzazione della professionalità. Nel progetto vanno specificate sia la qualificazione che la durata e le modalità della formazione

Una riflessione si rende necessaria anche su quanto appena detto.
Sia l’accordo interconfederale che il decreto legislativo non pongono limiti (“in basso”) alle qualifiche contrattuali per le quali è possibile stipulare contratti di inserimento.
Ma quali sono gli incentivi in favore dei datori di lavoro che assumono con contratto di inserimento?
L’art. 59, comma 3, del D.L.vo n. 276/2003 afferma che in attesa dei “benefits”previsti dalla futura riforma degli incentivi all’occupazione quelli previsti dalla disciplina vigente per i contratti di formazione e lavoro trovano applicazione per tutti i soggetti potenzialmente interessati al contratto di inserimento, ad eccezione dei giovani compresi tra i diciotto ed i ventinove anni. Ciò significa, ad esempio, che nelle c. d. “aree svantaggiate” ubicate soprattutto nel Meridione, lo sgravio contributivo dovrebbe essere prorogato per dodici mesi, nell’ipotesi in cui con la trasformazione si realizzi un incremento occupazionale
Il riferimento ai contratti di reinserimento operato sia dall’accordo interconfederale che dall’art. 54, comma 5, è da intendere anche per l’aspetto contributivo. Infatti, il comma 5, ricorda che “restano in ogni caso applicabili, se più favorevoli, le disposizioni di cui all’art. 20 della legge n. 223/1991, in materia di contratto di reinserimento dei lavoratori disoccupati”. Esso va rapportato, probabilmente, alla contribuzione che è ridotta del 75% per gli assunti con contratto di reinserimento (che, però, nella legge n. 223/1991 sono a tempo indeterminato) per un periodo di dodici, ventiquattro o trentasei mesi se il lavoratore interessato si trova disoccupato rispettivamente per un periodo inferiore a due anni, da due a tre anni e da più di tre anni, Il datore di lavoro ha facoltà di optare per l’esonero dell’obbligo delle quote di contribuzione a proprio carico nei limiti del 50% della misura del 75% (ossia del 37,5%) per un periodo pari a quello di effettiva disoccupazione e non superiore a sei anni. Ovviamente, nel nostro caso, anche la contribuzione agevolata va rapportata al periodo temporale previsto dal contratto.
L’accordo prevede una formazione teorica non inferiore a sedici ore, ripartita tra nozioni di antinfortunistica (impartite nella fase iniziale del rapporto), lineamenti sul rapporto di lavoro e l’organizzazione aziendale accompagnata da fasi di addestramento specifico, impartite anche con modalità di e – learning, in funzione dell’adeguamento delle capacità professionali.
L’art. 55, comma 4, prevede che i risultati della formazione effettuata durante l’esecuzione del rapporto di lavoro vanno registrati nel libretto formativo che dovrà essere previsto per tutti i lavoratori in “formazione”: esso dovrà essere emanato d’intesa tra il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali e quello dell’Istruzione al termine di un iter procedimentale che vede coinvolte, a vario titolo, la Conferenza Stato – Regioni e le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori. Ebbene, in attesa dell’emanazione del provvedimento, le parti sociali hanno da un lato ribadito il loro impegno a fornire ai Ministeri competenti il proprio parere e, dall’altro, hanno stabilito che il datore di lavoro (o un suo delegato) effettuino in azienda le registrazioni, anche avvalendosi degli indirizzi individuati, nel frattempo, dai Fondi interprofessionali per la formazione continua.
Ma cosa succede se il progetto individuale di inserimento non si realizza?
Il comma 5 dell’art. 55 afferma che in caso di “gravi inadempienze” imputabili al datore di lavoro la sanzione è rappresentata dal versamento della “quota dei contributi agevolati maggiorati del 100%”. Così come è scritta la disposizione non consente alcun intervento autoritativo dell’organo di vigilanza finalizzato, in caso di grave inadempienza, ad una possibile trasformazione “ab initio “ del rapporto a tempo indeterminato. Ciò è possibile, soltanto, per espressa disposizione legislativa (art. 56, comma 2) in caso di carenza di forma scritta. L’unica sanzione amministrativa è quella relativa al doppio della quota dei contributi agevolati che, stando al tenore letterale della norma, appare alquanto lieve. Vale la pena di ricordare, per completezza di informazione, che tale sanzione (si ripete, legata a “gravi inadempienze”) non risulta applicabile in quelle ipotesi in cui il contratto di inserimento si applica ai giovani di età compresa tra i diciotto ed i ventinove anni, per i quali, in virtù dell’art. 59, comma 2, non trova applicazione alcun beneficio contributivo.
C’è, poi, da esaminare con attenzione la disposizione contenuta all’art. 59, comma 2, relativa alla non computabilità dei contratti di inserimento, soprattutto in relazione alla vecchia disciplina dei contratti di formazione e lavoro. Afferma la disposizione che “fatte salve specifiche previsioni di contratto collettivo, i lavoratori assunti con contratto di inserimento sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative ed istituti”. Ovviamente, trattandosi di un istituto nuovo e non avendo, l’accordo interconfederale, statuito alcuna eccezione (cosa possibile, atteso che il Legislatore delegato ha rimesso tale possibilità alla pattuizione collettiva), si può affermare che, al momento, i contratti di inserimento non rientrano nel computo di alcun istituto (cosa che, del resto, era già prevista dall’art. 20 della legge n. 223/1991 per i contratti di reinserimento). La cosa è particolarmente  evidente se si pensa all’art. 18, comma 2, della legge n. 300/1970, ove ai fini del calcolo dei dipendenti per la individuazione, in caso di licenziamento individuale, della c.d. “tutela reale” o della c.d. “tutela obbligatoria”, si contavano i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, né, ad avviso di chi scrive, è possibile giungere ad una interpretazione analogica o “traslata” per qualche richiamo che è, però, riferito a disposizioni diverse.
Il punto 8 dell’accordo interconfederale da riferimento ad una serie di diritti disposti in favore dei lavoratori con contratto di inserimento: si tratta di diritti relativi alla utilizzazione di servizi aziendali come la mensa ed i trasporti, alle indennità ed alle maggiorazioni contrattuali (lavoro a turni, notturno, festivo, premio di produzione, ecc.). Esso si inserisce in una serie di diritti riconosciuti dall’art. 58, ove si afferma che spetta ai contratti collettivi, anche territoriali, stabilire le percentuali massime dei lavoratori da assumere con contratti di inserimento (ma, al momento, l’accordo interconfederale non ha stabilito alcun limite). La stessa disposizione ricorda che, fatte salve disposizioni patrizie diverse, si fa riferimento alla disciplina fissata dal D. L.vo n. 368/2001 per i soggetti assunti con contratti a termine. Ciò significa che trova applicazione la normativa sui divieti (art. 3) che non consentono l’assunzione in caso di sostituzione di lavoratori licenziati (con la stessa qualifica) al termine di procedure collettive di riduzione di personale o allorquando l’azienda è in trattamento salariale straordinario o non ha effettuato la valutazione dei rischi, il principio di non discriminazione (art. 6) ed il diritto di informazione (art. 9).
Da ultimo, va sottolineato il punto 9 dell’accordo interconfederale che si inserisce nell’ambito dei diritti garantiti: in caso di trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, il periodo di inserimento viene computato nell’anzianità di servizio, con l’esclusione dell’istituto degli aumenti periodici di anzianità o istituti di carattere economico assimilati e della mobilità professionale disciplinata dalle clausole contrattuali che prevedono progressioni automatiche in funzione della mera decorrenza temporale.  

Modena, 16 febbraio 2004

Eufranio MASSI
Dirigente della Direzione provinciale del Lavoro di Modena

 

Fonte: http://www.dplmodena.it/contratti%20di%20inserimento.doc

Sito web da visitare: http://www.dplmodena.it

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