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ELEMENTI DI TEOLOGIA DOGMATICA V: ANTROPOLOGIA TEOLOGICA
Professore: Xabier Larrañaga, cmf.
Bibliografia (8 titoli):
CONTENUTI: 1. Preliminari |
1. Preliminari
Giustificazione della materia: Questa materia offre la riflessione teologica del cristianesimo cattolico sull'essere umano. Si include nell'impalcatura della teologia sistematica o dogmatica e vuole offrire una visione credente sull'uomo, alla luce della sua vocazione ad essere secondo l'immagine del figlio (Rm 8, 29). Per trattarsi di una lettura credente del mistero umano, la materia presenta l'uomo alla luce del suo creatore, del quale è immagine (Genesi 1, 26).
L'Antropologia Teologica comprende il mistero umano sulla scia della cristología (GS 22). In questo senso, cerca la conoscenza sistematica riguardo l'interpretazione credente dell'uomo, situandolo in un contesto più ampio che quello strettamente antropologico.
Il fatto che si offra un'interpretazione credente sull'essere umano, non vuol dire che la materia sia un discorso chiuso nei limiti della fede, ma che essa si offre come interpretazione teologica e ragionevole del lato misterico ed inafferrabile che tutti gli esseri umani prima o dopo sperimentiamo. La materia vuole esprimere che la risposta al mistero umano è ugualmente inafferrabile, ma non inesistente. In questo senso, vogliamo sviluppare la via della persuasione e dei postulati ragionevoli.
Contestualizzazione: l'antropologia teologica vuole dare risposta al mistero dell'essere umano. Conviene trattenere tutte le parole: “mistero dell'essere umano”. Questo ci dà un'idea iniziale che dovremo ricordare lungo tutto il percorso della nostra materia: la nostra risposta è una semplice approssimazione al suo oggetto. Occorre sapere convivere con la domanda, ecco in cosa consista la risposta. Non è questione di pigrizia mentale. Si tratta di affrontare un qualcosa che ci si scappa. Non è scetticismo. Basta con guardare se stesso e cercare di dare una risposta alla domanda che noi stessi “siamo”. Vedremo che non possiamo andare più in là dell’approssimazione.
Osservazione riflessiva: quale sono le domande che suscita in te il fatto della tua esistenza, il fatto di essere? che preoccupazioni sono quelle che ti spingono ad agire? che rapporto mantieni con le domande che più ti inquietano? credi che sia possibile vivere senza quelle domande? credi che Dio dissipi il mistero umano? cosa pensi sulla seguente affermazione “Si deve convivere con la domanda, ecco quello che dobbiamo imparare, proprio in ciò consiste la risposta”?
2. L’“Antropologia Teologica”. Precisazione del concetto
Si può parlare dell'uomo, e difatti si parla di lui, da molti punti di vista: filosofico, psicologico, medico, sociologico... Il termine “antropologia” ci rimanda all'uomo, ci fa vedere che costui è l'oggetto materiale del nostro studio. Ma ciò non basta; dobbiamo anche precisare, e questo è senza dubbio molto importante, il punto di vista da cui noi cerchiamo di affrontarlo. L'aggettivo “teologica” ci dice quale è questo punto di vista: si tratta di ciò che l'uomo è nella sua relazione con il Dio Uno e Trino rivelato in Cristo. Cerchiamo di introdurci nella antropologia teologica, cioè, in quella disciplina, o meglio ancora, in quella parte o settore della teologia dogmatica che ci insegna ciò che siamo alla luce di Gesù Cristo rivelatore di Dio.
La verità rivelata è verità di salvezza. E proprio questa verità che ci dice chi è l'uomo, facendoci conoscere a che cosa egli è chiamato; bisogna presupporre una coerenza fondamentale tra il nostro essere e il nostro destino se non vogliamo che quest'ultimo appaia come qualcosa di meramente esteriore a noi stessi, che non ci realizza interiormente. Qui facciamo riferimento alla pretesa del cristianesimo di offrire una visione originale dell'uomo, conosciuta nella fede e perciò oggetto dello studio teologico. Questa visione deriva da ciò che la fede ci dice su Dio e sul suo Figlio Gesù Cristo fatto uomo per noi.
Certamente, la rivelazione cristiana non pretende in alcun modo di essere l'unica fonte di conoscenze sull'uomo. Anzi, presuppone espressamente il contrario. Senza perdere nulla della specificità teologica, la riflessione cristiana sull'uomo deve arricchirsi con i dati e le intuizioni provenienti dalla filosofia e dalle scienze umane. Tutti questi contenuti, però, devono essere contemplati sotto una luce nuova e più profonda: quella della relazione dell'uomo con Dio. Questa è, secondo la teologia cristiana, la dimensione ultima e più profonda dell'essere umano, l'unica creatura della terra che Dio ha voluto per se stessa (Vaticano II, GS 24), e che è stata chiamata nel più profondo del suo essere alla comunione di vita con il proprio Dio Uno e Trino.
Quindi, per avere una visione completa dell'uomo dal punto di vista della fede cristiana è necessaria la distinzione degli aspetti fondamentali del nostro riferimento a Dio. In questo senso dobbiamo tenere in conto tre dimensioni:
Bisogna inoltre notare che queste tre dimensioni che definiscono la nostra relazione con Dio non possono essere collocate sullo stesso piano. Le prime due (filiazione e l’indole creaturale) sono di ordine positivo, si riferiscono alla costituzione dell'uomo. La terza dimensione (il peccato)è sopraggiunta storicamente, ed è inoltre di ordine negativo, qualcosa che non doveva esserci, che è distruttiva dell'essere dell'uomo. Si tratta comunque di una dimensione reale, che appartiene esistenzialmente alla nostra condizione umana.
Lo studio dell'uomo dal punto di vista della relazione con Dio, articolata nel modo che abbiamo brevemente esposto, costituisce l'oggetto fondamentale dell'antropologia teologica. Abbiamo parlato della condizione creaturale dell'uomo. Ma non soltanto lui, anche tutto il mondo che ci circonda è creatura di Dio. In questo mondo creato da Dio vive e agisce l'essere umano. La riflessione sulla creazione in generale si trova in intima relazione con l'antropologia.
L'esistenza cristiana nella fede, nella speranza e carità, le virtù teologali, è anche parte integrante dell'antropologia teologica. Sono elementi di un'antropologia teologica di taglio storico. Anche l'escatologia, infine, è in rapporto con l'antropologia teologica. Essa fa riferimento allo stato di pienezza dell’umanità graziata da Dio .
3. Alcuni cenni storici
Se, per esempio, nella Chiesa sin dai tempi antichi troviamo opere che portano come titolo De Trinitate, non possiamo dire esattamente lo stesso della materia che adesso ci riguarda se consideriamo l'“antropologia teologica” come un tutto. Sin dall'inizio della teologia cristiana troviamo però delle riflessioni sistematiche sui primi capitoli della Genesi.
L'insegnamento cristiano sull'uomo nelle differenti dimensioni della sua relazione con Dio è stato, senza dubbio, una parte importante nello sviluppo dottrinale dei primi secoli della Chiesa. Dal momento in cui inizia a sentirsi la necessità di sistematizzazione dei contenuti della dottrina cristiana agli effetti sul suo insegnamento, troviamo dei veri trattati specificamente consacrati a quegli argomenti oggi raggruppati sotto la denominazione di “antropologia teologica”.
L'antropologia teologica, almeno nelle sue nozioni fondamentali, nella sistematica del Medioevo è stata affrontata in relazione alla creazione. Nella Summa teologica di san Tommaso le nozioni fondamentali dell'antropologia si trovano nella parte I; qui si tratta dell'uomo in quanto è creatura di Dio. In molti di questi punti le questioni filosofiche predominano in gran misura su quelle teologiche . Vediamo però il luogo che occupano i temi antropologici nella Summa Teologica di san Tommaso. Quest'opera ha tre parti e, ciò che potremmo chiamare, tre ambiti (per quanto riguarda la sua logica):
L'uomo, in questo schema, è una creatura che è stata chiamata alla comunione con Dio, e non ha altra possibilità di arrivare alla sua pienezza che in quella comunione. Possiamo vedere una constatazione paradossale: quello che l'uomo è per creazione (immagine di Dio) non gli basta per arrivare a ciò che deve essere (partecipe della condizione divina) secondo il proposito del creatore. L'enigma umano sta nell'impossibilità di realizzare la nostra più autentica ed originaria possibilità. Quello che l'uomo è (di natura) si trascenderà verso quello che deve essere (per grazia) .
I problemi teologici e morali si trovano mescolati nelle considerazioni di san Tommaso.
Un'opera con caratteristiche diverse da quelle della Summa è il Breviloquium di san Bonaventura. Certamente non può non essere apprezzata la struttura di questa opera, senza dubbio più vicina della Summa ai moderni trattati. Anche qui però appare con chiarezza la dispersione degli insegnamenti sull'uomo.
Ma i problemi fondamentali che riguardano la nostra materia sono stati oggetto di un' acuta discussione nei tempi della riforma e delle controversie che seguirono il Concilio di Trento (Baio, controversia de auxiliis, giansenismo...). Già sin dal concilio di Trento gli studi sulla grazia diventano indipendenti e vanno prendendo maggiore importanza. È il caso dell’opera di Francisco Suarez. Anche in lui, nella linea di san Tommaso, il trattato della grazia segue quello della legge che sono i principi dell'operare umano. Da notare che ancora qui il trattato sulla grazia precede la cristologia.
Nel contesto della teologia del secolo XIX dobbiamo fare un'allusione alla Dogmatica di M. J. Scheeben, che, anche se è rimasta incompleta, contiene, ad eccezione dell'escatologia, i trattati che stiamo studiando. L'uomo occupa, così come nei teologi precedenti, un posto privilegiato nell'insieme del trattato sulla creazione. Continuando, si parla poi dell'ordine soprannaturale dal momento che ad esso è stata destinata la creatura razionale. Il libro IV, e qui bisogna segnalare una notevole evoluzione rispetto a quanto fino adesso abbiamo visto, passa a parlare del peccato, concepito come contrario all'ordine soprannaturale a cui era stata dedicata una gran parte del libro III.
Il trattato della grazia (vol. VI) segue già qui la cristologia e la soteriologia. Anche se alcuni riferimenti alla grazia vengono fatti nel libro III, qui essa viene studiata sistematicamente come la realizzazione in ogni uomo della salvezza meritata da Cristo. La prospettiva che abbiamo visto negli autori precedenti è cambiata: non si tratta soltanto di un principio dell'operare umano, ma della realizzazione in lui dell'opera della salvezza. Appare in questo modo con maggiore chiarezza la relazione della grazia a Cristo.
Ci troviamo già in questo momento con un doppio blocco di argomenti antropologici destinato ad avere fortuna nelle epoche posteriori. Il primo include la creazione, elevazione e peccato, il secondo la grazia. Nella neoscolastica del secolo XIX appare il trattato de Deo creante et elevante (con l’impressione che l’elevazione all’ordine soprannaturale fosse un’aggiunta estrinseca alla natura dell’uomo, poiché nel parlare su Dio creatore si considerava l’ordine naturale nel suo senso piuttosto filosofico).
Nella strutturazione di questo trattato si avvertono man mano due concrete necessità: da una parte una più chiara definizione dei campi della filosofia e della teologia, e pertanto un orientamento più decisamente teologico e storico-salvifico dei problemi protologici. D'altra parte, si desidera una maggiore integrazione della creazione con l'elevazione. Il Dio che ha creato il mondo è il Dio Uno e Trino, e lo ha creato per collocare in esso l'uomo elevato all'ordine soprannaturale.
Dell'umanità, d'altra parte, fa parte anche Gesù Cristo, il Figlio di Dio incarnato. Per questo M. Flick proponeva di cambiare il nome abituale con quello de primordiis salutis humanae (sulle origini della salvezza umana).
Il trattato sulla grazia, consolidato ormai da tempo, riceve con molta frequenza in questo periodo (tempo previo al Vaticano II) il titolo de gratia Christi. Viene messa così in evidenza l'origine e la causa del dono della grazia fatto all'uomo. Dobbiamo però sottolineare che ciò che primariamente interessa è “la grazia” concepita come entità soprannaturale, dono di Dio, aderente all'uomo, o l'aiuto divino per compiere bene. Indirettamente, l'uomo stesso in quanto destinatario del dono divino diventa anche oggetto di interesse .
3.1. La proposta di K. Rahner
Questa frammentazione delle materie teologiche che si riferiscono all'uomo veniva constatata nell'anno 1957 da K. Rahner, in un suo articolo che ha precisamente come titolo Antropologia teologica. È il nome di una disciplina ancora in quel momento inesistente, la cui elaborazione però si va sentendo come necessaria: “La costruzione propriamente detta dell' antropologia (teologica) non è ancora avvenuta. La antropologia viene ancora ripartita nei differenti trattati senza un'elaborazione del fondamento sistematico della sua totalità... partendo da un punto di vista originario” (Rahner).
Questo punto di partenza non può essere per Rahner altro che la coscienza dell'uomo cristiano di sapersi personalmente interpellato da Dio, con la parola della sua assoluta autocomunicazione, libera e misericordiosa, nella sua propria vita. Deve essere un punto di partenza già teologico, e deve avere presente che l'uomo si trova sempre nell’“esistenziale soprannaturale”, cioè, non può prescindere dal fatto che nella sua autocoscienza, anche se in forma non necessariamente tematica, è presente la chiamata di Dio alla comunione con Lui e l'offerta della sua grazia (che per supposto in ogni caso concreto può essere accettata o rifiutata).
L'uomo è perciò da sempre, in virtù delle sue strutture antropologiche, aperto alla possibile rivelazione e chiamata di Dio. Ma la costituzione dell'uomo chiamata “natura” sarebbe ciò che si presuppone affinché egli possa ascoltare la parola, ciò che fa sì che il rifiuto di quest'ultima sia veramente un rifiuto e non semplicemente una negazione dell'essenza umana. A partire da questa nozione di natura come capacità di ricevere la grazia K. Rahner pensa che bisogna intendere quanto si riferisce alla spiritualità, alla trascendenza, all'immortalità, alla libertà dell'uomo, etc.
Risulta coerente con questo punto di partenza e del suo sviluppo il fatto che K. Rahner veda la relazione dell' antropologia con la cristologia come un punto che deve essere particolarmente studiato. In effetti, se l'uomo deve intendersi come l'essere interpellato storicamente da Dio, sappiamo che questa interpellanza si dà soprattutto in Gesù Cristo, che è per la fede cristiana il Figlio di Dio fatto uomo.
Rahner propugna che nel trattato sulla grazia non si deve parlare in astratto su di essa, ma dell'uomo fatto oggetto di grazia; solo così si giunge alla concretezza della teologia biblica sulla grazia. Il punto di partenza, anche in relazione con ciò che si diceva rispetto all' antropologia in generale, sarebbe l'autocomunicazione all'uomo del Dio Trino. Questa autocomunicazione costituisce l'essenza ultima della grazia, è l'atto fondamentale di Dio in Cristo verso il non-divino.
Si vede come, negli anni immediatamente precedenti al Vaticano II, si esprimeva questa necessità di raggruppare in modo articolato i contenuti teologici che si riferiscono all'uomo. Ed è significativo il fatto che sia precisamente la chiamata dell'uomo alla comunione con Dio in Cristo, e conseguentemente la relazione tra cristologia e antropologia, l'asse intorno al quale si vuole realizzare questa nuova articolazione .
3.2. Il concilio Vaticano II e la teologia attuale
Il concilio Vaticano II, alla luce di colui il quale è immagine del Dio invisibile e primogenito di ogni creatura (cf. Col 1,15), vuole illustrare il mistero dell'uomo e cooperare alla ricerca di una soluzione dei problemi più importanti del momento .
Il cap. 1 della prima parte della costituzione Gaudium et spes (12-22), che ha come titolo “la dignità della persona umana”, espone in forma breve e attualizzata, le verità fondamentali sull'uomo: la sua creazione ad immagine di Dio; il peccato mediante il quale egli abusò della sua libertà già sin dall'inizio della storia, e per il quale perdette l'armonia nella sua relazione con Dio, con se stesso, con gli altri e con tutta la creazione; la costituzione dell'uomo nell'unità di anima e corpo; la dignità della sua intelligenza e della sua coscienza morale; la grandezza della sua libertà; il mistero della morte e la sua illuminazione nella risurrezione di Cristo; la vocazione umana al dialogo con Dio come aspetto più sublime della sua dignità, che dà occasione per trattare dei problemi dell'ateismo e dell'atteggiamento della Chiesa nei suoi confronti (cf. GS 12-21). Sono preferenzialmente questioni protologiche, con riferimento anche al destino ultimo dell'uomo e all'escatologia. Il contributo più importante ed originale del concilio all'antropologia teologica però non si trova tanto in questi brevi sviluppi quanto nel principio che, in connessione con quanto si indicava al numero 10, si stabilisce all'inizio di GS 22: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm5,14) e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice. Egli è ‘l'immagine dell'invisibile Dio’ (Col 1,15) è l'uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime...”
Non si tratta, come si vede, di uno sviluppo di contenuti teologici riferiti all'uomo, ma soprattutto di un principio che dovrà essere fondamentale nello sviluppo dell'antropologia teologica. Abbiamo visto come già nel periodo preconciliare si esprimeva questa preoccupazione. Qui ci viene data una prima risposta: Gesù è il rivelatore del Padre e del suo amore; proprio per questo manifesta se stesso come il Figlio. Ma in questa stessa rivelazione, ci dice il concilio, ci fa conoscere anche ciò che noi siamo, la dignità della nostra vocazione. In questo contesto, quest'ultima non può essere altro che la filiazione divina ad immagine di quella di Gesù. Così verrà esattamente detto alla fine di GS 22. Sembra, quindi, che Gesù riveli all'uomo la sua propria condizione in quanto si mostra come Figlio unigenito del Padre. Il mistero dell'uomo si chiarisce nel mistero del Verbo incarnato. E così “chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, si fa lui pure più uomo” (GS 41). La crescita in Cristo significa, quindi, crescita in umanità. L'essere cristiani non ci separa dall'essere uomini, ma ci aiuta ad esserlo con maggiore pienezza.
Non si può minimizzare la portata di questa intuizione fondamentale del concilio Vaticano II, radicata tra l'altro nella più antica tradizione cristiana. Questo principio ha avuto un grande influsso nella teologia postconciliare e, con maggiore o minore misura ha determinato il rinnovamento dei trattati che ruotano attorno al tema antropologico.
Questo lo vediamo per esempio nella conosciuta dogmatica Mysterium Salutis, che definisce se stessa come “manuale di teologia come storia della salvezza”. Nel volume II (dell’originale) si studia “L’inizio della storia della salvezza”. L'insistenza sull'idea della creazione come presupposto dell'alleanza e sulla dottrina neotestamentaria della creazione in Cristo, che si colloca anche all'inizio dello studio protologico, contribuisce a situare tutto l'insieme in un contesto cristologico .
Il terzo volume di MySal tratta della cristologia; alla fine del volume quarto, dedicato fondamentalmente all'ecclesiologia, si trova il trattato intitolato “L'azione di Dio mediante la grazia” (giustapposto alla ecclesiologia ma differenziato da essa, anche se la collocazione indica che si vuole evitare una trattazione individualistica della teologia della grazia). Dopo un'introduzione storica si parla della predestinazione, della giustificazione e dell'essere nuovo in Cristo. All'interno di questo capitolo una sezione è intitolata “L'uomo dotato di grazia. Tentativo di un'antropologia teologica”. Questo dettaglio fa notare come appare di nuovo la denominazione “antropologia teologica”, riferita adesso ad un capitolo concreto di un'esposizione molto più ampia.
Sembra che almeno alcuni piani di studi di facoltà teologiche e di seminari abbiano adottato una sistematica che cerca di unire le materie antropologiche secondo una certa unitarietà, accanto ad altri nuclei fondamentali della dogmatica, quello cristologico-trinitario e quello ecclesiologico-sacramentale.
Però, per completare il nostro panorama, dobbiamo prendere in considerazione anche le proposte di rinnovamento delle stesse strutture del trattato, con un ordine e una distribuzione sistematica diversa, più direttamente ispirata al disegno originale che Dio nel suo Figlio Gesù Cristo ha sull'uomo.
Dobbiamo soffermarci su alcune di queste proposte che, soprattutto in ambito italiano, sono sorte negli anni postconciliari. Così C. Colombo suggeriva un'unificazione delle materie oggetto di studio in un trattato sull'uomo, che doveva seguire i trattati di Dio e di Cristo. L'ordine tradizionale deve essere modificato per iniziare con il piano di Dio sull'uomo, cioè, l'uomo come elevato alla vita della grazia o, meglio ancora, all'ordine soprannaturale; la creazione è un'esigenza di questa elevazione, che l'uomo non perde a causa del peccato.
Alcuni anni più tardi L. Serenthà scrive sul problema fondamentale se il punto di partenza debba essere quello dell'inserimento dell'uomo in
Cristo (grazia) o quello dell'orientamento verso di Lui (creazione).
La soluzione preferita dall' autore è la prima, perché la creazione è
un momento dell'alleanza. Il nesso logico dovrebbe predominare
su quello cronologico, e in questo senso, iniziare pertanto dalla
teologia della grazia.
Se facciamo un breve bilancio della situazione concreta dell' antropologia come disciplina teologica oggi possiamo constatare una certa tendenza al consolidamento della disciplina concepita come un tutto. Comunque, questa tendenza verso l'integrazione dell'antropologia teologica non è uniforme né universale.
Nell'ipotesi della maggiore integrazione della materia, la posizione adeguata nella sistematica accademica sembra essere quella di collocarla dopo la cristologia e il trattato su Dio. È il significato universale di Cristo in gran misura ciò che si studia considerando l'uomo (e il mondo insieme a lui) come creature di Dio.
Cristologia è Dio è Antropologia teologica (secondo la logica della salvezza) |
È anche coerente che, nel caso in cui non si veda questa unità delle materie antropologiche, la protologia preceda alla cristologia e la grazia la segua, seguendo l'ordine della storia della salvezza .
Protologia è Cristologia è Grazia (secondo l’ordine della storia della salvezza) |
CONTENUTI: 1. Preliminari
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1. Preliminari
Contestualizzazione:
Ci sono dei momenti nella vita in cui senti ammirazione per il fatto stesso di essere, di esistere. Forse non sono frequenti quelli momenti tra “filosofici” e “mistici”, ma la domanda per l'origine della tua vita e l'origine delle cose (anche è domanda il fine e la fine della vita), sebbene forse non abbastanza spesso, spunta. A volte senti ammirazione per le cose e gli esseri che sono intorno a te: la bellezza dell'alba, il volto tenero e grazioso di un bambino… Senti non solo che le cose SONO (o che tu stesso sei), ma che inoltre sono belle, vere o buone, e che hanno un SENSO... Ecco ciò che ti fa (o che ci fa) sentire AMMIRAZIONE davanti alla creazione. Non solo perché SIAMO, ma perché siamo di una DETERMINATA MANIERA, quella che fa che non solo vediamo delle cose nel nostro intorno, ma che ci stupiamo di esse.
Osservazione riflessiva:
Che ti suggerisce la parola “creare”? Senti ammirazione per le cose create, per la loro propria vita? come immagini il nulla dal quale furono create le cose? che immagine ti aiuta a capire meglio il mistero della creazione: il mago che cava un coniglio bianco dal suo cappello, provocando in te la sensazione di CURIOSITÀ per l'APPARIZIONE, o la nascita di un bambino che causa in te sentimenti di GIOIA e di SENSO? Quest'ultima domanda sta presente nella trama di questo capitolo. È importante prenderla in considerazione.
Una determinazione fondamentale dell'essere umano, che mai l'abbandona, è la sua creaturalita. Questa è una dimensione della nostra relazione con Dio che ci abbraccia completamente, la qual cosa non vuol dire, come già sappiamo, che sia l'unica. Il mondo che ci circonda è anche creatura di Dio, e l'uomo si trova inserito in questo mondo, è parte del cosmo, non sta in esso come un ospite in casa estranea.
L'uomo è una creatura tra le creature, anche se in questo mondo creato ha un'evidente centralità. E una creatura particolare, certo, però la particolarità, per quanto la determini, non limita affatto la condizione di creatura. La riflessione sulla creazione, che riguarda la nozione di Dio e quella dell'uomo, ci aiuta a comprendere ciò che siamo, e a contemplare una dimensione fondamentale della nostra esistenza, del nostro essere nel mondo.
2. La mediazione di Cristo
La creazione è già mistero di salvezza. Anche se non si può ammettere che il popolo di Israele sia giunto all'idea che il mondo è stato creato da Dio a partire dall'idea di alleanza, tuttavia non è meno certo che nell'approfondimento e nell'elaborazione di questa nozione, l'esperienza della salvezza, la vicinanza di Dio abbiano giocato un ruolo fondamentale. Così si vede con chiarezza negli scritti profetici (cf. Is 40, 22-28; 43, 1.15. ecc.). La fede nel Dio liberatore porta al pieno riconoscimento del Dio creatore, e contemporaneamente, soltanto Costui è in condizione di garantire la liberazione piena e definitiva, essendo non solo il Dio di Israele, ma il Dio del mondo. Tanto la creazione quanto i prodigi di Dio in favore del suo popolo vengono visti come espressione del suo amore misericordioso.
La novità neotestamentaria per quanto riguarda la teologia della creazione si trova in Gesù. Il messaggio degli scritti del Nuovo Testamento in relazione al tema che ci riguarda non è tanto che Dio ha creato tutto, quanto che questo Dio creatore è il Padre del nostro Signore Gesù Cristo che ha fatto tutto mediante suo Figlio. Questa mediazione creatrice di Gesù è stata messa in evidenza in un certo numero di testi neotestamentari: 1 Cor 8, 6: “... per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui”.
Col 1, 15-20 |
Ef 1, 3-10 |
Gv 1, 1-5.9-10 |
Eb 1, 1-3 |
Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. |
Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l'ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. |
In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. |
Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell'alto dei cieli... |
Col 1, 15-20; Eb 1, 1-3; Gv 1, 3.10). Alla mediazione creatrice di Cristo corrisponde, in chiave escatologica, la sua funzione ricapitolatrice dell'universo: il disegno del Padre è la ricapitolazione di tutto in colui nel quale prima della creazione del mondo ci ha scelti e predestinati (cf. Ef 1, 3-10); già sin dal primo istante tutto è stato fatto non soltanto per mezzo di lui, ma anche per lui e verso di lui (cf. Col 1, 16).
Nella lettera ai Colossesi c'è una corrispondenza tra la mediazione creatrice e quella riconciliatrice, tra la primogenitura della creazione e la primogenitura tra i morti (risurrezione). Lo schema di salvezza viene esteso alla creazione; ciò vuol dire: a partire dalla salvezza che ha avuto luogo in Cristo, si vede in lui il principio alla luce del quale bisogna interpretare tutta la realtà. Se il mondo è stato salvato per Cristo e in Cristo questo significa che è stato creato per lui e in lui. La creazione non è allora un semplice presupposto neutrale affinché si sviluppi poi la storia di Dio con gli uomini, ma è già l'inizio di questa storia che culminerà in Gesù.
In un senso simile i primi Padri e scrittori ecclesiastici hanno visto la funzione cosmica di Cristo, soprattutto gli apologeti e gli alessandrini. In dialogo con la mentalità filosofica del loro tempo, questi Padri hanno considerato il mondo come qualcosa di armonico, un cosmo, presieduto dal logos, la ragione. Per questo il mondo non è qualcosa di caotico, ma è ordinato. Per i cristiani però non c'è altra ragione che il Logos, la Parola di Dio, il Figlio di Dio che è apparso nel mondo con l'incarnazione. Egli è la ragione e l'armonia dell'universo. Per questo i cristiani sono coloro i quali conoscono e seguono il Logos, lo possiedono in pienezza. La fede ci apre pertanto il cammino alla retta ragione, nella fede scopriamo il vero senso del mondo e delle cose. Questa “ragione”, nonostante ciò, non è un monopolio esclusivo dei cristiani. Si trova anche negli altri uomini, che precisamente per questo possono conoscere anche una parte della verità. Dobbiamo però notare la differenza: la pienezza del Logos si trova soltanto in chi lo conosce nella sua integrità, in chi conosce Cristo, mentre negli altri questa conoscenza sarà necessariamente parziale.
Quando la grande Chiesa, di fronte alle differenti tendenze gnostiche e a Marcione, difese la bontà della creazione e l'identità del Dio dell'Antico e del Nuovo Testamento, lo fece sottolineando l'universalità del dominio di Cristo e della sua mediazione, l'unità della storia, e, in ultima analisi, la corrispondenza, con le dovute differenze, tra la salvezza e la creazione .
3. La fedeltà di Dio alla sua opera
La visione evoluzionistica del mondo ci impedisce di pensare alla creazione come qualcosa di concluso, così come faceva la mentalità fissistica. Tutto cammina verso Cristo, ci dice il Nuovo Testamento, così come tutto è stato creato per mezzo di lui. La creazione cammina, per l'impulso interno ricevuto da Dio e soprattutto per la forza della risurrezione di Cristo, verso la creazione nuova. La creazione è pertanto in fieri, finché non giungerà il definitivo settimo giorno. Abbiamo parlato della permanenza della condizione creaturale dell'uomo (e del mondo) in tutti i momenti della sua esistenza. Tra la creazione iniziale e la nuova creazione si situa la “creazione continua”. Dio non finisce di agire nel mondo e nella storia, e la sua azione creatrice non è meno intensa adesso che nel primo istante.
Il sì di Dio al mondo in Cristo è ciò che lo porta alla consumazione del suo disegno nel suo Figlio Gesù. In questo senso la presenza costante di Dio nel mondo è anche mediata da Cristo e tende alla realizzazione della sua opera salvifica . Parliamo di una creazione “in fieri”. Ciò porta a porre il problema della cooperazione umana all'opera creatrice divina, non terminata del tutto. E chiaro che l'uomo non è signore assoluto del mondo che gli è stato affidato. Ma il fatto che il mondo sia creazione di Dio non significa che non sia anche, in certa misura, creazione dell'uomo. Alla libertà umana è concesso uno spazio di autorealizzazione proprio nella trasformazione della natura, che, come conseguenza di quest'azione umana, si apre ogni volta sempre più a nuove potenzialità e si “umanizza” sempre di più.
In questo sforzo creativo l'uomo umanizza se stesso umanizzando contemporaneamente il mondo. Da qui che si può qualificare come grave perversione dell'ordine voluto da Dio soltanto quel lavoro che non fa crescere ma attenta alla dignità di colui che lo realizza .
Cf. ibid., pp. 9-14.
Cf. ibid., pp. 15-17.
Cf. RUIZ DE LA PEÑA, J.L.: El don de Dios. Antropología teológica especial, Sal Terrae, Santander 1991, p. 21.
LADARIA, L.F.: Introduzione alla Antropologia Teologica, op. cit., pp. 18-23.
Cf. ibid., pp. 23-26.
“In verità gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell'uomo. È proprio all'interno dell'uomo che molti elementi si combattono a vicenda. Da una parte infatti, come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; d'altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società… di fronte all'evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi più fondamentali: cos'è l'uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l'uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita? Ecco: la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione; né è dato in terra un altro Nome agli uomini, mediante il quale possono essere salvati. Essa crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana.Inoltre la Chiesa afferma che al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli. Così nella luce di Cristo, immagine del Dio invisibile, primogenito di tutte le creature il Concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell'uomo e per cooperare nella ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo” (GS 10).
Gli argomenti concreti sviluppati in questa parte sono: la creazione come origine permanente della salvezza (includendo lo sviluppo teologico della fede e la questione del “soprannaturale”), l'antropologia in senso stretto (l'origine dell'uomo, la sua costituzione come unità di corpo e anima, il suo carattere sociale, la sua azione nel mondo, il lavoro, ecc.), l'uomo immagine di Dio in relazione alla teologia dello stato originale, la teologia del peccato in generale e del peccato originale in particolare, gli angeli e i demoni.
LADARIA, L.F.: Introduzione alla Antropologia Teologica, op. cit., pp. 26-34.37.
LADARIA, L.F.: Introduzione alla Antropologia Teologica, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1993.
Ibid., pp. 39-43.
Ibid., pp. 43-44. Come afferma Ruiz della Peña, “il più sorge dal meno, malgrado nessuno dà quello che non ha, perché il meno si autotrascende grazie all'impulso creatore di Dio” (RUIZ DE LA PEÑA, J.L.: Imagen de Dios. Antropología teológica fundamental, Sal Terrae, Santander 1988, p. 257). Il Professore L.M. Armendáriz crede che “se anche il cosmo è una storia, come riconoscemmo insegnati dall'evoluzione, si dovrà aggiungere che lo Spirito non solo crea in un certo punto del tempo quella serie di novità che abbiamo progressivamente scoperto, ma che sta nella radice del processo cosmico e di tutta novità che emerge in lui e da lui. Lo Spirito è quella energia misteriosa ed incontrollabile che dall'interno degli esseri fa... che questi rendano quello che non potrebbero dare da sé stessi” (ARMENDÁRIZ, L.M.: Hablar con Dios. En la intimidad, en la naturaleza y en la historia, San Pablo, Madrid 2008, p. 210). Ricordiamo la definizione di “panenteismo” che ci offre il Dizionario Oxford della Chiesa Cattolica: “la credenza che l'essere di Dio include e penetra l'universo intero, cosicché ogni parte di esso esiste in Lui, ma (in contrapposizione al panteismo) che il suo essere è più dell'universo, e non è esaurito da esso” (citato da Karl SCHMITZ-MOORMANN, in: IBID.: Teología de la creación de un mundo en evolución, Verbo Divino, Estella 2005, p. 219).
LADARIA, L.F.: Introduzione alla Antropologia Teologica, op. cit., pp. 44-45.
4. Dio ha creato il mondo liberamente e per la sua gloria
L'amore di Dio, che ha creato e sostiene tutte le cose, non trova nella libertà e nella creatività umana un limite, ma la sua più grande manifestazione. La libertà di Dio nella creazione è una verità fondamentale della fede cristiana. È la stessa nozione di Dio che viene posta in gioco con essa. Non bisogna però intendere per libertà l'indifferenza di Dio nei confronti del mondo di cui non ha bisogno. La libertà di Dio è la libertà dell'amore che si impegna con il mondo, e soprattutto con l'uomo. Alla libertà trascendente di Dio corrisponde la libertà creata.
Non si vede il senso che potrebbe avere una creazione libera che non suscitasse libertà. La libertà umana si esercita in un ambito fondato dalla e nella libertà, non in quello di un caso o di un destino che lascerebbe un piccolo spazio aperto, in fondo insignificante, in cui l'uomo potrebbe farsi l'illusione di essere autosufficiente. La libertà dell'uomo è libertà chiamata, risvegliata dalla libertà e dalla creatività infinite di Dio.
Dio non crea per autoperfezionarsi, ma per comunicare la sua bontà; d'altra parte lo stesso Dio è il fine di tutto, e sarebbe contraddittorio con l'idea stessa della sua libertà il fatto che Dio creasse per un altro; in questo modo si renderebbe dipendente da colui per il quale creerebbe. La comunicazione della bontà e dei benifici divini equivale nel linguaggio della Chiesa alla “gloria di Dio”. Una gloria che non è autoperfezionamento, ma donazione, manifestazione di Dio, già nell'Antico Testamento, ma soprattutto in Gesù Cristo (cf. Gv 1, 18). In questa manifestazione e autodonazione sta esattamente la salvezza e la pienezza dell'uomo. Dio ha creato per potersi manifestare in Cristo, per poter comunicare i suoi benefici e comunicare se stesso, e con questo ottenere la pienezza della creatura.
Ma non è facile comprendere come nella libertà umana - tante volte opposta a Dio - è anche l'onnipotenza divina quella che si manifesta. Ma, nonostante tutto lo scandalo del male, dobbiamo affermare che è precisamente nella capacità di suscitare la libera cooperazione della creatura dove il potere creatore di Dio appare nella sua manifestazione più piena. È il Dio creatore che suscita l'uomo creatore, non lo diminuisce. Poiché se l'idea creazione indica essere in dipendenza, indica allo stesso tempo un'esistenza autentica e propria della creatura.
Dio in qualche modo si ritira, lascia spazio alla sua creazione, in concreto all'uomo, per lasciare alla creatura una consistenza “al di fuori” di Dio. Non c'è alcun dubbio che Dio, manifestandosi nella sua creazione, contemporaneamente si nasconde dietro di essa. L'amore creatore si fonda sull'amore umile che è capace di annientarsi. La creazione non è soltanto fare, ma anche lasciar essere (J. Moltmann). Dio crea soprattutto in quanto suscita, dà vita, dà libertà e autonomia.
Il problema dei limiti del dominio dell'uomo sul mondo si è manifestato in tutta la sua acutezza di fronte alla minaccia della crisi ecologica. Non sono mancate accuse al cristianesimo e alla sua idea di creazione e di dominio dell'uomo nel cosmo come responsabile di questa situazione .
5. La Trinità e la creazione
Già abbiamo visto come nel Nuovo Testamento la creazione veniva posta in rapporto esplicito alla salvezza attraverso l'idea della mediazione universale di Cristo. Abbiamo anche visto che Dio ha creato il mondo liberamente e che Egli stesso è il fine della creazione. Dunque, se il Dio che salva l'uomo è il Dio Uno e Trino, anche colui che lo crea è già il Dio Uno e Trino. Cosa vogliamo dire con questa considerazione? Ecco il problema: Dio è principio delle creature soltanto in quanto uno, o la Trinità di persone in quanto tale ha qualcosa a che vedere con la creazione stessa?
Nella tradizione più antica della Chiesa non si dimentica che la mediazione di Cristo è stata affermata nel Nuovo Testamento. Anche l'intervento dello Spirito è stato subito messo in evidenza. Per sant'Ireneo, come è noto, il Figlio e lo Spirito sono le “mani di Dio” mediante le quali il Padre ha creato tutte le cose. Anche Tertulliano, sant'Atanasio, san Basilio di Cesarea, hanno visto con sfumature diverse una differenziazione di funzioni nell'unico e indivisibile principio che è la Trinità. Il Padre ha l'iniziativa, il Figlio è il mediatore, nello Spirito tutto è stato fatto, è la causa perfezionatrice.
Il secondo concilio di Costantinopoli (553) spiega così la confessione trinitaria di un solo Dio in tre persone: “un solo Dio e Padre dal quale tutto (“ex quo omnia”) procede, un solo Signore Gesù Cristo per mezzo del quale tutto (“per quem omnia”) è stato fatto e un solo Spirito Santo nel quale tutto (“in quo omnia”) esiste”. Quindi, ci troviamo con la trasposizione alla creazione dell'universo dello schema della salvezza. Viene implicitamente affermato che in quest'ultima si trova il senso di tutto quanto esiste. La creazione quindi è opera del Dio Uno e Trino. E anche se formalmente non ci sia l'autodonazione divina, va di fatto orientata verso di essa. Dio crea per potersi fare, Egli stesso, creatura. Il fatto di mettere in gioco le tre Persone della Trinità, e non solo la natura divina, fa vedere la dimensione salvifica della creazione.
La teologia degli ultimi anni ha particolarmente insistito sul nesso intrinseco tra la Trinità e la creazione. Questa non è certamente la rivelazione del Dio Trino. Però il fatto che in Dio esista la “distanza” tra le persone rende possibile la distanza tra Dio e le creature. Distanza che contemporaneamente lo stesso Dio può evitare; il mondo è così “in Dio”. La creazione, viene sottolineato da un altro lato, presuppone un Dio personale. Così lo ha visto già l'Antico Testamento. Dio non è un principio in divenire, sottomesso alla necessità. Nella rivelazione cristiana appare che il Dio personale non è un Dio solitario, ma che ha in se stesso la pienezza di comunione. La creazione è così pura e libera diffusione del bene e della perfezione divina. Dio non ha bisogno di creare per avere un tu, ma da sempre è comunità di persone. Soltanto con la rivelazione del Dio Trino appare in tutta la sua radicalità la libertà dell' amore creatore di Dio, che non ha affatto necessità di comunicarsi al di fuori di sé, poiché ha già in se stesso la pienezza di questa autocomunicazione (Ruiz de la Peña). E soltanto a partire dalla rivelazione trinitaria si può comprendere la creatura come ciò che Dio è capace di farsi, senza lasciare di essere Dio.
Non si insisterà mai abbastanza sulla gratuità dell'incarnazione, sulla gratuità del “farsi creatura” di Dio, che non deriva in alcun modo dalla creazione, ma che significa un amore infinitamente più grande di quello con cui dà l'essere alle cose.
La creazione di tutto in Cristo, non già soltanto nel Logos, “non indica altra cosa se non che tutte le cose possono essere soltanto create in vista della loro pienezza nel secondo Adamo” (H.U. von Balthasar) . Motivi, tutti questi, che ci fanno vedere fino a che punto giunga la reinterpretazione cristologica della fede nella creazione. Non possiamo separare la creazione del Dio che crea dai disegni che sin dall'eternità Egli ha per la sua creatura. Si ricordi il binomio essere-destino .
CONTENUTI: 1. Preliminari |
1. Preliminari
Contestualizzazione:
L'ammirazione che provoca in noi, in te, il fatto di essere, non ci porta ad “alzare lo sguardo”? Quale è la mia RELAZIONE con le cose che girano intorno a me? come mi posso mettere in rapporto con le persone e con le cose? a chi assomiglio? non credi che tanta bellezza intorno a te non si può esaurire in se stessa, che ogni opera di arte ci parla di un artista, poiché in ogni opera d'arte c'è uno “stile”? Così come assomiglio ai miei genitori ed ai miei fratelli, non assomiglierò forse ad un altro Padre? Non sarà forse vero che mi trovo unito ad altre persone, e non solo per legami di sangue? Quando mi domandano “che senso ha la tua vita” non so dare una risposta concreta, ma ho la sensazione che essa esiste in un abisso infinito di mistero, che non mi fa sentire angoscia, ma una sensazione di piccolezza e di LIBERTÀ davanti a quello che non riesco a capire.
Osservazione riflessiva:
Che è quello che ti porta a trattare le persone come fine e mai come mezzo? che ti ispira l'espressione “gli esseri umani siamo fratelli e sorelle”? che sentimenti e vissuti provoca in te il fatto di non capire quello che sei? Come immagini la pienezza di relazione con Dio e con le persone (come immagini “il paradiso”)? Che immagine ti aiuta a capire meglio il mistero della filiazione: il pittore che dipinge un quadro, o il lavoratore in una catena di produzione di tappi di bottiglia? Che è quello proprio dell'ARTE? e il proprio di un processo di PRODUZIONE?
Rivolgiamo adesso la nostra attenzione all'oggetto centrale dell'“antropologia teologica”. “Chi è l'uomo perché te ne ricordi, l'essere umano per dargli il potere?” (Sal 8, 5). Già il salmista si interroga sulla grandezza umana nella sua fragilità. Questa questione sull'uomo non è soltanto un problema o un enigma, ma costituisce anche in termini stretti un mistero, riflesso del mistero di Dio (GS 22).
Nella introduzione abbiamo parlato della necessità di porre in evidenza il concetto cristiano di uomo, non opposto, anche se certamente molto più profondo, a ciò che ci fa conoscere la nostra esperienza o a ciò che possiamo dedurre dalla filosofia e dalle scienze umane. Il concilio Vaticano II ha fatto una scelta di grande importanza quando, ha proposto la sua risposta indicando l'insegnamento biblico della creazione dell'uomo ad immagine e somiglianza di Dio (GS 12).
Se abbiamo detto che la creazione si comprende biblicamente e riceve il suo senso ultimo dalla salvezza in Cristo, a fortiori ciò vale dell'uomo, centro e culmine della creazione. Le sue strutture creaturali hanno senso a partire dal disegno salvifico di Dio su di lui, non al contrario. Questo disegno deve entrare, anzi, deve essere determinante della definizione cristiana dell'uomo, “nel concetto stesso dell'uomo deve esserci posto per i disegni di Dio su di lui” (A. Orbe). Già la stessa nozione cristiana dell'uomo deve mettere in evidenza la proprietà e originalità della sua radice, senza che ciò implichi il disconoscere i validi e anche necessari contributi che ci giungono da altre fonti .
2. Il tema dell'immagine nella Bibbia
L'affermazione sulla creazione dell'uomo ad immagine e somiglianza di Dio si trova, come si sa, nel documento sacerdotale (Gn 1, 26-27: “E Dio disse: ‘Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra’. Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”). Comunque, quello che ci è stato detto nella fonte yahwista prepara già le affermazioni di questi due versetti del capitolo primo: l'uomo, formato da Dio dalla polvere della terra, riceve da Dio stesso la vita (Gn 2, 7: “allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente”) .
G. von Rad ha considerato soprattutto l'aspetto di dominio sul mondo, cosa che sarebbe la ragione per la quale si offre all'uomo la condizione di immagine. L'uomo, essendo immagine di Dio, diventa segno del suo potere (del potere di Dio) per garantire ed affermare la sua sovranità come unico Signore dell'universo. In questo senso Israele ha considerato l'uomo come il rappresentante di Dio.
Altri autori però, senza negare l'importanza che ha questo motivo del dominio dell'uomo sul mondo, pensano che bisogna insistere di più sulla relazione con Dio, di cui sarebbe conseguenza il dominio sul mondo. Anzi, si osserva ancora che la condizione dell'uomo è il risultato dell' azione di Dio. Bisogna quindi vedere ciò che Dio vuole creando l'uomo così. La creazione è un evento tra Dio e l'uomo; l'uomo, ogni uomo è stato creato per esistere in relazione con Dio, in questo consisterà la sua condizione di immagine.
Non possiamo neppure dimenticare l'interpretazione che ha rivolto la sua attenzione soprattutto alla bisessualità, alla condizione sociale dell'uomo, ecc.
Senza che il tema dell'immagine venga direttamente menzionato, nel salmo 8 l'uomo appare come quasi partecipe della condizione divina e dominatore della creazione: “lo hai coronato di gloria e di onore, gli hai dato il potere sulle opere delle tue mani...” (v. 6 ss.).
Dall'insieme dell'Antico Testamento si apprende che l'uomo, in nome di Dio e davanti a Lui, è responsabile del mondo, è, in quanto interlocutore di Dio, parte attiva nella storia che il Signore ha iniziato e che vuole portare a termine. Non bisogna vedere l'immagine di Dio in questa o in quella qualità, ma ci troviamo dinnanzi alla determinazione fondamentale dell'uomo che abbraccia tutte le sue dimensioni a causa del germe divino che abita in lui.
Il messaggio della Genesi è stato reinterpretato alla luce di Cristo. In effetti, l'immagine di Dio, secondo il Nuovo Testamento, è lo stesso Gesù (2 Cor 4, 4; Col 1, 15).
Questo concetto è in rapporto con la teologia della rivelazione: Gesù, in quanto immagine del Padre, lo rivela. L'idea dell'uomo che nell'Antico Testamento appare come centrale, adesso viene reinterpretata in chiave cristologica. In questa stessa linea vanno i riferimenti più direttamente antropologici della nozione dell'immagine che troviamo nelle lettere paoline. Chi nella fede accetta la rivelazione di Cristo, diventa contemporaneamente immagine di Gesù. La predestinazione eterna del Padre si riferisce alla configurazione con Gesù (Rm 8, 29: “Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli”).
Il Signore risorto è l'Adamo definitivo. In Gesù superiamo i due condizionamenti negativi, anche se di indole molto diversa, che troviamo in Adamo: quello della limitazione e della caducità e quello del peccato. Nella risurrezione del Signore ci si apre il disegno definitivo di Dio su di noi: essere uomini è quindi passare dalla condizione di Adamo a quella di Cristo. Giungere ad essere immagine dell'uomo celeste non è secóndo Paolo qualcosa di marginale alla nostra condizione umana, ma è una sua determinazione definitiva. Il Nuovo Testamento sembra riportare esplicitamente indietro all'inizio della creazione antica questo disegno della nuova creazione: siamo stati eletti e predestinati in Cristo prima della creazione del mondo (Ef 1, 3-5: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo...”) .
3. Il tema dell'immagine nella Tradizione
Sommamente istruttivo è lo sviluppo del concetto dell' immagine nella teologia cristiana, in rapporto con la concezione globale sull'uomo. La scuola alessandrina, fortemente influenzata da Filone, ha visto nell’anima, e più concretamente nell' anima superiore, il nous, ciò che è più proprio dell'uomo; ad essa si riferisce quindi la creazione ad immagine di Dio secondo Gn 1, 26 s. Escluso da questa condizione resterebbe il corpo umano, modellato da Dio con la polvere della terra secondo Gn 2, 7. L'uomo non è a rigore l’immagine, ma è stato creato “secondo l'immagine” che è il Logos eterno di Dio. L'uomo in virtù della sua mente è razionale, e per questo partecipa del Logos o ragione divina. Così pensa Clemente Alessandrino.
Lo stesso afferma Origene, per il quale l'uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio è l'uomo interiore. È l'uomo fatto di Gn 1, 26 che è ad immagine di Dio, non quello plasmato di Gn 2, 7. Affermare il contrario equivarrebbe a considerare Dio come essere corporeo.
Non manca, come vediamo, in questi teologi alessandrini, un riferimento cristologico in rapporto al motivo dell'immagine. Soltanto a partire dal Figlio immagine di Dio si può comprendere la creazione dell'uomo ad immagine e somiglianza divine. Però qui non viene contemplato il Figlio incarnato, ma il Logos eterno.
Ma insieme alla scuola alessandrina troviamo anche la linea asiatica e africana. Non soltanto il Verbo invisibile che preesiste all'economia della salvezza è immagine di Dio secondo il cui modello è stato creato l'uomo, ma viene preso in considerazione anche il Verbo incarnato, l'umanità di Cristo. Sant'Ireneo e Tertulliano sono esempi illustri di questa linea, e affermano che il modello a partire dal quale Dio ha creato l'uomo è il Figlio che doveva incarnarsi; di conseguenza considerano che non soltanto l'anima, ma soprattutto il corpo, è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio.
Il corpo quindi, e non l'anima, sarà per questi autori l'uomo propriamente detto (di fronte a tutti gli spiritualismi gnostici). Tertulliano ha, a tal proposito, una formulazione lapidaria, riportata dal concilio Vaticano II (GS 22, nota 20): “In ciò che si esprimeva nel fango, veniva pensato Cristo che doveva farsi uomo”. E vero che questa linea di pensiero non ha avuto molta fortuna nei secoli posteriori. Però si può anche dire che non è scomparsa del tutto.
Nei momenti successivi, almeno in Occidente, si perderà in gran misura non soltanto la relazione a Cristo dell'uomo creato secondo l'immagine, ma anche il riferimento allo stesso Logos eterno. Prevarrà piuttosto l'idea dell' anima come immagine della Trinità; l'esempio più significativo è quello di sant'Agostino.
In san Tommaso troveremo ancora la stessa dottrina: l'anima dell'uomo è immagine della Trinità, e non soltanto del Figlio. Anche se Tommaso esclude il corpo dalla condizione di immagine divina, afferma che in esso troviamo “vestigia” di Dio.
Più interessante è la ragione per la quale Tommaso giustifica che la natura intellettuale è ad immagine di Dio: perché possa imitare Dio in ciò che è più proprio di quest'ultimo: conoscersi ed amarsi. Così l'immagine di Dio è l'atteggiamento naturale dell'uomo di conoscere ed amare Dio (STh I, q. 93, a. 4). L'immagine viene vista in connessione con la capacità di relazionarsi con Dio, in questo si riconosce senza dubbio una profonda intuizione biblica.
La concezione cristologica a cui noi abbiamo fatto riferimento è stata assente in lunghi periodi. Però negli ultimi tempi la situazione è cambiata. Il concilio Vaticano II (GS 12), come già sappiamo, ha collocato al centro della concezione cristiana dell'uomo la condizione di essere creato ad immagine e somiglianza di Dio. Questo significa per il concilio, innanzitutto, la capacità di conoscere ed amare il Creatore, la capacità di relazionarsi con Dio. A questo si aggiunge il dominio sul mondo e sulla creazione, affinché la governi e la usi glorificando Dio. Da ultimo ci viene indicata la condizione sociale dell'uomo, la necessità che ha degli altri per raggiungere la perfezione, anche se bisogna precisare che non viene esplicitata la relazione tra questa condizione sociale e l'immagine. Piuttosto il testo si limita ad una giustapposizione. La fine del primo capitolo di GS (n. 22) colloca l'antropologia alla luce della cristologia.
È un indubitabile merito della costituzione pastorale il fatto che ci venga presentata in un documento magisteriale altamente qualificato l'idea dell'uomo come immagine di Dio e si stabilisca un'esplicita relazione tra Cristo e la nozione stessa dell'uomo. Senza alcun dubbio la direzione indicata dal concilio Vaticano II ha avuto un notevole influsso.
La vocazione divina dell'uomo in Cristo, la chiamata ad essere conforme a Lui, deve esistere già sin dal primo istante. Diversamente, la salvezza sarebbe qualcosa di estrinseco, di indipendente da ciò che l'uomo è sin dalla sua creazione. Bisogna combinare qui due esigenze: quella della novità di Cristo, e quella dell'unità del disegno di Dio. In Cristo si manifesta certa-mente in modo imprevedibile ciò che sin dall'inizio era orientato verso di Lui.
Nel dominio dell'uomo sulle creature, sempre secondo il disegno del Creatore, è il dominio di Cristo che si realizza, perché tutte le cose camminano verso di Lui. La dimensione sociale dell'uomo tende alla costruzione del corpo di Cristo che è la Chiesa, che si riunisce ad immagine della Trinità (LG 4: “Così la Chiesa universale si presenta come ‘un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo’- san Cipriano-) .
4. Cristologia e antropologia
4.1. L'impostazione di K. Barth
L'antropologia in realtà non sarebbe altro che cristologia. Nel pensiero di K. Barth “Gesù è l’uomo tale e come Dio lo volle e lo creò”. Gesù è il primo nel disegno di Dio, e se lascia che Adamo lo preceda è per orientarsi tutto alla sua salvezza.
Il cristocentrismo di Barth sarà sempre un ricordo del primato di Gesù su tutto. Ma sorge la domanda: rimane veramente garantita l'autonomia dell'uomo? Nel desiderio di vedere Gesù come la realizzazione piena dell'uomo, non procede forse per “soppressione” più che per “ricapitolazione”, per “riduzione” più che per “integrazione”? Nella sua esposizione della teologia di Barth, H. U. von Balthasar mette in evidenza come la rivelazione presuppone la creatura, ma non in modo tale che essa (la creatura) venga costituita nell’atto della rivelazione stessa. Questa dà alla creatura un ultimo senso, non eliminando però il suo senso proprio e primo. Anche se la natura esiste per la grazia e in vista di essa, l'ordine della creazione non si deduce dalla rivelazione né dalla grazia. È lo stesso ordine della grazia che lascia spazio per la creazione, per la realtà e l'autonomia della creatura. Insistere sul primato universale di Cristo non significa cadere nella “riduzione” di Barth, che in ultima analisi, essendo tale, finisce per sminuire il significato di Gesù .
4.2. L'impostazione di K. Rahner
La questione della relazione tra cristologia ed antropologia è stata oggetto dell'esplicita preoccupazione di K. Rahner in numerosi scritti. La sua posizione può essere riassunta nella frase: la cristologia è l'inizio e il fine dell'antropologia. La creazione si fonda sulla possibilità che Dio ha di uscire da se stesso. Da qui la definizione dell'uomo: l'essere che sorge quando l'autoespressione di Dio, la sua Parola, si esprime per amore nel vuoto del nulla senza Dio. L'espressività del Logos è la sua umanità.
La definizione dell'uomo viene data così a partire dall'incarnazione, è radicalmente cristocentrica. Ma la cristologia non è solo principio. È anche fine dell' antropologia. Rahner parte anche dalle domande umane, dall'apertura dell'uomo verso Dio, dalla sua illimitata orientazione verso la pienezza divina. Nell'unione ipostatica (l’unione della natura umana e divina in Gesù Cristo) questa apertura raggiungerà la sua massima realizzazione. E questa unione è un momento interno anche se unico ed irripetibile del dono di grazia all'umanità.
Rahner vuole mostrare che l'uomo può giungere all'idea del salvatore assoluto, quella persona nella quale l'incondizionata comunicazione che Dio fa di se stesso viene totalmente accettata e con ciò il segno della storia e dell'umanità rimane segnato in modo irrevocabile. In Gesù, nel quale troviamo non soltanto una realtà stabilita da Dio, ma Dio stesso, l'idea di questo salvatore assoluto si realizza. Quando l'uomo, definito nella sua natura per la sua “indefinibilità”, viene assunto da Dio come sua realtà propria, giunge al luogo verso il quale, per la sua essenza, è da sempre in cammino. Per questo l'incarnazione di Dio è il caso massimo di realizzazione dell'essenza umana.
Dato che l'essenza dell'uomo viene definita dall'incarnazione, Rahner vuole mostrare come l'uomo è da sempre orientato verso Cristo ed a posteriori, cioè, una volta che ha ricevuto il messaggio cristiano, può rendersi conto che esso risponde alle sue domande ed inquietudini. La preoccupazione di Rahner in tutto questo procedimento è quella di evitare una concezione mitologica dell'incarnazione, che non trova nell'esperienza umana nessun appoggio che aiuti a credere in essa.
Il pensiero di K. Rahner ha suscitato molte discussioni nella teologia cattolica. Il problema che in generale più è stato posto è se la novità di Cristo viene salvata se l'uomo può giungere alla formulazione precisa delle questioni a cui Cristo risponde, dato che Gesù offre molto di più di quello che gli uomini possano pensare.
D'altra parte però, non si può dimenticare che per Rahner l'umanità di Gesù è quella che rende possibile l'esistenza concreta degli altri uomini, siamo ciò che il Figlio di Dio si è fatto facendosi non-Dio. Non è quindi l'antropologia quella che determina ultimamente la cristologia, ma al contrario .
4.3. L'impostazione di W. Kasper
Per evitare il pericolo di dedurre la cristologia dall'antropologia, e davanti al timore che l'impostazione trascendentale di Rahner non metta dovutamente in evidenza la novità radicale di Cristo W. Kasper ha cercato di definire l'uomo come un'essenza aperta che in Cristo riceve una concreta determinazione di contenuti.
Kasper articola la relazione tra cristologia ed antropologia in tre punti:
4.4. L'impostazione di W. Pannenberg
Secondo W. Pannenberg la fede cristiana ha supposto una concezione nuova dell'uomo: ciò che è determinante non è lo stato primordiale (secondo una concezione mitologica), né una “natura essenziale” (propria di una mentalità filosofica che considera cio che rimane immutabile in ogni circostanza), ma la novità di Cristo, che presuppone la sostituzione di ogni forma anteriore dell'essere umano con una forma fondamentalmente nuova.
Secondo questo l'uomo deve intendersi come storia orientata alla salvezza manifestata in Cristo, e la sua situazione di partenza “naturale” come apertura a questo futuro destino. L'evento di Cristo non determina unicamente l'essenza aperta dell'uomo, ma ci fa vedere che questa “essenza” sta sin dall'inizio in apertura verso il destino di salvezza inaugurato da Cristo. È quello che hanno visto i teologi dei primi secoli del cristianesimo, che da una parte non sono stati soddisfatti dall'idea filosofica dell'uomo, e dall'altra parte hanno letto unitamente l'Antico e il Nuovo Testamento per scoprire nei due l'unico disegno dell'unico Dio .
4.5. Conclusione
Come riassunto di quanto stiamo dicendo si potrebbero indicare quattro punti:
5. La costituzione dell’essere umano
Rivolgiamo adesso la nostra attenzione ad aspetti dell'essere umano che non si riferiscono così direttamente a questa relazione con Gesù, ma che non sono neppure così estranei ad essa. Cioè, si tratta di vedere come nelle differenti dimensioni dell'essere umano si manifesti la condizione di immagine di Dio, e come essa nello stesso tempo non distrugga, ma anzi integri gli aspetti della condizione umana che noi scopriamo partendo dall'esperienza della nostra vita. Lo studio di queste dimensioni non appartiene esclusivamente alla teologia, dimenticarle però equivarrebbe a parlare dell'uomo solo in termini formali ed astratti.
5.1. Anima, corpo e spirito
Si considera in generale che il pensiero biblico presenta una visione fondamentalmente unitaria dell'uomo. Dal punto di vista neotestamentario si comprende perfettamente che questa unità è evidente se prendiamo in considerazione che tutto l'uomo è chiamato a partecipare alla risurrezione di Gesù. L'unità non significa che nell'essere dell'uomo non si distinguano degli aspetti: l'uomo è un essere cosmico, materiale, e in concreto corporeo o carnale. Nello stesso tempo però è un essere vivo, e come tale non autosufficiente, ma bisognoso e quindi desideroso, dotato di sentimenti, capace di adottare atteggiamenti; ragiona, riflette, fa piani e prende decisioni.
Da ultimo, è dotato di potere, è capace di essere mosso da Dio, di ricevere da Lui la forza vitale, di avere un animo buono . Quanto abbiamo detto alla fine di questa enumerazione è frutto dello “spirito”, concetto di capitale importanza teologica ed antropologica nella Scrittura. In effetti, il potere dell'uomo non è qualcosa che venga a lui da se stesso, che possegga come proprio. È il potere di Dio, la forza del suo Spirito quella che rende potente l'uomo. Se le altre nozioni di corpo o carne, o di vita, sono direttamente antropologiche, non si verifica lo stesso con quella di spirito. Anzitutto ed originariamente si tratta di una nozione teologica.
Né nell'Antico né nel Nuovo Testamento è sempre facile distinguere l'esatto significato del termine “spirito”, se si riferisca allo Spirito divino o all'uomo che si trova sotto il suo influsso. E proprio in questo appare la ricchezza della nozione, che in quanto concetto antropologico è la facoltà del divino. Caratteristica del Nuovo Testamento in generale, e in modo speciale degli scritti paolini, è la contrapposizione dello spirito alla carne (cf. Mt 26, 41; Mc 14, 38; Gv 3, 6; 6, 63; Rm 8, 1-11; Gal 5, 16-26, etc.). L'uomo non viene contemplato da un punto di vista neutrale, o nella sua “essenza”, ma nella sua situazione concreta di adesione o di rifiuto di Gesù.
Anche le categorie antropologiche ellenistiche e la distinzione corpo-anima che è entrata dopo nel cristianesimo e nella cultura occidentale, hanno riscontrato una certo eco nel linguaggio biblico, senza che sia stata però dominante.
La concezione dell'uomo come composto di anima e corpo, predominante nel mondo sotto l'influsso ellenistico in cui si diffuse il cristianesimo nei primi secoli, venne accettata da esso senza grandi problemi. Non sembra che come tale, dal punto di vista strettamente antropologico, venisse messa in discussione o considerata falsa. Però sì è stata reinterpretata e considerata da molti come insufficiente. La concezione secondo la quale l’uomo sarebbe immagine di Dio non poteva non avere riflessi su tutta l'antropologia, se si rapporta, come fecero i primi pensatori cristiani, alla cristologia e al messaggio salvifico della risurrezione di Gesù (Giustino, Ireneo, Tertulliano). Costoro incentrano l'antropologia soprattutto sul corpo. Esiste un'unità radicale che è il punto di partenza.
Bisogna evidenziare l'ispirazione biblica e la novità cristiana del concetto di uomo dei primi pensatori cristiani anche in un altro punto: è la nozione di “spirito”, che abbiamo visto fondamentale nell'antropologia biblica. L'uomo “perfetto” non è colui il quale consta di anima e corpo, ma di anima, corpo e spirito, in cui quest'ultimo elemento, nella sua complessità teo-antropologica è, allo stesso tempo, trascendente, divino, e necessario per la nostra perfezione. Bisogna riconoscere comunque che gli schemi platonici hanno avuto un evidente influsso sul cristianesimo, e che il riferimento, almeno esplicito, cristologico e teologico è andato scomparendo nella concezione dell'uomo che è stata comune in lunghi periodi della storia del cristianesimo. Così, l'uomo è un animale razionale, composto di anima e corpo, sotto il chiaro dominio del primo elemento.
San Tommaso, con la sua formula dell' anima come unica forma del corpo ha apportato senza dubbio un contributo di inestimabile importanza all' antropologia cristiana. La sua concezione dell'unità dell'uomo, nella differenziazione di anima e corpo, impedisce che nessuno di questi due elementi da solo possa essere considerato l'uomo.
Nell'insieme la Chiesa ha mantenuto una concezione unitaria dell'uomo, di fronte al dualismo che considera il mondo materiale in modo negativo (idea incompatibile con la concezione creazionista), e contro il monismo di qualunque segno che riduce, sia in un senso materialista, sia spiritualista la realtà dell'essere umano.
La nozione biblico-patristica di spirito nella sua dimensione antropologica è più ricca dell'idea dell'anima spirituale nella sua concezione corrente, anche se è possibile che in quest'ultima si siano riversati alcuni contenuti della prima.
Nella teologia e nel pensiero moderno si insiste sul fatto che l'uomo non “ha” un' anima e un corpo, ma che “è” anima e corpo. E intanto che l'uno come l'altra sono corpo e anima dell'uomo, egli è uno. Soltanto a partire da questa unità è possibile la distinzione di questi due aspetti o dimensioni. L'uomo è corpo, cioè, esiste nello spazio e nel tempo, è parte di questo cosmo, va verso la morte; è anima, cioè, trascende i condizionamenti di questo mondo, è immortale, e in ultima analisi tutto questo ha senso perché l'uomo è essere per Dio, è riferito radicalmente a Lui. C'è una dimensione nell'uomo irriducibile al materiale e al mondano. La fede cristiana mantiene questa concezione come qualcosa di irrinunciabile, perché solo così può avere senso la concezione dell'uomo creato ad immagine di Dio, chiamato alla comunione con Dio in Cristo e alla configurazione con il Risorto.
La dimensione “spirituale” dell'uomo che conosciamo non viene solo dall'anima come realtà ontologica, ma anche dalla chiamata nello Spirito del Dio spirito alla comunione con Lui. In effetti, alla visione cristiana della trascendenza dell' uomo rispetto a questo mondo è essenziale la dimensione dialogale, la comunione con Dio. Non si tratta di una semplice trascendenza dell'uomo in quanto anima nei confronti di questo mondo, ma della comunione con Dio, dello “stare con Cristo”, del vedere Dio faccia a faccia. È chiaro che questo elemento, in quanto divino, è trascendente. Ciò però non vuol dire che non sia essenziale per la costituzione stessa dell'uomo che esiste, l'unico che Dio ha creato, che non si trova e che mai si è trovato nello stato di “natura pura”. E il paradosso dell'essere umano che raggiunge la sua perfezione soltanto al di là di se stesso .
5.2. Persona libera e sociale
L'uomo chiamato a configurarsi secondo Cristo, in quanto costituito nel suo stesso essere dalla chiamata alla comunione con Lui, è un essere “personale”. L'uomo non è soltanto qualcosa ma qualcuno, non soltanto si domanda che cosa è, ma soprattutto chi è. L'uomo è persona vuol dire che egli è un soggetto, padrone di se stesso, libero e quindi capace di configurare il suo essere in modo creativo.
Le definizioni classiche della persona hanno insistito soprattutto sull'individualità dell'essere razionale, nella sua irripetibilità ed incomunicabilità, nella sua relativa “indipendenza”. Io sono io e non sono altro. In queste definizioni richiama l'attenzione l'assenza della dimensione relazionale, quando le persone della Trinità vengono definite precisamente a partire dalla relazione. Per questo il pensiero attuale insiste contemporaneamente su queste due dimensioni come costitutive della persona, l'individualità e l'autopossesso e l'apertura all'altro, la comunicabilità. Nella chiamata di Dio alla comunione con Lui in Cristo il nostro essere personale raggiunge la sua pienezza, che determina contemporaneamente la nostra irripetibilità e il nostro essere in relazione.
La persona si autopossiede e quindi si realizza in libertà. La libertà emerge dalla natura dell'uomo, dai suoi desideri e dalle sue tendenze non realizzate che lo obbligano a confrontarsi con la realtà. Ma l'uomo facendo ciò si conforma a se stesso, alla struttura naturale delle sue tendenze. Per questo la libertà non è tanto la capacità di scegliere su questo o su quel bene finito, ma la capacita di scegliere su noi stessi, sul nostro proprio essere.
Teologicamente parlando questa libertà dell'uomo è risposta alla libertà originaria di Dio. Dato il carattere teologico della nostra libertà, essa non può avere altro modello né altro fondamento se non la libertà di Gesù. La libertà divina originaria su cui si fonda la creazione non è altro che la libertà del suo amore, che esce da se stesso per darsi alle creature .
L’essere personale dell'uomo ci apre alla sua dimensione sociale. Il riferimento all'altro è un dato così primario come quello della propria irripetibilità e dell'autopossesso. La teologia cristiana però, oltre a raccogliere questo dato, ci mostra come questa dimensione sociale dell'uomo riguarda la nostra relazione con Dio. In senso positivo, basta menzionare la dottrina paolina della Chiesa come corpo di Cristo, nella diversità di ministeri e carismi di ognuno per l'utilità comune. Il nostro inserimento in Cristo e la nostra partecipazione alla sua vita avviene “socialmente”. Nell'eucaristia questa unione di tutti con il Signore nella partecipazione dell'unico pane e dell'unico calice raggiunge la sua massima espressione. Non possiamo nemmeno pensare alla vita eterna senza prendere in considerazione questo elemento della comunione fraterna .
CONTENUTI: 1. Preliminari
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1. Preliminari
Contestualizzazione:
Non tutto è ammirazione ed armonia nella vita. Ci arrivano brutte notizie di ogni tipo. Non tutte ci riguardano allo stesso modo. Quando il male è distante, abbiamo un'opinione su di esso. Quando ci tocca da vicino o nella nostra propria carne, rimaniamo disorientati, con sentimenti di perplessità, angoscia, dolore... A volte percepiamo una notabile mancanza di coincidenza in noi stessi: tra quello che realmente vogliamo essere e i nostri “conseguimenti” o quello che realmente siamo. Sentiamo aspirazioni di avere-essere “di più”: più di tutto... lottiamo selvaggiamente per conseguire cose che, a volte, ci arrivano per la via del dono. Nemmeno capiamo completamente la natura che ci gira intorno e in cui viviamo. A volte ci fa soffrire ( inondazioni, terremoti...). Il male stona con il più profondo del nostro essere. Siamo stati creati per soffrire? Ci rifiutiamo di pensare quello. Cosa è il male? cosa è il peccato? Sebbene vogliamo occultarlo, l'inautentico prima o poi diventa una realtà conosciuta, e “non fa carriera”. Crediamo che il peccato e il male non hanno futuro. Siamo stati creati per un'altra cosa. Non è così?
Osservazione riflessiva:
Che cosa ti suggerisce la parola peccato? e la parola male? che relazione vedi tra entrambi i termini? Che cosa è per te il cosiddetto “peccato originale”? Oggi si fa beffa della parola peccato. Perché credi che succede quello? credi che possa essere motivo di burla il termine peccato? perché si tende ad occultare il peccato? C'è una frase che, senz'altro, avrai sentito più di una volta: il successo ha molti genitori, il fallimento è orfano. Cosa ne pensi? credi che ci sia soluzione per gli esseri umani? perché?
2. Sempre nell'orizzonte della grazia di Cristo
Vogliamo adesso considerare la parte storica dell'antropologia teologica: l'uomo peccatore, non solo perché pecca personalmente (la nostra esperienza in questo senso non lascia alcuna ombra di dubbio) ma perché si trova inserito in una storia di peccato, che, secondo i racconti biblici, ha inizio al principio della storia ed abbraccia tutta l'umanità. Nella tradizione della Chiesa, la riflessione su questa peccaminosità universale è legata alla dottrina del “peccato originale”, nella sua doppia dimensione di primo peccato all'inizio della storia e degli effetti che, a partire e come conseguenza di esso, soffre ogni uomo e tutta l'umanità. La dottrina del peccato originale non è altro che l'aspetto negativo della solidarietà degli uomini in Cristo. Essa presuppone contemporaneamente che l'uomo sia stato creato da Dio “nella grazia”, che sin dal primo momento Dio abbia offerto all'uomo la sua amicizia. Soltanto partendo da ciò ha senso parlare di peccato come rottura dell'alleanza con Dio, della comunione con Lui.
Nella teologia tradizionale c'è stato un dibattito riguardo al problema se questa grazia o amicizia originaria dell'uomo con Dio fosse già grazia di Cristo. Dobbiamo dire che non conosciamo altra “grazia” se non quella dell' autocomunicazione di Dio in Gesù Cristo suo Figlio. Se il primo Adamo è figura di quello che doveva venire, già nel primo istante Dio ha dovuto offrirgli la sua grazia in vista di Gesù che è questa grazia in persona. L'affermazione fondamentale che si riferisce allo “stato originale” è precisamente questa, che l'uomo nello stato di armonia con Dio nel quale è stato creato e a cui è stato destinato è anche un essere integrato nelle sue dimensioni personali, cosmiche e sociali. Non possiamo neppure dimenticare la dimensione escatologica di questi racconti protologici: il disegno originale di Dio si realizzerà alla fine dei tempi. La dottrina del peccato originale appare oggi più che negli ultimi tempi centrata sull'aspetto teologico e su quello cristologico. Inoltre, l'esposizione della dottrina del peccato originale non può essere fatta in modo tale da sembrare di mettere in dubbio la volontà salvifica universale di Dio. La dottrina del peccato originale si è sviluppata soltanto a partire dalla prospettiva della salvezza che Gesù ci offre e non come un insegnamento “previo” alla cristologia.
3. L’insegnamento biblico
La dottrina del “peccato originale” non si deduce senz' altro dal racconto di Gn 2-3. Solo alla luce della reinterpretazione che il Nuovo Testamento e la tradizione danno di questi racconti si sviluppa la dottrina di cui noi ci stiamo occupando. D’altra parte il racconto di Gn 2-3 non deve essere considerato isolatamente: bisogna vederlo nell'insieme delle idee del peccato e della sua universalità nell'Antico Testamento (le testimonianze della letteratura sapienziale -cf. Pro 20,9; Sir 7,20; Gb 4,17; 14,4; Sal 51,7; 143,2-; dei profeti - cf. Ger 2, 5-8; 3, 25; 7, 22 ss.; Ez 2, 3 ss.; 16, 44; Os 10, 9; Am 2, 4; Sai 106, 6-). Il riconoscimento sempre più chiaro della responsabilità personale del peccatore (cf. Ger 31, 29 s.; Ez 18, 3 ss.) non si oppone a questa esperienza. Si tratta piuttosto di prospettive complementari.
In un ambiente in cui la solidarietà nel male (anche nel bene; pensiamo a Gn 12, 3) e l'influsso del peccato di alcuni sugli altri viene comunemente ammesso, lo yahvista tenta una spiegazione etiologica delle circostanze del suo tempo (il peccato concreto del momento, l'infedeltà dei re di Israele, ecc.) risalendo alle origini dell'umanità. Un atto peccaminoso all'inizio determina in qualche modo il destino successivo degli uomini; c'è una specie di concatenazione di peccati e di conseguenze del peccato (cf. già Gn 4,8. 23-24, ecc.), che ci mostra che il male non viene da Dio, ma dall'uomo. Insieme a ciò, nello stesso tempo ci viene spiegato in che cosa consista il peccato dell'uomo: nel voler essere come Dio, nella sua autosufficienza che rifiuta il dono del Signore.
Il brano neotestamentario più importante nello sviluppo della dottrina del peccato originale è Rm 5,12-21. È importante segnalare l'obiettivo cristologico di esso: in Lui c'è la salvezza, la grazia, la giustificazione, che si acquista per la fede in Lui e non per le nostre proprie opere. Nella giustificazione e nella grazia c'è qualcosa di previo alla nostra decisione e al nostro operare, la salvezza che in Cristo è già realtà, come anche c'è qualcosa di previo alla nostra opzione personale al peccato da cui Gesù ci libera. È il potere del peccato (hamartia) che è entrato nel mondo per mezzo di un uomo, che ha dato luogo alla morte. Questa forza del male fa sì che ognuno ratifichi l'opzione di Adamo. Ma Cristo e la grazia prevalgono sul peccato, perché “là dove abbondò il peccato sovrabbondò la grazia” (Rm 5, 20) .
4. Lo sviluppo storico della dottrina
A sant’Agostino dobbiamo la denominazione di peccato originale, che in seguito sarà utilizzata dalla tradizione. Di fronte alla sottovalutazione della forza del peccato da parte dei pelagiani, che vedevano in Adamo soltanto un cattivo esempio, Agostino insisterà fortemente sulla realtà del peccato in ogni uomo a meno che egli non sia stato liberato mediante il battesimo. Anche i bambini sono “peccatori”, perché se non lo fossero Cristo non sarebbe morto anche per loro.
Se bisogna elogiare sant'Agostino per la sua decisa difesa della necessità che tutti gli uomini abbiamo di Cristo e della sua salvezza, bisogna anche dire che egli probabilmente non ha pensato a questo primato di Cristo fino alla fine ed ha visto un'unione degli uomini in Adamo previa a quella che li unisce in Cristo. Di conseguenza egli ha avuto la tendenza a vedere tutta l'umanità dapprima racchiusa nella massa di peccato per poi giungere alla liberazione di Cristo. Il Nuovo Testamento però parla anche dell'elezione di tutti gli uomini in Cristo prima della creazione (cf. Ef 1,3 ss.).
Insieme alla tradizione agostiniana, che insiste molto sulla concupiscenza e sul disordine interno come conseguenza del peccato originale, la linea anselmiana porrà l'essenza del medesimo sulla privazione della giustizia originaria. San Tommaso realizzerà la sintesi di entrambe, facendo consistere il peccato originale formalmente nella privazione della giustizia originaria e materialmente nella concupiscenza.
Il concilio di Trento è altro momento capitale nello sviluppo e nella definizione della dottrina del peccato originale. Dinnanzi alle tendenze di Lutero di considerare la natura umana totalmente corrotta a partire dal peccato, Trento deve affermare che questa natura, anche se ferita, si mantiene integra in ciò che è sostanziale, e deve anche affermare la trasformazione intrinseca dell'uomo giustificato e la realtà della giustificazione del peccatore. Quindi, secondo Trento, il peccato originale non può essere identificato con la concupiscenza, che rimane nel battezzato, ma che non nuoce a chi lotta contro di essa con la grazia di Dio.
Possiamo distinguere diversi livelli nell'apporto di Trento:
5. I problemi attuali
Dobbiamo cercare anzitutto di chiarire la questione terminologica. In primo luogo dobbiamo indicare che il peccato originale è chiamato peccato soltanto analogicamente rispetto al peccato personale.
Chiamiamo “peccato” il peccato originale perche separa da Dio, perché allontana l'uomo dalla sua vocazione, in una parola, perché la relazione con Dio viene segnata da esso in modo negativo. In secondo luogo non sarà inutile notare che la teologia tradizionale distingue parlando del peccato originale tra il cosiddetto “peccato originale originante” e il “peccato originale originato”. Il primo è il peccato commesso all'inizio della storia che ha dato origine al male in cui adesso viviamo e sperimentiamo. Il secondo sono esattamente queste conseguenze negative in noi, la nostra situazione di isolamento da Dio che ha nel peccato originante la sua causa e il suo fondamento. Più della prima ci interessa soprattutto questa seconda questione (il peccato originale originato).
Dobbiamo partire da un presupposto: la vocazione degli uomini alla comunione con Gesù. Non possiamo considerare la dottrina del peccato originale come qualcosa di “anteriore” alla cristologia e alla soteriologia.
Se il messaggio cristiano sul peccato non può essere separato da quello del suo perdono, anzi, se il punto centrale di questo messaggio sta proprio nel perdono, allora non possiamo dire altra cosa in rapporto al peccato originale.
Ma c'è ancora di più. Abbiamo già detto che la solidarietà tra gli uomini, di fatto non ha il suo primo fondamento in Adamo, ma in Cristo. Cristo è “capo” dell'umanità, non soltanto di ognuno di noi. Per questo tutti sono chiamati ad essere uno in Gesù e a cooperare alla realizzazione di questo disegno. Il peccato va sempre contro questo disegno universale (la salvezza in Cristo), e solo a partire da esso si scopre la sua gravità. La redenzione e liberazione dal peccato è una dimensione essenziale del significato universale di Gesù. Il peccato è universale perché va contro un piano universale.
Possiamo partire da un dato dell'esperienza umana (cf. GS 13) per confermare la realtà del peccato attestata dalla rivelazione. È l'esperienza della divisione dell'uomo, tanto nella sua vita personale come in quella sociale. In questa situazione si trova ogni uomo che nasce in questo mondo, ed è una situazione tale, che l'uomo non può superarla solo con le sue proprie forze. Questa situazione in cui noi ci troviamo, sia quella nostra interiore, sia quella dell'umanità intera, non è voluta da Dio.
Non si tratta infatti di un atto, ma di una situazione, di uno stato. E questa situazione è di perdizione, di mancanza di grazia, di schiavitù sotto il potere del male. Per questo la denominazione di peccato non è impropria per designare questo stato, e l'esperienza inoltre ci insegna che, giunti all'uso della nostra libertà, in una maggiore o minore misura, lo ratifichiamo con delle nostre libere decisioni.
Se chiamiamo peccato questa situazione è perché la consideriamo frutto della decisione umana, di una determinazione storica, non della costituzione essenziale dell'uomo. Il peccato è qualcosa di radicalmente distinto dalla finitudine dell'uomo, dalla sua perfettibilità, anche se ha in queste la sua condizione di possibilità. C'è peccato perché c'è libertà umana, e perché questa libertà può essere esercitata persino contro Dio, da cui essa deriva, e nello stesso tempo contro noi stessi. È precisamente nella libertà umana e nelle sue caratteristiche che bisogna trovare la ragione dello stato di peccaminosità universale che chiamiamo peccato originale. K. Rahner, parlando di esso, scrive sulla codeterminazione della libertà di ognuno per la libertà degli altri. L'uomo agisce come soggetto libero in una situazione determinata dal punto di vista storico ed interumano, e quindi la situazione della nostra libertà è necessariamente configurata dalla libertà (e concretamente dalla colpa) degli altri.
Il bene e la grazia di Dio, per il suo disegno, arrivano a noi anche attraverso gli altri. La fedeltà personale a Dio non significa solamente il compimento della vocazione personale, ma la cooperazione al bene di tutti. Di conseguenza il peccato, che non è altro che un allontanamento personale da Dio, causa nello stesso tempo anche una rottura della mediazione di grazia per gli altri. L'uomo, nella sua infedeltà a Dio, non ha accettato di essere anche per gli altri canale della presenza di Dio e della sua grazia. C'è una relazione tra gli peccati, come anche c'è una relazione tra le azioni e gli atteggiamenti che cooperano per il bene e che provengono da Cristo.
Tutte queste condizioni non sono esteriori all'uomo, lo riguardano profondamente. Per questo con la venuta al mondo l'uomo diventa “peccatore” in solidarietà con gli altri. Ma è l'“umanità originante” (K. Rahner), che ha tracciato una determinata rotta nella storia del mondo e degli uomini, ha scatenato un processo che, lasciato a se stesso, è irreversibile. La privazione della mediazione di quella grazia che Dio ha voluto darci anche mediante gli altri si è prodotta all'inizio della storia umana.
Ma lo studio del peccato originale non deve farci dimenticare la verità della vittoria di Cristo sul peccato e la speranza cristiana nel trionfo della grazia. La teologia del peccato originale, se non è consapevole del contesto cristologico in cui è nata ed in cui unicamente ha senso, corre il rischio di darci una visione parziale della situazione dell'umanità davanti a Dio. Il peccato non è più forte di Cristo, e neppure il suo influsso sarà alla lunga più universale, anche se non possiamo in alcun modo sottovalutarlo. Il mondo è stato già salvato in Gesù, e il dono del suo Spirito spinge sempre gli uomini verso il bene. Il nuovo inizio significato dalla morte e risurrezione di Cristo indica da una parte l'incapacità dell'uomo di restaurare la relazione con Dio, ma contemporaneamente pone in evidenza la fedeltà divina sempre mantenuta nonostante il peccato e l'infedeltà umana .
6. Sulla giustificazione del peccatore
La giustificazione è una dimensione della grazia di importanza fondamentale. Il favore di Dio viene concesso di fatto all'uomo peccatore, in esso si mostra l'iniziativa divina e quindi il primato assoluto della grazia in questa concessione, anche se essa non viene data senza la nostra cooperazione.
La giustificazione del peccatore è l'opera della giustizia di Dio. Essa è l'atteggiamento di fedeltà di Dio alla sua alleanza con Israele, che lo porta a salvare il popolo eletto, a liberarlo dai nemici, ecc. (cf. Gdc 5, 11; 1 Sam 2, 17; Sal 40, 11; 48, 1; 71, 2; 103, 6; ecc.). La giustizia di Dio è così una giustizia salvifica. Dio è giusto quando libera l'innocente. La giustizia salvifica di Yahveh, che per lunghi periodi ha come destinatario soltanto Israele, diventa universale già in alcuni testi dell'Antico Testamento, concretamente nel secondo e nel terzo Isaia: la salvezza non sarà più la restaurazione dell'esclusiva alleanza con Israele, ma l'estensione del regno di Dio a tutti i popoli e le nazioni (cf. Is 42, 4; 45, 21 ss.; 51, 5; 56, 4 s.; 62, 2).
Paolo, l'autore neotestamentario che parla di più della giustizia di Dio, è erede di questa tradizione. La fedeltà di Dio all'alleanza si è manifestata in Gesù, nel quale Dio vuole salvarci, nel quale si dà di conseguenza la manifestazione definitiva della giustizia divina. La giustizia di Dio è il potere salvifico che si oppone e sconfigge il potere del peccato.
È soprattutto nella Lettera ai Romani che la manifestazione della giustizia di Dio occupa un posto centrale. Già all'inizio della lettera (Rm 1, 17) si parla della rivelazione di questa giustizia nel vangelo, la forza salvifica e misericordiosa opposta all'“ira di Dio” (cf. Rm 1, 18). In Rm 3, 21-22 (“Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono”) viene messa in evidenza in modo esplicito la rivelazione della giustizia di Dio in Gesù Cristo, una rivelazione che è indipendente dalla legge (Rm 3, 20: “Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato”), e quindi gratuita, poiché questa manifestazione è legata alla redenzione di Cristo Gesù (Rm 3, 24-25: “ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati”).
Se soltanto in Cristo siamo giustificati, in virtù della sua obbedienza (cf. Rm 5, 16 ss.), ne consegue l'affermazione fondamentale della teologia paolina della giustificazione: soltanto mediante la fede, non per le opere della legge, possiamo essere giustificati. L'unica nostra fonte di salvezza, quindi, sta nella’accoglienza dell'opera di Cristo. Da qui l'impossibilità di vantarsi, esclusa dalla stessa fede. Poiché è in virtù di essa (nell'accettazione della gratuità), e non per le opere della legge che l'uomo è giustificato. Giustificazione per la fede significa pertanto giustificazione per tutti gli uomini, o, in altri termini, significato universale della salvezza di Gesù Cristo.
La giustificazione per la fede e la giustificazione gratuita trovano la loro conferma nell'esempio di Abramo (cf. Gn 15, 6), al quale viene dedicato il capitolo 4 della Lettera ai Romani (cf. anche Gal 3, 6 ss.). Affermare che l'uomo è giustificato per la fede significa quindi che è giustificato colui che accetta il dono di Dio, colui che rinuncia ad autoaffermarsi davanti a Lui, colui che riconosce il primato di Dio nella salvezza.
Le questioni della giustificazione per la fede e del primato assoluto della grazia nella salvezza dell'uomo sono diventate più acute con la Riforma. Per Lutero si tratta del punto fondamentale della fede cristiana, l'“articulus stantis et cadentis ecclesiae”. Lutero considera l'uomo come corrotto a causa del peccato originale. Non è capace di compiere alcun bene né di libertà. La redenzione di Gesù deve riguardare tutto l'essere umano, e se costui non è del tutto perduto, o Cristo è superfluo o è redentore soltanto in parte. Alla base della giustificazione sta la giustizia di Dio, in virtù della quale Egli giustifica il peccatore. Siamo giusti per la giustizia di Dio che ci giustifica, che non ci imputa i peccati in virtù dei meriti di Cristo. Non possiamo mai considerare questa giustificazione come qualcosa di proprio. Siamo giustificati solo in virtù della salvezza di Cristo, solus Christus, e solamente in virtù della fede possiamo personalmente conseguire la giustificazione, sola fide. La fede è un atteggiamento che Cristo e lo Spirito suscitano in noi, in nessun momento può essere considerata un nostro merito. Per questo la giustificazione avviene sola gratia. Il cristiano viene in questo modo liberato dal peccato ed orientato verso Dio. Da lui provengono le buone opere come dall' albero buono i frutti. Ma queste opere non saranno mai un merito dell'uomo di fronte a Dio.
Nei confronti di Lutero il concilio di Trento vuole stabilire l'insegnamento cattolico sulla giustificazione. Lo fa in un lungo decreto che consta di un proemio e sedici capitoli, accompagnati da 33 canoni. Il decreto inizia con alcuni capitoli introduttivi nei quali si insiste sull'universalità del peccato di Adamo e sulla necessità che tutti gli uomini hanno della redenzione di Cristo e della comunicazione del merito della sua passione per essere giustificati.
Passando in seguito alla preparazione per la giustificazione negli adulti, si afferma anzitutto che solamente in virtù della grazia di Dio avviene l'inizio della giustificazione e la giustificazione stessa, con l'esclusione radicale di ogni precedente merito da parte dell'uomo.
Nello stesso tempo però, e senza che questo primato della grazia soffra alcuna diminuzione, si insiste sulla libera cooperazione e accoglienza di questa grazia, che è, nello stesso tempo, frutto della medesima grazia.
Dopo i capitoli dedicati alla preparazione vengono quelli che trattano della giustificazione stessa. E qui, insieme alla libertà nell’accoglienza della grazia, si insiste sulla trasformazione interiore dell'uomo che la giustificazione comporta: essa non è soltanto la remissione dei peccati ma la “santificazione e rinnovazione dell'uomo interiore”. La giustificazione non consiste solamente nella remissione dei peccati, né nell'imputazione della giustizia di Cristo, né nel favore di Dio, ma nella grazia e nella carità, nella giustizia che viene da Dio, inerenti in noi. Trento afferma con chiarezza che il giustificato è trasformato internamente, che in lui si produce non soltanto un cambiamento nella sua relazione con Dio, elemento senza dubbio di capitale importanza, ma anche un nuovo modo di essere. Il giustificato è giusto realmente, e non soltanto considerato come tale. Libertà dell'uomo, e quindi cooperazione con la grazia, e vera trasformazione del giustificato, sono due punti centrali che per Trento, e di conseguenza per la dottrina cattolica, non sono in nessun modo ostacolo al primato assoluto della grazia, ma devono esser visti piuttosto come conseguenze di essa.
Anche la giustificazione per la fede è oggetto dell'insegnamento di Trento. Si afferma anzitutto che la fede non unisce interamente con Cristo se ad essa non vengono unite la speranza e la carità; è la fede che opera per la carità (cf. Gal 5, 6). Nella stessa linea si dice che la fede è l'inizio della giustificazione umana. Se il concilio si esprime con prudenza in rapporto alla giustificazione per la fede è perché l'idea che di essa si ha nella teologia del momento è soprattutto quella dell'assenso alle verità che Dio ci rivela. Con questa definizione non si riprende l'idea globale che Paolo ha della fede e che gli permette di affermare senza restrizioni che la giustificazione viene da essa. La giustificazione per grazia significa che la grazia della medesima non è stata promessa a niente di ciò che è precedente alla giustificazione. Questa idea, en Trento, è giustapposta a quella della giustificazione per la fede, ma la relazione tra i due aspetti dell'insegnamento Paolino non viene interamente articolata.
Da ultimo si tratta della certezza della giustificazione e della remissione dei peccati. Nessuno può, secondo Trento, essere sicuro con certezza di fede della propria giustificazione, perché anche se non gli è permesso di dubitare della misericordia di Dio e dell'efficacia della redenzione di Cristo e dei sacramenti, deve dubitare necessariamente delle sue disposizioni .
7. La grazia come trasformazione interna dell’uomo
Abbiamo già fatto riferimento a questo problema nella esposizione dei contenuti fondamentali del decreto sulla giustificazione del concilio di Trento. Il passaggio da ingiusto a giusto che è il contenuto della giustificazione, non avviene senza la santificazione e il rinnovamento dell'uomo interiore. A questo nuovo essere dell'uomo, che si trova sempre in dipendenza dalla presenza di Dio stesso in noi e dalla nostra condizione di figli in Gesù, dobbiamo adesso brevemente dedicare la nostra attenzione.
In alcuni testi paolini appare l'espressione “nuova creazione” riferita anche a colui che sta in Cristo. Così chiaramente in 2 Cor 5, 17, “se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove”. Qualcosa di simile in Gal 6, 15: “non è infatti la circoncisione che conta, né l'incirconcisione, ma l'essere nuova creatura”. Senza alcun dubbio in tutti questi testi viene espresso un cambiamento di situazione nell'uomo che aderisce a Cristo, una novità. Pur essendo il medesimo uomo, vive però in modo diverso. Questa novità riguarda il cristiano profondamente. In ogni caso una cosa é chiara: questa trasformazione non precede la nuova relazione con Cristo, ma è una sua conseguenza. E la stessa presenza di Cristo e dello Spirito in noi che ci rinnova internamente.
Nei primi secoli della Chiesa non si è riflettuto molto su questo nuovo essere dell'uomo partendo dalla prospettiva antropologica. E stato fatto invece nella scolastica, e concretamente da san Tommaso. Secondo lui, l'uomo chiamato alla visione di Dio, non può raggiungere questo fine con le sue sole forze naturali, se non è aiutato da Dio con un aiuto proporzionato al fine a cui tende e che lo “eleva” al di sopra della sua condizione di semplice creatura. Tale ausilio è la “grazia”, che non ha altra fonte che l'amore di Dio e la sua benevolenza per l'uomo. Questo amore di Dio è tale che crea nell'uomo ciò che egli vuole amare. Causa così in noi un effetto creato, una trasformazione del nostro essere. L'anima viene quindi elevata e cambiata, riceve una partecipazione alla natura divina, un essere soprannaturale. In questo modo l'uomo, trasformato dal di dentro, può esercitare le virtù teologali (fede, speranza e carità).
L'uomo giustificato ha ricevuto con la grazia un nuovo modo di essere, un nuovo “habitus” o qualità permanente. Abbiamo così la grazia abituale come un effetto creato dall'amore di Dio in noi. L'uomo giustificato è, in questo modo, principio dei suoi atti in ordine alla vita eterna. Per san Tommaso però questa qualità nuova o habitus non è mai separata o indipendente da Dio che la dà.
Lutero rifiutò queste nozioni perché nel suo modo di pensare significavano che la grazia fosse un possesso dell'uomo. Trento insiste sul cambiamento interiore dell'uomo giustificato, parla della grazia o della giustizia inerente all'uomo.
Nella teologia attuale questa trasformazione interiore dell'uomo viene vista in generale come la conseguenza (e non il presupposto, come si è fatto frequentemente nelle epoche precedenti) della presenza in noi di Dio. Il motivo è chiaro: nessun dono creato è capace di offrire un titolo sufficiente per la comunione con Dio. Solo Dio stesso può portarci a lui. Dio santifica l'uomo con la sua presenza, e questo produce il suo effetto nel nostro essere creaturale. La grazia come qualità in ultima analisi noi la riceviamo anche insieme a Dio stesso che è colui che la crea in noi con la sua presenza. Il nostro nuovo essere deriva dall' azione di Dio stesso.
La grazia è liberatrice. Dà all'uomo la capacità di operare il bene perché ci fa uscire dal nostro egoismo e dalla schiavitù del peccato. Se diciamo che l'uomo realizza se stesso nella libertà, questo non è meno vero anche quando noi ci troviamo dinnanzi al mistero di Dio che ci si dona in Gesù Cristo. Avviene semplicemente che in questa luce la libertà appare come il frutto della grazia, e in questo modo viene resa capace della sua massima realizzazione, la risposta all' amore di Dio, con il suo senso di pienezza infinita (pienezza che non si controlla), quella che solo Dio può dare .
Si tratta della risposta all’amore di Dio che si dona a noi in Gesù. La grazia dà alla libertà un nuovo senso e la apre ad una nuova prospettiva. L'amore di Dio, liberandoci da noi stessi, ci dà la capacità di amare e quindi di libertà. La libertà è capacità di bene, e non perché questo bene è dono di Dio esso è meno autenticamente dell'uomo. L'iniziativa di amore di Dio è tale da non eliminare la responsabilità dell'uomo, anzi la suscita. Il dono di Dio, senza smettere di essere tale e proprio perché lo è, si fa realtà in noi. È dono radicale, fino al punto di diventare nostro continuando ad essere dono di Dio.
Qui sta precisamente il fondamento della dottrina cattolica del “merito”, che può anche prestarsi a dei gravi malintesi. Se noi adesso ne parliamo non è soltanto per la questione in se stessa, ma per il nuovo aspetto delle relazioni tra dono di Dio e libertà che ci dà una nuova luce. In ultima analisi si tratta di una conseguenza di ciò che fino adesso abbiamo detto, cioè, che l'uomo giustificato è responsabile dei suoi atti davanti (forse meglio in Dio) a Dio, e quindi ognuno riceverà la ricompensa secondo le sue opere. Il Nuovo Testamento lo afferma più volte (cf. Mt 16, 27; Rm 2, 6; 14, 10-12, ecc.).
Una volta detto questo però, non possiamo dimenticare che questo principio viene sfumato o relativizzato già nel Nuovo Testamento stesso: i discepoli sono servi inutili (Lc 17, 10), il salario non corrisponde al lavoro compiuto (cf. Mt 20, 1 ss.), perché in ultima analisi non ci può essere corrispondenza tra le sofferenze del tempo presente e la gloria che ci è stata riservata (cf. Rm 8, 18; 2 Cor 4, 17). Inoltre il bene stesso che l'uomo realizza è sempre opera di Dio.
Il concilio di Trento ha sviluppato la sua dottrina sul merito nel capitolo 16 del decreto sulla giustificazione, una delle parti più belle di tutto il decreto. Per ogni opera meritoria e gradita a Dio è necessario l'influsso di Cristo su di noi, come quello del capo sulle membra o della vite sui tralci (Ef 4, 15; Gv 15, 5). Le buone opere sono sempre manifestazione di questa unione con Gesù. Per questo non si può stabilire la propria giustizia né possiamo gloriarci delle opere, ma bisogna confidare nel Signore “la cui bontà nei confronti degli uomini è così grande che vuole che i suoi doni siano nostri meriti” (sant’Agostino). In quest'ultima frase, crede il P. Ladaria, può essere riassunta tutta un'antropologia cristiana: L'amore di Dio verso di noi è tale che vuole che sia nostro ciò che è suo. L'influsso divino non elimina la nostra personalità né la nostra condizione di soggetti, ma le potenzia. Il “merito” diventa così un nuovo aspetto del dono di Dio.
La grazia è l'orizzonte della salvezza. L'uomo nella grazia di Dio è l'uomo in quanto salvato. Non si può considerare, come a volte è stato fatto, la grazia come il semplice cammino o il mezzo per la salvezza. La grazia è il dono di Dio stesso ed è, quindi, la salvezza dell'uomo che non sta che in Dio. La grazia è tutto il mistero di Cristo in quanto causa la pienezza e la salvezza dell'uomo .
CONTENUTI: 1. Preliminari
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1. Preliminari
Contestualizzazione:
La fede cristiana ha a che fare con il Dio trino che ci salva. Questa salvezza si distende nel tempo. In questo senso, la fede fa memoria del passato, non con nostalgia, ma come anticipazione di quello che sarà, e ci vuole dire che il nostro presente segue aperto ad un futuro di pienezza. La fede non solo stabilisce rapporti di incontro delle persone con Dio e con i suoi simili, ma guarda anche il futuro come futuro “di Dio”. Non si tratta di offrire un rapporto dettagliato di quello che ci fornirà quel futuro. In questo senso, l'escatologia cristiana è sobria. Ma la fede fissa il suo sguardo sul Dio che venne, viene e verrà. La fede dà senso all'esistenza umana e, perciò, risponde, sebbene –come diciamo- in maniera sobria ed umile, alla domanda per il futuro: che ne sarà di noi? e di me? Quella sobrietà nella risposta si capisce nel contesto della speranza che è come la fede messa nel tempo. Il fatto di essere, di sentirci come esistenti, ci anima ad aspettare. E quando il nostro essere si colora di senso, verità e bellezza, quella speranza ci parla di una pasqua della creazione (Ruiz de la Peña), dei “nuovi cieli” e della “terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2 P 3, 13).
Osservazione riflessiva:
Come è la mia fede nelle “cose future”? come vivo la virtù teologale della speranza? di che cose o contenuti si alimenta la mia speranza? mi limito a credere in Dio? credo anche nel Dio “che venne-viene-verrà”? come influisce la mia “escatologia personale” nel mio vissuto della fede, nel mio modo di organizzare l'esistenza, il mio lavoro, ecc.?
2. I principi dell’escatologia cristiana
Il titolo di questo capitolo vuole mostrare le due dimensioni fondamentali che si incrociano nella considerazione di questo tema. Da una parte il disegno di Dio sull'uomo e sul mondo, la cui realizzazione inizia nella creazione ed ha in Cristo il suo punto culminante ed il suo senso, giunge al suo compimento. Dall'altra, l'uomo, destinatario del disegno salvifico di Dio, che deve ricevere la sua pienezza, che possiede adesso solo in forma di primizia e nella speranza. Queste due dimensioni sono intimamente unite.
Non ha senso considerare le “cose ultime” se non partendo dalla prospettiva dell'“ultimo” o, ancora meglio, a partire da Gesù, l'“ultimo”, dopo il quale non c'è da aspettare nessun altro (cf. Mt 11, 3; 1 Cor 15, 45). In Gesù c'è la salvezza e la pienezza degli uomini perché in lui il mondo e la storia ricevono il loro senso ed orientamento definitivo. Gesù è l'evento escatologico, alla luce del quale devono essere considerati tutti i contenuti della speranza cristiana. Gesù è l'evento escatologico in quanto è il rivelatore del Padre e l'unico mediatore che ci porta a lui. La speranza cristiana non ha altro oggetto se non Dio stesso, il futuro assoluto e definitivo dell'uomo. L'escatologia cristiana non ha quindi come oggetto primario nessun futuro intramondano, nessun evento che si colloca semplicemente nella cornice di questa storia. Solo Dio rivelato in Cristo è il contenuto dell'escatologia ed anche di ognuna delle cose ultime in cui noi speriamo. “Dio è in quanto raggiunto il cielo, in quanto perduto l'inferno, in quanto esaminatore il giudizio, in quanto purificatore il purgatorio... Ed è tutto ciò nel modo in cui egli si è rivolto al mondo, cioè, nel suo Figlio Gesù Cristo, che è la possibilità di rivelazione di Dio e quindi la sintesi delle cose ultime” (H.U. von Balthasar).
La manifestazione di Dio nella sua pienezza va molto al di là di ciò che l'occhio ha visto o l'orecchio ha udito (cf. 1 Cor 2, 9). Il tentativo stesso di descrivere ciò in cui speriamo significherebbe distruggere la speranza cristiana; vorrebbe dire ridurre all'ambito del nostro mondo ciò che per definizione lo sorpassa.
L'escatologia cristiana, se ha Cristo come centro, è un messaggio di salvezza. Ci annuncia la realizzazione piena della salvezza avvenuta in Gesù. Se tutto l'evento Cristo è salvifico non può non esserlo la sua definitiva manifestazione. L'escatologia cristiana è, di conseguenza, una dimensione irrinunciabile della buona notizia, dell'evangelo. Sappiamo che la fede cristiana afferma con molta serietà la possibilità della condanna dell'uomo, perché soltanto in questo modo si afferma anche la sua autentica libertà e quindi il carattere pienamente umano della sua adesione a Dio. Ma è ugualmente chiaro che ciò non costituisce il centro del messaggio di Gesù. Non c'è che un solo cammino della storia e dell'uomo, la vittoria di Cristo è assicurata, anche se non possiamo essere sicuri allo stesso modo della partecipazione di ognuno di noi ad essa.
La pienezza in cui speriamo (l'oggetto dell'escatologia cristiana) è una pienezza già posseduta, in primizia ma realmente. Non potremmo in alcun modo sperare in ciò di cui non abbiamo nessuna idea. Da qui la tensione tra il presente e il futuro tipica dell'escatologia cristiana, che è presente in tutto il Nuovo Testamento. In effetti, già nei sinottici noi troviamo insieme alle parole di Gesù sul regno di Dio divenuto realtà con la sua venuta, delle affermazioni di futuro sulla venuta del Figlio dell'uomo. Tanto il presente quanto il futuro, e questo è il punto essenziale, appaiono uniti nella sua persona. Gesù non rimanda ad un futuro distinto da lui stesso. Nel Vangelo di Giovanni, anche se non si può dire che la dimensione di futuro sia completamente assente, viene maggiormente accentuato il presente della salvezza.
In un modo simile deve essere anche impostata la questione della continuità e della rottura tra la vita presente e quella futura. Da una parte è certo che la morte di Gesù in croce ci mostra chiaramente una cesura tra la sua vita terrena e la sua vita gloriosa, dall' altra Gesù risorto appare con i segni della sua passione. Se la vita futura non sta semplicemente in continuità con quella presente, non dobbiamo dimenticare che dipende da essa. È in questo mondo transitorio in cui si decide la nostra sorte eterna. Per questo, il nostro sforzo nel mondo che passa acquista un valore trascendente. Rottura e continuità devono essere affermate contemoraneamente .
3. La parusia del Signore e la risurrezione finale
Nel nuovo testamento la parola “parusia” viene usata in un senso tecnico-religioso, come la venuta gloriosa di Cristo alla fine dei tempi. La parusia viene rapportata con la fine del mondo, con la risurrezione e con il giudizio.
La fede nella parusia ci dice che il divenire storico è un processo limitato, cioè, non indefinito o interminabile. Un futuro interminabile non sarebbe tale, non sarebbe che presente o passato eternizzato. Bloch crede che il tempo senza fine non è che una ruota girando nel vuoto. Affinché la storia abbia un significato come un tutto, bisogna che tutto arrivi alla sua fine.
La parusia concerne alla storia per quanto la chiude. Ma proprio per quello, perché la chiude, è contemporaneamente metastorica, cioè, poiché è il limite estremo del tempo, appartiene al tempo, ma allo stesso tempo trascende il tempo. Affinché possa finire la storia la parusia deve essere storica. Ma, d'altra parte, si deve tener conto che la storia non può essere mai il luogo della percezione immediata ed intuitiva del divino, cioè, di quello eterno.
Il messaggio escatologico è un aspetto del mistero di Cristo. Così lo ha compreso il credo niceno-costantinopolitano quando parla della venuta nella gloria di Gesù: “e di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti ed il suo regno non avrà fine”. Soltanto in questa luce si comprende l'ultimo articolo: “aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo futuro”. Il centro del futuro che aspettiamo è la manifestazione gloriosa di Nostro Signore Gesù Cristo, la fine e il compimento della sua opera salvifica. La parusia del Signore è stata l'oggetto della speranza dei primi cristiani, che la credevano imminente.
La parusia è il culmine dell'evento di Cristo, deve essere integrata in questo mistero di Gesù di cui è parte essenziale. Già nel Nuovo Testamento la doppia venuta di Cristo viene contemplata nella sua unità (Tt 2, 11-13: “È apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo”). A partire da san Giustino si è parlato della prima e della seconda parusia, viste nella loro intima relazione. Gesù che “torna” in realtà non se ne è andato, ma sta sempre con noi (cf. Mt 28, 20). La parusia di Gesù si ingloba quindi nell'unico mistero della venuta di Cristo nel mondo per la salvezza degli uomini.
Uno degli aspetti della parusia è la “rivelazione” (cf. Tt 2, 11; Vaticano II, DV 4). Almeno in una occasione il Nuovo Testamento attribuisce direttamente al Padre l'iniziativa della parusia di Gesù (cf. At 3, 20-21). È proprio questa relazione al Padre che viene messa in evidenza in 1 Cor 15, 20-28 , senza dubbio uno dei testi più importanti del Nuovo Testamento per sviscerare il contenuto teologico della parusia del Signore. Gesù è primizia della risurrezione, il primogenito dei morti (Col 1, 18). In lui tutti riceveranno la vita (contrapposizione con Adamo), al momento della sua venuta. Questa implica la fine della storia umana, e con essa la sottomissione a Cristo di tutte le potenze nemiche e l'annullamento della morte. In questo momento Gesù potrà consegnare il regno al Padre, una volta compiuta tutta l'opera della salvezza che il Padre gli aveva affidato di realizzare. Quest'opera, compiutasi nel mistero pasquale, si prolunga durante il tempo della Chiesa, nel quale Gesù intercede per noi, fino a che non si realizzi il suo trionfo finale, scomparsa la morte e il peccato. Il Padre è l'origine dell'economia della salvezza, ed è anche la sua fine. La relazione al Padre, determinante dell'essere e dell'operare di Gesù, trova anche qui una sua manifestazione. Questo è il senso della consegna del regno e della sottomissione di Gesù al Padre.
Il culmine dell'opera di Gesù, la pienezza della Chiesa, è anche la pienezza dell'uomo. La nostra piena realizzazione personale può essere raggiunta solo alla fine dell'opera salvifica, alla vittoria totale di Cristo. Solo la pienezza dell'opera di Cristo è la pienezza dell'uomo. Proprio per questo motivo la teologia cattolica concede rilevanza teologica alla fine della storia, come fine dell'opera di salvezza e pienezza del corpo di Cristo, unico ambito in cui ognuno può raggiungere la piena realizzazione personale .
La parusia del Signore è, contemporaneamente manifestazione e rivelazione piena della sua gloria, e precisamente per questo, giudizio. Gesù è il criterio ultimo dell'umanità ed il centro della storia. La sua stessa apparizione significa lo svelamento dell'ambiguità propria della storia umana e di ognuno di noi. Gesù è nello stesso tempo il giudice ed il criterio di giudizio. Nell'incontro con il Signore ci confrontiamo contemporaneamente con la nostra propria realtà . Il giudizio d'altra parte avviene giorno per giorno nel nostro atteggiamento di accoglienza o di rifiuto di Dio in Gesù e nel fratello (cf. Gv 3, 18; 3, 36; 5, 24; Mt 25, 31 ss.).
Insieme a questo aspetto discriminante del giudizio, assolutamente essenziale secondo il Nuovo Testamento, non possiamo dimenticare la dimensione salvifica dello stesso. La giustizia di Dio si manifesta in quanto ci giustifica (Rm 3, 26). Nella croce del Signore il mondo è stato giudicato ed è stato cacciato fuori il principe di questo mondo (cf. Gv 12, 21 s.). Se la manifestazione del Signore è salvifica, non è possibile lasciare da parte questa caratteristica quando la consideriamo partendo dall'aspetto del giudizio. Soltanto per noi è difficile conciliare giustizia e misericordia. Ma Dio è l'unica fonte tanto dell'una come dell'altra.
La parusia, in quanto manifestazione del dominio e del regno di Cristo risorto significa anche la risurrezione degli uomini. Cristo, primizia dei risorti, risuscita nella sua manifestazione gloriosa anche tutti i suoi (cf. 1 Cor 15, 20-28; 1 Ts 4, 14-18; Fil 3, 21). Se nella parusia il dominio di Cristo risorto giunge alla sua pienezza, questo significa la risurrezione degli uomini. Sappiamo già che non c'è salvezza se non nella configurazione a Gesù, e che siamo chiamati a portare l'immagine dell'uomo celeste. Tutto ciò non è possibile se non nella partecipazione alla risurrezione di Gesù, ripieni dello Spirito Santo che Gesù risorto, divenuto spirito che dà vita, comunica agli uomini (cf. 1 Cor 15, 44-49) .
Se la risurrezione di Gesù riguarda la sua intera umanità, nessun aspetto o dimensione del nostro essere può restare ai margini della salvezza. L'anelito di sopravvivenza, come si esprime nella letteratura secolare, ha preso il concetto di immortalità, no quello di risurrezione. La nostra fede, tuttavia, promette ed aspetta la risurrezione, non l'immortalità (= non-morte). In questa si ignora la morte, perché, in fondo, si ignora la condizione incarnata dell'essere umano. La fede nella risurrezione non nega la morte, ma osa aspettare che essa non sia l'ultima parola. Quello ultimo è il potere e l'amore infinito di Dio. Coloro i quali vogliono soltanto affermare l'immortalità dell'anima, dice Tertulliano, non credono che in una risurrezione dimezzata. La fede nella risurrezione conferisce al cristianesimo la sua specificità in rapporto alla speranza della vita eterna dell'uomo .
Per la sua condizione spirituale però, l'uomo è immortale. Abbiamo parlato del destino dell'uomo come configurazione a Gesù Cristo risorto. Questo è senza dubbio il messaggio centrale del cristianesimo. Sorge allora il problema del posto che in questo contesto deve occupare l'idea dell'immortalità dell'anima. In realtà l'idea dell'anima immortale non si oppone a quella della risurrezione, ma è in qualche modo il suo presupposto: garantisce l'identità del soggetto morto e risorto, fa sì che l'intervento di Dio nella forza del suo Spirito nella risurrezione dei morti non sia una semplice creazione ex nihilo, in cui sarebbe impossibile riconoscere noi stessi. Proprio perché in virtù della creazione la nostra anima è immortale Dio può risuscitare noi stessi nella pienezza di tutte le dimensioni del nostro essere, anche nella trasformazione di ciò che è per sua natura mortale e caduco. L'immortalità viene a collocarsi cosi nella prospettiva della risurrezione. Nella visione cristiana l’immortalità ha senso a partire dalla risurrezione.
Non possiamo dimenticare che per il Nuovo Testamento la risurrezione è stata anticipata nel battesimo, ed è già una realtà, anche se nascosta, per quelli che credono in Gesù (cf. Rm 6, 4-11; Col 2, 12; 3, 1-4; Gv 5, 24-25; 11, 25-26, ecc.). L'escatologia cristiana non è solo di futuro. E questa dimensione di presente ci aiuta d'altra parte a comprendere come la nozione di risurrezione deve essere stabilita attorno alla comunicazione della vita di Gesù, nel senso pieno e teologico del termine, e non solo in rapporto agli aspetti “fisici” della medesima. Nella pienezza del suo senso, la risurrezione significa la piena partecipazione alla vita di Gesù. Essa ha quindi un significato eminentemente positivo.
Questa risurrezione è l'estensione della stessa risurrezione di Gesù. Se il dominio di Cristo risorto è universale, anche la risurrezione deve raggiungere tutti in tutti gli aspetti del loro essere. Nella tradizione cristiana l'idea di risurrezione ha a che vedere con la corporeità umana. Non possiamo essere totalmente noi stessi se questa dimensione è assente dal nostro essere. Il corpo risorto è il corpo in cui sono scomparse tutte le ambiguità che caratterizzano adesso la nostra esistenza corporea. Il corpo pneumatico, ripieno di Spirito, è pienezza di comunicazione e di espressione, è il corpo pienamente personalizzato, e non più oggetto, come può essere in questo momento. La risurrezione implica una piena identità con noi stessi ed una piena possibilità di comunione con gli altri. Tanto l'una come l'altra sono aspetti inseparabili del nostro essere personale, che nella risurrezione e per opera dello Spirito Santo riceve le sue massime potenzialità.
In rapporto alla questione della risurrezione corporale c'è senza dubbio anche quella della trasformazione del cosmo. Tanto l'Antico come il Nuovo Testamento ci parlano di nuovi cieli e di nuova terra (cf. Is 65, 17-21; 2 Pt 3, 13; e soprattutto Rm 8, 19-23). Non si tratta soltanto di una trasformazione del cosmo come tale, ma della trasformazione del cosmo come elemento della pienezza dell'uomo (l'unico essere dell'universo che Dio ha voluto per se stesso, e quindi l'unico a rigore di cui può dirsi che Dio vuole salvare). Se l'uomo non è tale senza il suo rapporto con il cosmo, allora anche la sua pienezza include una nuova relazione con il mondo trasformato.
Dobbiamo tenere presente inoltre che il mondo materiale non è solo la creazione di Dio, ma che ha anche incidenza su di esso il lavoro e l’azione umana, nei suoi differenti aspetti. Quale è il valore escatologico dell'azione dell'uomo sul mondo? Il concilio Vaticano II (GS 39) affronta questo problema in modo equilibrato. Il progresso umano non può essere confuso con il regno di Dio, ma la speranza del mondo futuro deve ravvivare la responsabilità cristiana per il presente. La carità e i suoi frutti hanno secondo il concilio un valore permanente. I valori della dignità umana e della comunione fraterna, i frutti della natura ed anche quelli del nostro sforzo, diffusi secondo lo Spirito del Signore, li ritroveremo, anche se trasformati e purificati da ogni macchia. Se da un lato bisogna tenere presente la rottura tra questo mondo e quello futuro di cui abbiamo già parlato, dobbiamo ugualmente pensare al valore trascendente di questa esistenza terrena, e quindi alla continuità.
Dunque, la parusia ha a che fare con la “prassi cristiana”. Noi aspettiamo qualcuno presente, non assente. Ma in questo punto è accaduto un fenomeno curioso: in seguito all'attesa prossima è venuta l'attesa lontana. Non si ha saputo trasmettere alla comunità cristiana che quella “prossimità”, sebbene non sappiamo misurarla secondo il parametro del tempo, si percepisce secondo la sensibilità teologica dell'adesso della salvezza, dal vissuto-idea della vicinanza costante di Cristo ad ogni tempo storico. Ecco perché parliamo di “prossimità”. La conseguenza di tutto questo è abbastanza chiara: una comunità che non si sente la comunità di quelli che aspettano la venuta del Signore si stabilisce nel mondo. Nella misura in cui si trascura il futuro escatologico si presta attenzione in modo crescente e quasi esclusivo al futuro intrastorico. Solo la memoria inquietante dell'imminenza dell parusia può liberare la Chiesa per una funzione liberatrice, poiché il soggetto cristiano che spera deve essere operante nella direzione di quello che spera (Ruiz de la Peña).
4. La vita e la morte eterna
La configurazione a Cristo implica la partecipazione alla vita divina. La vita eterna, partecipazione alla vita che è Dio stesso, è il destino finale dell'uomo. Anche se è chiaro che Gesù ci conduce al Padre, inizio e fine di tutto, lo stesso Nuovo Testamento ci invita a non sottovalutare la mediazione di Gesù quando consideriamo la nostra relazione con Dio nella vita eterna; la comunione con lui, la partecipazione piena alla vita che egli ha ricevuto dal Padre, sono elementi essenzialissimi quando pensiamo alla vita in cui speriamo.
La comunione con Dio e tra gli uomini è un altro dei motivi che appaiono con frequenza. San Tommaso fa questa bella sintesi: “Nella vita eterna la prima cosa è che l'uomo si unisce con Dio. Dunque lo stesso Dio è il premio e il fine di tutti i nostri sforzi... Questa unione consiste nella perfetta visione... Consiste anche nella somma lode... nella perfetta sazietà del desiderio... Nella felice comunione di tutti i beati; e questa comunione sarà molto piacevole, perché ognuno condividerà tutti i beni con tutti i beati. Dunque ognuno amerà l'altro come se stesso, e per questo gioirà del bene dell'altro come del suo”.
Il magistero ha insistito soprattutto sulla visione di Dio: “(i beati) vedono l'essenza divina con visione intuitiva e faccia a faccia, senza la mediazione di nessuna creatura... ma la divina essenza si mostra immediatamente e nuda, in modo chiaro ed apertamente, e vedendola così godono della divina essenza...” (cost. Benedictus Deus di Benedetto XII -1336-). Questa visione di Dio deve esser vista come un aspetto ed un'espressione della comunione con Dio e della partecipazione alla sua vita che abbraccia tutto l’uomo.
Se nel Nuovo Testamento la vita eterna viene vista come comunione con Gesù, non c'è alcun dubbio sul fatto che nei tempi successivi questa dimensione cristologica della vita eterna sia stata dimenticata, per dare spazio all'accentuazione della visione dell'essenza divina in cui all'umanità di Gesù non viene riconosciuta nessuna funzione. Ma la questione negli ultimi tempi è stata rivista, e grazie all'analisi di alcuni testi della Scrittura in cui si parla della visione da parte dei discepoli della gloria di Gesù e della funzione rivelatrice del Padre che egli esercita anche nell'aldilà (cf. Gv 17, 24.26), e grazie ad approcci più sistematici sulla mediazione dell'umanità di Gesù che non può finire in questo mondo. Queste tesi possono essere completate con l'intuizione dei Padri: la visione di Dio non ha luogo solamente per mezzo dell'umanità di Cristo, ma in questa umanità, perché inseriti in essa; la nostra risurrezione in effetti è nel corpo glorioso di Cristo; in lui abbiamo accesso al Padre. L'umanità glorificata di Gesù ha quindi un significato eterno nella nostra relazione con Dio, la funzione mediatrice dell'uomo Cristo Gesù (1 Tm 2, 5: “Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù”) non termina in questo mondo.
La considerazione sul cielo porta necessariamente a quella sull'inferno, la morte eterna. Possibilità chiaramente espressa da Gesù (Mt 25, 31 ss., tra i molti testi), e che è la conseguenza della serietà della libertà umana. Se l'uomo non ha la possibilità reale del rifiuto di Dio non può nemmeno accettarlo; la comunione di amore con Dio non si concepisce senza l'accoglienza libera della medesima. Pertanto la stessa pienezza umana non si concepisce senza la possibilità della perdizione. Le due possibilità sono profondamente in rapporto e si sostengono l'una con l'altra. La separazione da Dio è la radicale solitudine, l'incapacità di amare, la rottura della comunione con il resto degli uomini e dell'universo. Se si prende in considerazione che l'uomo è stato fatto per Dio, la morte eterna è l'esistenza nella contraddizione. E inoltre un'esistenza nella contraddizione che dura per sempre; questa è la conseguenza del valore definitivo di questa vita. Ma cielo ed inferno non sono due possibilità che stanno sullo stesso piano.
Il predominio della salvezza è conseguenza della vittoria di Cristo. L'escatologia cristiana è escatologia di speranza. Ma da questo orientamento generale non deriva senz'altro la salvezza di tutti e di ognuno. Resta il mistero della libertà umana a cui noi abbiamo fatto riferimento, per quanto bisogna affermare con tutta chiarezza che Dio vuole la salvezza di tutti e che non esiste predestinazione al male. La possibilità della perdizione sta aperta davanti ad ognuno di noi, e banalizzarla significa in ultima analisi banalizzare la nostra libertà e la nostra vita nel mondo. Ma la speranza si fonda sulla bontà di Dio, sulla sua grazia e sulla sua misericordia, sulla sua volontà salvifica. Come dice H.U. von Balthasar, con la condanna è la stessa gloria Dei a rimanere toccata .
5. La questione dello stato intermedio
L'impostazione della questione è questa: la pienezza che aspettiamo appare nel Nuovo Testamento legata all'apparizione gloriosa di Gesù alla fine dei tempi e alla risurrezione universale. Ma, nonostante ciò, alcune indicazioni dello stesso Nuovo Testamento ci mostrano la convinzione dello stare con Cristo immediatamente dopo la morte (cf. Lc 23, 42-43; Fil 1, 23; 2 Cor 5, 1-10). Il Nuovo Testamento non sembra offrire un'idea chiara sulla relazione tra lo stato immediatamente seguente alla morte e la risurrezione finale. Le due cose vengono affermate. Nei primi secoli della Chiesa continua l'ambiguità sulla questione. Nella costituzione Benedictus Deus di Benedetto XII si afferma che le anime dei beati (dopo la purificazione del purgatorio secondo il loro caso) godranno della visione dell'essenza divina a partire dalla loro morte, come anche che i condannati vanno subito all'inferno.
L'ipotesi della risurrezione nella morte, con diverse sfumature, ha trovato un'ampia accoglienza tra teologi di prestigio. Questi autori non vogliono negare la dottrina della risurrezione dei morti, però, dinnanzi all'impossibilità di pensare ad un'identità materiale del corpo risorto con il cadavere, pensano che sia possibile un'altra nozione di corpo, se si vuole, più “spiritualizzata”, che sarebbe l'impronta che nell’anima umana ha lasciato la corporeità. Sorge la domanda se questo sia sufficiente, se la condizione materiale e cosmica dell'uomo sia debitamente presa in considerazione. Ci si chiede anche se si possa parlare di realizzazione piena quando ancora il corpo di Cristo non è completo.
Abbiamo fatto allusione al problema del tempo in rapporto con l'aldilà. Da qui l'ipotesi di coincidenza, per chi muore, tra il momento della morte e della risurrezione (“eschaton distinto, ma non distante, in senso cronologico, della morte”, J.L. Ruiz de la Peña), che dal punto di vista dell'aldiquà appaiono come momenti separati . Dunque, morte e risurrezione sarebbero due avvenimenti successivi e diversi, ma non quantitativamente distanti.
Tra morte e risurrezione deve esserci una situazione che renda conto di ambedue. L'idea di anima separata può servire a questo fine. Ma essa (l'idea di anima separata) si fa ricusabile quando si capisce como un'estensione cronologica tra morte e risurrezione.
Ibid., pp. 45-48.
Ibid., pp. 49-52.
LADARIA, L.F.: Introduzione alla Antropologia Teologica, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1993.
Ibid., pp. 53-54.
Le tradizioni che si fondono nel libro della Genesi sono: la yahwista o “J” (850-750 prima di Cristo, di Gerusalemme), l’elohista o “E” (del 800 prima di Cristo, di Samaria) e la sacerdotale o “P” (per la condizione dei suoi autori, dell'epoca dell'esilio o posteriore allo stesso, circa 458 prima di Cristo).
LADARIA, L.F.: Introduzione alla Antropologia Teologica, op. cit., pp. 54-57.
Ibid., pp. 57-63.
Ibid., pp. 63-64.
Ibid., pp. 65-67.
Ibid., pp. 67-68.
Ibid., pp. 68-69.
Ibid., pp. 70-71.
Ibid., pp. 72-79.
Ibid., pp. 80-83. “L'opzione etica, effettuata nei rapporti interpersonali, è postulata dal valore intrinseco della persona umana: un valore che implica in se stesso l'orientamento verso il suo Fondamento ultimo, Dio. Il fatto che Dio sia il fondamento trascendente del valore intrinseco della persona umana non sopprime né sminuisce questo valore, anzi lo fonda e lo costituisce come mediazione necessaria per l'accesso dell'uomo a Dio. La persona umana esige in forza di se stessa di essere rispettata e accettata in se stessa. Il cosiddetto comandamento di Dio sull'amore al prossimo non è altro che l'azione di Dio nel fondare il valore intrinseco della persona umana, cioè nel farla sorgere. La negazione di Dio quindi non può essere giustificata in nome di un'etica umanistica. Il problema del valore della persona umana deve essere discusso e deciso prima di arrivare al problema di Dio: il valore della persona umana è autofondante o autotrascendente? ha in sé il suo fondamento ultimo o è orientato verso un fondamento trascendente, è assoluto o condizionato? Questo è il problema che deve essere prioritariamente esaminato all'interno dei rapporti interpersonali, dentro l'immanenza intramondana. L'analisi dell'opzione etica, implicata nei rapporti interpersonali, ha mostrato che l'assolutizzazione della persona umana e della sua libertà è in contraddizione con la reciproca autotrascendenza tra la mia libertà, e quella dell'altro” (ALFARO, J.: Dal problema dell’uomo al problema di Dio, Queriniana, Brescia 1991, pp. 239-240).
LADARIA, L.F.: Introduzione alla Antropologia Teologica, op. cit., pp. 83-84.
LADARIA, L.F.: Introduzione alla Antropologia Teologica, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1993.
Le tradizioni che si fondono nel libro della Genesi sono: la yahvista o “J” (850-750 prima di Cristo, di Gerusalemme), l’elohista o “E” (del 800 prima di Cristo, di Samaria) e la sacerdotale o “P” (per la condizione dei suoi autori, dell'epoca dell'esilio o posteriore allo stesso, circa 458 prima di Cristo).
LADARIA, L.F.: Introduzione alla Antropologia Teologica, op. cit., pp. 94-98.
Ibid., pp. 98-101.
Ibid., pp. 102-106.108-110.
Ibid., pp. 120-122.126-129.
Ibid., pp. 141-143. L'uomo è libero quando accetta la sua finitudine. Ciò solo è possibile quando scopre l'amore infinito.
LADARIA, L.F.: Introduzione alla Antropologia Teologica, op. cit., pp. 144-146.
LADARIA, L.F.: Introduzione alla Antropologia Teologica, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1993.
Ibid., pp. 148-151.
“Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.”
Per Paolo è strana l'idea di risurrezioni individuali, come se la risurrezione potesse essere capita come somma di una moltitudine di atti, o come se potesse darsi una consumazione del “io” singolare al di là della consumazione dell'organismo uno e totale al quale quel “io” appartiene. In questo senso, il concetto paolino di corpo non si muove nella prospettiva dell'individuazione, ma in quella della solidarietà. 1 Cor 6 ci dice che risuscitiamo come membri del corpo di Cristo risuscitato. Dio ci risusciterà perché risuscitò Gesù Cristo e noi siamo le sue membra. Qui si vede l'importanza del carattere corporativo e non soltanto corporeo della nostra risurrezione.
Senza dubbio, lo ci ricorda Ruiz de la Peña, il giudizio comporta anche una discriminazione, non solo un aspetto rivelatore. Orbene, il giudizio, nella sua condizione di decisione o discriminazione è qualcosa di immanente alla storia, e non un qualcosa di aggiunto ad essa. In questo senso, il giudizio può essere capito come auto-giudizio, poiché la parola di Dio constata e non costituisce la situazione dell'uomo.
LADARIA, L.F.: Introduzione alla Antropologia Teologica, op. cit., pp. 152-155.
Ibid., pp. 155-156.
Ibid., pp. 79-80.156-158.
Ibid., pp. 158-162.
Ibid., pp. 163-165.
Fonte: http://www.pul.it/cattedra/upload_files/14562/ANTROPOLOGIA%20TEOLOGICA%20DISPENSE%20COMPLETE.doc
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