Corso Sacramenti

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Corso Sacramenti

La sacramentalità modo di essere dell’uomo  e modo di agire di Dio
Introduzione
Scopo che ci si propone in questo corso  sui sacramenti è condurre ad una maggior comprensione dei sacramenti quale realtà liturica, e porre le basi per una pastorale sacramentale che si esprime nella catechesi, nella celebrazione e nella vita spirituale che da essi promana.
Per raggiungere tale scopo lo studio dei sacramenti viene affrontato secondo l’aspetto storico-teologico di essi. L’indagine storico-teologica prende le mosse da un esame ermeneutico dei testi e dei documenti liturgici che la Chiesa, in diversi tempi e luoghi, ha usato per la celebrazione dei sacramenti. Partendo, quindi, dalla realtà liturgica ossia dalla celebrazione come azione rituale, lo studio dei sacramenti tende a svelare il loro contenuto teologico.
Per molto tempo nella Chiesa si è avuto un concetto restrittivo di sacramento: ha indicato solo uno dei sette sacramenti o riti sacramentali delta Chiesa. Tale restrizione è un impoverimento della realtà sacramentale. Vi sono altri centri di sacramentalità che costituiscono l’ambiente proprio per la comprensione dei sacramenti, la loro celebrazione e realizzazione nella vita.
Nei primi dodici secoli i termini “sacramento”, “mistero” hanno designato realtà diverse dai sette sacramenti, come Cristo, la Chiesa, la Pasqua, l’Incarnazione, la Quaresima ecc. E’ stato dopo un lungo percorso che si è arrivati a una differenziazione tra “sacramenti maggiori” (Battesimo ed Eucarestia) e sacramenti minori(gli altri sacramenti’) e tra sacramenti e semplici “segni sacri” (che rimandano ad un’altra realtà ma non santificano).
Soprattutto dopo il Concilio di Trento sacramento indica i sette riti sacramentali della Chiesa e la sua essenza o natura è stata delimitata nell’essere “segno efficaci della grazia”. Dopo la controversia con i protestanti sacramento è applicato alle realtà che presentano i seguenti requisiti: istituzione da parte di Cristo; composizione di materia e forma, efficacia “ex opere operato”, intenzione da parte del ministro, disposizione da parte del soggetto.
Il Vat. II ha ripreso il senso più primitivo di sacramento e lo ha applicato a Cristo, alla Chiesa, e in senso più generico al cristiano, ad ogni uomo e alle realtà create. All’interno della nuova ecclesiologia (Chiesa sacramento di salvezza LG 48 o sacramento del regno di Dio LG 5) si è sviluppato il discorso dei sacramenti. Infatti non si tratta della Chiesa come ottavo sacramento, ma del fondamento a partire dal quale si comprendono i sette sacramenti. La chiesa è questo sacramento fondamentale solo grazie alla sua integrale dipendenza dal sacramento originario di Dio e dell’incontro dell’uomo con Dio, che è Cristo. Oggi la teologia non esita a chiamare sacramento anche altre realtà fuori dal settenario tradizionale.
E’ sembrato opportuno richiamare, anche se in maniera troppo succinta, tale realtà sacramentale all’interno della quale inserire lo studio dei sacramenti.


Capitolo I
La sacramentalità modo di essere dell’uomo:
fondamento antropologico dei sacramenti
Tra la struttura dell’uomo e l’economia sacramentale di Dio esiste una continuità oggettiva. L’antico assioma teologico: “sacramenta sunt propter homines”, non significa “i sacramenti sono a vantaggio degli uomini”, quanto piuttosto che “i sacramenti si pongono in corrispondenza alla natura e alla condizione storica dell’uomo”. I sacramenti sono, cioè, realtà vicine alla natura dell’uomo, esistono a motivo della realtà strutturale dell’uomo, vengono incontro alla sua situazione storica e al modo di porsi in relazione e al modo di comunicare con gli altri nel mondo. Essi costituiscono “il modo propriamente umano dell’incontro con Dio” .
D’altra parte è legge generale dell’economia rivelata che Dio si rivela e si fa presente (incontra) all’uomo rispettando la sua condizione reale . Questo è ciò che i Padri chiamano “synkatabasis”, cioè “condiscendenza di Dio. Dio quando comunica con l’uomo si adatta, si abbassa al linguaggio umano, iscrivendo la sua presenza nel mondo e in quel linguaggio. L’economia sacramentale rivela e attua/realizza questa “condiscendenza divina”.
La ragione dei sacramenti è di ordine antropologico. Giovanni Crisostomo spiega questa ragione dicendo: “Se tu fossi incorporeo, Dio ti avrebbe dato doni incorporei e senza forma visibile; ma poiché l’anima è unita al corpo (sei un essere corporeo), Dio ti dà doni spirituali in realtà sensibili” . La teologia sui sacramenti oggi non può non tener presente le strutture fondamentali dell’umano per cogliere il senso totale dei sacramenti della Chiesa e il loro modo di operare nel credente .
Punto di partenza per comprendere il senso, l’origine e la diversità dei segni sacramentali è la realtà dell’uomo stesso, le situazioni fondamentali della vita umana. In queste situazioni i sacramenti appaiono radicati nella stessa trama e densità della vita umana. Si vedrà come a determinare la sacramentalità della vita non è il segno esterno, quanto la vita stessa esige e reclama una corrispondente rappresentazione simbolico – sacramentale. I sacramenti sono la migliore offerta simbolica per realizzare le necessità e i bisogni dell’uomo.

1. L’uomo è un essere sacramentale / simbolico

Nell’antropologia occidentale il pericolo del dualismo è stato sempre presente. Oggi il superamento della visione dualista dell’uomo (anima e corpo) è fortemente esigito. Bisogna superare la visione dualista dell’uomo in anima e corpo, che pensa all’anima come prigioniera del corpo o esiliata nel corpo, e al corpo come ad un involucro scadente e pesante con le sue esigenze ed i suoi capricci. Questi accenti dualistici hanno avuto spesso una nota morale, in quanto insistono sulla necessità di liberarsi dalle realtà materiali e corporali, per applicarsi alle realtà eterne e incorruttibili della riflessione e della contemplazione. La concezione dualista ha influito negativamente portando al disprezzo del corpo e alla fuga dal mondo.
Bisogna abbandonare questa concezione dualista e partire invece dall’evidenza e dalla esperienza che ognuno ha dell’uomo. Solo in base all’esperienza e all’evidenza, d’altra parte, possiamo parlare dell’uomo.
E’ un fatto di evidenza e di esperienza che ogni essere è per principio aperto all’altro. Tuttavia bisogna distinguere, nota Schillebeeckx, che altra è l’apertura delle cose, “altra quella … dell’uomo e altra ancora quella di Dio” :
“Le realtà materiali non posseggono una inte­riorità, un mistero personale. Sono alla mercé del­lo spirito umano, che le scruta e le domina. Con­seguentemente non parliamo di incontri con le cose, con le piante o con gli animali, ma piuttosto di signoria da parte dell'uomo, che stende su di loro la sua mano nel gesto violento del padrone” . Le realtà materiali mancando di “mistero personale” non possono entrare in rapporto con l’uomo.
Completamente diverso è il caso dell’uomo. L’uomo a differenza delle cose ha un “mistero personale”, una interiorità che lo distingue dalle cose e lo pone nell’ordine dei fini – valori e non dei mezzi.
L’uomo, però, non è un essere già costruito, ma è un essere in divenire. Tutte le antropologie accettano la consapevolezza che “essere uomo non è qualcosa che esce tutto fatto dalle mani del Creatore, ma è essenzialmente e fondamentalmente un compito, una missione, una vita da realizzare” . Gli studi di antropologia e di psicologia evolutiva dimostrano che l’uomo è un essere in divenire e si realizza man mano che cresce, nella misura che prende in mano ed incanala le proprie esigenze e le proprie possibilità.

1.1 Le esigenze fondamentali dell’uomo: la libertà e l’amore

E’ un fatto ormai accertato che tra le molteplici esigenze e possibilità dell’uomo due emergono come esigenze e possibilità fondamentali: la libertà e l’amore.

1.1.1 La libertà

L’uomo è libero quando è capace di autogestirsi e di scegliere responsabilmente. La libertà è un fatto evidente che non si può dimostrare perché la dimostrazione esige la libertà stessa. La libertà semplicemente si mostra: io vedo in un uomo responsabile i segni della libertà perché consegue un progetto costruttivo per sé e per gli altri. Libertà è possibilità di assumere un determinato valore nel proprio agire e di realizzare questo valore. Vi sono dimensioni della libertà che aiutano a scoprirne il significato. In questo sono di aiuto i binomi: libertà e responsabilità; libertà e maturità; libertà e liberazione.
Libertà responsabile è quella dell’uomo che agisce sapendo cosa fa e perché; è quella dell’uomo che percepisce e dà un senso alla vita e assume questo senso in maniera personale. Le azioni dell’uomo hanno un senso quando incarnano dei valori e contribuiscono a promuoverli nel mondo. Libertà responsabile si mostra nei rapporti con l’altro: è possibilità di riconoscere o di rifiutare l’altro; l’altro è colui che ha bisogno di essere riconosciuto. Libertà responsabile non è quella che viene concepita come assenza di ogni legame (libero come un uccello); come assenza di ogni preoccupazione (libertà del bambino in casa, o libertà da ogni preoccupazione per i figli o per gli affari). Preoccupazione e responsabilità sono proprie dell’uomo. Libertà non è l’assenza di preoccupazione, ma è realtà dura e responsabile.
Libertà matura è quella dell’uomo capace di agire e di decidere personalmente e di amare personalmente vivendo nella fedeltà alla persona amata. E’ la libertà che indica l’uomo che sa dominare se stesso e la natura in modo da essere capace di vivere relazioni personali.
Libertà e liberazione. La libertà non può esistere che come liberazione. L’uomo per realizzare se stesso deve essere libero o almeno impegnato a liberarsi. La libertà umana è sempre una libertà condizionata, una libertà in situazione, è lenta e faticosa lotta per dominare le situazioni interiori ed esterne. Il dominio di queste situazioni non è mai terminato per cui la liberazione personale e sociale non è mai completa. I condizionamenti della libertà dell’uomo sono: il mondo naturale (clima, malattie, cataclismi); il tempo (obbliga l’uomo a realizzare gradatamente: non tutto si può fare allo stesso tempo); il corpo (carattere, possibilità intellettive); la cultura (è possibilità e limite di sviluppo); l’opinione pubblica (pressione sociale); il subconscio. La libertà umana è sempre liberazione, cioè affermazione e conquista sulle forze della natura, corporali, sociali, ecc.,  nelle quali l’uomo si trova immerso e che sono sempre un condizionamento di questa libertà. Essere libero significa possibilità e necessità di liberarsi, personalmente e socialmente, dominando sempre meglio le forze interiori ed esterne in vista di un più pieno riconoscimento dell’uomo da parte dell’uomo. L’agire, l’azione in quanto manifestazione ed attuazione dell’uomo è l’ambito della libertà.  Nell’azione scopro l’uomo libero perché constato che essa segue scelte ben precise, utilizza metodi e persegue progetti di liberazione.
E’ caratteristica della libertà non restringersi all’uomo che si realizza, ma porlo di fronte all’altro, inserirlo in un dialogo: la dimensione interpersonale della libertà è inalienabile.

L’Amore

L’intera esistenza e realizzazione dell’uomo si fa in collaborazione con gli altri. Gli altri. Specialmente le persone amate, danno senso alla mia esistenza. Diversi pensatori concordano fondamentalmente che la verità più profonda dell’uomo è il suo rapporto con gli altri. Esistere è coesistere. L’intersoggettività o la relazionalità è considerata a ragione dimensione fondamentale dell’uomo. L’intersoggettività è superamento e negazione di due concezioni riduttive dell’uomo: l’individualismo (l’io pensante contrapposto e superiore al noi) e il collettivismo (stare insieme per un risultato puramente empirico).
L’individualismo, pur non essendo una concezione cristiana, ha invaso la spiritualità cristiana. L’individualismo si presenta come l’io pensante superiore al noi.: l’individuo ha il primato sopra la collaborazione con gli altri. L’uomo individuo è autosufficiente nei confronti degli altri: può pensare, volere, ragionare, agire, progredire … senza aver bisogno degli altri. Le tendenze individualistiche nell’epoca moderna si manifestano in diversi settori: nella politica (primato dell’individuo di fronte lo stato), nel sociale (l’individuo è buono e nasce buono, è la società che lo rende cattivo), in campo economico (all’individuo deve essere permesso il libero mercato e la libera concorrenza per poter realizzare il massimo progresso), nel campo religioso (libera – individuale ricerca della Scrittura, consenso individuale all’invito di Dio nell’intimo della coscienza).
Il collettivismo si presenta come uno stare insieme per un risultato puramente empirico. Esso sorge, all’inizio del sec. XX, come opposizione all’individualismo e indica ogni teoria e prassi che considera essenziale ed unica la dimensione sociale dell’uomo. L’uomo è insieme di relazioni sociali con gli altri. In questa concezione, che nega tutto ciò che è privato e individuale, non c’è posto per la religione, l’immortalità, il problema dell’al di là. 
Il primato della intersoggettività o delle relazioni interpersonali si può esprimere così: “io non mi percepisco come persona, né mi realizzo come persona per il fatto di occuparmi prima di tutto della materia, della scienza, della tecnica, ma perché sono in comunione con gli altri uomini nel mondo. Tale comunione, che distrugge ogni illusione di autosufficienza, mi pone in atteggiamento di apertura e di dialogo di fronte all’altro. L’altro ha un primato: non è mio pensiero, mia invenzione, egli irrompe nella mia esistenza distruggendo la mia illusione di autosufficienza. L’altro si impone a me, bussa alla porta, è straniero, vedova, orfano, povero e bisognoso di tutto, soprattutto di riconoscimento. E’ nell’incontro con l’altro che l’uomo si percepisce e si realizza pienamente come uomo. Nel contatto con gli uomini il mondo si familiarizza (umanizzazione del cosmo), la parola acquista significato (comunione interpersonale). E’ chiaro che non basta essere con gli altri (numericamente), bisogna essere per gli altri.

1.2 Rapporti fondamentali dell’uomo

In questa visione antropologica si vanno focalizzando due rapporti fondamentali:
- Incontro uomo con gli altri uomini. L’uomo sente il bisogno dell’altro con cui dialogare; avverte, inoltre, che nel dialogo - esperienza di comunione trova una possibilità valida di realizzare se stesso. L’incontro fra uomo e uomo avviene quando, liberamente, per la mediazione del corpo, l’uomo si apre all’altro che lo accoglie nello stesso atteggiamento (amore).
- Incontro uomo con Dio. Può fermarsi qui ritenendosi appagato. Ne scaturisce l’assolutizzazione e la cosificazione (idolatria) dell’altro e, per se stesso, il sentimento di sufficienza e di orgogliosa conquista (ateismo). O andare oltre e, mentre fa esperienza del completamento che l’altro porta alla sua vita, scoprire che anch’egli è relazionale: è via all’incontro con Dio.

2 Il significato dell’esistenza corporale

La libertà e l’amore si realizzano nell’esistenza corporale.
“Ogni rela­zione umana all’altro si svolge attraverso il corpo. Attraverso la sua corporeità la persona umana è aperta verso l’esterno … Il corpo per natura sua rivela e nello stesso tempo nasconde il mistero della persona. In parte, lo vo­glia o no, l’uomo è aperto e accessibile all’altro uo­mo, poiché il corpo tradisce il suo intimo. In par­te però egli si rivela solo quando liberamente lo vuole … L’incontro personale da uomo a uo­mo non consiste … nel dominio che posso esercitare sulle manifestazioni corporee non volu­te, perché in questo modo l’uomo sarebbe ridotto ad un oggetto. Al contrario, il vero incontro per­sonale ha luogo solo quando la persona umana si apre spontaneamente all’altro, mentre l’altro da parte sua accetta con fiducia questa rivelazione. L’avvicinamento unilaterale e violento al nostro simile significa che ignoriamo la sua personalità e perciò non potrà mai essere un “incontro perso­nale”. In questo modo potremo raggiungere in lui solo l’elemento che non e tipicamente personale, mentre il mistero della sua vita ci rimarrà chiuso. Ogni incontro umano presuppone quindi sempre da una parte un’autorivelazione e dall’altra la fede, rivelazione e fede che acquistano il loro senso pie­no solo in una atmosfera di amore” .
Il corpo è espressione e presenza di tutto l’uomo, cioè modo fondamentale di essere e di realizzare la propria vita personale. Così l’uomo è inteso come Unità articolata.
L’antropologia ebraica - a differenza del mondo greco: anima-corpo - considera l’uomo come un’unità ed ha diversi termini per indicare l’essere umano; tutti indicano l’unità pur sottolineando aspetti particolari. Termini come sarks, soma (carne, corpo) non si oppongono a all’anima, ma indicano piuttosto tutto l’uomo sotto l’aspetto della fragilità o delle relazioni di sangue. Così: “la nostra carne” = il nostro fratello; “ogni carne” = tutti gli uomini. “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv. 1,14) = il Verbo si è fatto uomo, cioè membro dell’umanità partecipe della fragilità umana in tutti i suoi aspetti, eccetto nel peccato. Il termine psiche (anima) non indica l’anima opposta al corpo, ma il respiro vitale, la vita, l’essere vivente, o anche il pronome “io”, “tu”, “lui”: “la mia anima è triste” = io sono triste. Il termine pneuma (spirito) è il vento o soffio, esprime anche l’uomo con un particolare rapporto con Dio:
“Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione e tutto quello che è vostro: spirito anima e corpo, si conservi irreprensibile fino alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (1Tim. 5,23)
Questi termini non indicano delle parti dell’uomo in opposizione ad altre parti, bensì tutto l’uomo sotto un determinato aspetto o rapporto:
•    carne: tutto l’uomo come fragilità
•    anima: tutto l’uomo come essere vivente;
•    Spirito: tutto l’uomo in rapporto con Dio.
Ogni atto umano ha due aspetti. Uno esterno, corporale, l’altro interiore. L’attività interiore non esiste senza coinvolgere le funzioni corporali, quella corporea scaturisce dall’intimo della persona. Il corpo non è un’appendice dell’uomo, involucro dello spirito (dualismo, Platone), ma Dimensione Fondamentale: l’uomo esiste corporalmente e corporalmente deve realizzarsi .

2.1 Significato del corpo.

Qual è il significato di questa concezione unitaria dell’uomo, o questa unità con il corpo, o questa partecipazione fondamentale del corpo alla vita della persona? In altre parole, che significa per l’uomo dover esistere corporalmente e realizzarsi corporalmente?
Il corpo esprime e manifesta l’Uomo Il corpo ha un carattere sacramentale (segno) perché esprime la realtà interiore ed, esprimendola, la realizza. Pensieri, desideri, interrogativi, sentimenti, ecc., non esistono senza la loro espressione personale. Il corpo diventa il luogo dove la persona si esprime e si realizza. Esprimere non significa che il pensiero, i sentimenti o la decisione esistono prima, bensì che si realizzano nella visibilità del corpo. Si può dire che l’uomo si manifesta realizzandosi e si realizza manifestandosi. Il corpo ha un carattere sacramentale: esprime o significa la realtà interiore, e esprimendola la realizza nello stesso tempo. Anche il sacramento realizza ciò che esprime ed esprime ciò che realizza. 
Ciò ha parecchie implicanze. Eccone alcune:
- L’essere umano, per il fatto che esiste corporalmente, è fragile e bisognoso: ha fame e sete, soffre il freddo e il caldo, è esposto alla malattia e alla morte; ha bisogno di protezione e di aiuto. Ogni incontro con l’altro uomo includerà anche questo tratto bisognoso dell’altro, che apparirà come colui che ha bisogno di essere trattato come persona e non come cosa;
- in quanto essere corporale incarnato la persona è essenzialmente incompiuta (alterità); è un essere da realizzarsi attraverso il tempo e lo spazio;
- Il corpo è una realtà positiva (esprime ed attua l’uomo), non è una realtà cattivo e peccaminoso, né pericolo, né tentazione. Questa positività riguarda il corpo concreto con i suoi bisogni, le sue passioni, i sui disagi, la sua bellezza, ecc. I sentimenti, l’amore, l’affettività sono possibilità dell’uomo. È un corpo che può e deve essere umanizzato affinché permetta veramente l’espressione e la realizzazione dell’uomo.
- Il mondo prolungamento del corpo (umanizzazione del cosmo). L’uomo mediante il corpo appartiene al mondo; il corpo è il punto d’inserimento nel mondo il quale è orientato verso l’uomo, come luogo dell’umanizzazione dell’uomo. Dappertutto c’è qualcuno che ci ama e che possiamo amare: il mondo diventa casa.
 - Il corpo è presenza. Il corpo è espressione della persona e dunque presenza della persona. Incontrare corporalmente qualcuno è incontrare la persona stessa. Ogni altra forma di appello, di parola, di risposta, di riconoscimento è basata su questa presenza corporale. Questa presenza è sempre imperfetta e incompiuta perché soggetta alle leggi spazio-temporali, e quindi è una presenza che è in qualche modo anche assenza. Ogni espressione corporale è sempre limitata e imperfetta, parziale ed ambigua. La materialità del corpo, infatti, pone dei limiti alla manifestazione stessa dell’uomo. Le parole e i gesti non rispondono mai pienamente alla volontà espressiva della persona. Ci vuole perciò benevolenza da parte di chi ascolta e impegno di chiarificazione da parte di chi si esprime. E soprattutto il fatto che nessuno può esprimersi totalmente in un solo istante fa sì che l’altro sia sempre presente a me nella parziale assenza: incontro solo un aspetto alla volta, mai tutto l’uomo. In ogni amicizia si fa l'esperienza che la presenza dell'altro è sempre quella di un altro. E. Schillebeeckx sintetizza bene questo tratto del corpo come presenza:
“E’ soprattutto nei suoi contatti con gli altri che l'uomo diventa uomo; una vita autenticamente umana implica, dal punto di vista puramente antropologico, la rivelazione del prossimo tramite la realtà e la parola. Infatti la corporeità dell'altro è la sua interiorità manifestata. Grazie alla corporeità posso incontrare personalmente il prossimo in un modo diretto ed immediato, senza intermediario obiettivato. In un modo ancora vago ed anonimo, io faccio 1'esperienza della corporeità dell'altro come rivelazione della sua persona, poiché il corpo è l’interiorità manifestata. D'altra parte, manifestandosi nella corporeità, la soggettività (o libertà) si esprime in una realtà che non è umana per se stessa, ma si umanizza per il fatto che l'altro si manifesta in essa. La mia percezione della rivelazione del prossimo nella sua corporeità è dunque per definizione ambigua ed anonima: anzitutto perché - e nella misura in cui - la manifestazione corporale è l'espressione di una libertà (che ad esempio, può anche simulare); inoltre per il fatto che questo svelamento libero si compie in un materiale terrestre che, pur prestandosi a questa umanizzazione, non può tuttavia mai coincidere con la libertà che si realizza in esso. Il segno corporale non può dunque mai esprimere pienamente il soggetto o l’interiorità. E’ caratterizzato da una ambiguità fondamentale. II prossimo deve dissolvere personalmente l'ambiguità ed anonimato in cui l’interiorità si manifesta, interpretandola (mediante la rivelazione della parola). Soltanto allora, sulla fede di questa parola, noi possiamo conoscere con precisione e secondo verità la rivelazione della realtà che è il prossimo in persona” .
- Il corpo è linguaggio. La struttura corporale dell’uomo lo pone in rapporto all’altro e al mondo; tale rapporto si realizza e si esprime tramite il corpo. Il corpo è la fonte della possibilità di comunicazione. La comunicazione si esprime attraverso la parola, il gesto, l’atteggiamento, il corpo intero. Il gesto dell’uomo si carica di tutta la sua persona e del messaggio vitale (senso) che si vuol trasmettere (attività simbolica -  rituale).

2.2 Il linguaggio della corporeità

La corporeità, in questa visione che si è presentata, è il luogo proprio ed originario del linguaggio stesso e del sorgere di ogni comunicazione simbolica. Il simbolismo, ciò per cui qualcosa è considerata un simbolo, non nasce dalle cose ma dalle persone: è l’uomo che dà senso alle cose e le assume nel suo linguaggio.
Oggi più che mai gli studi antropologici pongono molta attenzione al linguaggio e al suo simbolismo. Il simbolico è visto come il momento della piena realizzazione dell’uomo nei suoi rapporti con la realtà (universo, altri, se stesso) e con il trascendente. Esso è luogo di conoscenza e di coscienza, dove si esprime e si realizza l’uomo .
Questo discorso risulta molto importante per la comprensione dei sacramenti, i quali, in quanto segni e simboli, sono linguaggio .
Il linguaggio non è solo espressione verbale (la parola ne è l’aspetto più importante), è anche universo relazionale della comunicazione umana:
- gestuale e oggettuale: gesti, espressioni corporee (sguardo, mimica), impiego di cose e di oggetti come veicolo significativo di messaggi;
- pulsioni, silenzi, portamenti, spazio, suono, arte.
Con linguaggio oggi si intende i molti sistemi o codici di segni e di significazioni che costituiscono la comunicazione . Tutto ciò che può diventare segno di, elemento di interpretazione, di espressione e di comunicazione diretta o indiretta, questo è linguaggio.
Il linguaggio è anzitutto un processo di comunicazione fra persone: non si pensa mai a qualcuno che parla da solo, ma piuttosto a qualcuno che dice qualcosa a un altro.
Ogni comunicazione umana avviene attraverso segni, anche quando si tratta di comunicazione verbale, parlata o scritta. Le parole sono segni. In senso generale prendiamo qui per segno una qualche realtà sensibile, che indica un’altra realtà e ad essa rimanda. Tuttavia dobbiamo dire anche che nessuna cosa è segno in sé stessa: il segno esiste come tale in rapporto a qualcuno che lo interpreta e lo legge .
Il segno consiste nel fatto che qualcuno fa segno ad un altro, “perché vi sia un segno, occorre che una persona faccia segno ad un’altra. Non si può dunque ridurre semplicemente il segno ad una “cosa” (pane, acqua, luce, ecc.). Il segno comporta sempre un’azione interpersonale di comunicazione” . Il segno, infatti, non può essere ridotto ad un oggetto: va visto sempre come azione. “Il segno comporta sempre un’azione interpersonale in vista di una comunicazione” anche quando questa comunicazione si compie completamente in tempi diversi.

2.3 Diversità di linguaggi: segno e simbolo

Il linguaggio è una realtà dell’uomo che va al di là del linguaggio verbale, parlato o scritto. Accanto al linguaggio verbale esiste un vastissimo campo di linguaggio fatto di segni, di immagini, di odori, di oggetti, di usi, di costumi, ecc. A trasmettere messaggi, a “dire” qualcosa, non sono solo le parole. Parlano gli abiti che si indossano; parla il quartiere dove si abita; parla l’arredo di una casa; parlano i nostri occhi e le nostre mani; parlano, anche senza dire nulla, le persone che frequentiamo; parlano gli atteggiamenti degli interlocutori; parlano gli oggetti, gli odori, ecc… Tutte queste realtà inviano messaggi “reali” che vengono percepiti dagli uditori, al di là dell’intenzione di chi li emette. Noi, coscienti o no, trasmettiamo e riceviamo dei messaggi attraverso queste realtà.
All’interno di questa varietà di forme di linguaggio si riscontrano due modalità:
- il linguaggio razionale – logico: è il linguaggio della ragione, della matematica, delle scienze, della tecnica .
- il linguaggio simbolico: è il linguaggio del sentimento, della poesia, dell’arte, della musica, della contemplazione .
Per esempio: un uomo nel dire di amare sua moglie, lo può fare secondo queste due modalità di linguaggio:
- Nella prima modalità, l’uomo può fare questo discorso: “Cara, io ti voglio bene, sono contento di averti incontrata e sposata; sei bella, sei brava, sai cucinare, sei una buona mamma per i nostri figli, ecc.…”.
- Nella seconda modalità, l’uomo può “dirle” tutto questo e molto di più, anche senza parole, regalandole un mazzo di rose rosse per l’anniversario del matrimonio o dandole un bacio da innamorato.

2.3.1 Segno

Con la valenza segno viene indicato il linguaggio logico - razionale. Il segno, infatti, è nell’ordine delle conoscenze, dei concetti, della informazione e comunicazione delle idee. Esso svolge una funzione essenzialmente “indicativa” di una realtà, di un fatto, per cui rimanda ad altro da sé. Il segno è come una freccia direzionale, come un dito puntato verso, che permette di individuare e conoscere la realtà indicata. Per cui alcuni parlano di segno indice (segno) e di segno simbolo (simbolo) .
Un segno si compone di una parte materiale, visibile o udibile, e di una parte concettuale. La parte materiale viene generalmente denominata “significante” e quella concettuale “significato”. Segno è significante e significato, e non solo il significante. Qualunque segno, una parola, un suono, un gesto, un cartello stradale, è composto da un significante e da un significato:
- quando io sento il suono della parola “cane” (significante), mi viene in mente l’idea di “cane” (significato);
- vedo il semaforo rosso (significante), mi devo fermare (significato);
- vedo il fumo (significante), penso al fuoco (significato);
- vedo la bandiera “tale”, penso alla tale nazione;
- vedo una rosa, penso all’amore.
Il rapporto tra il significante e il significato (significazione) in molti casi è un rapporto convenzionale: frutto di un accordo sociale. Per cui la significazione è opera della volontà dell’uomo. Così nel caso della bandiera, della rosa. Il segno convenzionale è comprensibile all’interno della cultura e nel contesto in cui viene impiegato, e richiede il suo codice per essere interpretato. In questo caso si è di fronte alla dimensione comunicativa del segno. Rivolgendomi ad un interlocutore io dico: “il cane abbaia”, si ha la relazione significante-significato, non solo per me, ma anche per il mio interlocutore, perché entrambi intendiamo la relazione ossia il codice. Se io dicessi invece al posto di “cane”, “dog”, e il mio interlocutore non sa l’inglese, cioè non conosce il codice (lingua inglese), non avviane comunicazione. Lo stesso per la rosa-amore: io debbo conoscere il codice dato da quella cultura che mi rimanda all’amore. L’intesa sul codice è ciò che consente ad un mittente si entrare in relazione (linguistica) col destinatario.

2.3.2 Simbolo

Con la valenza simbolo viene indicato il linguaggio simbolico. Il simbolo è nell’ordine della relazione, della partecipazione, del riconoscimento, della comunione - incontro delle persone.
Il termine simbolo, dal greco “syn-balléin”, significa letteralmente “gettare insieme”. Usato nella forma transitiva lo si traduce con “mettere insieme”, “riunire”, “scambiare”; nella forma intransitiva , significa “incontrarsi”, “intrattenersi”. Simbolo opera sempre una comunione, un rapporto, uno scambio attraverso cui si ha una identificazione e un riconoscimento reciproco. Anticamente simbolo consisteva in un oggetto (un anello, una tavoletta, una moneta, ecc.) tagliato in due (o più) di cui ciascuna parte veniva consegnata ad un partner in vista di un riconoscimento o di un impegno comune. Da sola, ognuna delle parti, non “significava” nulla. Qualche tempo dopo (anche dopo anni) i contraenti o anche i loro discendenti, potevano esibire ognuno il proprio pezzo di oggetto, saldarlo con gli altri pezzi e farsi riconoscere come partners del contratto stipulato. Il tutto, sotto l’autorità della legge, scritta o orale, che garantiva la legittima dell’operazione . Il simbolo è un’azione per cui si parla di atto di simbolizzazione .

2.4 Le dimensioni del linguaggio simbolico

Il simbolo amplia l’orizzonte di senso del segno. Per cui il linguaggio simbolico, a differenza del segno, implica due tipi di significato attribuiti allo stesso significante.
Per esempio: Se si sta parlando di Davide, re di Giuda, e si ricorre alla frase: “Il leone di Giuda”, il termine “leone” subisce un ampliamento di senso:
A. Udendo il suono (significante) “leone”, io elaboro il concetto (significato) di quel tale animale della foresta (SEGNO).
B. L’intera frase, però, e il contesto in cui viene pronunciata mi portano verso un nuovo significato: il personaggio biblico Davide. (SIMBOLO). Il simbolo ricorre ad un segno già esistente e ne fa un punto di partenza per ulteriori nuovi significati. Cosi nel segno di partenza, con il suo significante (suono “leone”) e con il suo significato (concetto “leone”), si aggiunge il nuovo significato (Davide).
Il simbolo crea nello stesso significante (suono “leone”) due livelli di significato (concetto “leone” e personaggio “Davide”) e nessuno dei due livelli può venire assorbito dall’altro.
Proprio da questa struttura del simbolo emergono delle domande che introducono nelle dimensione del linguaggio simbolico. Se, infatti, il simbolo prevede diversi significati per il medesimo significante:
a) Quale è la realtà a cui esso si riferisce (al leone o a Davide)? Dimensione referenziale.
b) Come gli interlocutori che utilizzano il simbolo possono intendersi? Dimensione comunicativa

2.4.1 Dimensione referenziale del linguaggio simbolico

A differenza del segno che, composto da un significante e da un significato, rimanda ad una sola realtà, il simbolo, invece, essendo composto da un significante e da più significati a quale realtà rimanda? Esso non può rimandare ad una sola realtà, perché sarebbe un segno; né può rimandare a due realtà distinte, perché si scioglierebbe in due segni, e ciò esigerebbe due significati e due significanti.
Il referente, la realtà a cui il simbolo rimanda, non è  né il primo significato (concetto “leone”), né il secondo (personaggio “Davide”), ma è invece, la relazione di senso che c’è tra il primo ed il secondo significato. Nel nostro esempio, la realtà a cui si riferisce chi pronunzia “il leone di Giuda”, non è identificabile né con l’animale “leone”, né con il personaggio “Davide”; il simbolo rimanda a ciò che rende possibile la relazione tra il leone e Davide: per esempio la “forza”, la “regalità”.
Il simbolo fa emergere un nuovo livello di realtà in cui le cose non appaiono più isotate tra loro, ma in relazione reciproca, in relazione di senso . Il simbolo mette assieme (relazione di senso), fa esistere assieme, realtà diverse in una realtà nuova (senso).
Questa relazione di senso non appare nella parola, nel segno, nel gesto, ma rimane nascosta alla parola, al gesto, al segno. La parola dice soltanto “il leone di Giuda”, ma non dice “Davide” e soprattutto non dice “forza” o “regalità”.
Il linguaggio simbolico proprio per la sua capacità di andare oltre il visibile, l’udibile, l’osservabile, il descrivibile, di andare verso il senso delle cose e del mondo, proprio per questa sua capacità esso risulta il più adatto alla esperienza religiosa.
In questa il “sacro” , proprio per la sua trascendenza, non può essere detto, non può essere visto, esso risulta essere l’indicibile, l’invisibile, che può essere inteso come rimando oltre il detto, oltre il visto. Il “sacro”, infatti, è una realtà che non sta “accanto” alle altre (“profano”), che non è descrivibile come le altre realtà, ma esso “irrompe” nella vita ordinaria come realtà intangibile e incontrollabile da parte dell’uomo; appare all’uomo, ma non può essere visto dall’uomo; il suo apparire è sempre un nascondersi nella parola, nel fenomeno, nell’evento che sceglie per la sua manifestazione (esperienza del roveto ardente), è sempre nel rimando simbolico di quella parola, di quel fenomeno, di quell’evento. In altri termini il “sacro” è un apparire in simbolo.
Questo è importante perché se il “sacro” appare sempre in simbolo, sarà sempre il simbolo che consente di far memoria dell’evento in cui si è manifestato il “sacro”.
Prendiamo ad esempio l’evento del roveto ardente di Esodo 3,1-5:
Mosè era pastore del gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian: portò il gregge oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb. Gli apparve l' angelo del Signore in una fiamma di fuoco, dal mezzo di un roveto. Mosè guardò: ecco che il roveto bruciava nel fuoco, ma il roveto non era divorato. Egli disse: «Ora mi sposto per vedere questo spettacolo grandioso: perché mai il roveto non si brucia». Il Signore vide che si era spostato per vedere, e lo chiamò dal mezzo del roveto e disse: «Mosè, Mosè!». Disse: «Eccomi!». Disse: «Non avvicinarti: togliti i sandali dai tuoi piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo santo».
L’evento vissuto da Mosè è già inscritto in un linguaggio simbolico: il roveto non è più quella data realtà empirica, ma è il simbolo di una realtà “altra”, di una realtà trascendente, che io posso percepire solo nel simbolo. Una volta terminato l’evento, se Mosè e il popolo ebraico vorranno ricongiungersi a quell’evento passato, lo possono fare ricorrendo nuovamente e unicamente al linguaggio simbolico.
Questa congiunzione si realizza nella celebrazione. Celebrare, infatti, non è conoscere o indicare un qualche fenomeno naturale o un qualche avvenimento storico, celebrare significa, invece, riconoscere che quel determinato fenomeno o evento del passato ha un senso profondo e particolarmente importante per chi lo celebra, per la società o la comunità. Al centro della celebrazione non sta questo o quel fatto o avvenimento storico, ma al centro del celebrare sta la relazione di senso  tra quell’evento passato e la storia di un popolo, tra l’evento “sacro” e l’oggi, il vissuto, la fede di una comunità.
In quest’azione di “ricongiunzione” che è la celebrazione, il segno, per il fatto che si limita ad indicare i fatti, risulta essere impotente, inefficace. Ciò che occorre, invece, è il simbolo che coinvolge le relazioni di senso.
L’aspetto importante che emerge da quanto si è detto, è che la celebrazione garantisce il legame stretto esistente tra l’evento “sacro” dell’esperienza religiosa e la relazione di senso del linguaggio simbolico. La celebrazione è il punto di incontro tra l’esperienza religiosa, che si basa sull’evento fondante, e il linguaggio simbolico, che rivela quell’evento e ne mantiene il senso lungo la storia.

2.4.2 Dimensione comunicativa e intersoggettiva del linguaggio simbolico

Il problema, come si è detto, è l’intesa tra gli interlocutori. Se, infatti, il simbolo prevede diversi significati per il medesimo significante, come gli interlocutori, mittente e destinatario, che utilizzano il simbolo possono intendersi? Ritornando all’esempio di sopra: quando uno dice “il leone di Giuda”, l’ascoltatore non solo deve capire cosa significa “leone” e “Giuda”, ma deve anche interpretare “leone” nel senso di “forza” o “regalità” per poter intendere che colui che parla si riferisce a Davide e anche, poi, a Dio stesso, come autore della forza sia del leone che di Davide.
A differenza del segno, dove l’intesa nasce dalla conoscenza del codice, nel simbolo, invece, - dato che non tutto è detto, cioè non c’è un codice comune - l’intesa tra gli interlocutori non è garantita dalla conoscenza del codice comune, ma la comprensione del messaggio è garantita dall’intesa tra gli interlocutori. Nel simbolo, pur non conoscendo il codice, gli interlocutori capiscono il messaggio. Questa comprensione tra gli interlocutori è garantita da un’intesa che va oltre il codice (io dico “dog” e il mio interlocutore capisce che mi sto riferendo al cane, nonostante che non conosca la lingua inglese (=codice).
Nel linguaggio simbolico il destinatario comprende la vera intenzione del mittente, perché non si ferma al senso immediato, codificato, del messaggio, ma perché ha col mittente stesso ha un rapporto di intesa “prima” del messaggio e “oltre” il codice. Se nel segno il significato viene da ciò che è detto, da ciò che è espresso, nel simbolo, invece, il senso viene prima di ciò che è detto o espresso; il significato sta in ciò che rimane nel silenzio, nel non detto. L’aspetto più importante nel linguaggio simbolico sta in ciò che è inteso senza essere detto, in questa intesa silenziosa tra chi parla e chi ascolta.
Il linguaggio simbolico in questo senso è sempre intersoggettivo.
Se ritorniamo all’uso antico in cui consisteva il simbolo: un oggetto (un anello, una tavoletta, una moneta, ecc.) tagliato in due (o più) di cui ciascuna parte veniva consegnata ad un partner in vista di un riconoscimento o di un patto comune. Il simbolo sussiste dove i due contraenti, o anche i loro discendenti, confrontano e si scambiavano /congiungevano le rispettive metà dell’oggetto. Il linguaggio simbolico presuppone sempre un contesto di scambio e quindi una pluralità di persone che effettuano lo scambio. Da tutto ciò deriva che il linguaggio simbolico è intersoggettivo. Perché esso esista, non basta solo la presenza dell’“io”, è necessario che intervenga un “tu”. Il “tu” è l’altra parte dell’oggetto spezzato, ed il mio “io” ne è la metà spezzata. Nel linguaggio simbolico è importante la relazione con l’altro.
L’intesa tra gli interlocutori e la relazione con l’altro fanno del simbolo il linguaggio della trascendenza e della comunione. Il simbolo è linguaggio della trascendenza perché esso implica ciò che è al di là del mio “io”; è linguaggio della comunione, perché esso opera a partire dall’intesa tra gli interlocutori, tra il mio “io” e l’”altro”.
In questo senso il linguaggio simbolico  risulta essere congeniale alla esperienza religiosa. Il “sacro”, il divino esprimono la radicalità della trascendenza, questa fa di essi una realtà indicibile, non descrivibile, una realtà che non può essere espressa dalle parole, coi segni a cui l’uomo ricorre per dire le cose della quotidianità. Il senso dell’esperienza religiosa, del “sacro”, del divino, non può essere detto, tuttavia i credenti vi fanno riferimento intendendolo senza dirlo. C’è congenialità tra fede e simbolo: la fede può essere detta sempre nel simbolo.
Inoltre, si è detto che il senso a cui rimanda il linguaggio simbolico è quello che non può essere trascritto nel segno, ma solo inteso dagli interlocutori: il simbolo esiste solo nello scambio degli interlocutori. La stessa cosa avviene per la fede. Il senso della trascendenza, a cui la fede rimanda, non può essere detta, ma solo viene intesa nell’atto stesso in cui i credenti comunicano tra loro. Il contesto dove questo avviene è il celebrare. La celebrazione ha la caratteristica di operare in modo intersoggettivo e comunitario, essa cioè garantisce quell’intesa tra i partecipanti a partire dalla quale scaturisce il senso del non detto.
La celebrazione è il punto di incontro tra l’esperienza religiosa, che implica una realtà “sacra” che è indicibile e invisibile, e il linguaggio simbolico, che rimanda a quella realtà grazie all’intesa intersoggettiva.

2.5 L’azione rituale

La celebrazione media l’esperienza religiosa, il gioco cioè dell’immanenza nella trascendenza, a livello di linguaggio ricorrendo al simbolo, a livello di azione ricorrendo al rito.
Quando un determinato evento risulta essere importante per una società o un gruppo (es. la firma di un trattato di pace dopo una lunga ed estenuante guerra), la società o il gruppo tendono sempre ad imitare quell’evento perpetuandone il ricordo nel tempo. L’imitazione avviene sempre attraverso azioni che simbolizzano l’evento (es. si compiono gesti di pace nel giorno anniversario). Così pure, per esempio, si può stappare una bottiglia di vino con lo scopo di dissetarsi, ma si può compiere lo stesso gesto, e ripeterlo ogni anno, per festeggiare – commemorare un evento passato: matrimonio, onomastico o compleanno di una persona, la liberazione di una nazione.
Da questi esempi ciò che si vuol far emergere che il rito, con le sue azioni simboliche, non vuole “direttamente” produrre un mutamento, ma vuole “ri-produrre” un evento già accaduto. Nel rito ciò che conta non è tanto il “prodotto” immediato dell’azione, quanto il rimandare all’evento passato, il solo che giustifica e dà senso all’agire simbolico che è il rito.
Il rito cultuale è “religione in azione”, cioè traduce operativamente le credenze, le idee della cultura che lo produce. Il rito, infatti, è dell’ordine di “ergon” (fare) che si edifica correttamente sull’ordine di “logos” (parola). Ciò significa che ogni rito si riconduce ad un mito, e non viceversa. Esistono, infatti, miti che non si traducono in riti, ma tutti i riti sono traduzioni di miti.
Mito (mytos), dal greco myo (tengo chiusa la bocca, mantengo un segreto), al di là delle varie interpretazioni, generalmente significa la narrazione, attraverso il linguaggio simbolico, dell’esperienza religiosa originaria e fondante. L’elaborazione narrativa dei miti non è mai opera del singolo, ma di tutta la comunità, i cui miti vengono diligentemente tramandati e continuamente ri-narrati. Il mito, così, per la comunità è: - normativo per le sue credenze religiose; - paradigmatico per i suoi comportamenti; - garante per l’efficacia del rito. Il mito non ha un tempo, il suo tempo è quell’in illo tempore, l’iniziale e insieme il finale, metastorico nella storia. Il mito non ha uno spazio, il suo spazio è “concentrazione” in presenza delle distanze al di là del cosmo nel cosmo. Il mito convive col simbolo ed è così che “precede” il rito.
Rito è azione simbolica che ri-presenta l’evento archetipo, realizzato dagli dei o dagli antenati “in illo tempore” (Mito), allo scopo di “fondare” e/o “salvare” il presente storico attuale.
Quest’azione va fatta “ripetitivamente” e in conformità ad un ordine (regola) universale e trascendente, che garantisce la relazione dell’azione esso, che funge da modello. Per cui non basta la “ripetizione” a fare il rito (ciò è il consuetudinario giornalistico), ma è necessaria la conformazione ad un “ordine”.
Rito, descrittivamente, è:
- azione, conforme ad una “regola” (ordine), che ripete fedelmente il “modello” originario – divino: quello che c’è in cielo, ci deve essere sulla terra;
- azione che media la realtà simbolicamente, cioè in “com-prensione” (linguaggio simbolico) e non in “ap-prendimento” (linguaggio logico-scientifico) , e il cui senso è dato dal mito originante il rito. Il mito è “narrazione” del rito. Il rito è “visibilizzazione” del mito, sua espressione;
- azione non improvvisata, ma programmata (programma rituale) verso il conseguimento di uno scopo di raggiungimento sicuro (efficacia), provocata da una “auctoritas” (eroe, tradizione, inviato divino, ecc.) che è garante della storia dei singoli e della comunità, ed è capace di far “crescere”, realizzare coloro che fanno il rito;
- azione efficace. Il rito, di per sé azione “inutile” perché non produce, e senza “valore” (estetico, economico) , ha la sua efficacia nell’integrazione dell’immanenza nella trascendenza, nella “compresenza” dell’immanenza e della trascendenza, che si verifica nella certezza ripetitiva. Ogni qualvolta si vuole ottenere l’integrazione dell’immanenza nella trascendenza, il programma rituale si ripete tale e quale. Il rito cultuale ha questa pretesa di efficacità che nessun credente potrebbe negare senza mettere in seria crisi la propria fede. Tuttavia l’efficacità del rito non sta tanto nella ripetitività dell’azione compiuta qui e adesso, quanto, invece, sull’evento originario e sulla fede in esso. L’efficacia del rito è garantita dal mito. La fede riconosce che l’evento passato si rende presente e rifà tale e quale quello che ha fatto prima (non un’altra azione sia pure uguale), tutte le volte che la comunità lo evoca “narrandolo” e lo imita nell’azione rituale.
Contraffazione del rito cultuale è il rito magico, che tenda, senza riuscirvi, di rovesciare la dinamica dell’esperienza religiosa: integrazione dell’immanenza nella trascendenza. Il rito magico, cioè, anziché salire dall’immanenza alla trascendenza evocando e invocando, tende a far scendere la trascendenza nell’immanenza provocando e manipolando. La contraffazione risulta in doppio grado fallimentare: sia nei riguardi dell’integrazione della trascendenza che risulta sempre essere non catturabile dall’immanenza, sia nei riguardi della “certezza” perché non entra in sintonia con certezze iniziali inesistenti. Questa è la magia. Oltre alla contraffazione vi è pure l’uso distorto del rito: è quello che usa del rito con “fideismo” nella sua efficacia.


. E. Schillebeeckx, Cristo sacramento dell’incontro con Dio, Ed. Paoline, Roma, 19664, p. 15.

Cfr. su questo aspetto M.D. Chenu, Pour une antropologie sacramentelle, in “La Maison Dieu” (1974) p. 119. 85-89.

Giovanni Crisostomo, Hom. 37, in Evang Mt. 82,4

Cfr. A. Vergote, Dimensioni antropologiche dell’eucarestia, in Idem, L’eucarestia, simbolo e realtà, Bologna, 1973, p. 11-17.

Schillebeeckx, Cristo sacramento, 7.

Schillebeeckx, Cristo sacramento, 7.

J. Gevaert, Antropologia e catechesi, LDC, Leumann – Torino 19783, p. 65.

Cfr. Gevaert, Antropologia, 65-78.

Cfr Gevaert, Antropologia, 21-34.

Schillebeeckx, Cristo sacramento, 8.

Cfr. Gevaert, Antropologia, 36-37.

Cfr. L.-M.Chauvet, Simbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, LDC, Leumann – Torino, 1990, p. 103.

Cfr. Gevaert, Antropologia e catechesi, 39-42.

E. Schillebeeckx, Dio e l’uomo, Ed. Paoline, Roma, 1967, p. 266.

cfr. D. Sartore, Segno/Simbolo, in Nuovo Dizionario di Liturgia (=NDL), a cura di D. Sartore – A.M. Triaca, Ed. Paoline, Roma, 1984, p. 137.

cfr. A. Rizzi, Linguaggio, simboli, gesti sacramentali, in Massa e Meriba. Itinerari di fede nella storia delle comunità di base, Claudiana, Torino 1980, p. 287.

cfr. G. Venturi, Lingua/ linguaggio liturgico, in NDL, 714

Questo vale sia per i fenomeni fisici sia per quelli naturali: io vedo il fumo e dico: è segno che c’è qualcosa che brucia; io vedo delle orme e dico: è segno che qualcuno è passato di qua; sia di segni elaborati dagli uomini.

J. Gelineau, La pastorale liturgica, in Nelle vostre assemblee. Teologia pastorale delle celebrazioni liturgiche I, a cura di L. Della Torre – J. Gelineau – F. Reckinper – e altri, Queriniana, Brescia, 19752, p. 108.

Gelineau, La pastorale liturgica,  108.

Generalmente nella valenza di tipo logico - razionale il linguaggio è concepito come uno strumento per indicare la realtà e per comunicare con gli altri. In questa concezione la persona è concepita è presupposta come soggetto ideale, fuori dal linguaggio, fuori da ogni mediazione, fuori dal proprio corpo, fuori dalla storia. Tutte queste mediazioni sensibili sono un ostacolo al rapporto immediato soggetto – realtà, alla verità.

Nella valenza di tipo simbolico il linguaggio è concepito come mediazione. Il linguaggio – mediazione rivela e realizza il rapporto dell’uomo con la realtà. Il linguaggio rivela l’essere dell’uomo come essere chiamato a realizzarsi nell’incontro con l’altro e realizza questo incontro. Il linguaggio crea sempre, è “poietico”, un rapporto di scambio “io – tu”: ogni parola è sempre una parola che si formula a partire da “chi sono io per te, e chi sei tu per me”. Ogni parola è domanda di riconoscimento e gesto di rivelazione. Come il corpo, il linguaggio è rivelazione e realizzazione della persona. Il linguaggio non serve (strumento) solo a dire qualcosa, ma soprattutto “fa” qualcosa: crea la relazione concreta ed effettiva che lega ogni uomo al proprio simile e al mondo.

Cfr. C. Valenziano, Liturgia e simbolo, in Scientia Liturgica. Manuale di Liturgia II. Liturgia Fondamentale, a cura del Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo, Piemme, Casale Monferrato 1998, p. 48.

Chauvet, Linguaggio e simbolo, 40.

Ne evidenziamo i momenti: a) La simbolizzazione non è un’idea, ma è un atto. Questo atto consiste nel mettere insieme, congiungere due o più elementi che, da un lato, appartengono allo stesso insieme, ma, dall’altro lato, sono distinti. Possono essere simbolizzate solo le differenze. b) Ogni elemento del simbolo acquista un significato solo nel suo rapporto con l’insieme/ struttura degli altri elementi che la compongono. c) L’efficacia del simbolo non dipende dal suo valore (utilità, valore commerciale, estetico, emotivo). Il simbolo non ha valore: di merce: due semplici pezzi di legno in forma di croce simboleggiano il cristianesimo alla stessa maniera di una croce d’oro; di uso: condividere col vicino che non ha nulla, in situazione di penuria, una parte della propria magra razione di cibo, è un gesto simbolico altrettanto (e forse più) efficace che dargli i resti abbondanti di un banchetto in altre circostanze (cfr. anche “obolo della vedova” nei vangeli); estetico: il cero pasquale può sembrare sproporzionato in rapporto all’edificio in cui si trova: è in ogni caso un simbolo di Cristo risorto; d) L’atto di simbolizzazione è insieme rivelatore e operatore. I partners, che mettono insieme i pezzi dell’oggetto, rivelano gli uni agli altri la propria identità che crea un legame o un rapporto in modo che la situazione seguente non è più la stessa di prima. Il simbolo non opera se non rivelando e non rivela se non operando. e) L’atto di simbolizzazione è costituito dal suo riferimento all’Altro. Quando questo Altro designa l’istanza sotto la quale o in nome della quale i soggetti si capiscono. Un contratto può essere stipulato se i due contraenti si mantengono sotto l’istanza della legge (Altro). L’Altro assume forme diverse: può essere la legge, la tradizione degli antenati, il fondatore di un gruppo religioso, sia esso storico (Gesù) o mitico, Dio o la società. Non ci può essere simbolo o simbolizzazione, se non c’è questa “sottomissione” all’Altro da parte degli interlocutori.

Allo stesso modo come in puzzle, come in un mosaico culturale: “tutti gli elementi del puzzle culturale sono connesi gli uni con gli altri e … ciascuno di loro acquista il suo significato soltanto se ricollegato in questo insieme convenzionale”. L. M. Chauvet, I sacramenti. Aspetti teologici e pastorali, Ancora, Milano, 1997, p. 44.

Gli studiosi delle religioni qualificano i fenomeni religiosi dove, come nel passo di Esodo 3,1-5, si narra di eventi, antichi o recenti, in cui l’intervento di una realtà trascendente, divina, è all’origine, ossia prima dell’uomo e del mondo, oppure interrompe i fenomeni naturali e sorprende la vita quotidiana  e ordinaria dell’uomo, gli studiosi qualificano questi fenomeni religiosi con il termine non univoco di “sacro”. Il sacro nel mistero dell’uomo è una specie di “trascendenza immanente”, nel quale l’uomo proietta tutto ciò che lo riguarda da vicino e che nello stesso tempo non può disporre perchè è non dis-ponibile: il problema della nascita, della vita, della morte, il senso della vita. In rapporto all’esperienza di Dio, il sacro no ha una sua identità qualificata: esprime l’esperienza di una trascendenza che è senza nome, che è impersonale, che esprime piuttosto il sentimento di una potenza e di una onnipresenza nascosta e fluttuante, che è movimento intenzionale verso il divino. Cfr. A. N. Terrin, Sacro, in NDL, p. 1303-1316. Sacro come “metaimmanenza è Dio persona, è divino impersonale, è fato, è caos, è nulla, è mille altre “entità” reali o ideali”. C. Valenziano, Liturgia e antropologia, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1997, p. 27.

V. Sanson, Per Gesì Cristo nostro Signore. Corso di liturgia fondamentale, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1999, p. 62-64;  Valenziano, Liturgia e Antropologia,  25-34.

L’imitazione (la mimesis) di cui si parla non è quella di ordine morale. La mimesis teatrale, in un certo senso, è simile a quella rituale. Essa tende a ripresentare l’evento passato, raccontandolo (parola) e mimandolo (azione), per suscitare negli spettatori una emozionalità o per spingerli ad un impegno etico. Si pensi alle rappresentazioni delle tragedie greche.

Si veda quanto si è detto prima alla nota 22.

Si veda quanto si è detto prima alla nota 21.

Si veda quanto si è detto a proposito dell’azione simbolica nella nota 25.

 

Fonte: http://www.antonianumroma.org/public/pua/dispense/Introduzione%20ai%20sacramenti%201.doc

Sito web da visitare: http://www.antonianumroma.org

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