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Significati e usi della parola “realismo”
Si parla oggi da più parti di un ritorno al realismo. Provo allora a dare una prima provvisoria a generale definizione di realismo. Lo definirei prima di tutto come
la credenza consolidata e condivisa –legata profondamente
al senso comune – che esista qualcosa là fuori, che non dipende
nella sua struttura e configurazione dall’osservazione, percezione,
interpretazione di un soggetto o dall’intervento costruttivo
di un logos. In questo senso, si tratta di “una questione
non controversa” come dichiara Franca D’Agostini
(D’Agostini, 2013).
Ne consegue che la conoscenza nel suo complesso è l’impresa che ha il compito di dare solidità e saldezza scientifica a questa credenza basilare del senso comune. Il realismo salda così ontologia (la teoria di ciò che c’è) e epistemologia, la teoria di ciò che possiamo conoscere e del modo in cui possiamo farlo. Come osserva Enrico Berti, la questione del realismo è connessa strutturalmente a una teoria della verità (Berti,, p. ).: se “realtà” indica che là fuori c’è qualcosa di indipendente dalle nostre percezioni e dai nostri “schemi”, la “verità” consiste nell’approssimarsi della conoscenza a questa realtà.
Perché si torna a discutere oggi su questo, in vari campi (la filosofia, la letteratura, il cinema, per esempio)? L’ipotesi è che le parole realismo/realtà, a cui si dà un “bentornato”, siano un indice adatto a contrassegnare il presente attuale come periodo di domesticazione, o urbanizzazione, o normalizzazione delle asprezze alle quali si era arrivati in conseguenza dell’egemonia culturale di un set transdisciplinare che va dal predominio della svolta linguistica al costruzionismo epistemologico al post-strutturalismo alle pratiche letterarie delle Avanguardie e neo-avanguardie. Il post-strutturalismo soprattutto, in un’accezione generica che indica grosso modo i pensatori della French Theory, è un facile terreno di confronto e di polemica, insomma l’avversario o l’uomo di paglia, lo strawman filosofico ideale, insieme al Rorty della svolta linguistica.
Oggi, cinquant’anni dopo il post-strutturalismo e la svolta linguistica, si delineano i contorni di un’epoca di rinnovata credenza nella presenza, nella trasparenza, nel contatto diretto – e in una forma più classica di soggettività. Alcuni “realisti” influenti affermano di credere appunto nella possibilità che il pensiero possa entrare in contatto diretto con “la cosa stessa”:
L’ipotesi dunque è questa: viviamo l’epoca della semplificazione delle asprezze (concettuali, terminologiche, lessicali) che avevano caratterizzato la fase estrema del modernismo.
E’ finita l’epoca in cui la scrittura non solo letteraria ma anche filosofica era un’esperienza del limite (o dell’eccesso). E’ come se le parole dovessero ora essere restituite al loro aspetto rassicurante, trasparente, referenziale. Pare che il realismo impegni questa dimensione.
Le coordinate del modello realista nella filosofia recente
Al di là delle differenze tra i vari esponenti della posizione realista, proviamo a descrivere le aree di contiguità, le risonanze semantiche che gravitano intorno alla parola-chiave “realismo”. Nella sua grande opera degli anni Quaranta, Erich Auerbach definisce fin dal titolo il realismo in letteratura come dargestellte Wirchilichkeit, o “realtà rappresentata”, realtà passata entro il filtro della rappresentazione. Il realismo letterario, i cui massimi rappresentanti si ritrovano nella letteratura francese della metà del Secolo XIX, è caratterizzato da una “linea storica” definita dalla prevalenza del significato sulle strutture linguistiche del significante. Così Aurelio Roncaglia:
“l’attenzione tecnico-retorica alle strutture linguistiche non è più esclusiva e nemmeno dominante; la trascende un costante riferimento alle strutture immanenti dell’esperienza reale. Gli aspetti del ‘significante’ passano quasi in seconda linea dietro gli aspetti del ‘significato’ “ (Roncaglia, “Saggio introduttivo”, in Auerbach, tr. it. 1956 p. XXX).
Notare: “riferimento alle strutture immanenti
dell’esperienza reale”: questa terminologia
tornerà in tempi recenti, come vedremo.
Credo che l’attenzione al “significato” rispetto al “significante” sia una buona sintesi di una delle più forti opposizioni attuali, quella tra realismo e formalismo. E la critica all’autoriferimento del linguaggio a se stesso, della chiusura autoreferenziale, risuona in molti dei critici “realisti” recenti.
Secondo Auerbach il realismo “consiste nella rappresentazione seria della realtà sociale quotidiana contemporanea, sulla base del movimento storico classista” (Ivi, Vol. II, p. 296).
Esaminiamo brevemente una possibile rete di parentele. Essa comprenderebbe: una teoria dell’essere come ciò che c’è o come “fatto”, punto di partenza dell’ontologia (D’Agostini); una teoria della rappresentazione come adaequatio (Ferraris, D’Agostini); una teoria della conoscenza/coscienza capace di entrare in presa diretta con la realtà (Possenti); ma anche, nel contesto narrativo, una dimensione del soggetto come polo necessario della rappresentazione (C. Comencini) fino a una sua dimensione di “eccesso” (Daniele Giglioli: “eccessi dell’io”); la narrazione applicata all’esperienza del sé per la ricostruzione di un’identità e di una permanenza dell’io (Jedlowski) e infine la rivendicazione parallela, o complementare, di una indipendenza/prevalenza dell’immagine come via più diretta rispetto al linguaggio o dell’iconicità come uno stato di “innocenza delle immagini”: quest’ultima pare essere una delle declinazioni della “svolta iconica” (ad. es, Mitchell, in Pinotti-Somaini). I correlati sarebbero l’enfasi sull’emozione e sull’empatia come via diretta al rapporto soggetto/reale o soggetto/altri soggetti.
Tra tutti questi aspetti, il più importante, ciò che tiene insieme le varie versioni di realismo, pare essere la ricerca di uno strato primario, l’idea o il desiderio che il soggetto si configuri in modo da poter raggiungere in presa diretta la realtà – o sotto forma di logos referenziale (ecco ritornare la questione della prevalenza del “significato”) o sotto forma di immagine: come se bastasse appunto una sorta di presa diretto dello sguardo, dal momento che “le immagini non hanno bisogno di traduzione” ha scritto recentemente Walter Siti.
Vediamo ora una sommaria rassegna di alcune di queste posizioni. Già molti anni fa alla voce “Realismo” dell’Enciclopedia Einaudi, si notava che la presenza di una realtà indipendente è oggetto di una sorta di “assenso primordiale”, presupposto dal senso comune (Micheli, 1980, p. 679; riferimento a Reid, ivi). Il termine “reale” notava però Micheli, ha due significati che il senso comune accoppia e non distingue: reale è ciò che esiste oggettivamente e in modo indipendente dal soggetto; ma anche ciò che è più importante, essenziale. Nella prima accezione si oppone a “soggettivo”, nel secondo a “apparente”.
Emergono altre distinzioni nel dibattito recente. Una distinzione tra realismo “ontologico” e realismo “gnoseologico” (Possenti, pp. 21-23): il primo afferma l’indipendenza del mondo esterno rispetto al linguaggio e alla mente, il secondo (il vero “nocciolo duro” secondo l’Autore) afferma una teoria della conoscenza secondo la quale la nostra mente può cogliere l’essenza delle cose – insomma afferma l’intelligibilità e accessibilità del reale di contro al suo carattere amorfo, caotico e inconoscibile.
Una distinzione complementare è quella tra realismo “metafisico” o “descrittivo” che afferma che esiste una realtà di cui si può predicare il vero o il falso – e un realismo “metodologico” o normativo che afferma la necessità di - (essere realisti: pensiamo alla celebre posizione sostenuta a suo tempo nel dibattito estetico-letterario da Lukàcs, o anche al motto militante “bentornata realtà!” che è il titolo di una delle molte recenti pubblicazioni in proposito) (D’Agostini, Realismo? p.19).
Franca D’Agostini riassume la sua posizione in tre proposizioni “inconfutabili”: esiste una realtà o meglio “esistono fatti”; esiste una sola descrizione vera dei fatti; a volte possiamo fornire questa descrizione (ivi, p. 26). In ogni caso, la distinzione tra piano ontologico - l’affermazione che qualcosa là fuori, indipendente e refrattario, c’è – e un piano definibile come epistemologico – la teorie di come conosciamo quel che là fuori c’è – è fondamentale e condivisa (cfr. per es. Ferraris, ER, “Postfazione”, cit. p. 579).
Le varie posizioni concordano anche sull’idea di un salutare “ritorno” al realismo, di una “oggettiva rinascita” insomma (D’Agostini, p. 24; Ferraris, ivi p. 575): ecco presentarsi un aspetto normativo, valutativo.
Ma perché rinascita? Questa dimensione realistica, del resto connessa al buon senso, pareva essere stata per lungo tempo oscurata, messa in disparte. Secondo la ricostruzione di Ferraris la storia comincia molto indietro, addirittura con Cartesio, per approdare attraverso Kant al Nietzsche di Su verità e menzogna in senso extramorale, diLa gaiascienzae dei Frammenti della seconda metà degli anni Ottanta del XIX Secolo: come noto è questa fase che culmina con l’affermazione incriminata, “non ci sono fatti, solo interpretazioni”.
Ora, i veri eredi di Nietzsche (secondo Ferraris) sono i “postmoderni” con la loro confusione irresponsabile di realtà e finzione e la loro negazione del valore di verità. In un’altra ricostruzione (D’Agostini) la situazione è stata prodotta invece da una confusione, da una cattiva mescolanza tra le due tradizioni, quella analitica di origine anglosassone, e quella europea egemonizzata dal set potstrutturalismo/ermeneutica/teoria critica francofortese. Il risultato scrive la studiosa è una “stultificazione” del dibattito, di cui occorre far giustizia.
Dunque la crisi di questo modello egemonico, soprattutto in riferimento all’ermeneutica, secondo Enrico Berti è l’occasione per la ri-emergenza del tema del realismo (Berti, in Lavazza-Possenti, p. 53).
Ma esiste anche una versione debole o “negativa” di realismo, sostenuta da Umberto Eco (e a suo tempo anche da Ferraris in una precedente versione del suo modello) e illustrata attraverso l’efficace metafora del cacciavite: un cacciavite può servire a molte pratiche ma è sconsigliabile usarlo per pulirsi l’orecchio e in ogni caso non si può usare come bicchiere. Dobbiamo dunque pensare la realtà (il cacciavite) come una sorta di zoccolo duro o un insieme di “sensi” permessi e vietati. Insomma non tutte le interpretazioni (e le pratiche) sono possibili, i sono linee di resistenza appartenenti alla cosa, all’oggetto, che sono in grado di opporsi agli eccessi dell’interpretazione.
Proviamo ora a estrarre da questa rapida ricognizione alcuni aspetti comuni:
in senso proprio come ciò che “esiste” secondo la fisica (D’Agostini p. 180);
per esempio, verità è quando la mente si riconcilia con il reale
da cui proviene: Ferraris, “Realismo positivo” ; oppure
D’Agostini, p. 21: l’esser vero (di una proposizione) è ciò
che è “corrispondente a come stanno le cose nel mondo”;
diretta, contatto pre-linguistico o non linguistico
(primarietà dell’esperienza sul linguaggio: Sacchi p. 111;
Possenti,nozione di realismo “diretto”);
o anche “qualcosa su cui si può mentire” (D’Agostini);
o la credenza (kantiana, poi ripresa da altri tra cui Habermas)
di un “mondo in comune” a cui fare riferimento;
di “mondo”, ovvero di una realtà non amorfa, non caotica
e insensata, ma strutturata, dotata di una sua “logica”.
Come notava Roland Barthes, (“L’effetto di reale”, 1968); possiamo definire “realista” “ogni discorso che accetti enunciazioni legittimate dal solo referente” (p.158). Ma nella versione più rigida, quella di Franca D’Agostini (“Pugni sul tavolo” in Realismo?, cit.) le tesi del realismo sono “anelenctiche” ovvero inconfutabili, devono essere accettate se alle parole si dà il loro giusto senso.
Chi si proclama antirealista “metafisico” con affermazioni dl tipo “la realtà non esiste” o “i fatti non esistono” o usa in modo diverso le parole o sta parlando d’altro o semplicemente non sa quel che dice (D’Agostini, cit. p. 168). Il punto di partenza dunque è semplicemente “logico” o riguarda un uso semanticamente corretto (cioè condiviso) dei termini. Si passa dal piano logico al piano “metafisico” quando l’affermazione di esistenza della realtà si specifica in una discussione su che cosa sono e come sono fatti “i fatti”. E’ a questo punto che Franca D’Agostini, che aveva sostenuto la tesi dell’importanza che non siano solo le scienze empiriche ad occuparsi della realtà, ma che un ruolo fondamentale spetti alla filosofia, anzi a una sua versione forte, la “metafisica”, riconosce che le cose, insomma “i fatti” in senso forte, anche quando li si voglia definire come “combinazioni di oggetti e proprietà” (ivi, p. 178), sono in ultima analisi proprio quelli di cui parla la fisica.
Notiamo la clausola fondamentale: se si dà alle parole il loro senso … cioè: il senso consueto, condiviso: non a caso Franca D’Agostini cita il libro “gamma” della Metafisica di Aristotele, cioè il libro delle definizioni e dei “significati dell’essere” (Met. 1002 33 sgg.) insomma il libro che stabilisce le regole della grammatica alla quale poi tutto il pensiero filosofico posteriore si è riferito – almeno fino alla grande discontinuità di cui abbiamo fatto cenno. In questa chiave davvero il ritorno al realismo suona come una restaurazione, un “bentornato”.
Dunque “realismo” si oppone a “formalismo” (Berti, Possenti), “postmoderno” (Ferraris), o semplicemente a qualunque forma di “antifilosofia” (D’Agostini) dal momento che la filosofia non può che essere metafisica e questa è la domanda intorno a ciò che c’è, l’essere, la realtà. Insomma la filosofia o è realista o non è filosofia. Chiaro.
E se invece la contesa – la linea di demarcazione o anche la linea di resistenza - non passasse tra, diciamo, la coppia stretta realtà/reale, da un lato, e dall’altro l’irrealismo, il formalismo, l’antirealismo, il costruttivismo, il predominio linguistico, il primato del significante sul significato, il predominio del concettuale sul percettivo, il predominio del testo sul fuori-testo, il predominio delle interpretazioni sui fatti - non passasse, diciamo, per l’esterno ma per l’interno? Insomma solcasse e dividesse proprio la coppia realtà/reale, dando del reale una definizione di ciò che alla realtà e al soggetto che la percepisce o la comprende, non si assoggetta?
Realtà e soggetto, in tal caso, farebbero parte dello stesso insieme: il soggetto appunto “intenziona” il reale/realtà, vi si indirizza, vi trova il suo senso, la sua direzione di riferimento, il suo compimento cognitivo.
Ma la realtà è il reale? Un altro realismo
C’è qualcuno, nel contemporaneo, che “usa le parole in modo diverso”, e un differente uso della parola instaura un differente modo di vedere “il mondo”. Questo differente uso della parola è anche un punto di resistenza. Questo punto di resistenza fa perno proprio su un diverso uso di “reale” non complanare ma opposto o contrapposto a “realtà”. E’ una tradizione che, non a caso, risale principalmente a uno degli autori che più o meno esplicitamente sono considerati corresponsabili dei misfatti anti-realistici, ovvero i pensatori della cosiddetta French Theory attualmente sotto accusa. Questo uso infatti risale a loro e in particolare a Jacques Lacan: “realtà” e “reale” non sono complementari o sinonimi, i termini non hanno lo stesso senso e riferimento. Si tratta appunto di una tesi che va contro il “senso comune”.
Prendiamo alcuni degli strani sinonimi di questo altro reale, o un frammento della rete semantica in cui lo troviamo: osso, granello, ostacolo, “lamella”, carne viva, “impossibile”. Lettera. Informe. Anche “godimento”, e anche “evento”, interruzione, rottura, squilibrio o perturbazione del campo o del saldo terreno che congiunge il soggetto con il qualcosa là fuori. La provenienza prevalentemente, ma non solo, psicoanalitica di questo “reale” permette di affermare che in realtà questo fuori è interno: è “estimo”, è un esterno dell’interno.
Dell’interno di che cosa? Del linguaggio, della rappresentazione, della stessa immagine come raf-figurazione. Questo punto è importante, lo mette in rilievo Deleuze quando parla della pittura di Francis Bacon: non si tratta di contrapporre la figurazione all’astrazione, si tratta di passare all’interno (della figurazione, ma anche del linguaggio) per distorcerla e produrvi altri eventi.
Questo reale c’entra con la percezione? È diretto?
Sarebbe ben diverso e incompatibile con il rassicurante
termine esterno della percezione che si chiama
“oggetto”. Anzi, non riconciliabile con la “oggettività”
che sarebbe appunto il carattere della “realtà”: aperta,
condivisibile, parte del “mondo in comune”.
La realtà, appunto, non è informe ma è sensata, dicono i realisti. Lo spiega bene Umberto Eco: presenta dei versi o delle direzioni o dei “sensi” permessi o vietati. E’ logica. E’ compatibile con il logos e dunque può essere conosciuta, articolata dal linguaggio anche se lo precede. La realtà, diremmo, è dotata di un senso che la conoscenza può rintracciare.
Allora però questo diverso uso descriverebbe un incontro con qualcosa di diverso: il reale è fuori-senso, fuori-sesto. Lo si può solo toccare, quando i sensi vanno out of joint, si dissestano.
Lacan
Si possono prendere come punto di riferimento alcune affermazioni di Lacan dal Seminario XXIII, dedicate alla riflessione sui “nodi borromei” e sulla scrittura di Joyce. E’ l’ultimo Lacan, quello che si accosta al regime del reale, appunto.
Che cos’è un nodo borromeo, il nodo formato da una strana disposizione di cordicelle e che ritroviamo nello stemma della nobile casata lombarda? Potremmo definirlo come un particolare intreccio di tre cerchi che permette, sciogliendo uno dei tre, di sciogliere l’intero nodo. Ma per Lacan è una scrittura, e anche il prodotto di una pratica (di una techne, in senso proprio) la cui caratteristica principale consiste nel fatto che “non significa nulla”, insomma elude il senso. Un semplice e insensato gioco di corde che mostra, illustra o anche “simbolizza”, cioè che fa pensare il reale, questo altro reale sottratto al senso.
Per l’ultimo Lacan, il legame direzionale (sensato) tra significante-lettera e significato, il legame di intenzionalità che tiene insieme le parole e le cose, il linguaggio e il mondo, si occlude. Attraverso la figura del nodo e la scrittura di Joyce, così lontana dalla trasparenza, si tratta di “toccare” questo, che non è cosa. E’ la materialità di una lettera in cui si deposita uno stato del soggetto – uno stato di godimento – che non ne vuol sapere.
Joyce è il suo eroe eponimo, la sua insegna: è un “a-Freud”, dice Lacan. Che significa? La scrittura di Joyce è l’invenzione che gli permette di fare da esempio, perché mostra un modo di maneggiare, di averci a che fare, diverso da quello logico. Anche Freud in fondo, constata Lacan, ha usato ancora il logos, è rimasto dentro la cerchia di un inconscio che parla, che manifesta un “dire”. L’inconscio “di Freud” non è ancora “il nostro inconscio”, si potrebbe dire che la sua realtà non è ancora il reale con cui si misura Lacan. La talking cure freudiana era una pratica clinica che esponeva l’inconscio ancora nella dimensione del senso, del logos, del linguaggio.
In fondo la pratica freudiana con tutto il suo sconvolgente potere rivoluzionario risponde ancora a un ordine di realtà, il sapere dell’inconscio freudiano è ancora un dire, un sapere parlato, sensato (S XXIII, p. 124): “nonostante tutto il dire punta a essere inteso (…) l’inconscio ha un senso” (ivi, p. 126), un sapere che si dice e si parla (logos).
E’ importante notare che a questo punto Lacan parla esplicitamente di una connessione tra logos, realtà e verità, cioè fa un ritratto della situazione che corrisponde proprio alle coordinate realistiche – a patto che, appunto, si parli di realtà: “il vero è un dire” – cioè un logos – “conforme alla realtà” (ivi, p. 129). Ma realtà è precisamente ciò che “funziona”, ciò che ha un senso, cioè una direzione, un versante o un verso (ricordiamo la precisazione di Eco). Tuttavia “il mio reale”, che Lacan aggiunge, o contrappone, a quello che accomuna Freud con il realismo, quello “di cui mi servo”, è altro. L’istanza del discorso/sapere di Freud “non presuppone il reale di cui mi servo”, ma, appunto, il senso della realtà. La scoperta freudiana del “sintomo” – ciò che l’inconscio vuole dire – appartiene in fondo ancora al “campo del senso”, al mondo-in- comune di cui si parlava insomma (ivi, p. 131). Conferma di ciò che avevamo notato: reale, senso, mondo in comune, soggetto del logos stanno insieme.
Allora c’è un altro reale. Per toccarlo Lacan non può servirsi, come se si trovasse sullo stesso terreno, del sapere e del dire; dal suo specifico punto di vista, quello della pratica analitica, che non bisogna dimenticare, propone di spostarsi e di riconoscere un altro piano. Il reale si oppone a ciò che può essere detto, portato al linguaggio e al senso, e l’orientamento a questo reale “forclude” il senso (ivi, 118) mentre la psicoanalisi con Freud era arrivata, certo, a produrre un “cortocircuito” rispetto al linguaggio comune – ma questo cortocircuito passava pur sempre per il senso (ivi, p. 118). Il motto di spirito, il Witz (Freud, 1905) è comunque un senso doppio, un senso sviato ma ricco, più ricco del senso-comune: è, appunto, un “motto di spirito” dove l’inconscio “parla”.
La realtà, punto di approdo dell’impresa cognitiva, è fatta di “oggetti”. Ma qui, nel reale, non c’è oggetto, c’è piuttosto un “torsolo” intorno a cui il senso, il linguaggio, possono solo girare. Il reale sfugge precisamente alla presa di realtà/verità, al dispositivo cognitivo realista. E’ importante notare questa differenza: se parliamo di realtà, allora il realismo e la sua teoria della verità hanno ragione, anche per lo stesso Lacan, in fondo. Ma se parliamo di reale, parliamo di altro. Ciò che si cerca di accostare, di toccare, fugge all’alternativa si/no, che è ciò che il discorso di verità pretende: vero è ciò che è conforme a come stanno le cose, dicono i realisti, falso ciò che non lo è: devi dire sì o no rispetto a un referente, a un “fatto”, per fare un discorso di verità “realista”.
Notiamo che Lacan accetta questo modello, per differenziarsene. Insomma il reale, posta l’alternativa tra realisti e antirealisti - esistono/non esistono “fatti” - sta da un’altra parte e non prende una delle due parti, che sarebbe come aderire necessariamente all’alternativa si/no. Appunto, con molta chiarezza Lacan dice che ogni discorso che si assoggetta al paradigma di verità tende a cancellare, dietro la pretesa di discorso vero, la presenza di questo reale che “non si collega a niente”. Il “realismo”, si può dire, con la sua gabbia si/no, cancella il reale dell’inconscio.
Il problema che Lacan pone, partendo dall’interno della sua specifica pratica, è un problema per la stessa filosofia: non si tratta più di “conoscere”, insomma di portare al logos. Si tratta di “toccare”. Toccare è diverso da dire. Questo reale lo si tocca, e non è un intero – ricordiamoci la passione per l’intero, per la totalità, che anima tutti i realisti dai filosofi del presente, all’indietro, fino a Lukàcs e dietro di loro a Hegel.
E’ fuori-discorso? No, richiede un differente uso del linguaggio e del senso. Si scrive, o se si dice è un dire fuori sesto, una deformità del dire – come nei linguaggi della letteratura dell’alto modernismo. Un linguaggio lontano dalle regioni dell’equilibrio, un balbettio della lingua, dirà Deleuze in Critica e clinica. E’ la scrittura di Joyce e di tutta l’avanguardia, certo, ma anche la scrittura ultima del “realista” Pasolini, di Petrolio e del suo “cinema di poesia”. “Qualcosa di scritto”, aveva intuito Pasolini, ovvero: qualcosa che si può e si deve solo scrivere.
La scrittura di Joyce ha per Lacan interesse perché pare che lui abbia trovato una via che passa al di fuori, di lato all’intendere, all’intenzionalità, al dire come logos o scrittura dell’anima. E occorre aggiungere: si può solo scrivere o mal-dire (Beckett) perché possa mostrare in questo il godimento, lo stato pulsionale e non l’intenzionalità cognitiva del soggetto. Ma allora la scrittura sarà una pratica singolare e non universale, rivelerà un’altra dimensione del soggetto rispetto al dire-conforme-al-vero.
E il reale si scrive anche nella strana scrittura delle cordicelle e dei nodi, le cordicelle del nodo borromeo (e le elaborazioni che ne fa Lacan sembrano richiamare le scritture precolombiane fatte con nodi e cordicelle). In ogni caso sono il corrispondente del modo joyciano di usare il linguaggio, sono una techne. Lacan è in cerca di una nuova scrittura che, rileva, ha una “portata simbolica” (S XXIII, p. 128).
Forse la parola simbolo” è fonte di confusione, forse si potrebbe usare “esibizione”: la scrittura a-significante dei nodi esibisce o certifica, testimonia l’evento di un contatto con il reale che fa-godere. E’ in quanto pratica di godimento singolare che “assomiglia” alla scrittura di Joyce. Questa modalità materiale di maneggiamento insomma è un equivalente singolare della techne che Joyce esercita sulla scrittura diventata “lettera”: un significante, certo, ma opaco e piuttosto parte di una lingua-corpo (Bonazzi, 2009).
Se ne può parlare? Quando e se ne parlo, allora “parlo del reale come impossibile”:
“parlo del reale come impossibile nella misura in cui credo appunto che il reale (…) il reale sia, bisogna pur dirlo, senza legge. Il vero reale implica l’assenza di legge. Il reale non ha ordine. (…) dico che l’unica cosa che forse un giorno riuscirò ad articolare qui con voi è qualcosa che riguarda ciò che ho chiamato un lembo di reale” (Lacan, S XXIII, pp. 134-135).
Continuiamo a tenere presente l’insistenza dei realisti: la realtà ha un senso, ha un ordine, non è caotica… Dunque per Lacan invece ciò che si può comunque “articolare” non è dell’ordine dei discorsi ma delle pratiche, non è una totalità ma se ne possono dare “lembi”.
Toccare, mostrare, mettere in opera. Si oppone a
dire, portare al logos, “articolare” nel senso della
compiutezza discorsiva. Le cordicelle di Lacan
sono un modo per entrare in contatto fisico,
corrispondente alla scrittura letteraria del reale
“di Joyce”. Due modalità parallele e singolari, due modi
di esporre il singolare del godimento.
Questo reale, per Lacan, è infatti il nucleo di godimento del soggetto che non è possibile trasferire nel linguaggio (se non a lembi). Ma, ecco il punto: perché tentare di pensare questo reale impossibile sarebbe oggi (dopo Freud, bisogna dirlo) “necessario”? Che cosa c’è, nelle singolari tecniche lacaniane, che parla anche alla filosofia e al presente?
Quello che Lacan cerca di descrivere come “il nostro inconscio”, l’inconscio che non è compreso nemmeno nel dire freudiano, anche se ne deriva, è il segno di una specifica situazione non solo clinica ma anche storica. E’ una piega storica del soggetto e non solo una specifica evoluzione della disciplina chiamata psicoanalisi.
E’ la situazione nella quale dobbiamo fare i conti con il fatto storico che “non c’è Altro dell’Altro” (ivi, p. 124). Non c’è più un Altro che “risponde”, un intero di senso – Dio o “la” Donna, esemplifica Lacan. Potremmo dire anche: questo Altro ha anche le vesti del mondo-in-comune che è la credenza del Moderno, e al quale si appellano i realisti nella loro istanza di verità. Questa constatazione apre un altro scenario, quello della crisi della “efficacia simbolica”.
Ma che cos’è il simbolico? Una buona definizione di partenza la troviamo in un libro di Judith Butler:
“l’insieme delle regole di soglia che rendono possibile e intelligibile la cultura, e che non sono né del tutto riducibili al loro carattere sociale né scisse in modo permanente dalla sfera del sociale. (…) regole che presiedono all’intelligibilità culturale ma che non sono riducibili a una data cultura” (La rivendicazione di Antigone, tr. it. 2003, p. 32).
Ora, quello che rende così importante questa versione del reale per noi oggi, consiste nello scenario differente che il termine reale apre: l’irruzione del reale, la necessità di tenerne conto, di pensarlo in termini esterni al modello realista, è in rapporto con la fine (storica) dell’Altro dell’Altro, Grande Altro o ordine simbolico o mondo-in-comune. I realisti, si potrebbe dire, non se ne sono accorti. Questa situazione impone una deriva radicale all’ultimo Lacan: le regole che presiedono all’intelligibilità (Butler) sono crollate, in questa situazione il soggetto deve averci a che fare con il reale dopo il Simbolico collassato.
Zizek
Tra gli interpreti contemporanei di Lacan è certamente Slavoj Zizek che ha tratto le conseguenze più significative per la filosofia, per la cultura in generale, da questa situazione, e ha approfondito la distanza tra realtà e reale e il particolare statuto dell’immagine che ne deriva.
Ne Il soggetto scabroso il filosofo sloveno descrive il proprio progetto di ricerca come una ontologia sociale o meglio ancora, “politica”. Il ricorso a questa parola, ontologia, ci informa che almeno per l’autore ci troviamo su terreno comparabile a quella della grande tradizione filosofica, quello stesso cui fanno riferimento i realisti. Ontologia, ovvero una domanda sull’essere. In questa ontologia l’ordine simbolico, o Grande Altro o Altro dell’Altro, è l’ordine comparabile con la “realtà” (Benvenuti… p. 20). La realtà e il senso della realtà dipendono dall’efficienza e dal buon funzionamento delle “coordinate simboliche”, l’insieme delle regole, secondo Butler. La sua “efficacia” (“L’immagine…” p. 56 e 59) è garanzia della nostra identità.
Questa situazione è connessa, sul piano intersoggettivo, a una forma condivisa del “credere” che non può funzionare senza “un minimo di idealizzazione”. Come il mondo in comune di Kant, si tratta della credenza nella possibilità e validità di una Legge che motiva l’accordo intersoggettivo. L’accordo può essere presupposto come base dello stesso dissidio. E’ questo mondo in comune che rende possibile pensare l’intesa di cui parlano per esempio D’’Agostini e Berti.
Nel modello di Zizek l’ordine simbolico non è quello della realtà contrapposta all’apparenza, ma è quello della “apparenza reale”. La realtà è il Simbolico quando funziona (“L’immagine, …”). E’ l’esito, e non il presupposto, del buon funzionamento delle apparenze-reali. Ora, la constatazione storica consiste nel rilevare che questo buon funzionamento, questa efficacia, non funzionano più (“la realtà è ciò che funziona” aveva appunto affermato Lacan). Il nocciolo della “realtà” è precisamente nella sua capacità di tener lontano, di arginare “l’orrore del reale”. La realtà è il reale, al giusto grado di idealizzazione, si potrebbe dire. Dove la nozione di “idealizzazione” gioca a quanto pare un doppio ruolo. In primo luogo, eleva il piano empirico dell’esistente su un altro piano di validità. Certo, i singoli sono fallibili e incompleti, ma noi possiamo continuare a credere che all’infinito, asintoticamente, l’ordine simbolico possa effettuarsi, completarsi. Il nocciolo è la credenza condivisa nell’Intero. Mentre sul piano empirico il funzionamento della Legge è sempre carente, difettoso, “bucato”, la nostra credenza nella sua validità come termine di confronto resiste.
In secondo luogo, l’idealizzazione o apparenza reale necessaria mostra il suo ruolo sul piano degli artefatti. Qui Zizek pare riprendere una riflessione lacaniana sull’arte e sulla sua portata “pacificante”. L’arte, e in generale il piano estetico, sono al servizio delle idee simboliche in quanto sostengono la credenza-idealizzazione coprendo, allontanando il reale. Questo si manifesta proprio nella prossimità eccessiva, è il troppo-vicino, sostiene Zizek: appare quando salta la distanza (simbolica). L’ordine di realtà non ci mette dunque al contatto con “la cosa stessa”, ma nemmeno il reale lo fa. La “cosa stessa” in realtà è essa stessa il prodotto di un’idealizzazione riuscita.
Il crollo dell’efficacia simbolica e del buon
funzionamento delle apparenze si potrebbe
svolgere così: è una situazione che porta alla luce,
che mette in luce una dimensione strutturale
del Simbolico, cioè la sua costitutiva incompletezza.
Nella battuta di Zizek non solo “Dio è morto”, ma più
profondamente, è sempre stato morto – il Grande
Altro o l’Altro dell’Altro non c’è mai stato, “solo che
non lo sapeva”. La sua efficacia si basa precisamente
su questo punto opaco.
Se l’ordine simbolico era il terzo in grado di tenere insieme immaginario e reale nel modello dell’apparenza-reale, e di conseguenza costituiva la garanzia della nostra fragile identità (“L’immagine…” p. 59) la sua dissoluzione, il venire in luce della sua strutturale incompletezza, producono una dissoluzione della realtà stessa: da un lato il precipitare in una situazione di mostruoso “reale pre-ontologico” – l’informe, l’escremento, la carne senza pelle - e dall’altro la moltiplicazione infinita delle “maschere” intercambiabili di un immaginario scatenato. Per questo, insiste Zizek, occorre abbandonare la facile contrapposizione tra l’apparenza e un reale/realtà “nascosto dietro l’apparenza” simulacrale (Benvenuti… p. 34). Tutto il XX Secolo, osserva il filosofo sloveno, è stato ossessionato da una sorta di passione per il reale (ivi, p. 16) che non è altro che il segno reattivo di una condizione di assenza, di una percezione dell’Altro mancante come garanzia della realtà. Ne consegue il bisogno di inventare regole che ne suppliscano l’assenza (Il soggetto scabroso, pp. 418-19).
Proprio la posizione dell’immagine appare allora singolare e rivelativa di questa condizione: essa si trova come in bilico “tra realtà e reale”. Non può più essere pensata come la rappresentazione-riproduzione della realtà (codice realistico) ma nemmeno come un rutilante caos o una fantasmagoria libera da qualunque riferimento (codice “postmoderno”). Si tratta, attraverso un ritorno a Lacan che appare la ripetizione del movimento lacaniano di ritorno a Freud, di trovare il modo di averci a che fare, privi della credenza simbolica – cioè del “realismo”.
Articoliamo sommariamente la contrapposizione tra due forme di “realismo”, quello che si riferisce alla realtà e quello che ha di mira il reale:
“Realtà” “Reale”
Intenzionalità Fine dell’efficacia simbolica
Trasparenza Opacità
Immediatezza dell’immagine Ripetizione
Esperienza diretta veridica “Osso di traverso”
Verità come adaequatio verità come ordine parziale
Narrazione referenziale Informe, carne viva
Egoità Inconscio
Empatia Extimité
Traccia come produzione del soggetto Traccia originaria
Testimonianze recenti dal campo estetico: letteratura e arti
In riferimento allo specifico estetico dunque la domanda sarebbe: ora a che punto siamo, dopo la svolta linguistica, dopo il formalismo, dopo il predominio della deriva ermeneutica, dopo il “postmoderno”?
Il ritorno del reale (Return of the Real, 1996) viene tematizzato in un importante lavoro del critico americano Hal Foster nella seconda metà degli anni Novanta, precisamente in contrapposizione sia al realismo della rappresentazione sia all’enfasi post-strutturalista sul linguaggio come orizzonte insuperabile. Al centro di questa seconda deriva verso il reale pare essere la nozione di “trauma”.
Secondo Foster l’arte contemporanea mostra un ritorno del reale un tempo “represso dai vari post-strutturalismi” (Foster, cit. p. 49). Il critico allude qui precisamente alla “svolta linguistica” e al problema del linguaggio. Ora questa epoca, anche per Foster, è passata.
Però il realismo-del-reale, se così possiamo dire, si contrappone tanto al post-strutturalismo, quanto al “realismo” di cui abbiamo parlato: infatti lo stesso realismo classico, osserva Foster, è da considerare a sua volta come una forma di “idealismo”. Il progetto di opera d’arte che il realismo mette in atto implica un “significato trasparente alla sua struttura” (ivi, 78). Ricordiamo che il predominio del significato sulla struttura linguistica era appunto uno dei cardini della definizione del realismo in estetica. Ma la trasparenza è ottenuta per selezione, per idealizzazione appunto, per intervento di una scelta formale che fa cornice e conferisce senso alla congerie dei particolari empirici: la nozione di “tipico” che troviamo in un grande teorico del realismo come Lukàcs illustra bene questa situazione. Il tipico del realismo secondo Lukàcs è
“quella particolare sintesi che tanto nel campo dei caratteri che in quello delle situazioni unisce organicamente il generico e l’individuale. (… Il vero grande realismo ritrae dunque l’uomo completo e la società completa, invece di limitarsi ad alcuni dei suoi aspetti “(Saggi sul realismo, 1946, tr. it. pp. 15-16).
La realtà che leggiamo o vediamo nelle opere d’arte realiste, osserva Foster, è effetto dunque di un lavoro della rappresentazione (Foster, ivi, pp. 148-149). Per contro, la svolta verso il reale si manifesterebbe o nella semplice presenza dei particolari, delle singolarità vuote di senso, indifferenti, o all’altro estremo nel tentativo di mostrare il “trauma”, “la ferita e la carne” come suona il titolo di un capitolo introduttivo del recente lavoro di Daniele Giglioli (2011).
Perciò Foster vede nel contemporaneo un tentativo di affrontare e formalizzare l’esperienza del trauma (ivi, p. 163). Si tratta nel complesso di
“ una svolta enfatica verso il corporeo e il sociale, l’abietto e il site-specific. Da un regime convenzionale nel quale niente è reale e il soggetto è superficiale, molta arte contemporanea presenta la realtà nella forma del trauma (…). Dopo l’apoteosi dei significante e del simbolico (…) siamo testimoni di una svolta verso il reale da una parte, verso il referente dall’altra” (Foster, ivi, p. 127, corsivi miei).
Appunto: il reale da una parte, il referente dall’altra. Lo scenario è molto chiaro: “reale” e “referente” (o meglio: “referenziale”) sarebbero ciò che accade “dopo” il predominio del “significante” (post-strutturalismo, svolta linguistica, formalismo…). Il reale di cui parla Foster fa riferimento esplicitamente al pensiero di Lacan proprio nella sua differenza dalla “realtà”.
Ma che cos’è, che cosa può essere un’esperienza del trauma? O meglio: ci può davvero essere “esperienza” del trauma? Se per esperienza intendiamo, nella sua formulazione classica, “il primo prodotto che dà il nostro intelletto quando elabora la materia greggia delle sensazioni” come scrive Kant all’inizio della Critica della ragion pura, allora del trauma non c’è direttamente esperienza né elaborazione cognitiva. E’ come se il trauma fosse la piega fantomatica in negativo di quella solida esperienza diretta delle cose là fuori di cui parla appunto il realismo.
Dunque, si può dire che il “ritorno del reale” abbia un secondo senso, ricavato dalla complessa nozione freudiana di Nachtraeglichkeit, tradotta nel pensiero francese come aprés-coup e quasi intraducibile nella nostra lingua. Forse la si può tradurre con “rappresentazione retroattiva”. Il trauma è un reale che ritorna perché può solo vivere nel ritorno, o nella seconda volta (aprés, appunto). Non riconquista di un evento a suo tempo incompreso, ma piuttosto “incontro mancato”. Il trauma ha questo carattere, secondo Foster. C’è solo la seconda volta, nach (“dopo”), proprio perché il momento del trauma di per sé sfugge all’esperienza. Ma questa seconda volta in realtà lo manca in quanto lo rappresenta. Nella presentificazione del trauma dunque l’arte “del ritorno del reale” cerca di far-vedere, di rendere-fenomeno qualcosa che al fenomeno (il termine dell’esperienza) per sua natura sfugge.
Daniele Giglioli osserva a questo proposito che in realtà questa forma di trauma diventato oggetto di insistente e ripetuta rappresentazione, pertiene piuttosto al campo dell’immaginario. Certo, Giglioli ripete con Foster e con Lacan che
“il reale è ciò che testardamente resiste a ogni tentativo di simbolizzazione. E’ un buco nell’ordine simbolico (…) ha la natura (…) dell’evento senza senso, traumatico in quanto non può essere elaborato, simbolizzato (Senza trauma, pp. 16-17).
Ma allora bisogna sottolineare ancora una volta che si tratta di una “esperienza” che proprio in quanto non “vissuta” può essere solo “ripetuta”. Il corrispettivo del trauma è la sua ripetizione.
Ne consegue che sul piano estetico si manifesta una sorta di ripetizione immaginaria di questo non-vissuto. Così quelle che Giglioli chiama “scritture dell’estremo” possono essere, al pari delle arti dell’informe o dell’abietto di cui parlava Foster, solo “il tentativo di rimotivare a posteriori i segni vuoti in cui ci rispecchiamo” Ivi, p. 18).
Walter Siti ha affermato appunto, dal suo punto di vista di scrittore e dunque di testimone attendibile dello scenario estetico, che “il realismo è l’impossibile”. Credo che nel suo caso si tratti di un realismo del reale, non della realtà (o del Simbolico, che è lo stesso secondo le coordinate di Lacan e di Zizek).
Così anche per Siti il reale si coglie proprio quando nell’esperienza letteraria “il verosimile va in frantumi” (Siti 2013, p. 32), e gli stereotipi vengono sospesi (ivi, 66). Nella professione di poetica dello scrittore italiano, “il realismo, per come la vedo io, è l’anti-abitudine: è il leggero strappo che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale (…) è quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà” (ivi, p. 8). E, a proposito della connessione di questo reale con il soggetto, al contrario di come si potrebbe pensare, l’auto fiction, - la tecnica praticata dallo scrittore - non pertiene a un io narratore che si identifica con l’esperienza dell’autore e piattamente constata se stesso in contatto con le cose intorno (la “realtà quotidiana” di Auerbach) ma mette in scena piuttosto un “io sperimentale”, un trickster e non “un testimone della verità” (ivi, p. 65).
Non è un caso che nelle pagine critiche di Siti appaia anche una polemica contro il realismo, nella sua versione recente di New Italian Realism parallela al nuovo realismo in filosofia. Secondo Siti
“questa riapparizione della realtà ha imboccato sostanzialmente quattro strade: 1) la crisi economica e la difficoltà di lavoro per i giovani; 2) il romanzo storico con particolare riguardo al nazismo e alla criminalità organizzata; 3) un nuovo impulso autobiografico, con idiosincrasie personali in primo piano; 4) un ritorno al romanzo mimetico tradizionale, con approfondimenti soprattutto psicologici” (ivi, pp. 65-66).
Prendiamo in esame brevemente ora l’altra deriva, quella “realista”. Roland Barthes definiva a suo tempo il realismo come un’operazione basata sul “riconoscimento del già noto”. Una breve ricognizione del materiale (testi, interviste) riconducibile al nuovo realismo in letteratura e nelle arti visive o nel cinema porta alla luce lo stesso set di presupposti che abbiamo riassunto a proposito del nuovo realismo in filosofia: accostamento a-problematico al quotidiano, desiderio di uscire dall’autoriferimento del linguaggio, emergenza di un soggetto che rappresenta/intenziona un reale là fuori, intersoggettività empatica basata sul presupposto di un “mondo in comune” che l’opera d’arte a sua volta presenta o arreda.
Andrebbe ricordato che l’etichetta “nuovo realismo” è ricorrente. Non solo, come è stato notato, anche gli scrittori e gli artisti più estremi rivendicano una forma di realismo. Si pensi al suffisso sur- coniato proprio da una delle Avanguardie del Novecento a indicare la tensione verso un grado più intenso, più elevato di “realtà” (o di “reale”?). il che ci riconduce all’osservazione già vista di Micheli sul secondo significato, gerarchico e valoriale, della parola “reale”: ciò che è più importante, ciò che davvero “conta”.
Per contro, nella recente narrativa italiana (ma credo che il ragionamento valga anche altrove) Daniele Giglioli rileva una sorta di “osmosi incontrollabile” tra personaggio, narratore e autore che porta a esiti contrari rispetto alla figura dell’io-trickster come lo intende Siti, e conduce a una rivalutazione enfatica dell’io, a una narcisismo esibitorio sotto le vesti di un’apertura alla realtà. Questi “eccessi dell’io” nella letteratura recente portano a “una parola assediata da un eccesso di intimità”, da una collusione programmatica con le abitudini e il mondo del lettore o a una “confidenza aproblematica” che degrada il narratore al ruolo di “intrattenitore” (Giglioli, 2014, p. 21).
Questa forma di ritorno alla realtà sarebbe dunque basata su un fraintendimento che implica una funzione della letteratura come riadattamento, appaesamento, “ritorno alla fiducia ottocentesca nella trasparenza del rapporto tra soggetto linguaggio e mondo (…) all’insegna dell’ipertrofia dell’io” (ivi, p. 23). Proprio la letteratura “realista” recente sarebbe insomma la rivelazione di una forma di normalizzazione parallela o forse conseguente a quella filosofica.
Torniamo ora brevemente a qualche testimonianza a proposito del ritorno al realismo in letteratura, testimoniato ad esempio da recenti dibattiti sulle riviste specializzate che hanno coinvolto scrittori, registi e critici. Anche qui il tono generale pare essere quello di una liberazione all’insegna di una salutare semplificazione. Nella letteratura e nel cinema, osserva l’editoriale di un numero della rivista Allegorie dedicato all’evoluzione del romanzo, la fine del postmoderno registra insieme un “ritorno alla realtà” e poetiche dell’ “eccesso”. Questo ritorno alla realtà è descritto proprio come “riappropriazione soggettiva dell’esperienza vissuta”, “attitudine documentaria”, recupero dei generi forti” (ivi, p. 82). Secondo Giovanna Taviani il cinema a sua volta “fuoriesce dal regno autoreferenziale dei segni” e “torna a raccontare storie in cui ciascuno possa riconoscersi”, “senza perdere il coraggio di dire ‘io’” (ivi, pp. 87-88). Questo ritorno ridefinisce un campo di esperienza “autentica” (ivi, 89) che collide con la “crisi dell’idea postmoderna della scomparsa del referente”. Insomma, “il reale c’è e costringe a fare i conti con le cose”.
Più sobriamente, Mario Barenghi osserva da una parte il “bisogno di verificare che esistano connessioni non casuali tra i fatti”, e dall’altra la necessità del soggetto, del sé, tornato a essere “matrice primaria di ogni narrazione”. In questa situazione, nella prima persona pare riemergere la nozione lukacsiana del “tipico”: un “narrare di sé” che possa essere esemplare, “dando voce a una condizione più generale” (in Tirature, , pp. 43 sgg).
Lo stesso romanzo o film di “genere” in questo scenario viene rilegittimato come una sorta di versione letteraria o comunque narrativa del mondo in comune, quando in un’intervista sul cinema il regista Chiesa dichiara che esso può essere visto come “un modo per condividere apriori elementi di senso” (Allegorie, cit. p. , corsivo mio). Si intende bene allora il motto di Cristina Comencini: si tratta, dopo la vertigine autoreferenziale, di “aprire la finestra” (ivi, p. ).
Schema sommario dell’evoluzione del realismo letterario
Dopo avere sottolineato la somiglianza o il parallelismo tra i “nuovi realismi” rispettivamente in filosofia e nel campo estetico, ora potremmo provare a tracciare un sommario schema dell’evoluzione storica del realismo nel campo narrativo.
A - Il Grande Realimo del Moderno a partire dalla metà del XIX secolo, contrassegnato dalle figure esemplari di Balzac e Tolstoj secondo Lukàcs, e che in un quadro più ampio (Auerbach) comprende almeno anche Flaubert, Zola e Dostoevskij, sarebbe caratterizzato dalla verosimiglianza dei personaggi, dall’onniscienza dell’autore con l’uso della terza persona, dal tempo narrativo di un passato compiuto (Barthes), dalla nozione di “tipico” come rapporto dialettico tra singolarità e totalità (Lukacs) o dal riferimento della vita quotidiana a un orizzonte più ampio (“classista” nella terminologia di Auerbach).
B - Erich Auerbach amplia a sua volta la portata del realismo fino al periodo tra le due grandi guerre mondiali, e individua le sue figure esemplari in Virginia Woolf ma anche negli stessi Proust e Joyce. Questa dimensione del realismo si allarga fino a un differente linguaggio narrativo: si tratta di “rinunciare al terreno della rappresentazione apparentemente obiettiva o di quella puramente soggettiva, in favore di una prospettiva più ricca”. In questa forma di realismo allargato trova posto anche il dispositivo narrativo e formale del discorso indiretto libero già presente a suo tempo in Flaubert, dove
“svaniscono per mezzo del piano tonale i limiti fra i discorsi diretti o indiretti dei personaggi e quello che dice l’autore, cosicché non si è mai del tutto sicuri di sentire proprio l’autore che si trova posto fuori dal romanzo” (Mimesis, II, tr. it. p. 329).
In questa prospettiva realismo e avanguardia anziché contrapporsi sembrano ibridarsi, nel nome di due figure-cerniera (Proust e Joyce appunto).
C - Ma il realismo appare chiaramente superato nell’evoluzione successiva, quella dove il modello narrativo classico entra definitivamente in crisi: lingua balbettante (come scrive Deleuze a proposito di Kafka e di altri), declinazione dell’Autore come pura “funzione” storicamente datata (Foucault), eclissi dell’io (“non importa chi parla” secondo il celebre motto di Beckett) e del referente individuabile (“la “vicenda” di cui parla sprezzantemente Robbe-Grillet), fino alla icastica definizione del “cinema di poesia” in Pasolini: all’opposto della narrazione come riproduzione della finestra trasparente della prospettiva, si trattava di “far sentire la macchina”.
D - Dopo tutto questo, ciò che chiameremmo “nuovo-nuovo realismo” sarebbe solo la quarta tappa, che ha ora le insegne di una nuova confidenza con la normalità: ritorno dell’io, trasparenza narrativa, appello ai generi come variante letteraria del mondo condiviso, ripresa di una nozione non traumatica di “esperienza” e “empatia” come modello di una sorta di comunità emozionale … un nuovo-piccolo-realismo, insomma, una sorta di formato minore che riprende gli stilemi del Grande Realismo ottocentesco, e nel quale ha posto un io tanto rimpicciolito quanto enfatico che trova conforto nella credenza nella Realtà nonostante le smentite del Reale.
“L’autentica mania del XX Secolo di penetrare la cosa reale (alla fine: il vuoto distruttivo) attraverso la ragnatela delle apparenze che costituiscono la nostra realtà culmina (…) in un brivido del reale come “effetto” insuperabile, ricercato negli effetti speciali (…) attraverso la Tv verità e i porno amatoriali, fino agli snuffmovies”.
Così Slavoj Zizek (Benvenuti nel deserto del reale, p. 16). La passione del reale rischia quindi di incorrere in un costante equivoco, soprattutto nei campi dell’estetico – arti visive, letteratura, cinema. Da un lato la stanchezza per questa situazione pare produrre anche qui nuovi eredi del realismo classico, dall’altro il tentativo di mostrare, di rendere percepibile il reale out of joint nelle sua dinamiche di eccesso. Da un lato il bisogno di riavvicinamento a forme di “realtà” vivibili, frequentabili, alle regioni medie della predominanza del significato e del referente (raccontare storie come strumento di identità) a figure di un io-soggetto che si rappresenta l’esperienza, il riavvicinamento alla solidità del sensibile. Dall’altra il tentativo di far emergere ciò che non può a rigore essere direttamente mostrato, ovvero proprio il buco in quel tessuto simbolico che istituiva il nostro senso della realtà.
Riassumiamo dunque l’alternativa attuale:
da un lato il piano della normalizzazione, il ritorno
del soggetto e della rappresentazione, cioè la ritornata
fiducia che si possa vedere, toccare, fare esperienza
della realtà. Dall’altro, il tentativo di rendere estetico
(cioè percepibile, visibile, toccabile, frequentabile)
ciò che all’aisthesis propriamente si sottrae –
nella forma dell’eccesso.
Dove sta allora l’equivoco specificamente estetico? Se il reale non è fenomeno, non può essere offerto ai cinque sensi. L’arte del reale e dell’eccesso sembra cadere a sua volta in un’illusione, quella del mostrare (per esempio vedi Bois-Krauss, L’informe). Se il reale non è esperienza, e l’esperienza, anche quella di cui parlano i realisti, in fondo è ancora quella elaborata dal pensiero moderno, cioè incontro con il sensibile, elaborabile dalla coscienza alla luce della credenza in un mondo-in-comune, allora l’incontro con il reale non è esperienza, esso sfugge proprio al mondo in comune che l’esperienza presuppone. Lo si può vedere solo nella sconnessione del tessuto – narrativo, linguistico, figurativo. Cioè nel lacerarsi del tessuto che congiunge la realtà alla rappresentazione e al rappresentabile. Si incontra nei punti di scordatura, di smarrimento o di disfunzione del Simbolico che regge l’apparenza-reale. Il buco incomprensibile che si apre nelle narrazioni di Lynch per esempio.
Se esperienza c’è, non sarà quella di un particolare che può diventare esemplarità dell’intero ovvero “tipo”. Ma quella di un lembo, di un pezzo staccato che appare nella frattura. Non sarà né esperienza percettiva diretta, puro incontro del senziente con il sensibile, immune agli schemi concettuali e all’intervento dell’intelletto, ma nemmeno l’esperienza come “prodotto” a valle dell’intervento dell’intelletto (o degli “schemi concettuali” di cui parlano certi realisti contemporanei). A sua volta, l’incontro con la “realtà”, sembra avere i caratteri di una rinnovata credenza nel Simbolico che diventa un apriori rassicurante.
Secondo Slavoj Zizek l’immagine si trova dunque “tra realtà e reale”. A dire il vero, pare che “il reale” non abbia però solo la figura impossibile del trauma, ma anche quella dell’indifferenza al senso: ora punctum o “immagine che brucia” (Didi-Huberman, in Pinotti-Somaini, pp. ), ora indifferenza opaca, grado zero della simbolicità, come in tanta fotografia contemporanea. Ora reale-trauma ora reale indifferente al senso, che non è traccia di altro.
Per completare questo quadro provvisorio, si potrebbe dire che l’immagine – e per “immagine” si intende non solo l’immagine visiva ma anche quella acustica o linguistica – pare essere contesa fra tre codici o regimi di riferimento, che sono regimi o codici storici. Essa può essere o meglio poteva esse, nel registro simbolico, immagine “di realtà”: rimando di senso a un mondo in comune. Nel registro reale, l’immagine fa apparire a tratti l’osso o lettera o torsolo ora insensato ora traumatico, avvertibile non direttamente, là fuori, ma solo nell’interstizio o nel baratro in cui la rappresentazione consueta cade.
C’è però il terzo registro, quello dell’immaginario. Che cos’è l’immagine, qui? Si direbbe “la regina delle merci” secondo la definizione di Giglioli: prodotto sofisticato di un dispositivo di produzione del sentire, in un mondo in comune diventato fantasy.Oppure, in una delle sue varianti, una forma di quasi-soggetto dotato di desideri e volizioni: è l’umanizzazione del rappresentante (Mitchell in Pinotti-Somaini, pp. 99 sgg.) che reagisce a sua volta alla svolta linguistica e al predominio del significante rivendicando che “le immagini vogliono avere gli stessi diritti del linguaggio”.
SEZIONE SECONDA – Indicazioni per lo studio dei testi della dispensa
I testi della dispensa sono suddivisi in sei parti:
PARTE PRIMA - “Il dibattito filosofico recente sul realismo”
PARTE SECONDA – “La realtà non è il reale”
PARTE TERZA – “Il paradigma realista nella letteratura e nell’estetica moderna”
PARTE QUARTA – “La critica contemporanea al paradigma estetico realista”
PARTE QUINTA – “Il dibattito recente sul realismo nella letteratura italiana”
PARTE SESTA – “La questione del realismo nelle immagini”
La prima e la seconda parte affrontano la questione teorica principale in filosofia e nel campo estetico, quello della distinzione tra “realtà” e “reale”. La prima parte presenta alcune delle voci del dibattito recente in filosofia sul “nuovo realismo”: Enrico Berti, Franca D’Agostini, Maurizio Ferraris, Umberto Eco, e un precedente saggio di Gianni Micheli sull’ Enciclopedia Einaudi (1980) che traccia alcune importanti distinzioni.
PRIMA PARTE
Nel saggio di Micheli vanno tenute presenti le seguenti riflessioni: la distinzione dei due significati della parola “reale” e l’osservazione secondo la quale il realismo è una sorta di tonalità istintiva originaria nell’essere umano. L’Autore traccia poi una sintetica storia del concetto in filosofia, risalendo alla posizione di Platone per finire con un commento all’espressione di Hegel secondo la quale “il reale è razionale” per individuarne il vero significato nella interpretazione ottocentesca di Friedrich Engels. Micheli fornisce così alcune coordinate di base per la comprensione delle origini e della natura del dibattito filosofico.
Gli altri testi fanno parte tutti di una discussione più recente che ha al centro la figura del filosofo italiano Maurizio Ferraris. Le tesi di Ferraris sono emerse da una ricostruzione fortemente polemica della storia della filosofia degli ultimi decenni che si trova nella “postfazione” del 2011 a Estetica razionale: l’estetica, come teoria delle sensibilità, è considerata in questo testo il punto di partenza per una ricostruzione della “ontologia”. L’ontologia è la teoria filosofica di quel che c’è, e quel che c’è, questo il punto principale di Ferraris, non dipende da noi e dalle nostre interpretazioni. I concetti principali da tener presenti sono: la nozione di “realtà” come qualcosa di esterno e indipendente. La distinzione tra “ontologia” e “epistemologia”. La nozione di “mondo in comune”. La nozione di “esperienza”. La polemica con Kant e Nietzsche e di conseguenza contro le correnti che nel pensiero contemporaneo negherebbero l’indipendenza della realtà esterna e la possibilità di conoscerla.
Il secondo saggio antologizzato, “Realismo positivo”, ribadisce la tesi e aggiunge una distinzione tra due forme di realismo – negativo e positivo appunto. Il punto centrale di questo saggio consiste nell’affermazione che la posizione realista – con i caratteri visti sopra – non si limita a pensare che la realtà là fuori è indipendente dal pensiero e dalle interpretazioni dei soggetti e “dice no” a ogni interpretazione possibile, ma presenta anche un carattere positivo. “L’essere precede il pensiero” e il pensiero, con le sue leggi, emergono dalla realtà (p.42). L’altro concetto importante riguarda la nozione di “inemendabilità” ovvero: la realtà resiste ed è “incorreggibile” dalle nostre interpretazioni (contrariamente al “costruttivismo che afferma che il pensiero costruisce il mondo: vedi più avanti la posizione di Nelson Goodman). Viceversa le interpretazioni e dunque le costruzioni della conoscenza sono emendabili, correggibili.
Il concetto di “realismo negativo” o anche “minimale” è al centro delle considerazioni del saggio di Umberto Eco, la posizione è illustrata dalla efficace immagine del cacciavite (vedi testo). Eco spiega che la realtà ha dei “sensi” (obbligati/vietati). Si può pensare che questa posizione sia riconducibile in qualche modo a quella del filosofo della scienza Karl Popper (“falsificazionismo”). Nelle parole di Eco, essere realisti significa tener presente che “ci sono dei momenti in cui il mondo ci dice no” (vedi testo).
Il punto principale delle argomentazioni di Franca D’Agostini consiste nella polemica contro quelle che chiama posizioni “stultificanti” ovvero posizioni superficiali che non fanno luce sulla vera questione. E la vera questione è: la filosofia è “metafisica” ovvero parla necessariamente di una realtà indipendente e ne indaga la natura. Le tesi di F. D’Agostini secondo l’Autrice sono “anelenctiche” ovvero, inconfutabili, se alla parola “realismo” diamo il suo corretto significato, e possono essere riassunte così: (p. 26) ci sono fatti; c’è una sola descrizione vera dei fatti; questa descrizione vera può a volte essere raggiunta. Contrappore il realismo al “postmoderno” come fa Ferraris è per l’Autrice una posizione sbagliata e superficiale. Inoltre si devono tener presenti altri punti importanti: la definizione di “fatto” (vedi testo), la differente lettura di un punto importante come il pensiero di Kant (vedi testo), la distinzione tra realismo “metafisico” e “metodologico” (p. 19; la nozione di “verità” come corrispondenza: “l’essere vero in quanto corrispondente a come stanno le cose nel mondo” (testo, p. 21).
La nozione di verità è presente anche nel saggio di Enrico Berti che da questo punto di vista ha posizioni molto simili a quelle di D’Agostini. Berti sottolinea in particolare i seguenti aspetti: la rinascita del realismo è effettiva ed è in relazione con la crisi dell’ “ermeneutica” (p.53). C’è una distinzione classica che va conservata tra “verità di fatto” e “verità di ragione” (pp 58 sgg.). Il punto più rilevante che si oppone al “formalismo” e all’ermeneutica, consiste nell’affermazione di una forma di realismo “diretto” che coincide con la “concezione classica della verità” e si può esprimere così: “noi conosciamo non le nostre idee ma direttamente le cose” (p. 57), ovvero, la realtà ha una logica interna, una struttura razionale conoscibile.
SECONDA PARTE - “La realtà non è il reale”
La seconda parte comprende un testo di Jacques Lacan dal Seminario XXIII (1976) dedicato a Joyce, alcuni testi del filosofo sloveno Slavoj Zizek, tratti da Il soggetto scabroso, Benvenuti nel deserto del reale e un saggio dal titolo “limmagine tra realtà e reale” apparso su una rivista italiana, e l’introduzione di un recente lavoro del critico Daniele Giglioli.
I principali concetti e le argomentazioni di questa sezione sono stati già espressi nella prima parte introduttiva. Ripetiamo qui alcune questioni da tenere presenti:
Le due “figure” di cui Lacan si serve a proposto del reale sono: la figura di Joyce e della sua scrittura, e la figura del nodo borromeo praticata dallo stesso Lacan. La dimensione che occorre tenere presente è questa: sia la scrittura di Joyce che la figura del nodo borromeo non sono forme di “linguaggio”, cioè non sono forme del “dire” ma sono “pratiche” ovvero tecniche di manipolazione (del linguaggio letterario, nel caso di Joyce, o di elementi fisici come nel caso dei nodi borromei). Dunque sono modi di entrare in contatto con un reale fuori-senso, che non si può “dire”, portare al senso/linguaggio. E’ per questo che a Lacan interessa Joyce, soprattutto quello più estremo dell’ultima opera dello scrittore irlandese, Finnegans Wake (1939).
I saggi di Zizek sviluppano la ricerca di Lacan precisandone alcune direzioni che ci mettono più direttamente in contatto con la dimensione culturale, storica e sociale dell’inconscio.
Si potrebbe dire così: quello che Lacan descrive come “il nostro inconscio” Zizek lo chiama “crollo dell’efficacia simbolica”. Un aspetto importante delle argomentazioni di Zizek è contenuto nella nozione, di origine hegeliana, di “apparenza reale”. L’ordine simbolico è quello che permette alla “realtà” di funzionare proprio in termini di “apparenza reale”. Realtà implica un ordine condiviso, precisamente il “mondo in comune” di cui parlano i realisti.
Una seconda argomentazione importante di Zizek riguarda l’immagine: in una situazione in cui l’ “efficienza simbolica” crolla, non sono più validi senza discussione le “credenze” nella realtà (quelle dei realisti) e la stessa “immagine” trova in bilico tra il piano di realtà – ovvero il piano in cui le “apparenze” sono “reali” e le rappresentazioni sono indirizzate a un mondo comune – e il “reale” incomprensibile opaco o orribile. La realtà oggi tende dunque a dissolversi in due aspetto: un reale opaco e/o orribile disgustoso e mortale e una serie di “maschere” immaginarie.
Il saggio di Giglioli sviluppa queste argomentazioni in riferimento alla recente scrittura letteraria e in particolare al panorama italiano. La nozione fondamentale da tenere presente è quella di “trauma” e la domanda cui Giglioli risponde potrebbe essere così espressa: è possibile mostrare il trauma/reale? La tesi che occorre tenere presente è questa: mostrare il reale vuol dire incorrere nell’equivoco di pensare che il reale si possa far entrare nell’ordine del vedere, dell’estetico – e dunque dal punto di vista lacaniano si tratta in fondo di un reale-immaginario.
TERZA PARTE - “Il paradigma realista nella letteratura e nell’estetica moderna”
Questa parte ha lo scopo di fornire un sintetico panorama della posizione del realismo classico in letteratura, a partire dalle testimonianze di alcuni dei suoi stessi protagonisti.
Presenta prima di tutto due testi rilevanti come testimonianza diretta del periodo classico del realismo in letteratura (il XIX Secolo) vale a dire le riflessioni sul romanzo di Gustave Flaubert e dei fratelli Goncourt.
In secondo luogo, parte di un saggio del più importante teorico e critico del realismo in estetica e in letteratura, il filosofo ungherese Gyoergy Lukàcs (anni Trenta e Quaranta del Novecento).
All’inizio troverete l’introduzione di un lavoro recente sul realismo in letteratura, lo studioso italiano Federico Bertoni (2007).
L’introduzione di Bertoni al libro Realismo e letteratura. Una storia possibile, riporta alcune posizioni rilevanti: quella del filosofo americano Nelson Goodman (1968) secondo la quale il realismo non riguarda tanto l’essere vicini allo stato delle cose o alla “realtà” oggettiva, ma è il frutto di convenzioni culturali (brani del saggio di Goodman sono riportati in questa dispensa alla parte quarta). Al contrario, secondo un altro grande studioso del realismo come Erich Auerbach, la cui opera risale agli anni Quaranta del Novecento, il realismo sembra essere una sorta di “universale estetico” che percorre la storia dall’antichità fino al Novecento.
Il saggio di Bertoni è assai utile perché ha il pregio di raccogliere con precisione alcune citazioni da vari Autori che dànno l’idea dell’estensione dell’arco semantico ricoperto dalla parola “realismo” e insiste sui due caratteri della “proliferazione semantica” e della “instabilità lessicale” del termine.
Alle pp- 24-26 in particolare troverete raccolte le varie definizioni.
L’interessantissimo testo di Flaubert, raccolto e tradotto in inglese nell’antologia a cura di G.J. Becker, Documents of Modern Literary Realism (1963), riporta alcune preziose dichiarazioni dell’autore di Madame Bovary (1857) considerato uno dei vertici del realismo ottocentesco, che hanno il pregio di far luce sulla poetica e sulle intenzioni dello scrittore. Vanno tenute presenti in particolare le seguenti dichiarazioni: in primo luogo la presa di distanza dell’autore dal testo (“evitare di divertire il pubblico con noi stessi … e con la personalità dello scrittore”), dunque l’accento sull’impersonalità dello sguardo dell’autore “invisibile e onnipotente”. Ne consegue quello che Flaubert definisce un metodo spietato, che rende la scrittura letteraria (impersonale appunto) parente dell’atteggiamento delle scienze naturali. Nei brevi documenti di Emile e Jules Goncourt gli aspetti notevoli riguardano soprattutto una distinzione tra realismo e naturalismo che verrà poi rafforzata e canonizzata da lavori come quello di Lukàcs.
Il saggio di Lukàcs che risale al 1936 rispecchia una decisa presa di posizione normativa di carattere non solo estetico ma anche politico. Il pensatore ungherese prima di tutto assume un atteggiamento gerarchico allineando gli scrittori del realismo ottocentesco lungo una scala di valore ai cui vertici stanno soprattutto Balzac e Tolstoj, mentre tende a svalutare sia Zola che lo stesso Flaubert.
Le distinzioni concettuali da rintracciare nel testo sono soprattutto le seguenti: la differenza tra narrazione e descrizione: la narrazione apparenta il romanzo moderno al piano dell’epica classica, “la narrazione raggruppa e distingue”, quindi mette in luce nella vicenda e nei personaggi il carattere “tipico”. Ovvero: la possibilità per un elemento particolare di rappresentare l’universale, la totalità del mondo sociale. Per contro la descrizione è basata sull’enumerazione dei particolari semplicemente osservati e perde la “sensibilità per i momenti essenziali” (p. 288). Su questa base proprio Lukàcs opera una distinzione poi diventata classica tra “realismo” e “naturalismo” (tendenza questa associata al nome di Zola). Il naturalismo privilegia le singolarità e le descrizioni fini a se stesse, e fa mancare la vera tonalità “epica”.
QUARTA PARTE - “La crisi contemporanea del paradigma estetico realista”
I saggi antologizzati in questa parte vanno presi in considerazione e studiati in un confronto diretto con quelli della parte precedente, per comprendere pienamente il senso della contrapposizione tra il “realismo” e quella che nel complesso possiamo chiamare una tendenza “formalista” che ha a che fare con l’influenza o l’egemonia del “post-strutturalismo” e della “svolta linguistica” (vedi prima parte di questa Introduzione).
I testi, non a caso, risalgono tutti, tranne quello di Gilles Deleuze, agli anni Sessanta, cioè al periodo cruciale di elaborazione di queste riflessioni. Gli Autori in ordine di pubblicazione sono i seguenti: Roman Jakobson, “Il realismo nell’arte” 1965; Alain Robbe-Grillet, “Di alcune nozioni scadute”, 1965; Roland Barthes, “L’effetto di reale”, 1968; Nelson Goodman, da I linguaggi dell’arte, 1968; Gerard Genette, “Verosomiglianza e motivazione”, 1969, mentre il saggio di Deleuze “Balbettò”, da Critica e clinica, è più tardo (1993).
Vediamo ora le principali argomentazioni di ogni testo. Il saggio di Jakobson mette in discussione la presunta “fedeltà al reale” del realismo, e enumera (p. 98) tre possibili significati del termine. La successiva analisi smonta però la pertinenza di una definizione semplice del realismo, e conclude criticamente che i vari significati del termine non possono stare insieme. L’immagine famosa è quella del “sacco” che li conterrebbe alla rinfusa.
Un’altra interessante precisazione riguarda la qualifica e i caratteri che potrebbero definire un realismo “progressista”. Secondo il grande linguista russo, si tratta di una scrittura (letteraria) caratterizzata dalla presenza di “tratti non essenziali” che allontanerebbero dalla narrazione stereotipa. Le tesi dello studioso sono molto simili a quelle di Goodman: il realismo è una questione di convenzione, di abitudine o di “linguaggio” (p. 99).
Il saggio dello scrittore e regista Alain Robbe-Grillet, uno dei principali esponenti della corrente dell’Ecole du regard francese dalla seconda metà degli anni Cinquanta in poi, ha un tono fortemente polemico: in realtà il “realismo” professato a sua volta da R.G. si qualifica in negativo come una presa di distanza dagli stilemi della letteratura precedente: personaggio, vicenda o trama, distinzione forma/contenuto. Robbe-Grillet li elenca con precisione e vi contrappone una concezione del romanzo che tende a privilegiare – la polemica con le teorie classiche del realismo alla Lukàcs è evidente – una visione netta delle cose o “la realtà assoluta della cose”, “al di qua della vicenda” e del significato. Ciò che conta è la qualità della scrittura e non il significato, il messaggio.
Anche il saggio di Roland Barthes appare vicino a queste posizioni, dal momento che parla del reale come un “effetto”. Barthes riprende l’argomento del particolare inessenziale o dell’ “insignificante” come un aspetto importante e conclude con una forte definizione del realismo come “ogni discorso che accetti enunciazioni legittimate del solo referente”. Barthes definisce però questa posizione criticamente, come una sorta di “illusione referenziale” ovvero l’illusione che il testo, la scrittura, siano per così dire trasparenti, possano dunque “toccare direttamente” il reale.
I passi antologizzati di Nelson Goodman provengono da un libro che ha come argomenti “i linguaggi”, specificamente i linguaggi artistici. La posizione di Goodman è molto incisiva e esemplare: il realismo è una questione di convenzione, di abitudine: non è un rapporto “naturale” con le cose à fuori ma una questione appunto “culturale”. Questa posizione rientra o è coerente con un punto di vista più generale secondo cui l’oggettività (della conoscenza) non è altro che un prodotto o il risultato di un modo di intendere il mondo (è precisamente quello che i realisti oggi chiamano “schemi concettuali”). Sulla base di questi presupposti Goodman smonta criticamente le principali posizioni “realiste” e conclude in modo assai radicale che “la misura del realismo è l’assuefazione” (p. 43).
Il saggio del critico e storico della letteratura Gerard Genette affronta la nozione (realista) di “verosimglianza” e procede a un’accurata destrutturazione che procede in direzione simile a quella degli altri Autori di questa parte. E’ particolarmente interessante in questa chiave critica la distinzione tra “racconto” e “discorso”. Il racconto “puro” procederebbe per così dire “da solo” senza bisogno dell’inserzione di spiegazioni e giustificazioni da parte dell’Autore, mente Genette individua proprio in un grande romanziere realista come Balzac l’intervento della voce fuori campo dello scrittore per “giustificare” la piega presa dalla vicenda. Il modernismo, a sua volta, si caratterizza come disprezzo della verosimiglianza, e considera il racconto verosimile come una ipotetica presentazione del “significato senza significante” – cadendo così all’opposto in una posizione non verosimile. In modo caratteristico e rivelatore Genette conclude che “la stravaganza è il privilegio del reale” mentre la verosimiglianza è frutto di “un corpo di massime e pregiudizi”.
Il saggio di Deleuze è molto più tardo ma affronta lo stesso problema, che potrebbe anche essere sintetizzato così: quale deve essere il linguaggio della scrittura letteraria quando questa, secondo la direzione impressa alla letteratura dalle avanguardie a partire dal primo Novecento, rifiuta le modalità espressive basate sulla rappresentazione (che corrisponde grosso modo alla “figurazione” nelle arti visive)? Per avere un’idea sintetica dei canoni della tradizione che vengono ora rifiutati, si vedano le pagine antologizzate di Robbe-Grillet.
La risposta di Deleuze è assai originale: lo scrittore fa balbettare la lingua, ovvero conduce la lingua fuori da se stessa. La lingua poetica è quella che si avventura in regioni lontane dall’equilibrio. Dove l’equilibrio è la struttura narrativa tradizionale, con il primato del referente, insomma l’insieme dei luoghi comuni letterari. Questa operazione con la lingua, che Deleuze definisce “balbettio” definisce anche lo “stile”: si tratta di rendere straniera a se stessa la lingua o di fare della lingua una “danza delle parole”. Gli esempi di Deleuze sono soprattutto Kafka e Beckett, come l’esempio di Lacan era stato Joyce.
QUINTA PARTE - “Il dibattito recente sul realismo nella letteratura italiana”
Questa parte riporta riflessioni di critici e scrittori che riguardano gli sviluppi in senso realistico della narrativa italiana recente. La serie dei testi antologizzati è aperta da un saggio di Daniele Giglioli assai critico nei confronti di questa tendenza, e comprende poi brani da riviste come Allegorie, Nazione indiana e Tirature.
La tesi di Giglioli è che la narrativa “realista” o che si autodefinisce tale presenti “un ritorno alla fiducia ottocentesca nella trasparenza del rapporto tra soggetto linguaggio e mondo” – cioè precisamente una riedizione letteraria dei canoni realisti in filosofia che si sono visti nella parte precedente. Giglioli sottolinea però, e questo è un punto importante, che questa tonalità narrativa implica una corrispondente “ipertrofia dell’io”, i cui segnali sarebbero visibili soprattutto nella pratica dell’auto-fiction. Il realismo si coniugherebbe così con un “narcisismo esibitorio dell’autore”, resuscitando una figura (l’autore appunto) che era stata criticata nella letteratura delle Avanguardie (vedi i testi della PARTE QUARTA).
Nello studio di Giglioli si stabilisce così uno stretto rapporto tra: predominio della narrazione tradizionale, “eccessi dell’io” o del soggetto-autore, e instaurazione di una sorta di eccessiva “confidenza” tra autore e lettore –versione critica dell’ipotesi realista di un “mondo in comune”.
Negli altri testi si possono trovare molte delle affermazioni condivise circa il realismo/nuovo realismo letterario recente: la critica al linguaggio formalista che sarebbe auto-riferito, la sentenza di morte verso il “postmoderno” che sarebbe tramontato, il ritorno della narrazione a forme che riguardano una “esperienza autentica” (G. Taviani in Allegorie) ma anche il recupero di una “distanza critica” nei confronti degli eventi narrati, e, nella narrazione della graphic novel, considerata una forma di narrativa letteraria a tutti gli effetti, “l’urgenza di raccontare la realtà sociale” (Interdonato, in Tirature).
Il saggio di Barenghi sempre in Tirature rileva a sua volta una sorta di ritorno generale a “un alto tasso di narrabilità” e, se è vero che “viviamo anni di narcisismo trionfante”, è anche importante che il soggetto, il sé, compaia nella narrazione dato che “parlare di sé” è “matrice primaria di ogni narrazione”. Il recupero del soggetto però dovrebbe avvenire alla condizione di permettere di dar voce a “una condizione più generale” (secondo una tradizione che risale al realismo di Lukàcs, vedi la PARTE TERZA).
Infine il saggio di Andrea Cortellessa ripubblicato su Nazione Indiana (ed. originale in Lo specchio) ritorna dal punto di vista specificamente letterario sulla distinzione tra “realtà” e “reale”, secondo un punto di vista che si richiama a Lacan e a Hal Foster (vedi la prima sezione di questa introduzione): per definire questa dimensione il critico italiano usa la parola “contingenza” (da Celati): “l’esposizione all’inatteso, al fuori, a una situazione (…) che diventa come una dimensione esterna dell’inconscio”. Per avere un’idea più precisa di questa specifica dimensione di “un altro realismo”, vedi il libro di Siti Il realismo è l’impossibile che assieme al volume di Hal Foster, Il ritorno del reale, è tra i testi richiesti per questo corso.
SESTA PARTE - “La questione del realismo nelle immagini”
Lo scopo di questa ultima parte è di presentare alcuni aspetti del realismo nel campo specifico delle immagini, a partire da un testo classico che fa da cornice. Si tratta di una parte del libro della studiosa di storia dell’arte Svetlana Alpers (1983) che prende in considerazione l’arte figurativa in uno dei suoi momenti più alti, l’Olanda del Seicento.
Vengono poi presentati alcuni testi sull’immagine nel cinema e nella fotografia: due capitoli dal classico lavoro di André Bazin Che cosa è cinema? (1958), alcune famose riflessioni di Pier Paolo Pasolini sul “cinema di poesia”, di qualche anno più tarde (1965) e due interviste a Gilles Deleuze (1985 e 1985) su uno dei concetti più importanti del filosofo francese, “l’immagine-tempo” e sulla nozione di “immaginario”.
Si ritorna poi agli anni più recenti con due testi di diverso spessore: alcune riflessioni di registi italiani sul tema specifico del realismo e del ritorno al realismo nel cinema (sempre dalla Rivista Allegorie) e infine la densa introduzione di Andrea Pinotti e Antonio Somaini a un volume che fa il punto sulla recente “svolta iconica” .
Il punto principale dell’argomentazione di S. Alpers è la distinzione tra “narrazione” e “descrizione”. Secondo la studiosa, l’arte figurativa del Seicento olandese si distingue dalla tradizione del Rinascimento italiano perché non sarebbe “narrativa” – non intenderebbe le immagini pittoriche come una sorta di frammento di un racconto, di “azioni” – ma piuttosto “descrittiva”. Questo implica prima di tutto uno stretto rapporto tra l’arte figurativa e lo sviluppo della scienza, e anche una differente dimensione del tempo. Anche l’arte olandese come la scienza, mira a una “rappresentazione esatta e non selettiva della natura”. C’è anche un rapporto stretto in questa pittura tra arte e conoscenza, si trattava di “ritrarre ogni cosa (…) in modo da farla conoscere”.
Se si tengono presenti i canoni classici del realismo letterario (vedi Lukàcs) qui abbiamo una differente versione di che cosa debba essere considerato “realismo”, che ci permette di arrivare, nel contemporaneo, fino a esempi come quelli dei romanzieri francesi della “scuola dello sguardo” (Sarraute, Butor, lo stesso Robbe-Grillet: si veda il testo nella sezione TERZA).
I due capitoli di Bazin riguardano prima di tutto lo statuto dell’immagine fotografica, e in secondo luogo la tecnica cinematografica del montaggio. Il punto chiave è proprio una definizione radicale di “realismo”: da un lato l’immagine fotografica ha uno stato “ontologico” preciso: risale necessariamente a un evento reale, a un già-stato. La fotografia da un lato riproduce una “oggettività essenziale” e dall’altro è impersonale, esclude nella riproduzione meccanica l’intervento dell’uomo (queste considerazioni andrebbero confrontate con lo stato attuale dell’immagine fotografica dopo l’avvento del digitale).
La stessa posizione radicale sul realismo si ritrova nel secondo breve saggio dal titolo “montaggio proibito”: Bazin, che è stato forse il maggiore critico cinematografico del suo tempo, spiega che il realismo (al cinema) implica la “omogeneità dello spazio” mentre il montaggio, che consiste nell’assemblaggio di spezzoni, frammenta il tempo diretto della ripresa e diventa un “creatore astratto di senso”. Il piano-sequenza, ovvero quel tipo di ripresa nella quale la macchina non stacca mai, diventa allora “espressione della durata concreta” mentre il montaggio presenta un “tempo astratto”.
Considerazioni importanti sull’immagine cinematografica si trovano negli anni Sessanta nelle riflessioni di Pasolini: il cinema di poesia è paragonato dallo scrittore e regista italiano alla tecnica narrativa del “discorso libero indiretto” (vedi qui Auerbach alla p. 16 la definizione di “piano tonale”). Nel discorso libero indiretto scrive Pasolini, c’è una “immersione dell’autore nell’animo dei suoi personaggi”. Pasolini rintraccia esempi di questo cinema di poesia in autori a lui contemporanei: Antonioni Bertolucci Godard. Nello stesso testo compare poi un’altra definizione del cinema di poesia, molto importante: a differenza del cinema tradizionale – che da questo punto di vista può essere paragonato al racconto letterario “realista” tradizionale – non c’è trasparenza, ovvero adesione della lingua al significato, ma “si sente la macchina”. (Confrontare questa osservazione con quelle degli autori della PARTE QUARTA).
Le due brevi interviste di Deleuze propongono riflessioni fortemente innovative sulla questione del rapporto tra realtà e immagine. Contrariamente all’idea che l’immagina sia una rappresentazione/riproduzione della realtà (paradigma realista) Deleuze propone di pensare l’immagine in se stessa come una forma di realtà, e il cinema come una specifica forma di immagine “diretta” o “indiretta” del tempo. Quella che il filosofo francese definisce immagine/tempo equivale al modello non-narrativo che abbiamo visto nei testi precedenti, ed è paragonabile a quanto Pasolini afferma sul cinema di poesia: come per Pasolini “si sente la macchina” – cioè l’immagine non è trasparente – così per Deleuze l’immagine-tempo spezza la falsa unità narrativa basata sull’illusione generata dal movimento delle immagini. Si tratta di “un diverso regime” delle immagini dove si spezza la concatenazione narrativa tradizionale.
Un secondo aspetto fondamentale è l’idea che l’immagine sia una “realtà” e non una semplice riproduzione/rappresentazione o una forma di realtà seconda. L’immagine traccia percorsi direttamente “nel cervello”. Come se il cervello fosse una sorta di “schermo”. Questa posizione così radicale porta Deleuze addirittura a diffidare della parola stessa “immaginario”.
I testi della rivista Allegorie che vengono proposti in questa parte riportano considerazioni di alcuni registi sul tema del realismo. Sono utili per capire il lessico e le poetiche narrative di una parte importante del cinema attuale che si rifà al realismo. In particolare ci si domanda se “realismo” nel cinema significhi: narrazione realista o referenziale, oppure: stile documentario; oppure: forma del cinema-inchiesta (precedentemente a proposito della narrativa veniva richiamata la formula del New Journalism americano). Ci si chiede poi quale relazione ci sia tra questo realismo e la tradizione italiana del neorealismo del secondo dopoguerra (Rossellini, in particolare, è richiamato da quasi tutti come un esempio fondamentale).
Alcuni però, come Costanzo e Crialese, manifestano dubbi circa la formula realista classica: secondo Costanzo compito del cinema sarebbe “trascendere la realtà”; secondo Crialese la stessa formula del “ritorno alla realtà” è ambigua. Mentre altri, come Cristina Comencini, hanno una visione più consueta del realismo che consisterebbe nel guardare all’esterno, nell’ “aprire la finestra”.
L’ultimo saggio antologizzato è l’introduzione di Andrea Pinotti e Antonio Somaini al volume collettivo Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo (Milano, 2009). Il saggio riprende alcune domande caratteristiche della attuale “svolta iconica”: che cos’è un’immagine, che cosa intendiamo quando parliamo di immagine, che rapporto c’è tra l’immagine e l’ “essere”.
I principali nodi tematici del dibattito sono presentati a p. 10: il rapporto tra la attuale “svolta iconica” e la precedente “svolta linguistica” (anni Sessanta) che metteva il linguaggio, e non l’immagine, al centro dell’attenzione; che rapporto c’è tra immagine e parola; infine che cosa intendiamo quando parliamo di “potere delle immagini”. Questi punti vengono poi discussi analiticamente nel corso del saggio.
Nel complesso gli Autori mettono l’accento su alcuni presupposti condivisi nell’attuale dibattito (pp. 26 sgg.):
la necessità di prendere in considerazione “tutte” le immagini, e non solo quelle tradizionalmente considerate “alte” ovvero le immagini artistiche;
la necessità di considerare le immagini, nel loro complesso, come un punto chiave, “storicamente determinato”, nel tessuto complessivo della cultura;
la fiducia nell’operazione di accostamento o “montaggio” dei vari tipi di immagine come un sistema o un insieme dotato nel suo complesso di significato.
Infine, la necessità di far emergere una contrapposizione tra l’idea di immagine come atto “sociale” e l’idea più tradizionale di immagine come “naturalità”.
Fonte: http://www.archivio.formazione.unimib.it/DATA/Insegnamenti/11_2331/materiale/introduzione%20dispense%20realismo.docx
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