Corso per migliorare la consapevolezza

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Corso per migliorare la consapevolezza

RIFLESSIONI LABORATORIALI PER MIGLIORARE LA CONSAPEVOLEZZA NEL RAPPORTO CON GLI ALTRI, CON IL MONDO E CON IL SE’

Di Daniela Troiani
Introduzione

Nelle pagine che seguono sono state raccolte le tracce di approfondimento usate nei Laboratori organizzati nel progetto “Camminando Insieme”.
Il Progetto, svoltosi nell’anno 2010/2011, si è articolato in sei Laboratori di tre incontri ciascuno.
Gli incontri, organizzati sul territorio del XIII Municipio di Roma, hanno visto la partecipazione media di 12 persone tra i 35 e i 65 anni, prevalentemente di sesso femminile.
L’obiettivo dichiarato del Progetto è stato quello di offrire un luogo, un contenitore, in cui creare tra adulti nuove relazioni, che, prendendo spunto dagli argomenti proposti, consentissero di approfondire la conoscenza tra persone abitanti nelle medesime zone e, quindi, si creasse una rete di solidarietà reciproca.
Obiettivo non dichiarato, ma primario, dei Laboratori è stato quello di fornire strumenti per approfondire in gruppo tematiche inerenti alla vita personale, che potessero migliorare la consapevolezza individuale sulle risorse e i bisogni, sugli attentati ai sentimenti subiti e perpetrati, sulla gestione efficace della relazione nei diversi ambiti della vita.
A tale scopo, oltre a trattare le tematiche dell’emozionalità, della personalità e della relazionalità alla luce dell’approccio transteorico, nei laboratori sono state affrontate le questioni del rapporto con le distanze relazionali, con la solitudine e con le separazioni, della genitorialità come condizione emozionale più che biologica e dell’attività lavorativa come aspetto del percorso esistenziale, più che come soddisfazione di necessità.
Gli incontri sono stati, solitamente, articolati in una parte teorica e in una parte pratica: nella prima si sono proposti stimoli e provocazioni sull’argomento in questione e nella seconda esercizi e quesiti di automonitoraggio sulla tematica in oggetto.
Nelle pagine che seguono sono stati raccolti gli stimoli teorici presentati al gruppo e alcuni degli esercizi proposti nel corso dei Laboratori.


PARTE PRIMA
LA PERSONALITA’ COME PRODOTTO DEL RAPPORTO CON GLI ALTRI, CON IL MONDO E CON IL SE’

 

La Personalità

La Personalità è l’insieme di desideri, aspirazioni, emozioni, comportamenti che contraddistinguono un individuo; è, altresì,  il prodotto di fattori genetici, ambientali, sociali, emozionali, che sono andati via via strutturandosi nel tempo a partire dalla vita intrauterina. Ogni individuo fin dal concepimento porta in sé una dose di caratteristiche potenziali, come dei semi, che potranno esprimersi nel corso della vita a seconda delle opportunità che si verificheranno, cioè a seconda del terreno più o meno fecondo in cui i semi cadranno.
Ovvero, tutti i bambini alla nascita sono programmati per parlare tutte le lingue del mondo. Ma se parleranno il turco, il cinese o l’olandese dipenderà dal contesto in cui verranno inseriti.
Ovviamente questo discorso vale anche per moltissime altre caratteristiche.
Peraltro, mentre il tipo di lingua parlata non influenza il comportamento personale, il tipo di famiglia in cui si è inseriti ha un’influenza fondante delle caratteristiche di personalità, dal momento che influisce sulla possibilità o meno di esprimere una o l’altra delle predisposizioni genetiche disponibili.
Per esempio, in una famiglia di individui longilinei e sportivi il piccolo potrà essere precocemente orientato alla pratica sportiva , in cui magari non eccelle o , semplicemente, verso la quale non nutre interesse.
Se il medesimo bambino fosse inserito in una famiglia di musicisti potrebbe, al contrario, sperimentarsi precocemente nell’attività musicale, per la quale magari ha una predisposizione più marcata e per lui più soddisfacente.
Dunque, la personalità è tutto l’insieme, espresso, delle caratteristiche peculiari di quell’individuo. Ciò che non è espresso non è detto che non sia potenzialmente presente. Potrebbe solo essere che la persona non ha avuto l’occasione di esplicitare una certa caratteristica, o ancora può essere che l’abbia rimossa a causa dei divieti familiari.
In altre parole, si può affermare che la personalità è ciò che appare, ma anche ciò che non appare e che potrebbe essere nel tempo o in seguito al mutamento di contesto, o di condizioni di vita, ecc.
In tal senso, l’espressione “Io sono così e sempre sarò così” è un errore, ma anche un orrore.
Se è vero, infatti, che in età adulta esiste, in genere, un nucleo intimo (formato da esperienze, valori, aspettative, ecc)alquanto stabile, nondimeno esistono comportamenti, risorse, meccanismi di difesa, emozioni, che vanno via via aggiungendosi nel novero  delle strategie comportamentali disponibili e che si apprendono con il trascorrere della vita, sempre che si rimanga flessibili e disponibili al cambiamento e all’evoluzione.
La flessibilità consente alla persona di adattarsi ai mutamenti esistenziali, ambientali, relazionali, rimanendo aperta ai nuovi apprendimenti e capace di riconoscersi  nei diversi momenti della propria vita. Ogni persona, infatti, esprime la propria personalità in modo diverso a seconda delle necessità e dei contesti.


Quando comincia la Comunicazione?

La Comunicazione è lo strumento attraverso il quale l’individuo si relaziona con l’altro da Sé. Essa è indispensabile per verificare l’idoneità dei propri comportamenti.
Il termine “Comunicare” deriva dal latino “cum –agire” e significa letteralmente agire insieme.
La Comunicazione è il canale che codifica i legami, crea le relazioni, esplicita le emozioni e i valori.
La comunicazione inizia già nel corso della vita intrauterina. Gli esami ecografici hanno dimostrato che i gemelli monozigoti si scambiano affettuosità già nella sacca placentare.
Sembrerebbe che il feto sia in grado di udire le voci dell’esterno e di imparare a distinguerle, tanto da orientare lo sguardo verso una musica ascoltata durante la gestazione già pochi giorni dopo la nascita.
Certo è che alla nascita il neonato viene investito  subito dalle credenze, dalle aspettative, dai vissuti di chi lo accoglie, che, da quel momento, tenterà, più o meno consapevolmente, di farne un esempio vivente delle proprie credenze, aspettative, vissuti.
Ben presto il neonato imparerà a diversificare il pianto a seconda delle sue necessità e a ottenere la presenza di uno o dell’altro dei genitori  attraverso comportamenti preverbali , chiarissimi a chi lo accudisce e , frequentemente dettati dalle caratteristiche dei genitori.
Per esempio, ben presto imparerà a piangere ogniqualvolta viene preso in braccio dal padre, se quest’ultimo si mostrerà poco disponibile a coccolarlo.
Potrebbe anche imparare ad andare in cianosi asmatica, per attrarre una madre sorda ad altri richiami.
La comunicazione relazionale che si instaura tra il piccolo e i genitori entro il primo anno di vita influenzerà sia i vissuti emozionali più spesso sperimentati dal piccolo, sia le modalità di adattamento alla realtà .
D’altra parte, fin da prima del concepimento i genitori avevano delle idee  sull’accudimento dei figli e sulla genitorialità, che vengono agite con più o meno consapevolezza.
Così, alle predisposizioni genetiche vanno ad aggiungersi le prime esperienze di dolore fisico che spaventa, di collera per l’indisponibilità momentanea della madre all’allattamento, di distanza fisica dai genitori per eventuali problematiche perinatali,di gioia nell’essere accudito, di quiete successiva all’appagamento dei bisogni, di vulnerabilità per la sensazione di essere inerme , di attaccamento affettivo nel lasciarsi abbracciare.
Tutte queste esperienze, ripetute nel primo anno di vita, diventano terreno fecondo per  l’espressione dell’una o dell’altra peculiarità comportamentale a seconda della risposta che l’ambiente attiva nei confronti delle richieste del bambino.
Questa comunicazione, per quanto primitiva ed arcaica nelle modalità,  determina un apprendimento per prove ed errori e va componendo l’embrione della personalità relazionale del bambino.

Le Costellazioni Familiari e il Ruolo Sociale

Come si è visto, nei primi mesi di vita la comunicazione preverbale è strumentale e va via via strutturandosi in base alle risposte ottenute dalle figure di accudimento. Le modalità comunicative apprese dal bambino già esprimono in embrione la personalità che andrà via via strutturandosi.
Per esempio, un bambino che piange fino a diventare cianotico è ben diverso da un bambino che si lamenta debolmente solo quando ha fame.
E ben diverso appare un bambino che si nutre voracemente, apparendo insaziabile, da un piccolo un po’ riluttante, che attaccato al seno va stimolato.
Questi comportamenti istintuali possono,poi, venire rafforzati dalle risposte della madre, che ha già delle sue credenze ed esperienze personali relative a ciò che è giusto o sbagliato, normale o anormale nell’allattamento.
Peraltro, lo sviluppo della personalità risente notevolmente anche della costellazione familiare in cui il neonato va ad inserirsi.
Essere primogeniti  è ben diverso che essere ultimogeniti. E questa differenza si esprime nelle aspettative , di cui l’individuo viene investito a seconda dell’ordine di nascita. Questo ordine sancisce un ruolo e, spesso, diventa determinante in tutto il percorso esistenziale, influendo sulle scelte relazionali e su quelle professionali, influenzando il modo di percepire la realtà e il modo di essere nel mondo.
Per esempio, il primogenito di due maschi, figlio unico per tre o quattro anni, dopo le iniziali proteste, cresce sviluppando senso di responsabilità e leadership. Il fratello minore, cresciuto in presenza dell'altro, sviluppa dipendenza, fiducia, competitività e opposizione. Inoltre, egli è più impulsivo di fronte agli stimoli.
Tra due sorelle, la più piccola assume atteggiamenti di sfida, mentre la grande si identifica con i genitori e con i ruoli di autorità. Al contrario, la minore è oppositiva verso i genitori. In questi casi la relazione con il genitore di sesso opposto è conflittuale, dal momento che sono in tre a conquistarne l'affetto.
Nel caso di fratello maggiore di sorella, dopo un primo momento di contrarietà, il primogenito imparerà a proteggere la sorella, che sarà sicura del suo appoggio, sebbene debba sottomettersi. Ciascuno ha un genitore su cui identificarsi senza rivalità e la competitività è minima.
Nel caso di sorella maggiore, essa impara a prestare cure materne al fratello. Il minore, in genere, cresce libero da proibizioni e con la sicurezza di trovare nella sorella un punto di appoggio. Benché la maggiore talvolta si lamenti, tuttavia la rivalità è ridotta. Ciascuno può identificarsi con il genitore dello stesso sesso, sostituendosi a lui nelle relazioni con il fratello. Inoltre, è facile l'accesso al genitore del sesso opposto e i figli , già tra loro, possono imitare la relazione genitoriale.
In nuclei in cui il fratello maggiore ha due o tre sorelle, queste competeranno per accattivarsi il maggiore, oltre che il padre. Maggiore è il numero dei fratelli dello stesso sesso e più alto è il rischio per il primogenito del sesso opposto di rimanere isolato. Nella conquista per il primogenito, una o due sorelle risulteranno vincitrici, costringendo le altre a unirsi per congiurare.
Le stesse dinamiche si sviluppano nel caso di un fratello minore di molte sorelle, nel caso di sorella maggiore o minore di molti fratelli.
A causa di particolari circostanze un ruolo fraterno può essere più favorito di un altro, per esempio nel caso in cui, per regola familiare, solo l’ultimogenito ha il diritto di proseguire gli studi, mentre gli altri devono lavorare in età precoce.
I fratelli intermedi in una fratrìa mista hanno relazioni molteplici e il loro ruolo fraterno è poco definito. In questi casi gli individui avranno scarsa possibilità di esprimere se stessi e di essere considerati in famiglia e lo sviluppo della loro personalità sarà incentrato su interessi originali rispetto alle consuetudini familiari.
Nella fratrìa composta da molti fratelli di un sesso e da un unico esemplare del sesso opposto, questo sarà trattato come oggetto prezioso e superiore.
Tra i gemelli uno assumerà il ruolo di maggiore e l'altro di minore. Anche nel caso abbiano altri fratelli assumono i comportamenti dei ruoli fraterni consueti.
Particolari caratteristiche mentali o fisiche di un figlio possono modificare  la sua collocazione all'interno di una configurazione e influenzare così l'intero gruppo. Per esempio,un minore può avanzare nell'ordine gerarchico dei ruoli nel caso abbia doti straordinarie.
Nei primi anni di vita un ordine di nascita più alto implica maggior potere, maggiore intelligenza e maggiore possibilità di esperienze.
Nondimeno, se un primogenito ha difetti mentali o fisici può divenire dipendente sempre di più dai fratelli minori, che avanzano nel ruolo fraterno mentre lui regredisce.
Dunque, l’ordine di nascita , è una forza organizzatrice delle relazioni familiari e, quindi, un elemento imprescindibile nello sviluppo della personalità individuale.


Le Mani, l’Immagine di Sé, il Sé Reale e il Sé Ideale

Come è vero che lo sviluppo della personalità dipende dalla relazione con le figure di accudimento e dall’ordine di nascita , è altresì vero che  il rapporto del neonato con il proprio corpo influisce sull’assunzione progressiva di comportamenti, credenze, aspettative, ecc.
Prima ancora di scoprire la propria immagine nello specchio, il bambino inizia ad esplorare il proprio corpo, riconoscendolo come proprio, e il corpo della madre, dapprima considerato parte di sé e, poi, progressivamente riconosciuto come altro da sé.
Il contatto con la madre , o con chi ne fa le veci, è INDISPENSABILE proprio perché insegna precocemente i confini tra il Sé e l’altro, tra il proprio corpo e il corpo dell’altro. Ovvero, il contatto è necessario per definire la propria identità e, dunque, la propria personalità diversa da quella degli altri.
Il contatto è la premessa necessaria per riconoscere l’altro in quanto diverso da Sé.
Questo contatto, nella fase preverbale, è essenzialmente di pelle, di mani.
Il bambino esplora la madre, il proprio lettino, i propri piedini, le proprie zone genitali.
Questo contatto è naturale e piacevole e consente di conoscere  e sperimentare le diverse forme, le diverse consistenze, le diverse sensazioni che ogni parte toccata produce.
Lo sviluppo di una personalità armonica dipende anche dalla libertà che il bambino ha di esplorare  tattilmente.
L’antica usanza di fasciare completamente i piccoli, impediva loro di imparare se stessi, il piacere di conoscere, la curiosità di scoprire.
L’attitudine a toccarsi non in tutti i bambini è naturale e andrebbe stimolata per consentire al bambino di fare la conoscenza diretta del proprio corpo e dell’ambiente che lo circonda.
D’altronde, proprio il modo con il quale il piccolo esplora se stesso e l’ambiente è già indicativo della predisposizione al controllo o all’audacia, alla libertà o al piacere, alla quiete o alla cautela. Per tale ragione gli interventi delle figure di accudimento per limitare  precocemente l’esplorazione, possono inibire lo sviluppo di parti importanti della personalità, che rimangono latenti.
Infatti, il bimbo conosce se stesso toccandosi e , in tal modo, definisce via via l’immagine di sé nel mondo.
L’immagine di sé si forma sia attraverso la conoscenza del proprio corpo, sia attraverso i rinforzi  positivi o negativi che si ricevono dall’ambiente.
L’immagine di Sé include il proprio modo di sentire, di comportarsi, di credere, ovvero la personalità e non può prescindere dal Sé reale e dal Sé ideale.
Nel Sé ideale sono inclusi tutti quei traguardi, tutti quei comportamenti, tutte quelle aspirazioni a cui l’individuo tende e verso cui cerca di dirigere il suo percorso esistenziale.
Il Sé reale, al contrario, definisce tutto ciò che la persona sente di essere, di aver raggiunto, di poter raggiungere realisticamente.
SE il divario tra il Sé reale e il Sé ideale è troppo ampio, l’individuo può vivere un forte disagio, che aumenta progressivamente se ritiene il divario incolmabile.
Spesso nel Sé ideale vengono immagazzinate anche le aspettative genitoriale idealizzate, che rischiano di compromettere non solo lo sviluppo di una personalità autonoma e libera, ma anche di interferire con la possibilità di sentirsi realizzati per le proprie scelte e per i propri traguardi raggiunti.
In conclusione, si può dire che la personalità è un’insieme in fieri di molteplici aspetti, che più o meno armonicamente vanno a caratterizzare la persona nei diversi momenti sia del suo percorso evolutivo, sia del suo quotidiano.
In altre parole, nella medesima persona possono convivere comportamenti e modi di percepire la realtà tra loro anche dissonanti, ma che sono utili per affrontare con maggiore efficacia le diverse richieste della vita.
Per stare bene con se stessi è importante riconoscere come propri i tanti e differenti modi di stare nel mondo a seconda delle circostanze ; ma è altrettanto essenziale rimanere flessibili al cambiamento, laddove esso aumentasse le strategie comportamentali disponibili per migliorare il proprio rapporto con gli Altri, con il Mondo e con il Sé.
Ovvero, ognuno di noi può essere rappresentato come una tavolozza dai mille e più colori. Se scegliamo sempre lo stesso colore, il nostro esistere può diventare mono-tono.
Identificarci solo con una parte di noi, a scapito delle altre, può creare gravi squilibri nella personalità e disturbi nell’identità.

 

BILIOGRAFIA

AAVV, Il Counseling come processo di aiuto per la crescita umana, Lucca, 2007.
MASINI V., MAZZONI E., Manuale di psicologia generale transteorica per counselor, Perugia, 2008.
MASINI V., MAZZONI E., Manuale di psicologia relazionale transteorica per counselor, Perugia, 2008.
MASINI V., Dalle Emozioni ai Sentimenti, Prevenire & Possibile, 2009.
TOLMAN W., Terapia familiare e struttura della famiglia, Koiné, 1999.
ZANUSO A., La nostra parte nascosta:l’ombra, ciò che ci permettiamo o non ci permettiamo di essere, mostrare e svelare al mondo, Edizioni Baldini Castaldi Dalai, 2003.


PARTE SECONDA
LE EMOZIONI.: RISORSA O OSTACOLO PER UNA SODDISFACENTE QUALITA’ DELLA VITA?

 

Le emozioni come risposte a stimoli interni ed esterni

Le emozioni sono risposte dell’organismo a ciò che accade dentro o fuori di sé.
In quanto risposte a stimoli , di per sé, non possono essere definite buone o cattive: tutt’al più le possiamo definire gradevoli o sgradevoli.
Possiamo anche definire “funzionale” o disfunzionale” il modo con il quale le esprimiamo
La gamma delle emozioni sperimentabili dall’essere umano è pressoché infinita sia per intensità, sia per sfumature.
Gli studiosi hanno ritenuto essenziale ricondurre tale molteplicità ad un numero gestibile tramite classificazioni di diversa natura, in modo da poterne studiare più efficacemente gli effetti
Così, i diversi approcci hanno suddiviso le emozioni in gruppi di tre,undici o ventisette.
Il Modello Transteorico definisce un gruppo di sette emozioni di base: paura, rabbia, distacco, piacere, quiete, vergogna, affetto.
Secondo questo Modello, tutti gli esseri umani sperimentano tutte le emozioni di base fin dai primi mesi di vita.
Per esempio, la paura è il prodotto del dolore. La sensazione di dolore più comune nel neonato è quella legata allo svuotamento dell’intestino, che, in più, fa sentire il piccolo vulnerabile.
Esiste anche un’altra paura che può essere vissuta dal neonato e può renderlo insicuro, cioè l’imprevedibilità nelle abitudini della madre.
La rabbia nasce quando il neonato non vede esaudito un suo bisogno affettivo o di nutrimento.
Il distacco nasce quando il neonato comincia a capire che la madre è un oggetto separato da lui. Oppure quando sperimenta situazioni di sorpresa (come una porta che si chiude), o di disgusto (un sapore diverso dal latte materno.
Il piacere nasce dall’esperienza di fusionalità, di essere tutt’uno con la madre e si esprime nei sorrisi e nei gridolini di gioia.
La quiete nasce dall’assenza di qualsiasi bisogno o sensazione e viene vissuta dal neonato quando è appagato e tranquillo.
La vergogna nasce dalla sensazione di essere gettati nel mondo, di essere travolti da tutti gli stimoli esterni. Il bambino vuole ritrarsi, nascondersi, perché si sente incapace di gestire troppe cose tutte insieme.
L’attaccamento nasce dalla sensazione piacevole di essere oggetto di cura, di essere avvolto affettivamente e riconosciuto dalla madre.
Tale sensazione è tanto gradevole, che il piccolo può avere paura di perderla, cioè paura del dolore.

Le Emozioni nel Rapporto con gli altri, con il mondo e con il sé
Ogni essere umano sperimenta più frequentemente una delle sette (con le sue diverse intensità e sfumature), che si trasforma con il tempo in una personalità ben definita, peculiare di quell’individuo.
La personalità può subire delle modificazioni nel tempo; tuttavia, l’Emozione di base da cui si è originata può ridursi, non sparire del tutto, tranne nei casi di eventi fortemente traumatici o di malattie neurologiche gravi.
Il profilo di personalità deriva, dunque, da un sottofondo emozionale caratteristico di quella persona e determina una serie di strategie comportamentali ad essa congeniali.
Peraltro, nelle strutture di personalità sane queste strategie comportamentali sono sufficientemente flessibili da adattarsi al contesto, in modo funzionale.

Paura - Avaro – Responsabilità
Dall’Emozione della Paura deriva la personalità dell’Avaro, che si esprime attraverso un rassicurante senso di responsabilità.
L’Avaro è preciso e meticoloso; cerca di avere il massimo controllo sulla realtà circostante a causa della costante preoccupazione di non essere in grado di risolvere gli imprevisti e di non avere sufficienti difese per proteggersi.
E’ un brontolone, che preferisce star fermo, piuttosto che sbagliare.
Ogni attività gli costa una gran fatica, dal momento che ha paura di essere criticato, anche quando ha svolto ogni azione in modo accurato.
Nonostante la sua costante ansia, può apparire equilibrato e controllato, in grado di gestire ogni situazione, anche se teso e contratto.
Difficilmente sbaglia; ma quando accade, è sempre a causa della sua paura di commettere errori.
Nella forma matura è una persona responsabile, affidabile, che sa prendersi cura, anche se rischia di non saper esprimere le proprie emozioni.
Nella forma non evoluta l’Avaro è la persona ansiosa, che a causa dell’ansia rimane bloccata sulle stesse cose per anni.
E’ la signora che continua ossessivamente a spolverare la casa, anche quando è lucida e pulita.
E’ il capoufficio  che sbraita continuamente, perché gli altri non fanno quello che dice lui.
E’ l’amico che c’è sempre per risolvere un problema, ma che per organizzare un qualsiasi evento deve programmarlo in anticipo e nei minimi dettagli per cercare di gestire l’ansia.
E’ la madre che costantemente previene ogni pericolo per i suoi bambini, temendo che si facciano male o che si ammalino.
E’ il trentenne fissato con l’alimentazione biologica, che cerca ossessivamente di mantenere il suo corpo sano attraverso   controllo e autodisciplina, come per esorcizzare rischi di esplosioni emozionali e/o disturbi fisici.
Ovvero, il tipo ansioso dà a se stesso e agli altri molte regole. Per tale ragione può essere un padre responsabile che sa rimproverare efficacemente, ma che poco si interessa della felicità dei figli.
Può essere un capo estremamente efficiente e organizzato, che fonda la sua leadership sul timore e l’autorità, più che sull’autorevolezza, ma che c’è sempre per affrontare problemi e trovare soluzioni.
Per tutte queste ragioni, la persona in cui prevale l’emozione dell’ansia dovrebbe imparare ad assaporare il gusto della quiete e del rilassamento e il piacere dell’azione libera, senza regole e senza scopo, del divertimento e dell’ozio.

Aggressività - Ruminante – Giustizia
Dalla Emozione di base dell’aggressività prende forma la personalità del Ruminante,caratterizzato da uno Stile Comunicativo carico di Energia.
E’ il tipo che ribolle costantemente,che è iperattivo e sa faticare per ciò che vuole ottenere. Gran lavoratore, è potente e riesce ad attivare gli altri con la sua energia; è forte e resistente.
Quando è maturo, la sua personalità è contraddistinta dalla  tensione protettiva, dal desiderio di giustizia, dalla carica interiore, dall'impegno, dalla motivazione al lavoro  e dal coraggio. Tuttavia, anche in questo caso si sdegna e si irrita facilmente e facilmente esplode in crisi di rabbia.
Se non ha imparato a gestire la sua carica interna, diventa aggressivo e violento, paranoico,oppure depresso, quando scarica contro se stesso la rabbia fino all’autodistruzione.
E’ un capo Pragmatico, deciso e istintivo, netto e determinato, instancabile. Trascina il suo team  nelle imprese e svolge la funzione di rompighiaccio, instillando nel gruppo coraggio  e fiducia per l’impresa. Difende il gruppo con forza e, nelle degenerazioni, può assumere uno stile intimidatorio. E’ una modalità di leadership essenziale, nel momento in cui parte un’azienda o un progetto, perché non cede a temporeggiamenti o indecisioni.
In famiglia questa persona incoraggia tutti nei momenti di crisi, dà energia, ma accende anche la tensione e l’ansia degli altri; può diventare prepotente e pericoloso, se non si riesce a tranquillizzarlo.
Facilmente si impegna nell’attività sindacale o nelle organizzazioni di impegno sociale  e lotta costantemente in difesa della giustizia. Oppure, se non è maturo, fomenta gli animi e provoca solo per provocare.
Leader nel gruppo di amici, è quello che protegge il più debole dagli attacchi degli altri.
La persona in cui prevale l’emozione dell’aggressività dovrebbe imparare
a dare un’armonia e un ritmo alla tensione interna, in modo che non esca come un uragano, ma solo come una pioggerellina, dove serve.
E’, infatti,  importante che questo tipo impari a spegnersi, per trovare momenti di pace e per dare alle sue azioni una mira più accurata.

Distacco - Delirante – Libertà
Dall’emozione del Distacco prende forma la personalità del Delirante, che si esprime attraverso la libertà e l’estrema capacità di autodeterminazione, che può arrivare fino all’eremitaggio o all’emarginazione sociale.
Questa persona vive soprattutto nel pensiero, staccata com’è dal mondo delle relazioni e degli oggetti. Non riesce neanche ad avere un buon controllo sul suo corpo (che appare disarticolato), sui capelli (spesso scompigliati), sul suo non verbale (incoerente con il verbale).
Spesso lo spazio in cui si muove, è disordinato e caotico, pieno di cose diverse, a cui cambia destinazione d’uso a seconda delle esigenze.
Nella sua forma evoluta il Delirante è una persona libera, autosufficiente, capace di gestire la propria solitudine, dotato di un buon livello di autostima ed estremamente acuto , creativo e originale.
Nella sua forma immatura questa persona si contraddistingue per la facilità al disgusto, per lo snobismo, per l’emarginazione sociale,per la predisposizione al narcisismo e all’anoressia.
In famiglia il Delirante è quello creativo, che inventa sempre soluzioni nuove per le cose e se ne sta ore e ore nella sua stanza a smontare e rimontare oggetti, dimenticando anche di mangiare e dormire, se è intento a realizzare un’idea.
Sul luogo di lavoro è il grande innovatore, non sempre compreso, che ha difficoltà a comandare per la sua incapacità strategica, ma che eccelle nella creatività. Questo leader  non sa condensare le energie del gruppo; si caratterizza per una visione inventiva e creativa del gruppo e delle attività, riflessiva nella comprensione , acuta e geniale nelle soluzioni. Fortemente innovativa e brillante, carismatica,è uno stile di Leadership decentrato sulle idee e sulla forza delle idee. Decisamente orientato verso la  libertà, il Creativo non affida incarichi, ma raccoglie le libertà individuali, le riconosce e le potenzia. Per tali caratteristiche, è una Leadership che rischia di divenire dispersiva e troppo blanda, bersaglio di squalifiche interne ed esterne.
Nel gruppo di amici è l’anticonformista, solitario, riconosciuto da pochi come geniale e da molti come “strano”.
La persona in cui prevale la distanza emotiva ha necessità di essere abbracciata, alfine di contenere le parti continuamente disperse del suo Sé, costantemente attivato dall’attività mentale. Solo attraverso l’affettività questa persona può mettere i piedi per terra, acquisendo concretezza.

Piacere - Effervescente – Armonia
Dall’emozione del Piacere deriva la personalità dell’Emozionale, anche detto Effervescente, che ha uno Stile Comunicativo Coinvolgente.
Questo tipo è alla continua ricerca di emozioni intense,in un’oscillazione costante tra angoscia e piacere , orientato com’è verso l’armonia, la gioia.
Nella forma matura questa personalità si esprime con la generosità, con il carisma,con lo slancio e l’attrazione verso gli altri, la fantasia, l’entusiasmo e la felicità.
Nella forma immatura questa tipologia si esprime con narcisismo, incoerenza e volubilità, incontenibilità, scarsa capacità di concentrazione.
E’ necessario imporgli di fare una cosa alla volta e di portare a termine quello che ha cominciato. Inoltre, è utile insegnargli a gustare il sapore delle cose che sta facendo e a godersi la soddisfazione dei traguardi raggiunti.
In famiglia questo tipo è un chiacchierone scanzonato e capriccioso, che conquista tutti, coinvolgendo nei suoi entusiasmi e nelle sue imprese, fino a rendersi conto, poi, che sono “cotte” passeggere.
Nel lavoro è il venditore per eccellenza, che persuade e convince, travolgendo in un assedio giocoso e solare clienti e colleghi. Può anche essere un buon capo, coinvolgente ed carismatico, sebbene rischi di essere incostante e scarsamente pragmatico.
E’ un genitore divertente e fusionale, che riempie la casa di amici e novità. Può, però, mancare di solidità e responsabilità a causa delle sue oscillazioni umorali e della sua incostanza.
Nel gruppo di amici incanta tutti e coinvolge, proponendo mille iniziative, di cui dimentica di seguire la realizzazione, perché attratto da altre. E’ il seduttore per eccellenza, che flirta con tutti, accendendo una scia di emozioni e, talvolta, illudendo anche se stesso.
La persona in cui  la ricerca di piacere è predominante necessità di disciplina per dare sostanza al suo sé e alle sue emozioni, che rischiano di essere volatili .
La difficoltà di questa persona, infatti, consiste nella scarsa capacità di trasformare le emozioni in sentimenti: per questo deve dare stabilità alle sue azioni, riducendo l’intensità emotiva e aumentandone la durata. In tal modo può ridurre la superficialità a favore della concretezza.

Quiete - Apatico – Pace
La quiete è l’emozione che determina la personalità dell’Apatico, che è un tipo adattabile e accomodante, un saggio portatore di pace.
L’Apatico è il tipo flemmatico, , elegante, demotivato e indolente; può essere tanto pigro, da odiare i conflitti, solo perché lo agitano e disturbano la sua quiete
Il soggetto evoluto sa tranquillizzarsi e tranquillizzare, si rilassa e dona pace a se stesso e agli altri.
Nel soggetto immaturo c’è la fuga dagli impegni e dalla realtà attraverso l’incantamento,attraverso l’anestesia emozionale e l’indifferenza.
Il genitore apatico è rasserenante e scarsamente normativo e pretenzioso. Tende ad essere eccessivamente permissivo e poco stimolante.
Può essere tanto pigro da non coltivare i rapporti con gli altri e ha scarsa attitudine alla leadership. La pigrizia, tuttavia, è determinata da un pensiero eccessivamente frammentato, che porta la persona a perdersi nei mille rivoli degli ostacoli che si costruisce mentalmente.
Peraltro, l’apatico è colui che lavora serenamente in luoghi in cui è richiesta un’attività ripetitiva prolungata senza ritmi stressanti (mimi, giocolieri, infilatori di perline, catena di montaggio).
Nel gruppo di amici l’apatico è quello che non prende mai iniziative e si trascina nella compagnia, solo per non avere problemi con chi propone. E’ il tipo calmo, che gestisce bene le emergenze e tranquillizza in momenti di panico.
Mentre l’ansioso è estremamente accurato  nell’abbigliamento che usa come corazza, il ruminante predilige la comodità, il delirante l’eccentricità e l’effervescente ciò che è vistoso, l’apatico può apparire poco curato,  o al contrario, elegante  nel vestire come lascivo nell’alimentazione.
La persona in cui prevale la quiete non va assecondata, bensì costantemente stimolata: va incoraggiata al raggiungimento progressivo di un traguardo alla volta e necessita di gratificazioni costanti, per non scivolare nel torpore e nella pigrizia. Questa persona deve anche essere rimproverata seriamente se la sua inattività a prodotto conseguenze gravi per se stessa o per gli altri.

Vergogna - Invisibile – Sensibilità
Dall’Emozione di base della Vergogna si forma la personalità dell’Invisibile, che si esprime attraverso l’empatia e l’umiltà.
L’invisibile è un introverso che non riesce a gestire la sua sensibilità perché i significati , che dà alle cose che succedono, sono troppo carichi di simboli inquietanti.  Per questo si sente piccolo e indifeso, inferiore agli altri e incapace, inutile e intrappolato nella vergogna o nel panico.
La sua sensibilità lo può condurre a vissuti di chiusura e timidezza estreme, nei quali rischia di rimanere intrappolato. In famiglia questo tipo è il Sensibile, in genere il secondogenito. Cresciuto all’ombra di qualcun altro, sa stare in disparte e quasi non ci si accorge della sua presenza. Tuttavia, ha una grande capacità di sacrificio, comprende le esigenze altrui senza che vengano espresse e cerca di esaudire i desideri, senza mai rinfacciare ciò che fa.
In campo lavorativo la sua predisposizione all’ascolto empatico lo conduce verso attività nell’ambito sociale, in cui può aiutare rimanendo in disparte e, talvolta, continuando a svalutarsi tanto da auto-sabotare la sua carriera.
La leadership dell’invisibile è incentrata sulla libertà di azione per i componenti del gruppo, pur definendo obiettivi in cui canalizzare l’azione. Il capo sensibile sostiene il suo gruppo di lavoro e consente l’espressione delle individualità. Il leader invisibile sostiene il gruppo, avvertendo dei pericoli. Nondimeno, rischia di ottenere un basso consenso interno, o di diventare istigante e autodistruttivo, perché incapace di difendersi dalle oppressioni e dalle seduzioni. E’ un capo non direttivo con i suoi ma solidissimo nel relazionarsi all’esterno.
Infatti, questa persona, pur essendo timida, non è insicura. Sa esattamente ciò che vuole, tuttavia non ha il coraggio di prenderlo o teme di non essere adeguato all’obiettivo che si prefissa.
Peraltro, nel gruppo di amici, non sentendo il dovere verso gli altri,  è quello che viene dimenticato, quello che ascolta in silenzio e , arrossendo o ridendo per l’imbarazzo, parla solo se espressamente consultato. E’ umile e mai appariscente, riservato e poco propenso alla promozione di sé.
La persona in cui la vergogna è l’emozione prevalente ha necessità di divenire più coraggiosa e intraprendente, per riuscire ad aumentare la propria autostima attraverso il raggiungimento di piccoli traguardi progressivi, ottenuti con disciplina e metodo, che tengano sotto controllo le sue inquietudini.


Amore- Adesivo – Fedeltà
L’Emozione dell’Attaccamento produce il tipo Adesivo. Questo tipo ha sempre bisogno di essere visto, guardato, riconosciuto. E’ quello che fa sempre i commentino al cinema o in classe; è il signore anziano che staziona sotto il palazzo e cerca di chiacchierare con chiunque gli capiti accanto.
E’ il tipo in soprappeso, perché mangia quando si sente triste. E’ un po’ maldestro, perché mette molta energia nel fare le cose, per conquistare l’amore altrui.
A questo tipo è mancato l’amore e lo cerca ovunque. La qualità principale di questa Tipologia di Personalità è la devozione, la fedeltà e la lealtà.  Il limite consiste nel grande rischio di diventare dipendente.
In famiglia l’adesivo è l’esperto nella Socialità, quello che crea unione e fa ridere tutti, quando le cose si mettono male; è il tipo che ubbidisce, se questo gli può far ottenere attenzione e amore.
Nel lavoro , se opportunamente gratificato, diventa il dipendente fedele e devoto, che esegue gli ordini e non protesta, se non quando sente di essere stato tradito nella sua devozione.
Il capo adesivo incentra la sua leadership sulla relazionalità e i rapporti interpersonali.
L’obiettivo di tale leadership non è la gestione della produzione, dell’innovazione o della amministrazione, ma la direzione gruppale e l’unità interna. L’obiettivo è la valorizzazione dei comportamenti socio-solidali interni al gruppo o la collaborazione. Trasmette il senso di squadra; affilia i componenti del gruppo verso una dimensione affettiva, quasi familiare, riassorbendo intemperanze ed eccessi. E’ una guida che sa gratificare e riconoscere i meriti degli altri, disponibile e accogliente, ma può diventare anche manipolatorio e invischiante. Un esempio di Leadership affettiva è la maestra di scuola materna, che tende a creare legami e a sedare conflitti.
La Leadership materna quando sono rispettati i ruoli tradizionali,corrisponde a quella Affettiva Relazionale e sensibile, mentre quella paterna , magari anche consensuale, è più orientata verso il versante motivante organizzativo.
Nel gruppo di amici l’Adesivo è il clown, quello che si fa prendere in giro, per suscitare l’ilarità dei compagni. E’ quello che abbraccia tutti e cerca il contatto corporeo nel parlare può diventare il gregario nelle bande dei bulli, per ottenere il riconoscimento e l’ammirazione del leader.
La persona in cui l’emozione prevalente è l’amore ha necessità di imparare a volersi bene per bastarsi, per colmare il vuoto affettivo che tende a renderlo appiccicoso e possessivo, eccessivamente esclusivo nei rapporti.


Esercizi
1)Ai partecipanti viene chiesto di scrivere su un foglio quale colore associano alle sette emozioni di base.
Viene poi chiesto ad ognuno di condividere con gli altri le sue associazioni, per verificare le differenze e le similarità.

2)Ai partecipanti viene dato un foglio con le seguenti domande:
DI CHE COLORE SENTITE DI ESSERE OGGI?
DI CHE COLOREPENSATE CHE VI VEDANO GLI ALTRI?
QUALI SONO I DIVERSI RUOLI CHE CARATTERIZZANO LA VOSTRA VITA ATTUALE?
ATTRIBUITE UN COLORE AD OGNUNO DI QUESTI VOSTRI MODI DI ESSERE
C’E’ UN COLORE PREVALENTE IN VOI?QUALE?

 

BIBLIOGRAFIA

BARBAGLI L., (2010), Semiotica della corporeità, Prevenire & Possibile.
GOLEMAN D., (1999), Intelligenza Emotiva, Biblioteca Universale Rizzoli
MASINI V., MAZZONI E., (2008), Manuale di psicologia generale transteorica per counselor, Università di Perugia
MASINI V., MAZZONI E., (2008), Manuale di psicologia relazionale transteorica per counselor, Università di Perugia
MASINI V., (2009) Dalle Emozioni ai Sentimenti, Prevenire & Possibile.

 


PARTE TERZA
DALLE EMOZIONI ALLE RELAZIONI

 

Emozionalità-Personalità-Relazionalità

L’uomo viene scientificamente definito come “un animale sociale a prole inetta”.
Questa definizione, di per sé tanto asettica, racchiude un presupposto ineludibile per lo sviluppo sano e competente del piccolo d’uomo: non c’è sopravvivenza senza relazione.
Nei fatti il cucciolo d’uomo alla nascita è, di per sé, assolutamente incapace di sopravvivere.
La sua sopravvivenza è totalmente affidata a chi se ne prende cura, che sia il genitore o qualsiasi altro capace di allevarlo.
Peraltro, come dimostrano moltissimi studi tra i quali quelli del celebre ricercatore Bowlby, il cucciolo umano necessita di tenerezze e coccole per il suo sviluppo, molto più che di cibo.
In un famoso esperimento alcuni lattanti venivano nutriti da un simulacro meccanico attraverso un biberon.
Gli stessi piccoli vennero poi fatti accudire da un simulacro morbido e avvolgente, che però non li nutriva.
Fu constatato che i piccoli preferivano in modo esplicito l’accudente morbido a quello nutritivo.
Spitz studiò i bambini istituzionalizzati negli anni ’60.
Egli verificò che i bambini senza genitori, a parità di condizioni di allevamento (cibo, igiene, ecc) si ammalavano e morivano più frequentemente dei piccoli cresciuti in famiglia, anche nel caso in cui questi ultimi vivessero in condizioni igieniche e alimentari scadenti.
In questa rassegna non si può dimenticare Erich Fromm che affermava che per uno sviluppo psicofisico equilibrato la madre, o chi ne fa le veci, deve prendersi cura con “latte e miele”, dove il latte è il cibo e il miele è la gioia di vivere e, dunque, una relazionalità avvolgente e rassicurante.
A ulteriore riprova di Quanto fin qui sostenuto, sembra interessante ricordare che nelle regioni più sperdute dell’Africa, laddove le madri ancora trasportano per mesi i lattanti sulle spalle , risultano praticamente assenti sia le malattie dermatologiche, sia i casi di suicidio.
Dunque, l’essere umano cresce e si sviluppa grazie alla relazione con l’ambiente: attraverso la comunicazione non verbale e verbale, va via via strutturandosi la personalità, che è il prodotto del ripetersi di situazioni, che determinano sensazioni ed emozioni.
Quindi, la personalità dell’individuo è l’esito oggettivato delle relazioni, esplicite e implicite, intrattenute con l’ambiente.
In base a come via via si sono organizzate le relazioni sperimentate, la persona si relazionerà a sua volta con l’esterno.
Prima di illustrare come si esprimono nella relazione le diverse personalità, è opportuno accennare alle regole , più o meno convenzionali, della prossemica, che è la scienza che studia le distanze relazionali.
E. T. Hall può essere considerato uno dei primi studiosi ad aver scoperto che lo spazio attorno all’uomo non è vuoto, ma diviso in precise zone, invisibili e concentriche, entro le quali l’uomo si
muove e nelle quali fa penetrare gli altri con un preciso rapporto: più aumenta l’intimità, più diminuisce la superficie dello spazio occupata.
L’uso che si fa dello spazio circostante va visto in termini di:

  • distanza (vicino/lontano);
  • spazio personale;
  • orientamento;

Distanza (vicino/lontano)
Ogni ambiente ed ogni cultura hanno le proprie misure spaziali che regolano i rapporti meno profondi; secondo Hall sono quattro i principali tipi di relazione possibili attraverso la distanza:

Intima
La zona intima si estende all’incirca da 0 a 45 cm, distanza fino alla quale possiamo arrivare con le mani, se si tengono i gomiti vicino al corpo. E’ la distanza che si mantiene con le persone con le

quali si è in confidenza, gli amici più cari, i nostri familiari. Siamo così vicini che è possibile l’abbraccio o il contatto fisico, dell’altra persona non solo si sentono le parole, che saranno pronunciate anche con un tono di voce più basso, ma è possibile sentirne l’odore ed osservare le variazioni del respiro o del colore della pelle (impallidire ed arrossire).
I volti sono così vicini che si può cogliere ogni minima espressione ed emozione. Ci sono persone che per loro natura, avendo di base un grande bisogno d’affetto o di attenzione, cercano sempre e con chiunque di spostare il rapporto in questo spazio intimo.

Personale
La zona personale si estende dai 45 fino a circa 120 cm, cioè lo spazio corrispondente al nostro braccio disteso, fino al limite di ciò che possiamo afferrare o toccare.
Si fanno rientrare in questa zona, infatti, le persone con le quali abbiamo rapporti di conoscenza, con le quali ci stringiamo la mano e (Pacifico L. P., La comunicazione non verbale, Xenia, S.Vittore Olona (MI) 2008, pag. 121.) avviamo conversazioni di cortesia, ad una festa o ad una riunione per
esempio dove si discute di argomenti personali senza troppo coinvolgimento e senza contatto fisico. A questa distanza il tono della voce è sempre moderato, si colgono ancora le variazioni del
respiro ed i cambiamenti del colorito della pelle, mentre le espressioni del viso assumono molta importanza. Non si avvertono più gli odori personali o i profumi.

Sociale
La zona sociale si estende da m. 1,20 a m. 3,5 circa dove si riesce ad inquadrare l’intera figura e si discute di affari impersonali.
Stiamo a questa distanza dagli estranei e dalle persone che non conosciamo bene (dal negoziante che ci vende qualche cosa, dal tecnico che ci sta riparando un elettrodomestico in casa, da un impiegato di un ufficio pubblico a cui ci rivolgiamo). Questa è la zona della neutralità affettiva ed emozionale e genericamente dei rapporti di lavoro. A questa distanza non è più possibile toccarsi, cogliere il profumo o l’odore dell’altra persona; per farsi sentire la voce ha un tono più elevato ed i gesti e le espressioni sono più evidenti e costituiscono la modalità di comunicazione prescelta, lo sguardo infatti ha molta importanza perché il contatto è solo di natura visiva.

Pubblica
La zona pubblica si estende da m. 3,5 a m. 8 circa; generalmente, oltre a questa distanza, non è più possibile un rapporto fra le persone.
Tale distanza può essere assunta da chi fugge, si difende da una minaccia oppure è tipica di chi sta attorno ad un personaggio di spicco o di riguardo.
Qui si colloca chi decide di parlare ad un gruppo; per esempio, il professore che parla agli studenti, l’attore rivolto al pubblico o il politico che tiene un discorso. In questa zona la comunicazione
verbale, essendo grande la distanza fra chi parla e chi ascolta, assume un’ enorme importanza ed il tono della voce deve essere sensibilmente aumentato. Anche i gesti devono farsi più ampi e le
espressioni più marcate e riconoscibili per poter essere visti e rinforzare il contenuto verbale. Tale distanza infatti non ci permette di cogliere i particolari in quanto la testa, e dunque il viso, ci appare di dimensioni inferiori e non è osservabile.

Allo spazio che occupa la volumetria della struttura-superficie del corpo si aggiunge un’area non visibile occupata da ognuno di noi nella relazione con l’altro, detta spazio personale. Quest’area varia da persona a persona nelle diverse circostanze, influenza gli altri e stabilisce il tipo di rapporto.
Hall definisce la distanza individuale una specie di recinzione psichica o di bolla protettiva che ogni persona si porta dietro come proprio territorio mobile: un’area con confini invisibili che circonda il corpo della persona ed entro il quale gli intrusi non hanno il permesso di entrare.
Il riconoscimento dell’esistenza di bolle personali, oltre a venirci dall’esperienza quotidiana, dove possiamo incontrare persone che non sopportano che qualcuno si avvicini troppo, è stato favorito dal concetto più ampio di territorio e territorialità proveniente dall’etologia attraverso gli studi dei comportamenti animali. Il territorio è l’area di difesa di uno o più animali contro intrusioni esterne; la territorialità è la condotta di difesa che regola la densità di un territorio ed obbliga gli animali a segnalare la loro presenza.
Esiste però anche negli animali un’area più ristretta, dai confini invisibili, che è la distanza che gli animali mantengono tra loro.
Nella società umana, esistono tre tipi di territori umani:
il territorio tribale (area abitata), il territorio familiare (casa) e lo spazio personale.

Se prendiamo come presupposto che lo spazio intorno al nostro corpo non è vuoto, come appare, ma è psicologicamente occupato dallo spazio personale, notiamo che la sua formazione dipende da:

  • fattori culturali (modelli culturali e norme dei vari gruppi di appartenenza o razza);
  • fattori ambientali (ambiente dove abbiamo vissuto);
  • fattori sociali (classe sociale di appartenenza);
  • fattori emotivi (emozioni represse, accumulate o espresse).”(Barbagli, 2010, pp120-122)

Pertanto,ogni persona è circondata da una bolla relazionale, che definisce lo spazio psicologico di cui ha bisogno per sentirsi a suo agio.
Peraltro, quello spazio psicologico può anche essere attribuito da chi ad essa si relaziona.
Come prima si accennava, le persone affettive e quelle effervescenti tendono ad avvicinarsi moltissimo agli altri.
Nel caso in cui si incontrano tra loro, ne traggono una grande intesa sia dal punto di vista contenutistico, sia dal punto di vista emozionale.
Se, però, una persona adesiva si avvicina ad una persona timida e sensibile, accarezzandole il viso o i capelli anche in modo prolungato e parlandole di cose interessanti, il timido può trarne un tale disagio, da sentirsi intorpidito nella capacità di apprendere.
Il timido, essendo portato al sacrificio e ad assecondare gli altri, con difficoltà si sottrae all’invasione dell’affettivo.
Al contrario, il libero/creativo, capace com’è a mantenere le distanze, si ritrae subito e, magari, intrattiene l’affettivo con lunghi discorsi sui massimi sistemi cosmici.
L’affettivo , in questo caso, potrà sentirsi rifiutato , ma pur di non perdere contatto con la persona, la ascolterà con attenzione, grata per il modo affascinante di spiegare del creativo.
L’ansioso, un po’ stitico affettivamente, se può, evita le “smancerie” e rimane rigido quando viene abbracciato.
Mentre nell’abbraccio il creativo trova un modo per raccogliere i suoi pezzi emozionali dispersi, l’ansioso ne viene spaventato, per il timore di illudersi, di stare troppo bene.
Così come l’avaro tende a mantenere le distanze, il ruminante aggressivo nella relazione si butta con intensità e passione, a caccia di impegno e costruttività.
Il ruminante è il tipo che strizza la mano altrui e dispensa grandi pacche di incoraggiamento, con abbracci pieni di energia, anche se poco avvolgenti. Questo modo può incantare l’apatico, che si carica di quell’energia per fare un altro passettino, per raggiungere un altro piccolo traguardo.
E, soprattutto, l’abbraccio del ruminante/aggressivo può affascinare l’Effervescente/Emozionale, che crede di vedere in questo gesto la sua medesima propensione al divertimento e al piacere.

 

Relazioni che ci danneggiano e relazioni che ci migliorano

La relazione  non è qualcosa di concreto, bensì un legame che connette tra loro le persone, creando vincoli più o meno stabili, sebbene esistenti “solo” nella testa di chi li pensa.
Il legame che mette in rapporto le persone, infatti, non è visibile in sé, né delimitato nello spazio, né collocabile in uno spazio. La relazione è  nel modo caratteristico in cui quelle due persone parlano e agiscono reciprocamente. Ovvero, la sede della relazione non è nello spazio fisico in cui vivono le persone, bensì nei pensieri, nelle aspettative, nei riti che legano quelle specifiche persone.

Relazioni che ci danneggiano: personalità oppositive
Nella vita relazionale si presentano frequentemente delle provocazioni, che definiamo “attentati ai sentimenti”, che hanno il potere di ferire la persona o di riaprire in lei vecchie ferite.
Proprio per timore di quegli attentati, involontari o volontari che siano, fin dall’infanzia la persona impara a proteggersi, costruendo intorno al suo nucleo più vulnerabile muri  di difese più o meno funzionali.
La funzionalità delle difese è data dal tipo di relazione che intercorre, dal momento di vita che la persona sta vivendo, dal significato emotivo che la relazione vissuta ha per chi la vive.
Infatti, se può avere senso difendersi dalle seduzioni di un estraneo, più difficile e disfunzionale risulta non lasciarsi andare al gioco seduttivo della persona amata per un eccessivo timore di essere feriti o abbandonati.
Oltre a ciò, esistono periodi della vita in cui le risorse relazionali ed emotive sono molte e si può anche rischiare di essere feriti e altri periodi in cui, magari in seguito a un lutto o a un abbandono, si è estremamente sensibili ed è necessario proteggersi con maggiore accuratezza.
Laddove le difese non sono efficaci, le ferite vanno via via accumulandosi e formano nodi cicatriziali di natura emozionale, che si frappongono tra la parte più intima della persona e il mondo, creando una distanza talvolta incolmabile.
E’ per questa ragione che gli adulti, avendo accumulato esperienze negative, sono più cauti e intenzionali nell’instaurare relazioni.
Le difficoltà relazionali maggiori  insorgono quando si instaura  una relazione con persone, che hanno modelli di vita e di valori che sentiamo opposti ai nostri, ovvero minacciosi per la stabilità del nostro nucleo intimo.
Tuttavia, il problema più grande nella relazione si pone quando si incontrano persone che manipolano, o istigano, o intimidiscono, o opprimono, o seducono, o imbrogliano, o provocano.
In queste relazioni la persona si può sentire bloccata,, o squalificata, o può sentire che ciò che vive è proprio uguale a ciò che altre volte ha già vissuto, o può ritrovare nell’altro modalità di cui a fatica cerca di liberarsi.
Soprattutto la relazione può divenire conflittuale quando le modalità relazionali dell’altro sono sistematicamente opposte e rendono difficile creare una piattaforma di comprensione reciproca,. Nel caso in cui, infatti, tra gli interlocutori non si trovi il modo di accettare il rispettivo punto di vista, il rapporto si blocca.
Per verificare se la relazione in corso è potenzialmente distruttiva è sufficiente valutare se presenta momenti di indifferenza reciproca, litigi,astenia, rigidità,dipendenza, condizionamenti reciproci, vacuità espressiva,silenzi taglienti, incapacità di distanza o desiderio di distanza, frequenti episodi di disturbi fisici imputabili a somatizzazione del disagio, ecc.
Scoprire la ragione dell'opposizione conduce ad una chiara diagnosi delle tensioni ed alla prevenzione del processo che conduce al conflitto.
Ove il conflitto sia già esplicito, spesso i contendenti simulano interesse a risolverlo, mettendo in atto strategie che esasperano ulteriormente l’altro, , divenendo trappole relazionali.
Nel caso si voglia assolutamente continuare la relazione, sebbene oppositiva, l’unico strumento possibile per trasformare la conflittualità è il rispetto per l’avversario, che si traduce nell’unica forma di amore possibile, in certi casi, ovvero la decisione di mantenersi alla giusta distanza, accettando i confini imposti dalla necessità di evitare ulteriori scontri e ulteriore sofferenza.
Ovvero, per vivere accanto al nemico, è INDISPENSABILE delimitare i rispettivi territori d’azione e non oltrepassarli.
Questo è l’unico modo per convivere tra opposti ed è l’unico indice per valutare l’effettiva volontà di evitare di danneggiare l’altro.
Inoltre, questa è l’unica strategia efficace per bloccare le manipolazioni nelle relazioni di equivoco,le intimidazioni e le provocazioni nell’insofferenza, le squalifiche nella delusione, il disturbo nel logoramento, la demotivazione nell’evitamento, l’istigazione nel fastidio, la seduzione nell’incomprensione.

 

OPPOSIZIONI

INSOFFERENZA: si verifica quando due o più persone oppongono costrutti articolati di comportamento. Ad esempio uno è ordinato, preciso, metodico, ripetitivo, l'altro è  confusionario, vago, innovativo e creativo. L’insofferenza si manifesta nei continui litigi e nella violenza verbale reciproca.

DELUSIONE: si impianta stabilmente quando due persone avevano interpretato, illudendosi, il comportamento dell'altro in sintonia con le proprie aspettative. La delusione può manifestarsi  improvvisamente, a seguito di un tradimento o di un inganno, che sono l’indice che essa già c’era.

LOGORAMENTO: è frutto di una relazione che, a fronte di attese diverse dal solito menage,  si esprime in una sequenza di manifestazioni effusive estemporanee, appariscenti ed estetizzanti,  "sopra le righe", ma poco chiare e troppo superficiali per essere intime.
In genere, nasconde l’INDIFFERENZA DEI SEPARATI IN CASA

EVITAMENTO:  la differenza tra sensibilità ed emotività consiste nella diversa profondità interiore raggiunta da un vissuto. La persona sensibile viene invasa dalle emozioni che sperimenta, la persona emotiva reagisce con immediatezza nel suo comportamento .Così imparano ad evitarsi, perché il sensibile viene troppo ferito dall’emotivo.

FASTIDIO: è la percezione di gesti, modi di fare, odori, rumori, sapori, immagini emanati da una persona nei confronti della quale si ha una reattività di rifiuto "a pelle". Si accompagna con forme di rassegnazione o di sopportazione dell'altro. Il fastidio è RIFIUTO

INCOMPRENSIONE: è l'incapacità di trovare il senso del comportamento che l'altro mette in atto. Sebbene sia chiaro ed evidente ciò che l'altro fa e perchè lo fa, i membri della coppia non ne condividono il senso. Ciascuno non capisce come mai l'altro non capisce.

EQUIVOCO: c'è equivocità nei comportamenti di due persone quando le azioni non sono sinergiche ed orientate allo stesso fine o, se orientate allo stesso fine, sono svolte in modi e tempi diversi. Non c'è intesa nella realizzazione di attività ed impegni .

 

Stili di Controllo dell’altro nelle Opposizioni
OPPRESSIONE
L'oppressione nasce sempre attraverso un pretesto: una forma, un decoro, uno status. E' una malizia che rimanda alla circostanza in cui avviene ed alla quale attribuiamo noi stessi importanza. Spesso fa leva sul bisogno di appartenere e sulla incapacità di essere autonomi.
L'oppressione è esercitata nel rapporto a due, dove il contesto funziona sempre da pretesto o da causa per giustificare il significato dell'oppressione. In questo senso l'oppressore trasforma l'amore in un'arma e non cede di fronte alla realtà del suo agire

INTIMIDAZIONE
Intimidazione e istigazione sono due azioni rivolte al soggetto al fine di produrre una "non azione" o una "azione".  Appartengono a due specie di categorie di azione dotata di senso diverse tra di loro con il denominatore comune di "non lasciare tempo".
L'intimidazione paralizza ed impedisce il pensiero e le scelte, mettendo in campo una violazione brutale dei sentimenti della persona, per renderla incapace di reagire. La violenza psicologica dell'intimidazione è sottovalutata rispetto alle caratteristiche
Nei casi di abuso fisico sono più evidenti gli effetti dell'intimidazione, agita per rendere l'altro annichilito e passivo di fronte all'azione. Ed è l'intimidazione la vera protagonista della frattura interna, molto più della violenza in sé. In persone col
L'effetto dell'intimidazione è distruttivo della dimensione profonda della persona perché si insinua come frattura tra il sé e la percezione profonda del valore dei sentimenti; il risultato è quello di non riuscire più ad avere un contatto con la propria percezione.
L'antidoto agli attentati intimidatori è il possesso del proprio tempo vitale. Solo che possiede il senso interno del tempo può respingere tali assalti, tenendosi saldamente al suo essere nel tempo, al senso della durata, alla incontestabile certezza che quello gli appartiene.


ISTIGAZIONE
Anche l'istigazione ha a che fare con il tempo. Chi istiga pretende una risposta immediata, non tanto perché tal risposta sia subitaneamente agita verso altri, quanto al fine di far assorbire immediatamente il contenuto specifico di quell'istigazione.

SQUALIFICA
La svalutazione, la derisione, la ridicolizzazione umiliante, il discredito pubblico e la disconferma brutale sono i principali metodi con cui opera la squalifica. Nella mente delle vittime collassa l'autostima sia per la percezione della propria impotenza, sia per l’umiliazione subita.

SEDUZIONE
Il seduttore agisce sui sogni e non sui bisogni e cattura la vittima attraverso l'immagine della vittima che viene restituita dal rispecchiamento nel seduttore. La seduzione offre al soggetto qualcosa che non ha, o meglio fa apparire al sedotto di essere quello che appare dalle parole del seduttore, che simula una comprensione che non esiste.

DEMOTIVAZIONE
Le aspettative sull'esito delle nostre azione sono una trappola per chi attende risposte direttamente congruenti ai comportamenti espressi. L'impegno non paga mai in termini meccanici e congruenti, ma produce effetti che tornano alla persona per strade incomprensibili. Il demotivatore spegne l’azione, togliendone il sapore e il gusto.

IMBROGLIO
La trasparenza e la comunicazione sono gli antidoti all'imbroglio nelle diverse forme di ricatto affettivo, manipolazione e condizionamento. Chi imbroglia induce all'azione con l'inganno senza rispettare l'altro, consapevole di agire secondo il principio del fine che giustifica i mezzi.
L'uscita dall'imbroglio è liberazione trasparente ed inequivoca attraverso la quale si restituisce respiro all'interiorità. L'antidoto è dunque l'aria, trasparente e rarefatta, dal momento che  l'imbroglio si perpetra  sulla pesantezza dei ragionamenti e delle operazioni cognitive.


Relazioni che ci migliorano: personalità affini
L’intenzione, è l’elemento cruciale per lo stabilirsi di una relazione positiva o negativa.
Ciò che ci è opposto ci completa, ciò che è omogeneo ci rafforza; ciò che è opposto ci eccita e ci
stimola, ciò che è omogeneo ci tranquillizza. Cioè, con mezzi del tutto diversi sia l’uno che l’altro ci procurano un senso di legittimazione del nostro essere-così.
Ogni giorno ci troviamo di fronte al compito di decidere tra gli opposti interessi che dimorano in noi e di regolare i conflitti tra impulsi inconciliabili.
La conflittualità e l’affinità relazionale si concretizzano e si manifestano nei rapporti attraverso il clima  peculiare che caratterizza quello specifico rapporto.
Per “clima” si intende tutto quell’insieme di fattori che contribuiscono a formare un contesto in cui si vive, in cui si opera ed in cui si entra in relazione con altri.
Il clima può essere definito attraverso i fattori di appagamento o insoddisfazione.
Tra essi sembra utile ricordare la coesione di gruppo, il coinvolgimento nell’organizzazione e nelle attività del gruppo, l’autonomia e la responsabilità nell’organizzazione delle attività comuni e individuali, la libertà nel manifestare i propri sentimenti e le proprie idee, il tipo di ambiente fisico e psicologico in cui avviene la relazione.
Le relazioni di affinità sono quelle che s’instaurano tra coloro che sono affini elettivamente.
Nell'incontro tra persone affini ciascuno percepisce quanto l'altro può rappresentare per lui e come, attraverso la relazione, sia possibile acquisire modalità di vita, valori ed atteggiamenti su cui ciascuno è carente.
L'incontro tra le diversità diventa così scoperta ed attuazione delle personali affinità ed occasione di crescita
Invece le difficoltà relazionali insorgono quando si attua una relazione con modelli di vita e di valori che sentiamo opposti ai nostri.
L’affine è in possesso di qualche qualità, che l’altro può imparare ad apprezzare perché gli manca e lo completa, anche se i due soggetti non sono necessariamente in una posizione di reciprocità diretta ed univoca.
La valutazione della relazione in atto può avvenire anche a posteriori tramite l’analisi dei mutamenti concreti che tale relazione produce nella realtà dei soggetti. Se una relazione è di affinità si potranno osservare l’aumento dell’impegno, della disponibilità reciproca, dell’ascolto attento, della collaborazione, della solidarietà, ecc…
Dunque, le persone umane sono affini quando le loro caratteristiche di personalità  si integrano reciprocamente delle loro modalità di sentire, esprimere ed essere nelle diverse emozioni della vita.
La dimensione della paura, delle difese e del controllo trova la sua affinità elettiva nella realizzazione contemporanea della pace e della calma insieme a quella del piacere e dello slancio.
L’energia di attivazione, che sospinge incessantemente verso l’azione, verso il superamento degli ostacoli ed il conflitto contro chi si oppone a tali azioni, trova la corretta canalizzazione nell’impegno concreto della difesa degli oppressi e si spegne nell’incontro con chi possiede la calma e la pace interiore.
L’isolamento e la mentalizzazione di se stessi in una espansione costante, superba, libera  e schizoide trovano compimento nella umiltà della concretezza e nell’accettazione di essere amati ed avvolti dalla stabile fedeltà dell'attaccamento.
La tensione al piacere delle emozioni intense e la malinconia della separazione trovano nell’avvolgimento affettivo e nella coerenza dell’agire responsabile il terreno ad esse elettivo.
Il senso di inferiorità, la vergogna, la disposizione a lasciarsi opprimere sono superabili solo attraverso gli
incoraggiamenti all’impegno, la trasmissione di stimoli e di “carica”, mediante la disciplina e la fiducia in se stessi, lo sviluppo dell’autostima e la libertà interiore.
Il bisogno di attaccamento viene superato attraverso la realizzazione del gusto del vivere e la disposizione a gestire con libertà la propria accettata solitudine esistenziale.
In altre parole, il Responsabile è affine all’Effervescente e all’Apatico; il Pragmatico/Ruminante è affine all’Apatico/Saggio e all’Invisibile/Sensibile; il Creativo/Libero trova la sua affinità nel Sensibile/Invisibile e nell’Adesivo, l’Effervescente è affine all’Adesivo/Affettuoso e al Responsabile/Avaro, così come l’Apatico/Accomodante è affine al Responsabile/Avaro e al Pragmatico/Ruminante, il Sensibile/Invisibile è affine al Libero/Delirante e all’Affettuoso/Adesivo, come quest’ultimo è affine all’Effervescente e al  Libero.

 

Come trasformare in affine una relazione oppositiva
Come è noto, talvolta si instaurano relazioni che, inizialmente, possono sembrare assai soddisfacenti, ma che nel tempo vanno via via bloccandosi o, addirittura, diventano distruttive.
Si pone, allora, la questione di affrontare la situazione.
Nel caso si voglia o si debba continuare a mantenere quel rapporto, possono essere usate alcune strategie relazionali, per modificarne il clima e la percezione.
Questo presuppone la volontà di almeno uno dei due interlocutori di migliorare la relazione.
Infatti, come già detto, nelle relazioni tra opposti l’unico strumento realmente efficace è l’amore, ovvero l’accettazione del fatto che per vivere accanto al nemico è indispensabile rispettare i rispettivi confini.
Solo così in una relazione di insofferenza, è possibile che un partner decida di rompere la giostra della violenza e dei dispetti reciproci con un gesto inaspettato e spiazzante, come, per esempio, far trovare sul tavolo della cucina il dolce preferito da lui o i fiori prediletti da lei.
Per prevenire o curare la delusione in una relazione in cui le persone si sono idealizzate a vicenda, è essenziale accettare i limiti altrui, attraverso comportamenti che completino l’uno le carenze dell’altro.
Per superare il logoramento reciproco, può essere opportuno vivere situazioni dense emozionalmente, in cui ritrovarsi a sperimentare i medesimi vissuti emozionali.
Per superare la tentazione di fuga dall’altro, peculiare nell’Evitamento, è utile ricominciare a dialogare, ovvero parlare di qualsiasi cosa, che possa riempire il vuoto che crea la distanza. La dialogicità non prevede il confronto su grandi temi necessariamente, ma uno scambio di informazioni quotidiane, sulle quali ricostruire la perduta ritualità relazionale.
Allo scopo di fronteggiare il fastidio epidermico che allontana dall’altro, la strategia efficace è costruire piccoli progetti quotidiani a cui collaborare. Per esempio: “Cosa mangiamo a cena?”
“Che dici di un risotto con i funghi e i gamberetti?”
“Ok. Io passo a prendere i funghi in quel negozietto che li porta dal paesino”
“Io passerò a prendere i gamberetti freschi “
“A stasera”.
Per andare oltre all’Incomprensione, che fa dire ai partner “Non capisco perché non mi capisce” e che nasconde la seduzione, attraverso la quale si sono incontrati, è utile che i partner imparino a mediare e a negoziare sulle regole e sulle abitudini quotidiane, sulle esigenze della convivenza e su tutte le altre necessità che appartengono alla loro relazione. In questo modo potranno ritrovare un contatto che faccia superare l’incomprensione reciproca.
Infine, per mantenere la relazione nel caso in cui vi sia uno stallo doloroso dovuto ad un rapporto basato sulla subalternità di uno o dell’altro dei partner relazionali, è indispensabile che gli interlocutori si riconoscano reciprocamente nelle rispettive peculiarità.

 

BIBLIOGRAFIA

BARBAGLI L., (2010), Semiotica della corporeità, Prevenire & Possibile.
FROMM E., (1970), L’arte di amare,Mondatori.
LA ROUGE P., Amateci così,Sperling & Counfer Editore.
MASINI V., (2009) Dalle Emozioni ai Sentimenti, Prevenire & Possibile.
TROIANI D., Quattro laboratori per migliorare le relazioni, www.prepos.it.


PARTE QUARTA
VIVERE LA DISTANZA, LA SOLITUDINE, IL LUTTO

 

Le giuste distanze relazionali

“Nella società tecnologica uomini e donne cercano nel Tu il proprio Io e nella relazione non tanto il rapporto con l’altro, quanto la possibilità di realizzare il proprio Sé profondo, che non trova più espressione in una società tecnicamente organizzata, che declina l’identità di ciascuno di noi nella sua idoneità e funzionalità al sistema di appartenenza.
Per effetto di questa situazione nella nostra epoca l’amore diventa indispensabile per la nostra realizzazione, come mai lo era stato, e al tempo stesso impossibile, perché nella relazione d’amore ciò che si cerca non è l’altro, ma, attraverso l’altro, la realizzazione di Sé.
L’amore perde, così, tutti i suoi legami sociali e diventa un assoluto (ab soluto=sciolto da), in cui ciascuno può liberare quel profondo se stesso, che non può esprimere nei ruoli che occupa nell’ambito sociale (Umberto Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli, 2005,p5).
Ovvero nella nostra società, dove l’apparenza imposta da qualsiasi ruolo prevarica la possibilità di esprimere ciò che si è autenticamente, i rapporti affettivi (di qualsiasi natura) diventano le uniche relazioni in cui l’individuo si sente autorizzato a esplicitare all’altro ogni parte di sé, ogni pensiero, ogni sensazione, in uno scambio che troppo spesso più che essere un confronto, rappresenta uno sfogo emozionale, uno svelamento fine a se stesso.
Così il partner (amico, figlio, genitore, compagno, ecc)è costretto a maneggiare tutta la massa affettiva, sensoriale, intellettuale, che l’altro pretende di liberare su di lui/lei più che con lui/lei.
Quando entrambi gli interlocutori  capricciosamente hanno la convinzione che l’amicizia e l’amore consista nel “dirsi tutto”, nel “darsi tutto”, troppo spesso rimangono imbrigliati in una totale solitudine , in cui l’altro si sceglie per il bisogno che si ha di lui.
In questo tipo di rapporti, diffusissimi, l’altro diventa l’oggetto del desiderio, diviene lo specchio in cui rimirare se stessi, diviene l’orecchio paziente che a tutto deve dare ascolto e che tutto deve sopportare in nome di un’amicizia o di un amore, che  fanno di lui una sorta di pupazzo.
Non ci può essere, in queste circostanze, il piacere di condividere momenti, situazioni, progetti.
Non ci può essere il piacere di scoprire l’altro per quello che è, con i difetti, ma con quelle differenze caratteriali, che possono arricchirci.
Il paradosso ulteriore si verifica quando, per essere ancora più in intimità con un altro che non sa chi siamo, fingiamo seduttivamente di avere quelle caratteristiche che pensiamo a lui/lei gradite.
Si instaura un complesso gioco delle parti in cui tutti sono maschere, degli avatar, che recitano all’altro il personaggio che, forse, lui può apprezzare. In tal modo, il reciproco nucleo intimo resta inaccessibile, blindato e corazzato, perché considerato indegno di essere mostrato.
Cioè, ciò che alla fine si mostra sono o le emozioni incontrollate o le maschere.
In entrambi i casi la relazione intima con l’altro è gravemente pregiudicata.
Nel caso delle maschere, all’interno della relazione si strutturano muri di isolamento e solitudine, che vengono riempiti con innumerevoli attività ricreative o lavorative o filantropiche o, nei casi più patologici, con perversione sessuale, a cui viene attribuito il valore di strumento essenziale per valutare l’intimità della coppia, in una ricerca spasmodica di fusionalità, che è perdita di me nell’altro e dell’altro in me.
Nel caso in cui l’altro sia visto come soddisfazione di un bisogno, si verifica una fusionalità reciproca, dove le persone, idealizzandosi, hanno la sensazione di rispecchiarsi nell’amore dell’altro.
Anche qui l’obiettivo finale è una ricerca utopica e sconsiderata di simbiosi, più adatta ad un legame madre/neonato, che a due partner o a due amici, o al rapporto genitore/figlio adolescente.
In altre parole, lasciare andare ogni proprio desiderio per conformarsi al desiderio dell’altro è folle esattamente come rimanere centrato esclusivamente sui propri desideri e progetti, ai quali tutto il resto viene subordinato (Rosen Nicole Cres, La Passione di Sabina, Ed. La Tartaruga, 2003, p 214).
In entrambi i casi il dosaggio della distanza non è armonico. Nel secondo caso la distanza relazionale diviene eccessiva e la persona diviene quasi autistica nel perseguire la realizzazione di sé, dei propri scopi, dei propri valori.
Nel caso in cui, invece, la distanza relazionale sia assente l’individuo si lascia schiacciare dall’altro, considerando il darsi totalmente l’unico possibile modo di amare e di essere amico e/o genitore.
Le dipendenze relazionali contraddistinguono proprio quei rapporti in cui l’identità individuale è confusa a favore di un Noi, che non tiene più conto dell’Io e del Tu, ma che si trasforma in un miscuglio in cui i desideri personali si perdono e la persona si sente obbligata ad agire nel modo che ritiene accettabile dal partner.
La dipendenza è laddove non si può fare a meno dell’altro e si esprime con frasi del tipo “Ti penso sempre”.
Di fronte ad una frase del genere un figlio può convincersi di non poter vivere senza che la madre lo pensi costantemente e un partner può sentirsi obbligato e lusingato  da tale affermazione, tanto da immaginare di rimanere svuotato di senso in assenza di qualcuno così tanto capace di amarlo.
Per valutare la giusta distanza in una relazione è sufficiente verificare quanto del proprio tempo è dedicato più o meno direttamente a quella persona, a quel progetto, alla dedizione verso quel Credo.
E’ importante, soprattutto, considerare la varietà delle relazioni vissute e la possibilità che si ha di soffermare il pensiero, la dedizione, la cura in molteplici direzioni.
Ovvero, per cominciare a riconquistare la giusta distanza da una relazione è essenziale riappropriarsi del proprio tempo e del proprio spazio mentale, affrontando e superando, via via, la sensazione di togliere colpevolmente qualcosa all’altro e la sensazione che non possiamo sopravvivere senza fissare il pensiero sempre nella medesima direzione.
In particolar modo, è importante questo passaggio negli adulti che, vissuti legami infantili insicuri, non riescono a spostare l’attenzione sul partner, perché ancora eccessivamente coinvolti nelle relazioni con la famiglia di origine.
In genere questi adulti non riescono a costruire legami affettivi saldi, se non nel caso in cui anche il partner non venga invischiato nella saga familiare.
Peraltro, nella fase iniziale di un rapporto è necessario dedicarsi molte attenzioni, riservando alla conoscenza reciproca, all’attaccamento e alla cura molto tempo, molto spazio e molte energie.
Il rapporto diviene via via più denso e intenso, fino al punto che i partner hanno paura di perderlo (Emanuela Mazzoni, Le relazioni di dipendenza, gelosia, invidia, www.prepos.it).
D’altro canto, nella società dell’efficienza e dell’affermazione personale, la fedeltà familiare perde il suo connotato di valore etico, per divenire il principale strumento che garantisce la tranquillità emozionale necessaria ad avere il tempo e lo spazio mentale per dedicarsi alla propria crescita individuale.
Ovvero la stabilità relazionale garantisce sicurezza e allontana il rischio che desideri di ulteriore espansione , distanzino dall’illusione che tutto possa rimanere uguale a se stesso per sempre  e che si possa fermare il tempo.
Attraverso questa illusione si rimane attaccati ad un immagine del partner, dei figli, della realtà immodificata, negando i cambiamenti costanti che avvengono nelle persone e nell’ambiente.
L’abitudine spegne il desiderio e la curiosità  e, ancora una volta, la capacità di vedere l’altro così com’è e non come lo si  vuole vedere.
Ovvero, la dipendenza fusionale è ciò che meno consente alle persone di relazionarsi tra loro.
Infatti, solo alla giusta distanza è possibile osservare l’insieme di un quadro, la complessità di un paesaggio.
In “Tradimenti” (di Gabriella Turnaturi “Cit. in Galimberti, 2005) si sottolinea che quando uno o l’altro dei partner escono dal Noi, più che voler fare del male all’altro, sono alla ricerca di espansione della propria identità.
“…L’abbraccio mortale del Noi non emancipa, non consente né crescite, né arricchimenti e neppure parole da scambiare, che non siano già dette e già sapute prima che siano già dette
Tutto questo per dire che l’amore non è possesso, perché il possesso non tende al bene dell’altro, né alla lealtà verso l’altro, ma solo al mantenimento della relazione che, lungi dal garantire la felicità, che è sempre nella ricerca e nella conoscenza di sé, si sacrifica in cambio della sicurezza.
I cambiamenti,  sono sempre e ovunque e , aumentando l’esperienza e la competenza, incrementano l’autostima e l’attitudine all’autodeterminazione.
Ciò rende l’individuo maggiormente autonomo emozionalmente, dunque, capace di essere libero e di vivere la libertà.
Ma affinchè la libertà rimanga tale e non diventi anarchia dei costumi e dispersione mentale ed emozionale, l’individuo deve prima esser disponibile ad assumersi la responsabilità di interrompere le relazioni in stallo o distruttive, conducendo con accuratezza il percorso del distacco, affinché la separazione sia un’ opportunità di evoluzione e non un’occasione di infinite recriminazioni e risentimenti.
D’altronde, la libertà è proprio la giusta distanza da ciò che internamente e esternamente può bloccare l’espansione dell’Io.
Tra le circostanze per cui l’individuo può decidere di rinunciare all’espansione c’è sia la scarsa autostima (come già accennato) e la paura dei propri limiti, sia, (e soprattutto) il timore che le proprie potenzialità e risorse obblighino a uscir fuori dalle sicurezze e ad assumersi responsabilità maggiori verso se stesso e verso altri.
In sintesi, la paura dei cambiamenti è, quasi sempre, paura della responsabilità, paura che gli altri perdano l’idea che hanno di noi, paura di non essere realmente all’altezza degli obiettivi tanto fantasticati.
Secondo Berne  la libertà relazionale presuppone che entrambi i partner siano sullo stesso piano, il famoso “Io sono oK , tu sei ok”. In tal modo la comunicazione reciproca si spoglia di giochi e convinzioni irrazionali, divenendo trasparente, congruente e autentica e reciprocamente responsabile.

Solitudine marginale e solitudine creativa

 

“Quando il bambino è capace di stabilire un rapporto con il mondo, è  pronto per il passo successivo, che consiste nel riconoscimento della solitudine fondamentale di ogni essere umano.
Questo stato di solitudine ineliminabile, da cui l’essere emerge e a cui ritorna, è una condizione intrinseca e fondante dell’esistenza umana: è il silenzio delle origini , quello stato che precede l’essere vivi  e che ispira  a tutti noi le fantasie circa la nostra morte. Ogni esperienza creativa si alimenta di questo grande silenzio interiore.“(CAROTENUTO A., Vivere la distanza, Bompiani, 1998).
L’affermazione di Carotenuto sottolinea in modo inequivocabile che il senso di solitudine è uno stato d’animo essenzialmente umano, generato dalla consapevolezza che una gran parte del nostro mondo interno non è comunicabile e che tutto ciò che riguarda il prima e il dopo di noi è assolutamente in conoscibile, se non per ipotesi.
Peraltro, la coscienza della solitudine non esiste alla nascita.
Inizialmente il bambino sperimenta uno stato di fusionalità con la madre e con chi lo accudisce. Il distacco momentaneo dai genitori ingenera angoscia. Tuttavia, nelle situazioni di buon maternage il piccolo in breve impara che chi se ne occupa riappare sempre e soddisfa i suoi bisogni.
Ovvero, nella prima fase della vita è l’attaccamento a difendere il bambino dall’angoscia di solitudine, che diviene paura della morte, visto che si sente impotente di fronte alla grandezza del mondo e all’impossibilità di badare a se stesso.
A questo proposito, il sociologo  Francesco De Masi (Trauma e Distruttività, Franco Angeli, 2008) afferma:
“Questo legame all'inizio è diretto a chi si prende cura di noi, in genere alla madre, ma si estende progressivamente alla famiglia e al gruppo di appartenenza, alla comunità religiosa o politica, o alla patria. Questi oggetti hanno una funzione protettiva contro il disorientamento e il senso di solitudine e per questo sono altamente valorizzati. Quando questi contenitori si rompono, oltre al dolore e al lutto, emergono anche angosce catastrofiche simili a quelle sperimentate nello stato di inermità e di mancanza di difese del­l'inizio della vita.”
Tuttavia, la perdita dell’altro o del gruppo di appartenenza , con il distacco che ne consegue, divengono  traumatici solo quando la persona non ha ancora appreso la capacità di stare nella propria solitudine.
La solitudine, infatti, se nella prima parte della vita assume il significato minaccioso di assenza di accudimento, può nelle fasi successive della vita divenire una risorsa indispensabile per l’espressione creativa e per l’autonomia individuale.
Nel caso in cui questo passaggio non avvenga  la persona può continuare a considerare le relazioni affettive come un bisogno intransigente, da vivere come stampella del Sé. In questi casi la presenza costante del partner è pretesa  come segno tangibile e unico di amore, mentre l’assenza viene vissuta come assenza dell’amore. Così i rapporti diventano reti con maglie sempre più strette, in cui l’identità personale viene stritolata (BOGGIO GILOT LAURA, Forma e Sviluppo della coscienza, www.psicologia transpersonale.it It, p.81).
L’incapacità di vivere la solitudine denota uno stato di carenza infantile, in cui non si è sviluppata l’attitudine a vivificare il vuoto dell’assenza con immagini positive vissute o immaginate, con intrattenimenti e interessi, con manifestazioni oggettivate del proprio mondo interno attraverso la  creatività.
In altre parole, lo stato adulto è quella condizione in cui la persona non si appoggia per il proprio sostentamento, né ha bisogno di altri per stare bene con se stessa (GIULIO CESARE GIACOBBE, Alla ricerca delle coccole perdute. Psicologia rivoluzionaria per il singol e per la coppia, Ponte alle  Grazie, 2004)
L’adulto è colui che non ha bisogno dei genitori per affrontare il proprio senso di solitudine e che ha compreso, attraverso il dolore, che la propria felicità, per durare, non può essere delegata.
Avendo il coraggio di affrontare la disperazione conseguente alla presa di coscienza di esser soli,si diviene adulti e capaci di fronteggiare i distacchi e le perdite che ogni esistenza comporta senza rimanere incastrati nel senso di disintegrazione e di abbandono.
Secondo Daniel Goleman (Intelligenza Emotiva, Bur, 1999, p.210) le donne sono più capaci a fronteggiare la solitudine. Non  A caso , dopo una separazione o un lutto, è molto più alto il numero delle donne che scelgono di rimanere sole, rispetto a quello degli uomini.
La donna, infatti, è spesso dopo un abbandono o una perdita che conosce la sua indipendenza e la sua emancipazione e che, per la prima volta nella vita, impara a decidere per se stessa, senza dover rendere conto ad altri .
D’altronde, come ricorda Carotenuto (op.citata) per secoli alle donne non è stato consentito di rimanere sole, di viaggiare da sole, neanche di andar sole a far compere.
Poiché lo studio era ritenuto un vezzo di dubbio gusto per il genere femminile, alle ragazze non era neanche consentita la solitudine necessaria all’apprendimento.
Il divieto di attribuire alle donne uno spazio dove ritirarsi a creare o a riflettere era giustificato dalla convinzione che la riproduzione fosse l’unica attività creativa sana a cui il genere femminile potesse dedicarsi.
Anche le donne dedite a scrivere non avevano la possibilità di ritirarsi in uno spazio solitario ed erano costrette a creare nelle stanze di condivisione comune, cosa di cui si lamentava la stessa Virginia Wolf.
E’ possibile che sia stata proprio l’inaccessibilità alla solitudine creativa ad aver reso la donna più resistente all’isolamento, ovvero alla sensazione soggettiva di esser tagliati fuori dal mondo degli altri, senza avere nessuno a cui rivolgersi.
L’isolamento e la desolazione costituiscono l’altra faccia della solitudine. Mentre la solitudine creativa è una terapia rigenerante per l’equilibrio individuale, nella desolazione la persona incontra l’apatia e , soprattutto, la perdita di desiderio, il vuoto, la noia, l’alienazione.
E’ la sensazione di esser soli e abbandonati nella moltitudine, dovuta all’incapacità di gettare un ponte tra il sé e l’altro. E’ l’incapacità di chiedere aiuto o, ancor più terribile, l’impossibilità di accettare il conforto  che viene offerto, perché non si è in grado di riconoscerne la valenza o perché, ancor peggio, si sente di non aver motivi per accettare quel conforto o non si considera l’altro che lo offre.
D’altra parte, è il desiderio, è l’idea di avere ancora prospettive e progetti da realizzare ad alimentare la speranza e, dunque, la voglia di vivere.
Fermo restando la motivazione di base che è per tutti la ricerca di senso, l’uomo è spinto in due direzioni opposte. Da una parte c’è il divenire e il sentirsi partecipe della vita di un gruppo, di un sistema, la ricerca dell’intimità e della relazione , dall’altra il bisogno di sentirsi separato, autonomo e autodiretto, protetto nella propria dimensione privata e individuale e addirittura il bisogno di sentirsi unico relativamente ad alcune capacità e competenze.
Ogni individuo ha bisogno di uno spazio interno che sia al riparo dall’invasività e dallo sguardo degli altri, un luogo in cui sia possibile recuperare energie o prendersi cura delle parti più fragili del sé. L’individuo si centra , cioè struttura il nucleo stabile della personalità e la sicurezza nella continuità del proprio essere nel mondo, proprio sulla base della sua esperienza interna, quella che si può definire privata, personale, in parte segreta.
Ed è nella zona privata, nello spazio libero dagli altri, che emerge la creatività, l’espressione in materia, rappresentazione, musica, parole di qualcosa che è profondamente interno, che appartiene al nucleo intimo individuale.
Ogni atto creativo richiede assoluta abnegazione, costanza e impegno: tutto viene trascurato all’infuori della creazione in un’esclusività totale, che deforma e dilata il tempo, o lo contrae seguendo solo il ritmo del travaglio emozionale e intellettuale, immergendo la persona nel flusso autocentrato di stimoli, che non hanno bisogno del mondo esterno per prodursi, sebbene da esso prendano spunti.
La persona creativa è quella che vive la solitudine come opportunità di confronto con la propria dimensione interiore, sebbene in essa possa incontrare i propri fantasmi e le proprie inquietudini.
Al contrario, l’individuo che fugge la solitudine è colui che ha un’identità poco definita, che si confonde con la massa e con essa si identifica, assoggettandosi ai pensieri e ai comportamenti imposti dall’esterno.
“E oggi annovererei addirittura tra i sintomi dello spirito libero, il fatto che egli preferisca andare solo ,volare solo, e qualora abbia gambe malate, persino strisciare da solo.”
(Nientschze)


FERITA O FERITOIA: IL LUTTO SANO E IL LUTTO PATOLOGICO

La rottura di un legame affettivo, di qualunque natura, comporta la necessità di modificare radicalmente la propria percezione della realtà e, spesso, l’immagine di sé. In questo caso è molto difficile tirarsi fuori dalle macerie interne ed esterne e risorgere verso una vita parimenti sensata e verso un’ idea di sé rinnovata.
La persona che vive una separazione, anche nel caso in cui l’abbia scelta, sente di esser morta e sente che deve far morire l’immagine dell’altro dentro di sé.
Aldo Carotenuto (1998, p.186) affermava che la separazione e la morte sono associate, dal momento che la prima è messaggera e simbolo della seconda. In tal senso, indagare i vissuti legati alla rottura del legame affettivo equivale ad indagare la presenza e il vissuto della morte nostra e di chi amiamo.
“La morte dell’altro è anche la nostra morte, ciò che ci consegna alla solitudine e all’abbandono, sradicando pure quell’esperienza primigenia di contatto che è nella relazione madre-bambino...D’altra parte è proprio nello spazio di questa assenza mortale che si attiva la vita, sebbene fatta di gesti frenetici e insensati, che andrà a ricostruire  la speranza perduta”(Carotenuto, op.cit.,p.189).
D’altra parte, qualunque legame affettivo, anche il più solido e autentico, è destinato ad essere sciolto con la morte. Questo è un dato di realtà che spesso viene volutamente ignorato dalle persone.
Il paradosso dell’umanità consiste proprio in questa diffusa rimozione della questione “morte”. Sebbene, infatti, l’unica cosa che ci accomuna tutti e che tutti riguarda sia la fine della vita; tuttavia l’esistenza in molti casi è orientata a dimenticare l’incontro con la fine o a procrastinarlo in modo paradossale, attraverso tecniche di accanimento terapeutico su corpi pressoché inanimati o su persone tanto anziane e vissute da non avere più la forza, né il desiderio di vivere altre esperienze.
Elisabeth Kuble Rose nel suo libro “La morte e il morire”, (Cittadella Editore) afferma che oggi la morte è ripugnante esattamente come nei secoli passati. Il vero cambiamento nel vissuto del morire consiste nella sua disumanizzazione.
La consuetudine di ospedalizzare il moribondo per allontanare dalla casa simbolicamente il dolore e la ripugnanza legata alla morte aumenta in chi abbandona la vita lo smarrimento e il senso di solitudine e impotenza, oltre che la preoccupazione per sé e per i suoi familiari.
Anche per i bambini , soprattutto quelli sopra i tre anni, l’impossibilità di partecipare ai riti della morte e di esprimere il proprio sgomento può essere più traumatico del contatto visivo con il morto.
Spesso questi piccoli riferiscono il senso di colpa per non aver salutato o la collera perché la persona morta non li ha salutati.
L’ultimo saluto in vita dà al morente e ai suoi cari la possibilità di condividere un momento irripetibile, in cui ogni cosa vissuta assume un senso eterno e, al contempo, perde totalmente di significato. La condivisione del momento finale è un dono che il morente fa a chi resta, se è capace di dare ad essa un senso, se si è preparato ad una buona morte, che possa essere rappresentazione e simbolo dei passaggi della sua esistenza.(Maggi, 2004, p.2)
D’altronde, è proprio la presa di coscienza del morire che oggi si cerca di evitare.
E’ opinione comune che la morte migliore sia quella improvvisa, che magari avvenga nel sonno.
In ciò è cambiato moltissimo il vissuto di fronte alla morte. Oggi la mortalità non viene considerata più la causa naturale del fine vita, bensì ad essa devono essere trovate delle ragioni di qualunque natura, anche psicologica!
Ovvero la morte è divenuta un tabù molto più resistente di tutti gli altri e per rimuoverne la presenza e il conseguente dolore del distacco si sono ridotti al minimo i riti ad essa collegati e i tempi concessi a chi è rimasto per elaborare il lutto.
Questo stato di cose giustifica ampiamente la riluttanza generalizzata ad affrontare con il malato terminale le questioni legate alla sua morte.
Molto spesso la persona morente, dopo un primo momento di smarrimento e negazione del problema , avrebbe il desiderio di poter narrare la propria angoscia o di potersi confrontare sui propri dubbi e gli interrogativi, che forse mai prima si è posta.
Troppo spesso questo desiderio cade nel vuoto, dal momento che familiari e medici simulano una serenità, che costringe al silenzio.
Anche i preti, ammaestrati dai parenti, raccontano una verità non vera. In tal modo viene impedita alla persona l’elaborazione del proprio lutto, attraverso l’uso di un tappo emozionale, che serve soprattutto a chi non vuole affrontare la disperazione dell’altro.
Se in molte circostanze il morente si trova circondato da un gioco paradossale di finzioni, in altri casi, altrettanto disumanizzanti, alla persona viene tolta la possibilità di sperare e, dunque, di attivare energie per combattere il male.
Il cinismo di medici incapaci di gestire le proprie ansie di morte e l’eccessiva ricerca di chiarezza di alcuni familiari mettono la persona malata di fronte ad una verità, che ancora non è pronta a contrastare. L’eccessivo carico che viene gettato addosso al malato può essere così sproporzionato  da annichilire ogni possibilità di resistenza al male e da disintegrare ogni volontà di combattere.
In altre parole, la malattia può essere il periodo elettivo per prepararsi ad una buona morte, solo se la persona viene rispettata nelle sue esigenze emozionali e cognitive, al di là del suo stato fisico effettivo.
E’ necessario ricordare che anche chi sta male è un essere umano e ha il diritto ad avere un’opinione, dei desideri; ha soprattutto diritto di dire di no, quando non vuole più sottoporsi alle cure o se intende rifiutare un operatore, perché incapace umanamente.
Peraltro, dal momento che la morte è una certezza, sarebbe opportuno che l’individuo si confrontasse con questa idea ben prima del fine vita.
Infatti, solo trovando delle soluzioni al dopo morte che siano il più possibile rassicuranti, la persona è in grado di vivere la vita con pienezza, liberata dai gravami dell’angoscia di morte.
Per far ciò è importante aver avuto iniziali esperienze di lutto non traumatiche e adulti capaci di parlare con libertà delle ansie e dei timori legati al distacco.
Al contrario, trovarsi di fronte ad adulti terrorizzati o inflessibili nella rimozione della questione “morte”, riempie il bambino di vuoto e di senso di frustrazione.
Talvolta gli  adulti, eccessivamente orientati alla trasparenza e all’autenticità, tendono ad escludere  racconti  immaginari positivi concernenti il prima del concepimento e il post mortem.
Eppure è proprio l’idea di far parte di un universale cambiamento costante in cui tutto si rigenera in altre forme a restituire un senso a ciò che accade all’individuo.
Talvolta, ci si scontra all’improvviso  con una malattia grave o con la morte di una persona cara senza mai essersi posti il problema del distacco.
Nella società attuale in cui il dolore viene sistematicamente rifiutato, chi è intorno spesso stimola a riprendere subito la vita precedente, finanche a trovare in breve un partner sostitutivo o, se la perdita ha riguardato un figlio, a cercare in breve un’altra gravidanza.
Il tempo per il dolore viene rimosso e negato, in nome di una forza che è solo incapacità di affrontare la perdita.
Ciò condanna alla patologizzazione del lutto, che si trascina per sempre nell’inconscio , accompagnato da sensi di colpa e di inadeguatezza, da collera e desiderio di rivalsa.
Dopo una perdita, una rottura affettiva o una morte, è essenziale prendersi del tempo per stare male, per confrontarsi con le parti di sé frantumate dal distacco e per chiudere gli irrisolti e i sospesi con chi è andato via.
Senza volersi legare eccessivamente a una definizione temporale, si può dire che il tempo del dolore acuto, dello shock dovuto al distacco è di circa quaranta giorni, in cui sarebbe opportuno permettere/obbligare la persona a rimanere nel silenzio, evitando feste e ritrovi particolarmente caotici.
Stare nel dolore, per quanto terrificante possa sembrare, fornisce l’opportunità di incontrare il proprio Sé più nudo e apparentemente più vulnerabile, la propria essenza, da cui ripartire per una nuova vita.
Dopo questa fase di silenzio e riflessione, in cui molto si dovrebbe parlare di chi si è perduto, si passa a un momento di condivisione maggiore, in cui appaiono i sogni e le fantasie, in cui i rituali della morte si riducono. Anche in questa fase si dovrebbero evitare grandi feste, sebbene sarebbe consigliabile ricominciare a stare all’aria aperta e riprendere la cura di sé e dell’ambiente in cui si vive.
Questo momento dura circa sei mesi e continua successivamente con un periodo di elaborazione vera e propria in cui la coscienza del distacco diviene definitiva e la persona impara a confrontarsi con le immagini che ha dentro. Questo è il periodo in cui, progressivamente, si possono e devono prendere decisioni
Di solito, l’elaborazione di un lutto significativo o di una perdita affettiva o di un cambiamento radicale nel modus vivendi non avviene prima di due anni.
Questo lasso di tempo si prolunga nel caso in cui la morte colpisce in età già matura un partner di lunga durata.
La cronicizzazione del lutto, che blocca la vita in case mausolei e in rituali ciclici che interferiscono con l’evoluzione individuale avviene, di solito, quando il rapporto con chi è mancato non è stato risolto o la morte non è stata buona o chi rimane usa il lutto per manipolare gli altri membri della famiglia.
Il lutto diviene patologico nei casi in cui le persone non vogliono o non riescono ad accettare la nuova realtà e i cambiamenti della loro identità da essa richiesti.
D’altronde, amare un morto è spesso molto più facile che relazionarsi ad un vivente. Il morto non ci contraddice e viene progressivamente trasformato in un’icona che poco ha a che fare con la realtà che fu.
Dunque, la persona morta può essere trasformata a piacimento di chi rimane, che può utilizzarla come alibi .
Chi rinuncia ad accettare il cambiamento è colui che non è riuscito a strutturare un Sé indipendente dal mondo esterno ed è rimasto invischiato, in qualche modo, nell’illusione della fusionalità originaria.
D’altronde, come ricorda Gianna Schelotto (2002, p.7), ogni giorno moriamo un po’ senza esserne consapevoli, dal momento che circa 10.000 delle nostre cellule subiscono un ricambio quotidiano.
I cambiamenti ci garantiscono un’evoluzione e consentono al Sé di rinnovarsi.
Non a caso coloro che escono fuori sanamente dall’elaborazione di un lutto, o dalla rottura di un legame affettivo o da un radicale mutamento nel modus vivendi assumono un atteggiamento che rasenta l’arroganza rispetto alle debolezze altrui. Hanno imparato che sono in grado di sopravvivere. Hanno imparato che  la vita è andata avanti, anche quando loro l’avrebbero voluta fermare o si sarebbero voluti fermare ad aspettare qualcuno che rimaneva indietro, un partner, un amico, un collega, un figlio, il proprio Sé bambino.
Perché spesso i cambiamenti si ritardano per timore di tradire l’altro; si rinuncia a una nuova vita sentendosi in colpa verso chi la vita non l’ha più…
D’altronde, lo stesso Darwin affermava che sopravvive il più adattabile non necessariamente il più forte (in Carotenuto, 1998, 156). Ovvero l’evoluzione personale non può prescindere dall’adattamento ai cambiamenti necessari sia alla sopravvivenza, sia all’ulteriore espansione del Sé.
“Ogni colpo di remi allontana il barcaiolo dalla riva e lo avvicina alla riva opposta…Ogni istante che viviamo ci strappa dall’istante appena vissuto…
La vita umana è conquista, creazione, crescita, distacco…
Nel distacco, vissuto come perdita, avvertiamo un senso di disordine minaccioso, una disarmonia. Di fronte a  tutto questo ci si può abbandonare alla deriva oppure individuare una direzione e remare…
Accettare che si vive e si cresce solo attraverso piccole e grandi separazioni è un modo di governare la barca…forse l’unico!” (SCHELOTTO, op.cit., p.3)

 

BIBLIOGRAFIA

AAVV, Il Counseling come processo di aiuto per la crescita umana, Lucca, 2007.
BERNE E., A che gioco giochiamo? Bompiani Editore.
CAROTENUTO A., Vivere la distanza, Bompiani, 1998.
GALIMBERTI U., Le cose dell’amore, Feltrinelli, 2005.
KRES R.N., La passione di Sabina, Ed. La Tartaruga, 2003.
KUBLE ROSE E., La morte e il morire, Cittadella Editore.
MAGGI A., La morte, Conferenza tenutasi presso l’Antonianum, Padova, novembre 2004.
MAZZONI E., Le relazioni di dipendenza, gelosia, invidia, www.prepos.it.
SCHELOTTO G., Distacchi ed altri addii, Mondatori, 2002.

 


PARTE QUINTA
DALLA PANCIA AL CUORE:IL PERCORSO VERSO UNA GENITORIALITA’ ADULTA

 

Latte e miele:nutrimento e gioia di vivere

“L'affermazione della vita del bambino ha due aspetti; uno è rappresentato dalle cure necessarie alla preservazione della vita e alla crescita del bambino. L'altro aspetto va oltre la pura e semplice conservazione: è l'attitudine che instilla nel bambino un amore per la vita, che gli dà questa sensazione: è bello essere vivi, è bello stare su questa terra! Questi due aspetti dell'amore materno sono espressi in modo molto semplice nella storia biblica della creazione. Dio crea il mondo e l'uomo. Ciò corrisponde alla semplice affermazione della esistenza. Ma Dio va oltre. Ogni giorno dopo che la natura, o l'uomo, sono stati creati, Dio dice: "È bello." L'amore materno, in questo secondo stadio, fa sentire al bambino che è bello essere nato; instilla nel bambino l'amore per la vita e non solo il desiderio di restare vivo. La stessa idea può essere applicata ad un altro simbolismo biblico. La terra promessa (terra è sempre simbolo di madre) è descritta come "traboccante di latte e di miele". il latte è il simbolo del primo aspetto dell'amore, quello per le cure e l'affermazione; il miele simboleggia la dolcezza della vita, l'amore per essa, e la felicità di sentirsi vivi. La maggior parte delle madri è capace di dare "latte", ma solo una minoranza di dare anche "miele". Per poter dare miele una madre non deve soltanto essere una "brava mamma", ma una donna felice, e non tutte ci riescono. L'amore della madre per la vita è contagioso, così come lo è la sua ansietà; ambedue gli stati d'animo hanno un effetto profondo sulla personalità del bambino; si distinguono subito tra i bambini - e gli adulti - coloro che ricevono soltanto "latte" e coloro che ricevono "latte e miele"(ERICH FROMM, L’arte di amare, 1970, p.31). Peraltro, come dimostrano moltissimi studi tra i quali quelli del celebre ricercatore Bowlby, il cucciolo umano necessita di tenerezze e coccole per il suo sviluppo, molto più che di cibo.
Un’affermazione di questo genere solo nella cultura americana poteva maturare.
Infatti, il primo articolo della Costituzione degli USA sancisce che ogni cittadino ha il diritto a perseguire con impegno la propria felicità.
Ovvero, la felicità è un diritto di cittadinanza e, quindi, un diritto dell’essere umano in quanto tale.
Per essere felice, però, non è sufficiente un’autorizzazione legislativa.
E’ indispensabile, come sottolinea Fromm, che qualcuno ci insegni la gioia di vivere.
La gioia di vivere è interna all’individuo e prescinde, almeno in parte, dalle circostanze esterne.
La gioia di vivere è un atteggiamento aperto e positivo verso il presente e il futuro, verso la possibilità di raggiungere i propri progetti e di realizzare i propri sogni. La gioia di vivere è la coscienza che è bello essere al mondo, , perché la vita è un’opportunità meravigliosa.
Ma la gioia di vivere, come tutte le cose della vita, è il prodotto di un apprendimento.
In questo caso, l’apprendimento non è dato dalla messa in opera di comportamenti, ma dall’osservazione di modelli.
La madre è la figura principale da cui il piccolo d’uomo impara ad essere felice di essere al mondo.
Allevare un bambino, prendersi cura delle sue esigenze non è sufficiente.
Nessuna persona può godere del sapore dell’esistenza, se non è stata educata a farlo.
La madre è lo strumento principale di questa educazione.
Una madre felice di vivere (non necessariamente felice della propria vita), piena di sogni e di speranze, soddisfatta di sé arricchisce la vita di suo figlio di una risorsa di valore inestimabile.
Per essere capace di donare anche il miele, oltre il latte, la madre deve sentire di avere una vocazione, una missione per cui vivere a prescindere dalla maternità.
Natalia Kinsburg(in ALDO CAROTENUTO, Vivere la distanza, Bompiani, 1998)  sostiene che , quando la donna abbandona o tradisce i suoi sogni, si aggrappa al figlio come un naufrago si aggrappa alla zattera e cerca di farne la sua opera d’arte, per avere un senso nella vita. In questo modo il bambino sarà defraudato del diritto di essere felice in quanto essere umano autonomo e dovrà essere esclusivamente in quanto figlio di sua madre.
Ovvero, questo figlio non sarà mai partorito e non riuscirà ad assaporare il gusto dell’esistenza.
E’ quello che accade nel caso in cui la madre , delusa dal partner e frustrata nelle sue aspettative, concentri ogni suo sforzo nell’allevamento di un figlio, rimanendo cieca e sorda all’interesse di ogni altra dimensione dell’esistenza, finanche rimanendo indifferente alla cura di altri figli o di altri bambini che non siano il suo prescelto.(FABIOLA DE CLERQ, Fame d’amore, BUR, 1998, p.121).
In questi casi, fin dall’infanzia, il piccolo sentirà il dovere oppressivo di essere il riscatto esistenziale della  madre, responsabilità talmente più grande di lui, da intristirne precocemente l’umore . In più,precocemente il bambino sarà afflitto dal terrore di non essere perfetto e dall’ansia di prestazione , spostata su di lui dai genitori, in particolar modo dalla madre
“I bambini possono rimanere schiacciati dall’obbligo di primeggiare”(VITTORINO ANDREOLI, E vivremo sempre liberi dall’ansia, Edizioni BUR, 1999, p 78).
Il bambino oppresso  , eccessivamente caricato di aspettative o, al contrario, squalificato e/o trascurato, avrà difficoltà a sperimentare quella fiducia naturale nei confronti dei genitori, indispensabile per sviluppare immagini interne positive, che possano essere un faro per lui e guidarlo anche nell’età adulta.
D’altro canto, l’amore è un’esperienza basilare per il cucciolo d’uomo, che lo impara attraverso, baci,carezze e abbracci (MASAL PAS BAGDADI, A piedi scalzi nel kibbutz,Edizioni Bompiani, 2002, p.134).
Quando la comunicazione affettiva dei genitori è glaciale, il loro sguardo può gelare la crescita emozionale dei figli e la gioia di vivere diviene totalmente aliena dalla personalità.
L’amore glaciale offerto in questi casi ai figli si contraddistingue anche da una ricerca di sostituti, parentali, che spesso sono altrettanto incapaci di coinvolgimento affettivo.
Tali circostanze producono un vuoto abbandonico che si riempie di fantasmi inquietanti, , che anneriscono l’approccio alla vita e, in un certo senso, riempiono di catrame le ali del futuro adulto, che non riuscirà, per questo, a librarsi in volo facilmente.
A proposito dell’amore verso i figli e della sua influenza sulla propensione positiva verso la vita, lo psichiatra Paolo Crepet nel libro “I figli non crescono più” afferma:
“Ci sono amori che fanno morire e altri che fanno crescere”.

 

Figlio Ideale e Reale, genitore ideale e immaginario

Negli ultimi decenni la globalizzazione degli scambi e la facilità nel confronto con abitudini, linguaggi, valori differenti sta progressivamente minando, quando non rafforzando, un presupposto filosofico sul quale, fin dall’antica Grecia, si fonda il pensiero Occidentale.
In base a questo presupposto è giusto ciò che è simile a noi e sbagliato ciò che da noi è differente.
Ovvero per secoli si è affermato il predominio della similarità, dell’identità, dell’univocità, sul principio della molteplicità, della diversità, del pensiero creativo e divergente.
Di conseguenza, è un archetipo nella nostra cultura il fatto che i genitori si aspettino dai figli che siano a loro somiglianti, che ricalchino le loro orme, che pratichino il loro credo e i loro valori, se non addirittura la loro professione.
Il ’68 ha aperto la strada a un cambiamento profondo: il rinnegamento e l’abbandono dei codici comportamentali e ideologici dei padri ha reso meno prevedibili le scelte dei figli e gli obiettivi esistenziali sono diventati sempre più prodotti di scelte autonome.
Di conseguenza, è andata via via aumentando la consapevolezza, nei genitori in attesa, che il figlio avrebbe potuto non assomigliare a loro, soprattutto avrebbe potuto non realizzare le loro aspettative.
D’altra parte, come gli psicologi sottolineano da qualche anno, la relazione comunicativa tra genitori  e figli sottintende anche una metacomunicazione, più o meno consapevole, che esprime ciò che secondo quel figlio il suo genitore dovrebbe essere  e la coscienza di ciò che è realmente, ciò che quel genitore pensa che dovrebbe essere suo figlio e ciò che è realmente.
Ovvero i sentimenti tra genitori e figli risentono moltissimo delle aspettative reciproche e delle delusioni conseguenti (Harold Bloomfield, Far pace con i genitori, Rizzoli).
“La madre contiene l’idea del figlio nella sua mente molto prima di concepirlo e con maggiore intensità lo immagina durante la gravidanza. Pensieri, sogni, fantasie, sia belle che brutte, riempiono la sua testa e si proiettano sul figlio non ancora nato”(Masal Pas Bagdadi, Genitore non si nasce ma si diventa, Bompiani, 2002, p.4).
Tutti i cuccioli umani sono programmati per l’attaccamento, che ne tutela la sopravvivenza: quindi, tutti i neonati tendono a stabilire una relazione privilegiata con chi si occupa di loro, indipendentemente da chi esso sia.
La madre, dal canto suo, si trova “costretta” a relazionarsi al suo bambino, anche quando, per qualche ragione, l’impatto con il piccolo sia stato deludente.
In questo caso  inizia una storia di delusioni negate, magari compensati da un iperaccudimento e da un’iperprotettività, che rendono il legame con la madre ambivalente, imprevedibile e poco rassicurante.
Ovviamente l’ambivalenza può instaurarsi anche nella relazione con la figura paterna.
Va sottolineato che è naturale che si formino delle aspettative, ma è dannoso negarle a se stessi, facendole diventare mostri inconsci che agiscono sul figlio in modo latente e  indeboliscono l’autostima e la possibilità del figlio di aver fiducia delle proprie emozioni e delle proprie capacità.
I genitori, naturali o adottivi, intolleranti nei confronti della diversità del loro figlio, si dimostrano sterili affettivamente e, anche se fertili biologicamente, assolutamente non fecondi.
Infatti, c’è differenza tra fertilità e fecondità.
Un terreno fertile può rimanere infecondo se il contadino  è incapace o disinteressato a prendersene cura.
Allo stesso modo, un genitore non riesce a diventare madre e/o padre di quel bambino se non vive come risorsa la diversità del figlio.
Questa che può sembrare una affermazione ovvia si scontra assai frequentemente con interventi genitoriali orientati a forgiare i valori e le scelte dei figli in base a desideri e ideali, che poco tengono in conto il figlio reale, le esigenze specifiche di quel bambino.
L’esito scellerato di questi comportamenti è una progressiva anestesia del desiderio , del progetto esistenziale espressa dagli adolescenti: è la difficoltà in ambito sessuale espressa con promiscuità o con rifiuto o con confusione nell’identità di genere, è l’abuso di sostanze psicotrope per vivere emozioni altrimenti sopite dalla negazione sistematica.
“Il desiderio spot è un desiderio nel presente, un falso desiderio, non personale, ma di massa. E’ il desiderio indotto per formattare un adolescente stereotipato, che risponda alle esigenze del mercato e che, perciò, il mercato costruisce.
Gli adolescenti sono stati espropriati dal desiderio dagli adulti, che li inducono a desiderare quello che tutti desiderano, pena la morte sociale.”(Vittorino Andreoli, Lettera ad un adolescente, Rizzoli, 2004, p35).
D’altronde, solo la possibilità di definire un progetto esistenziale e credere di poterlo realizzare conferisce significato all’esistenza. Il progetto esistenziale realizza il Sé ideale, che, via via, sempre più, coincide con il Sé reale.
Solo chi ha saputo proteggersi dai demotivatori interni ed esterni, riesce a impegnarsi verso traguardi, che, magari, vanno via via prendendo forma, seguendo un filo conduttore , che organizza la personalità.
Tale propensione dipende dal fatto di aver incontrato nel proprio percorso di crescita figure genitoriali, non necessariamente biologiche, che hanno consentito al Sé di esprimersi e di sostanziarsi: persone che incontrano la diversità e se ne entusiasmano, accogliendola come un tesoro e insegnando ad esprimerla, a esserne orgogliosi.
D’altro canto, anche per i genitori adottivi, che intraprendono un percorso di presa di coscienza e elaborazione del lutto per la sterilità, spesso il confronto tra il figlio reale e il figlio pensato può rivelarsi esplosivo.
L’incontro –scontro tra l’immaginario e la realtà a scapito di quest’ultima può trovare una scappatoia nell’attribuzione di ogni difficoltà al passato del piccolo adottato, alla sua genetica tarata.
Se, invece, è il figlio naturale a non corrispondere alle aspettative, soprattutto nel caso in cui presenti comportamenti devianti, il genitore tende ad attribuire la causa alla scuola, alla società, agli amici, per poter scaricare da sé la responsabilità di aspettative irrealistiche  e divergenze incomprensibili.
Quando il figlio reale non riesce più a soddisfare i bisogni e le aspettative dei genitori, perché prepotentemente si presenta in lui il bisogno di crescere e differenziarsi, infrangendo l’immagine che essi si erano fatta di lui/lei, non è raro che avvenga una frattura affettiva molto forte, dal momento che i genitori non riescono ad accettarlo e a mantenere intatto il loro spazio mentale dedicato al figlio.
Altrettanto dannoso può essere voler perseverare nella ricerca di un genitore immaginario, un genitore che non c’è e che esiste nella mente, un modello ideale protettivo e riparatore, che quasi mai corrisponde al genitore reale.
“D’altronde, la cosa più difficile da dare ai figli in una famiglia biologica sono le ali. La cosa più difficile da dare ai figli in una famiglia adottiva, sono le radici.
La cosa più necessaria in una famiglia biologica è l’amore.
La cosa più necessaria in una famiglia adottiva è l’amore”(Paola Betti, La formazione alla genitorialità nell’affidamento e nell’adozione, www.prepos.it  p.38).
I genitori e i figli non si possiedono, perché la famiglia può essere in ogni legame affettivo che diviene una rete di solidarietà e comprensione reciproca. La comprensione di ciò è molto più accessibile ai genitori adottivi e a coloro che hanno trovato altrove la loro famiglia, che per coloro per cui i legami biologici rappresentano il modello ideale e unico di familiarità. Questi vedono nel diverso una minaccia e nelle ali del figlio un disconoscimento delle proprie radici.
A questo proposito voglio concludere questa riflessione, con un brano assai emblematico tratto dal racconto di Luis Sepulveda “Storia di una Gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, Editore Salani, 1997,p.92-93):
E perché devo volare? strideva Fortunata tenendo le ali ben strette al corpo.
“Perché sei una gabbiana e i gabbiani volano” rispondeva Diderot….
“Ma io non voglio volare. Non voglio nemmeno essere un gabbiano…voglio essere un gatto…e i gatti non volano ”
Sei una gabbiana…..ci lusinga che tu voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace
che tu sia diversa….. Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare
di te un gatto…Sentiamo che anche tu ci vuoi bene, che siamo i tuoi amici, la tua famiglia,
ed è bene che tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie di orgoglio:
abbiamo imparato ad apprezzare, rispettare ed amare un essere diverso. Devi volare” disse Zorba.
“Volare mi fa paura” stridette Fortunata.
“ Quando succederà io sarò con te “ miagolò Zorba
mento in cui la gabbianella vola, sostenuta dall’incoraggiamento del gatto  la vita secondo la sua vera natura può iniziare e l’impegno di Zorba trova compimento.

Aver cura e inversione di ruoli

Che cosa significa aver cura? Dare all’altro ciò di cui ha bisogno anche se esita o non sa domandarlo, anche quando non ne è cosciente. La madre si prende cura del proprio bambino imparando a decodificare il suo pianto, il suo linguaggio corporeo.
Il bambino amato si sente al sicuro, sente di poter contare sui genitori, perché si sente protetto grazie all’attenzione che essi gli dedicano, alla loro presenza nei suoi momenti gioiosi e difficili.

La vita del bambino trascurato è spaventosa, dal momento che egli si sente in balia del mondo, senza protezione e per questo, spesso, diviene capriccioso e cattivo o abulico.
Attraverso le attenzioni che il bambino riceve dalle figure di riferimento impara di essere importante per qualcuno, di avere valore, di essere degno e meritevole di amore e cura.
Troppo spesso i genitori affetti da amore glaciale tendono ad adultizzare prematuramente il loro piccolo, con la scusa di non volerlo viziare o perché oppressi dalla necessità di responsabilizzarlo in età precoce.
Ricevere attenzioni significa esistere per qualcuno, significa aver un posto nel pensiero di qualcuno, significa che la propria vita ha un senso non solo individuale.
Per questa ragione è essenziale che il bambino riceva le cure necessarie al suo sviluppo fisico ed emotivo.
Anche l’adulto ha bisogno di sentirsi importante per qualcuno, benché non sia dipendente da chi gli si dedica.
Infatti, la differenza essenziale tra il piccolo e il grande consiste nella possibilità di quest’ultimo di scegliere le proprie fonti di cura e di affetto.
L’adulto può costruire e costantemente rinnovare la sua rete sociale e può ampliare le sue conoscenze in qualunque momento.
Il bambino, invece, è in balìa delle figure di riferimento e solo da esse può trarre beneficio, dal momento che, di solito, la sua rete sociale comprende poche persone.
Nell’articolo “Il dovere non basta: solo chi ama sa aiutare”, Francesco Alberoni afferma:
“L’unica forza che assicura la cura è l’amore. Il dovere non basta. Il dovere si ferma sempre in superficie. Solo chi ama capisce e conosce: entra nei pensieri e nei sentimenti dell’amato, partecipa delle sue ansie e del suo dolore, anticipa i suoi bisogni, risolve i suoi problemi”.
In genere, questa reciproca cura presuppone l’intimità affettiva peculiare nell’amicizia e nelle relazioni amorose.
E’ uno scambio reciproco di premure, che esprime nei gesti il valore che i partner relazionali attribuiscono l’uno all’altro.
La capacità di dedicarsi all’altro contraddistingue la persona che, nonostante la fatica richiesta, riesce a soddisfare i propri bisogni, a gestire le proprie paure, a fronteggiare gli imprevisti e i pericoli dell’esistenza. Questa persona, sufficientemente responsabile e autonoma, può permettersi il lusso di interessarsi agli altri, di rispondere positivamente alle loro richieste, di sentirsi più soddisfatto che ferito narcisisticamente a mettere al centro dell’attenzione l’altro (GIULIO CESARE GIACOBBE, Alla ricerca delle coccole perdute, Ponte alle Grazie, 2004).
Ovvero, il bambino chiede ciò che gli serve, l’adulto è capace di prenderselo, il genitore dona quello che serve agli altri, soprattutto ai piccoli.
In una personalità sufficientemente armoniosa queste tre modalità si interscambiano a seconda dei momenti e delle necessità.
Quando la personalità non è sufficientemente armoniosa accade che i bambini debbano fare da genitori ai loro genitori, incapaci di assumersi le responsabilità del loro ruolo genitoriale e, spesso, anche di provvedere alle proprie esigenze affettive e alla cura di sé. Così ci sono bambini che imparano a non chiedere ciò di cui hanno bisogno per non dispiacere ai genitori. Ci sono bambini che imparano a chiedere solo ciò che i genitori possono approvare. Ci sono bambini che imparano precocemente ad essere autonomi nella cura di sé, dal momento che i genitori sono troppo presi da se stessi.
Poiché i genitori di questi bambini non sono cresciuti, chiederanno comportamenti responsabili ai figli, ma poi li renderanno dipendenti e li ricatteranno affettivamente, quando decideranno di dedicarsi alla propria vita e alla propria felicità.
Nei fatti un adulto capace di essere genitore ama per il piacere di amare e il suo amore è contraddistinto da dedizione, impegno, disponibilità, non solo nei confronti dei suoi bambini, ma nei confronti di tutti coloro che hanno bisogno e desiderio di amore.
Questa persona avrà una rete amicale ampia, sebbene contraddistinta da diversi gradi di intimità.
Fuggirà i rapporti esclusivi e la complicità di rapporti manipolativi e condizionanti, dove rimirare se stessi, i propri valori e le proprie convinzioni nei comportamenti e nelle parole dell’altro.
La persona che sa prendersi cura è libera dal calcolo delle opportunità e disinteressata, sa proteggere se stessa e, dunque, anche gli altri.
Conosce le proprie esigenze, i propri tempi, e, laddove non sia strettamente necessario, non sbilancia i rapporti nel senso della cura monodirezionale.
Chi ha cura realmente non rende dipendente l’altro, ma lo accompagna fino al momento in cui l’altro vorrà spiccare il volo.
In conclusione, rielaborando liberamente un brano di Vincenzo Masini, si può dire che solo chi è responsabile può essere ricco, dal momento che sa prendersi cura di chi ama e delle cose a cui tiene e dei progetti che vuole realizzare.  (La prima regola dei Cavalieri di San Valentino, Prevenire & Possibile, 1997, p.17)


BIBLIOGRAFIA

 

ALBERONI F., Il dovere non basta:solo chi ama sa aiutare.
ANDREOLI V. , E vivremo per sempre liberi dall’ansia, (Intervista di Marina Terragni), Edizioni BUR,1999.
ANDREOLI V., Lettera a un adolescente, Rizzoli, 2004.
BAGDADI M.,  A piedi scalzi nel kibbutz,Edizioni Bompiani, 2002.
BAGDADI M.P., Genitore non si nasce ma si diventa, Bompiani, 2002.
BETTI P., La formazione alla genitorialità nell’affidamento e nell’adozione, www.prepos.it.
BLOOMFIELD H., Far pace con i genitori, Rizzoli.
CAROTENUTO A , Vivere la distanza, Edizioni Bompiani, 1998.
CREPET P , I figli non crescono più, Edizioni Einaudi, 2005.
FROMM E , L’arte di amare, 1970.
GIACOBBE G.C., Alla ricerca delle coccole perdute, Ponte alle Grazie, 2004.
LA ROSA G., L’adozione internazionale, wwwprepos.it
MASINI V., La prima regola dei cavalieri di San Valentino, Prevenire & Possibile, 1997.
SEPULVEDA l., Storia di una gabbanella e del gatto che le insegnò a volare, Editore Salani, 1997.

 


PARTE SESTA
OLTRE LA NECESSITA’: RUOLO DELL’ATTIVITA’ LAVORATIVA NEL PERCORSO ESISTENZIALE DELL’INDIVIDUO

 

La creatività nell’infanzia: talento e passione

Ognuno ha in sé un Leonardo da Vinci. Solo che non lo sa, perché i suoi genitori non lo sapevano e non l’hanno trattato da Leonardo.”(DANIEL GOLEMAN, Lo spirito creativo, BUR, 2001)

Il talento è l’attitudine innata a realizzare grandi cose in un particolare campo. Diversi studi citati da Daniel Goleman nel suo libro “Lo spirito creativo” dimostrano che tutti gli esseri umani sono contraddistinti dal talento in un determinato ambito. Il problema è che non sempre il talento ha la possibilità di emergere e talvolta non viene coltivato.
Infatti, ogni attitudine umana ,per produrre risultati significativi, ha la necessità di essere riconosciuta, alimentata, raffinata e socializzata.
In caso contrario, benché innata, languirà e rimarrà latente e silenziosa, magari esprimendosi nell’individuo attraverso la tendenza all’inquietudine.
Per divenire creatività, il talento ha necessità di essere sostenuto dalla passione.
Goleman afferma che:
“L’elemento essenziale nella creatività è, però, la passione.
Il termine psicologico è “motivazione intrinseca”, cioè l’esigenza impellente di fare qualcosa per il semplice piacere di farla e non per ricavarne un premio o un compenso.” (Goleman, Op.cit., p.79)
Ovvero, la spinta interna verso la realizzazione di qualcosa è più determinante, in genere, del talento.
Senza la volontà di impegnarsi per un certo obiettivo, l’attitudine innata a realizzarlo risulta del tutto inutile e sprecata.
Cioè, se una persona ha talento per suonare il violino, ma non ha la volontà di faticare per migliorarsi, né il coraggio di affrontare l’ansia da palcoscenico, difficilmente diventerà un grande concertista.
E’ la passione verso un certo campo a muovere l’energia necessaria al compimento di grandi cose in quell’ambito.
Non a caso il termine “passione”, derivando dal latino “patire” presuppone una sofferenza, un tormento interno, che rende la persona ansiosa, piena di paura, ma anche carica di energia attivante.
Ciak Jones, il creatore di “Willy il coyote” sosteneva:
“La paura, ispirata dal mostro dell’ansia, è la molla necessaria affinché la creatività si manifesti.”
Come si è visto, le forze necessarie alla creatività sono la passione e il talento. Qui per creatività intendiamo la capacità di coping, ovvero di affrontare problemi e risolverli in modo originale.
Nel problem solving efficiente possono essere riconosciute diverse fasi.
In un primo momento è necessario raccogliere quante più informazioni possibili su quel determinato ambito di interesse. E’ il momento in cui si entra nel problema e ci si immerge in esso.
Questa fase sarà creativamente produttiva solo se la persona lascerà la sua mente libera di immaginare ed espandersi senza pregiudizi.
La routine rende rigido e stereotipato il pensiero provocando una fissità funzionale, che impedisce di osservare liberamente tutti gli aspetti della questione.
La fissità funzionale è prodotta anche dall’autocensura, ossia dal giudice interiore che spinge a rimanere nei canoni di ciò che sembra accettabile, ovvio, giusto.
Lo stadio di raccolta dei dati viene spesso disturbato da un momento di frustrazione. E’ la parte più ostica del momento creativo.
Poiché tormentosa da vivere, spesso le persone lasciano perdere proprio nel momento depressivo dell’elaborazione inconscia delle informazioni accumulate.
E’ la fase in cui tutti i tentativi risultano inutili e inefficaci e sembra sparire la possibilità di successo nella soluzione del problema.
La persona creativa impara che il travaglio di questo frustrante momento di disperazione non è improduttivo, né segnala l’impossibilità di raggiungere l’obiettivo.
La costanza, la pazienza e la disponibilità a rimanere in sospensione, a soffrire, sono alleate imprescindibili per superare questo momento , di cui non si può prevedere la durata.
Nello stadio dell’incubazione è l’inconscio a lavorare. D’altronde, la mente razionale è molto meno capace di intuizione creativa.
Nell’inconscio non esiste autocensura e le idee si associano liberamente, utilizzando processi rifiutati dalla consapevolezza.
In più, nell’inconscio risiede il magazzino di tutte le conoscenze, che, in genere, rende giusta la prima impressione, quella basata sull’intuito e non sulla razionalità.
D’altronde, le persone creative accettano il rischio proveniente dalla sperimentazione. Sono disposte a sbagliare, a mettersi in discussione.
Sono, di solito, quelle che sbagliano di più, proprio perché provano di più, non fermandosi di fronte alla paura o all’irragionevolezza o al caos.
Secondo Einstein solo chi ha il coraggio di sbagliare, può inventare qualcosa di nuovo.
I creativi sono persone capaci di zittire il rumore mentale dei pregiudizi, delle emozioni, delle conoscenze precedenti.
Solo nel silenzio mentale ed emotivo può emergere, improvvisa, l’illuminazione, ovvero la soluzione agognata.
Tuttavia, il processo finisce solo quando l’intuizione viene agita e si trasforma concretamente in un prodotto socialmente spendibile, utile, significativo.
Le persone creative, realmente creative, stanno bene quando si dedicano al loro talento, alla loro passione. Non sono soddisfatte nella routine, nella tranquillità.
Per questa ragione stabiliscono delle sfide con se stessi o degli step progressivi da raggiungere.
Le persone creative non si limitano ad essere aperte ad esperienze di ogni tipo, ma sono disposte a correre dei rischi. Uno non può arrivare in cima alla montagna rimanendo a 30 cm da terra.
La creatività non necessariamente declina con l’andare del tempo. Il talento con cui nasciamo rimane sempre lì pronto ad uscir fuori al momento opportuno.
Erik Erikson ha descritto la creatività dell’ultima fase della vita, come una grandiosa produttività, che consiste in un approccio saggio e creativo all’educazione degli altri, un’affermazione della vita di fronte alla morte. Il beneficiario della fecondità creativa dell’anziano è la comunità in senso lato.
Lo spirito creativo, ben lontano dal declinare con l’età, afferma Picasso, probabilmente acquisisce forza e vigore nel momento in cui un  uomo o una donna anziani, che affrontano onestamente la prospettiva della morte che incalza, si concentrano su ciò che davvero conta nella vita.
Nel cercare una soluzione creativa, è utile ribaltare il problema e osservarlo da punti di vista diversi. Così è possibile scoprire collegamenti nascosti.
La capacità di vedere le cose in modo nuovo è essenziale nel processo creativo e si fonda sulla disponibilità a mettere in discussione ogni assunto.
Ai fini dell’intuizione creativa, è fondamentale porsi le domande giuste.
Tanto maggiori sono le informazioni che disponiamo sul nostro problema, tanto maggiore è la possibilità di escogitare una soluzione.
Il momento creativo non può essere forzato: arriva spontaneamente, quando le situazioni sono quelle giuste.
Avendo per le mani numerosi progetti, è molto più probabile avere un’intuizione creativa in uno di essi.
Secondo Hovard Lubert , psicologo dell’Università di Ginevra, che ha studiato la metodologia di ricerca di Darwin, muovendosi su più piani di ricerca e su più progetti contemporaneamente, si ha una maggiore probabilità di trasferire intuizioni e informazioni da un campo all’altro, ovvero di ottenere una maggiore efficacia nell’azione.
Quando la creatività è al culmine si può sperimentare quello che gli atleti e gli artisti chiamano “il momento bianco”: tutto funziona al meglio, le abilità sono a tal punto adattate al compito, che l’esecutore sembra fondersi con esso. Tutto è armonioso, coerente e senza sforzo.
Gli psicologi, a volte, si riferiscono al momento bianco chiamandolo “flusso”.
Quando sono nel flusso, le persone funzionano al massimo. Esso può avere luogo in qualunque tipo di attività. L’unico requisito è che le abilità dell’esecutore siano a tal punto perfettamente adattate alle esigenze del momento, da far scomparire ogni esigenza di sé.
Se l’individuo considera le sue potenzialità inferiori all’obiettivo che vuole raggiungere o se le sue capacità sono effettivamente troppo limitate, l’ansia interferisce con il processo creativo.
Nel caso in cui, invece, le caratteristiche della persona sono superiori al compito, è facile che si generi noia e indifferenza.
Quando le capacità dell’esecutore e il compito da eseguire sono reciprocamente all’altezza, è molto probabile che emerga uno stato di flusso.
Un segno del totale assorbimento nel compito è che il tempo sembra passare molto più lentamente o velocemente. Le persone sono totalmente in sintonia con quello che stanno facendo, da dimenticare ogni distrazione.
Secondo Gardner, le persone creative hanno in comune quella che sembra una “freschezza infantile”: hanno la capacità, tipica di un bambino, di comportarsi come liberi esploratori di un campo, qualcuno con tutto il mondo aperto davanti a sé, sia per la capacità di scervellarsi sul genere di cose che, in genere, attrae i bambini. Infatti, prima che altrove, la creatività affonda le sue radici nell’infanzia.
Teresa Amabile ha individuato i fondamentali Killer della creatività:
Sorveglianza, cioè incombere sui bambini , facendo continuamente sentir loro che sono sorvegliati mentre lavorano. In questi casi l’impulso creativo va a nascondersi sotto terra.
Valutazione, significa infondere un’eccessiva preoccupazione del giudizio altrui. I bambini dovrebbero essere principalmente soddisfatti del risultato raggiunto.
Ricompense, significa ricorrere eccessivamente ai premi. L’uso eccessivo delle ricompense priva il bambino del piacere intrinseco della creatività.
Competizione, significa mettere i bambini in una situazione senza uscita, nella quale o si vince o si perde, e nella quale solo una persona può arrivare al vertice.
Eccessivo controllo, significa dire ai bambini esattamente come devono fare i compiti, come devono aiutare in casa e, persino, come devono giocare.
Limitare le scelte, significa dire ai bambini quali attività dovrebbero intraprendere, invece di lasciare che vadano da soli dove li portano la curiosità e la passione. Sarebbe molto meglio lasciare che il bambino scelga ciò che gli interessa e, poi, sostenerlo mentre segue la sua inclinazione.
Pressione, significa creare aspettative grandiose intorno alla prestazione di un bambino.
La motivazione intrinseca, ovvero il talento, è l’elemento chiave per far emergere la creatività nel bambino: il fattore indispensabile affinché il talento possa essere espresso e educato è il tempo.
Il tempo di sperimentazione dei bambini è, e deve essere, illimitato, affinché possano approfondire la sensazione e la capacità legate al talento e farne proprie le dimensioni emozionali ed operative.
Lewin afferma “E’ una cosa terribilmente frustrante essere fermati, quando si è immersi nel processo.. I bambini continuano ad essere bloccati nel bel mezzo delle cose che amano fare. Ogni loro attività viene programmata e loro non hanno la possibilità di rilassarsi o di seguire il proprio ritmo.”
Si deve poter concentrarsi su un’attività, fintanto che essa attrae la nostra attenzione. Quasi in tutte le attività, un adulto ha in mente un prodotto finale e ogni azione che non lo porti direttamente alla realizzazione di quel prodotto gli sembra sprecata e, pertanto, frustrante.
Il bambino, invece, compie il gesto per il piacere e l’eccitazione che in lui il gesto produce. E’ quell’eccitazione il motore della creatività, anche se è disordinata e crea scompiglio nel piccolo e nell’ambiente circostante.
Nel bambino e nell’adolescente a cui è stato consentito di sperimentare e sperimentarsi si radica la convinzione di avere le risorse per affrontare il mondo e per raggiungere i propri obiettivi esistenziali.
Bandura chiama “autoefficacia” la sensazione, la convinzione di poter dominare imprese difficili. Le persone in cui questa convinzione vacilla sensibilmente o timide, hanno poca fiducia in se stesse e nelle loro capacità di avere successo, sono atterrite dal rischio.
Chi ha fiducia nelle proprie capacità va incontro alla novità con  una forza che gli viene dall’aver affrontato e dominato già molte sfide. Quella sensazione di fiducia viene, in larga misura, da una storia di successi. Per queste persone l’ignoto , più che una minaccia, rappresenta una sfida.
Jerusalem Scwartez nel 1986(in GIUSTI, TESTI, p 2008, p 65)  ha creato un test per l’autovalutazione dell’autoefficacia generale.


PER CIASCUNA DELLE SEGUENTI AFFERMAZIONI, SCEGLI IL TUO GRADO DI ADESIONE IN BASE ALLE ALTERNATIVE QUI PRESENTATE.
A= non vero per me
B=poco vero per me
C= abbastanza vero per me
D=molto vero per me

1) Mi considero sempre in grado di risolvere, se mi impegno, problemi anche difficili.
2)Mi ritengo in grado di trovare i mezzi e le modalità per ottenere ciò che desidero anche se qualcuno mi contrasta.
3)E’ facile per me rimanere legato ai miei obiettivi e raggiungerei miei scopi.
4)Ho fiducia nel fatto di riuscire ad affrontare anche le situazioni impreviste.
5)Grazie alle mie capacità e alle mie risorse personali sono in grado di far fronte anche a situazioni insolite.
6)Mi considero in grado di risolvere la maggior parte dei problemi, se vi dedico gli sforzi necessari.
7)Quando devo affrontare delle difficoltà   sono in grado di rimanere calmo, in quanto posso far affidamento sulle mie capacità.
8)Quando   devo affrontare un problema, sono solitamente capace di trovare soluzioni diverse.
9)Quando ho un problema, sono generalmente in grado di  pensare ad una sua soluzione.
10) Sono in grado di gestire qualsiasi cosa possa capitarmi.


La fiducia in se stessi è alimentata, nel bambino, anche dalla sensazione che gli adulti rispettino la sua abilità. Le continue critiche o l’indifferenza possono minare, anche nell’individuo più capace, la fiducia in se stesso. Così il bimbo va accumulando dubbi e incertezze.
E’ bene giudicare gli sforzi dei bambini in base ai loro stessi standard, offrendo loro quelle lodi e quell’incoraggiamento, anche un po’ al di sopra della realtà effettiva, che li spingeranno ad andare avanti.
Nel bambino c’è sempre qualcosa da osservare che non ha niente a che fare con la critica:
“Accidenti! Hai fatto un disegno con tantissimo blu!”

 

La profezia che si avvera e la definizione del ruolo sociale

La Fortuna nasce dall’incontro tra un progetto e un’ opportunità”(RICHARD Wysman, Fattore fortuna, Solzogno, 2003, p 143).
Se il progetto è basato su presupposti realistici e costruito attraverso un’attenta analisi dei costi e dei benefici è molto probabile che possa esser realizzato, magari attraverso modalità inaspettate e sorprendenti.
Ovvero, è essenziale l’atteggiamento mentale di fronte alla realtà.
Quando la persona riesce a rimanere aperta e flessibile, capace di vedere il positivo in ciò che accade, è più facile che riesca a predisporsi per vedere arrivare l’opportunità giusta da lontano.
Quando, invece, la persona rimane focalizzata su un unico aspetto della realtà, rischia di non allargare lo sguardo a sufficienza e di lasciarsi sfuggire l’occasione propizia per la realizzazione del proprio desiderio.

A questo proposito, possono essere emblematiche due storielle.
Un uomo aveva perso le chiavi di casa e da svariati minuti le cercava.
Un altro gli si avvicinò e gli chiese cosa stesse cercando.
Avuta la risposta, domandò se le chiavi fossero cadute proprio in quel punto.
“No. Ma qui c’è un lampione acceso!”

Nella seconda storiella troviamo un naufrago in mezzo al mare che prega e supplica Dio di andarlo ad aiutare.
Si avvicina un ragazzo su un catamarano e gli chiede se può aiutarlo.
“No. Il Signore mi verrà in aiuto”
Continua, quindi, a supplicare e a implorare.
Dopo un altro po’, gli si avvicina un peschereccio. I pescatori, avvistatolo, gli chiedono se possano aiutarlo in qualche modo.
“No, no! Il Signore mi verrà ad aiutare!”
Il naufrago, sempre più in pericolo, affamato e stanco, continua a piangere e singhiozzare.
Gli si avvicina un gommone e il gruppo di persone che sta sopra cercano di convincerlo a farsi aiutare.
“No no! Il mio Signore mi verrà ad aiutare” ricevono come risposta.
Alla fine il naufrago, distrutto dalla stanchezza, scivola nell’acqua. Mentre annega, piangendo chiede a Dio:
“Signore, perché non hai esaudito la mia preghiera?”
“Ti ho inviato un catamarano, un peschereccio e un gommone. Ma tu li hai rifiutati ”risponde,
Richard Wysman afferma che l’uomo fortunato è estroverso e disponibile, coltiva i suoi rapporti sociali estendendo la sua rete di conoscenze il più possibile e coltivando le relazioni. In questo modo, oltre ad avere più opportunità di instaurare legami affettivi di sostegno, è anche maggiormente probabile che egli possa inciampare in conoscenze utili per realizzare i propri progetti.
Un’altra caratteristica di coloro che riescono ad essere fortunati, o si ritengono tali, consiste nell’essere tenaci . Queste persone sono molto più convinte di poter ottenere ciò che vogliono nella vita e, dunque, non demordono facilmente.
Quando si trovano di fronte ad un insuccesso, invece di lasciare andare, cercano di conoscere gli errori e capire dove hanno sbagliato, in modo da essere maggiormente attrezzati in futuro.
Altra caratteristica delle persone capaci di realizzare i propri progetti e di trovare soddisfazione nella loro vita consiste nella capacità di tener conto del proprio intuito e nell’attitudine a prendersene cura attraverso esercizi di rilassamento e meditazione, o tramite momenti di quiete in luoghi rigeneranti come il mare, la montagna o i boschi.
L’atteggiamento mentale positivo di queste persone fa discriminare loro un vero affare rispetto a un bluff e le fa essere maggiormente efficaci nel riconoscere le persone affidabili, rispetto a quelle pericolose.
In altre parole, l’atteggiamento mentale positivo determina una maggiore rilassatezza sia relazionale, sia lavorativa, sia nel rapporto con se stessi.
Così queste persone calamitano a sé situazioni piacevoli e, laddove gli eventi della vita catastrofici non li risparmiano, tuttavia riescono a trovare ciò che nella disgrazia è positivo.
Un proverbio popolare sostiene: “Gente allegra, il ciel l’aiuta”.
Moltissimi studi scientifici hanno confermato questo detto, dimostrando che , per esempio, è più facile che i figli dei genitori ansiosi e catastrofisti abbiano incidenti o abbiano problemi scolastici o di tossicodipendenza.
E’ la profezia che si autoavvera, perché quei genitori avranno continuamente ricordato a quei figli di non fare certe cose, dimenticando di sottolineare le cose buone che i figli facevano o che avrebbero dovuto fare.
Anche i modelli agiscono sull’atteggiamento mentale.
Se un bambino cresce con un genitore continuamente orientato a vedere i pericoli nel mondo, a vedere ciò che non funziona, a criticare, potrebbe essere condizionato dalla sua negatività.
Potrebbe anche sabotare il proprio successo, perché condizionato da un genitore che, per esempio, gli ha ripetuto troppo spesso che sua sorella era più intelligente. Anche nella scuola e nei luoghi di lavoro si presenta il medesimo fenomeno.
Laddove i capi nutrano scarse aspettative nei dipendenti, è molto più facile rilevare bassi livelli di produttività, rispetto agli uffici in cui i capi sono ottimisti rispetto alle attitudini dei collaboratori.
Durante alcune ricerche sulla profezia che si avvera, ad alcuni docenti della prima media sono state date schede valutative fittizie in cui si descrivevano alunni brillanti, laddove i risultati della quinta elementare erano stati scarsi, e alunni deficitari nel caso in cui il rendimento delle elementari era risultato eccellente.
Alla fine della prima media gli alunni più bravi erano risultati quelli la cui presentazione ai docenti era stata migliore.
Le profezie non si avverano solo quando sono eterodirette, ma possono anche essere autoavveranti in negativo, così come in positivo, avendo ricadute sul benessere fisico.
I soggetti più tesi, infatti, sono esposti maggiormente ad infortuni domestici, lavorativi e stradali.
Le persone timorose o ansiose , focalizzate come sono sulle preoccupazioni, hanno difficoltà a concentrarsi su ciò che stanno facendo, trascurando di assaporarne il gusto e continuando a rimuginare su cose passate o su paure per il futuro.
Non riuscendo a ottenere il massimo rendimento relazionale ed energetico da ciò che fanno, i pessimisti vivono, in genere, maggiori livelli di stress, che mina nel tempo le difese immunitarie.
Queste persone, contraddistinte da un atteggiamento mentale negativo, tendono a definire progetti meno ambiziosi, nella convinzione di non poter aspirare a traguardi maggiori.
Soprattutto, tendono a vedere, anche nei traguardi raggiunti, solo la fatica compiuta per concretizzarli.
Sempre Wysman afferma che se una persona si aspetta di essere fortunata, sarà fortunata, anche nel caso desideri raggiungere un ruolo sociale più alto e si aspetti di ottenere grandi cose dalla vita. Gli ottimisti, come già detto, spinti dalla convinzione che le cose andranno bene, non si arrendono anche di fronte ad ostacoli insormontabili.
Ossia, le aspettative determinano la possibilità o l’impossibilità degli ottimisti o dei pessimisti di realizzare o meno i propri sogni.
Un proverbio Iddish dice:
“Se un uomo sfortunato vendesse ombrelli, smetterebbe di piovere. Se vendesse candele, il sole non tramonterebbe mai. Se vendesse bare, la gente smetterebbe di morire!”
Un proverbio arabo afferma:
“Buttate a mare un uomo fortunato e tornerà a galla con un pesce in bocca!”
E un proverbio tedesco, infine, afferma,:
“Nessuno è più fortunato, di chi crede nella propria fortuna!”
La felicità non è scritta nel DNA o nel destino:  è figlia di un atteggiamento mentale positivo, che permette di cogliere le opportunità che la vita offre, senza rimanere  sclerotizzati su posizioni rigide.
In sintesi, si può allenare la mente per ottenere un cervello fortunato.
Basti pensare che i fortunati vedono quello che c’è, anziché cercare quello che vogliono vedere: sono , dunque, molto più ricettivi verso le occasioni che compaiono spontaneamente.
Sono anche disponibili al cambiamento, alla sperimentazione, alle nuove conoscenze e ciò gli consente di espandere le proprie possibilità di successo e di soddisfazione.
E’ facile esaurire le opportunità della propria vita. Basta continuare a parlare con le persone nel medesimo modo, a percorrere le medesime strade, a trascorrere le vacanze nelle medesime località. Le esperienze nuove, e persino casuali, recano in sé il potenziale di nuove occasioni.
Le persone che si considerano fortunate e felici, , a parità di condizioni con coloro che si ritengono sfortunate, hanno una capacità relazionale più raffinata e una corporeità più aperta. Vengono ritenuti “magneti sociali”, dal momento che, ritenendosi irresistibili ed essendo convinti che faranno bella figura, si predispongono al sorriso e all’applauso.
Nel caso in cui gli eventi siano a loro contrari, cercano di trarre profitto dall’insuccesso e di usare l’esperienza difficile per evolvere ulteriormente.


In conclusione, può essere utile presentare il vademecum di coloro che si considerano fortunati
“Primo: Cogliere le opportunità offerte dal caso.
1) I fortunati creano e coltivano una solida rete della fortuna.
2) I fortunati hanno un atteggiamento rilassato verso la vita.
3) I fortunati sono aperti alle nuove esperienze.
Secondo: Seguire l’istinto. I fortunati prendono decisione adeguate usando le intuizioni e il sesto senso.
1) Seguire intuizioni e presentimenti.
2) Darsi da fare per potenziare l’intuito.
Terzo: Essere ottimisti. Le aspettative ottimistiche rispetto al futuro aiutano i fortunati a realizzare sogni e ambizioni.
1) Essere convinti che la buona sorte assisterà anche in futuro.
2) Cercare di raggiungere i propri obiettivi anche se le probabilità di successo sono scarse e non arrendersi di fronte ai fallimenti.
3) Attendersi che le interazioni con gli altri siano propizie e vantaggiose.
Quarto: Trasformare la sfortuna in fortuna
1) Vedere il lato positivo della sfortuna
2) Esser convinti che a lungo andare la sfortuna si trasformerà nel migliore dei modi.
3) Non rimuginare sulla sfortuna
4) Darsi da fare per evitare altra sfortuna in futuro.
Sentirsi padrone della propria esistenza, piuttosto che aspettare che le cose succedano.
(Wysman, O.cit., p 257)

Il ruolo della personalità nella definizione del percorso esistenziale

Nella società odierna molto spesso la persona, a qualunque età, si trova persa in momenti di confusione, in cui non sa quale strada prendere, quale percorso alternativo seguire, quale progetto perseguire.
La confusione può essere esacerbata da una malintesa ricerca di libertà , che induce a tenersi lontano dal confronto con altri , , a rimanere sola con la sensazione di essere aliena da ciò che fa e di essere la sola a sperimentare determinati vissuti.
Accade così che, per rispettare l’autonomia di pensiero del giovane, gli adulti si astengano da fornirgli suggerimenti costruttivi, che tengano conto delle effettive peculiarità individuali e delle opportunità concrete offerte dall’ambiente.
Nondimeno, anche l’adulto che si trova in un periodo di cambiamento, è abbandonato a se stesso anche dagli amici, che, in genere, , assumono su di sé l’esclusivo ruolo di consolatori, astenendosi dall’elargire suggerimenti  fondati sulla conoscenza e sulla pragmaticità.
Così l’aspirazione a soddisfare se stessi dando un senso esistenziale all’attività svolta sembra rimanere un’utopia relegata agli anni giovanili e l’adulto sembra esser condannato nelle spire di un quotidiano estenuante e senza significato, costruito sulla necessità di sbarcare il lunario, più che sull’occasione di esprimere le proprie attitudini e acquisirne di nuove.
Peraltro, il rischio opposto consiste nella definizione di progetti assolutamente avulsi dal contesto di appartenenza e, dunque, irrealistici.
Il primo elemento da considerare nell’elaborare un percorso esistenziale consiste nella valutazione delle cose che si sanno fare, di tutte le attitudini, anche quelle che sembrano insignificanti.
Già i bambini in tenera età manifestano delle predisposizioni che portano alcuni a scegliere giochi prestabiliti dagli adulti, altri a crearsene di propria iniziativa, altri ancora prediligono attività ripetitive e tranquille, mentre alcuni sono sempre in movimento e sembrano avere energie illimitate.
Questo, tuttavia, non significa che si debba solo coltivare le capacità naturali. La maggior parte delle attività, infatti, si fonda su un insieme di aspetti, che necessitano di considerazione, per condurre al successo il progetto.
Per esempio, un grande chef estremamente creativo deve anche essere molto responsabile, per rispettare gli orari del lavoro, deve anche avere grandi doti relazionali, per organizzare il gruppo che opera nella sua cucina, deve avere grande energia, per sostenere la fatica di un’attività svolta per la maggior parte in piedi, con ritmi pressanti e con orari assai pesanti.
Ovvero, ogni persona che decida di intraprendere un percorso, qualunque percorso, deve saperne valutare tutti gli aspetti, prendendo in esame quali tra le attitudini richieste sono già in suo possesso, quali dovrà acquisire, quali avrà difficoltà a svolgere.
Attraverso questa riflessione l’individuo evita di divenire professionista di se stesso, liberandosi dal rischio di ingabbiarsi in eccessi poco funzionali ad una evoluzione armonica della personalità.
Ciò significa che la persona  deve integrare le proprie propensioni con altre caratteristiche, che ne migliorano il rendimento  e l’efficienza.
Per esempio, una creatrice di maglieria artigianale dovrà anche imparare a promuovere le sue creazioni, affinché il suo lavoro possa divenire redditizio.
Ovvero, una persona deve essere disponibile ad accrescere la gamma delle sue competenze, sia per migliorare le sue performances, sia per raggiungere una maggiore soddisfazione , sia per rinnovare periodicamente i suoi obiettivi esistenziali.
Peraltro, come si diceva, il punto di partenza è sempre la personalità, le propensioni attraverso cui ciascuno sente di esprimere più facilmente se stesso, ciò che è connaturato in lui.
E così, rispolverando la teoria delle intelligenze multiple di Gardner, adattate nell’approccio transteorico alle tipologie emozionali, possiamo dire che il tipo logico è quello che, quando deve montare uno scaffale prende con estrema cura le misure, verificando che esso si integri perfettamente con l’arredamento preesistente: questo tipo troverà subito il trapano, riposto sempre allo stesso posto e lo userà solo negli orari consentiti dal regolamento condominiale.
Diversamente, il tipo pragmatico è maggiormente impulsivo. Ha una grande energia corporea, che usa a piene mani, senza troppo ragionarci sopra, perché pensa in modo sintetico, senza fronzoli o preoccupazioni.
Questo tipo, dovendo montare lo scaffale, prende e e trapana il muro, senza starci su a pensare. Il processo cognitivo seguito non è ricostruibile, perché tra il pensiero e l’azione non frappone tempi.
prende e lo monta, perfettamente, senza saper descrivere il  procedimento seguito.
Magari poi, però, qualcun altro si accorge che il colore dello scaffale è un po’ diverso dal resto dell’arredamento o lui stesso, nella foga dell’azione, si fa male o rompe qualcosa.
L’Intelligenza Spaziale  e il procedimento dei creativi, che si estende nello spazio senza limiti. E’ un’intelligenza dinamica, che si muove a tutto tondo nello spazio, che mescola le conoscenze, che crea, che inventa e reinventa, ristruttura. Per utilizzarla, è necessario saper adoperare contemporaneamente più strumenti e più piani di conoscenza. Chi ne fa uso ha  una grande capacità di problem solving attraverso l’intuitività. Talvolta, tuttavia, si perde nelle sue connessioni, diminuendo così l’efficacia pragmatica delle sue azioni.
E’ il tipo che per montare uno scaffale, ci fa sopra tutta una filosofia, cerca un modello di design, che, spesso, risulta poco funzionale.
L’Intelligenza Linguistica contraddistingue il tipo emozionale /effervescente.
E’legata all’espressività, alle forme della comunicazione. Ciò non comporta la conoscenza grammaticale delle lingue, ma l’appropriazione quasi immediata del modo di parlare, dell’idioma  tipico di un territorio. Questo tipo narrerà il suo progetto di montare lo scaffale, descrivendone il modello, la funzionalità, il colore: ma poi dimenticherà di montarlo!
Il tipo accomodante/plastico ha un’attitudine all’adattamento, alla mimesi, alla calma . E’ il tipo che , prendendo in esame la possibilità di montare un nuovo scaffale, per non affannarsi troppo, decide che può farne senza.
Il tipo percettivo, sensibile e inquieto, è caratterizzato da una intelligenza intrapersonale, che sa sentire e spiegare ciò che accade dentro di sé e sa percepire ciò di cui l’altro ha bisogno.
Questo tipo può valutare la necessità di montare lo scaffale, ma, ritenendo che al partner la cosa non interessi, può lasciar perdere.
Il tipo relazionale, a sua volta, monta lo scaffale per far piacere al partner, per essere da lui apprezzato. Lo monta bene e con attenzione, non tanto per il piacere di farlo, ma per il piacere di fare un piacere.
Ognuno di questi tipi apprende in modo caratteristico.
Il logico stabilizza le sue conoscenze attraverso l’ordine e la precisione , attraverso classificatori.
Il tipo pragmatico impara attraverso la pratica, l’azione.
Tramite la spiegazione dei processi il tipo creativo riesce a dare forma e sistematicità, ovvero senso e concretezza,  alla sua dispersione  cognitiva.
L’Emozionale e il Relazionale imparano parlando, cioè ripetendo ciò che hanno letto. Solo attraverso l’espressione riescono ad ancorare nella memoria quanto hanno appreso.
Il Plastico e il Percettivo si esprimono attraverso immagini che sintetizzano il loro pensiero e il loro apprendimento.
Tuttavia, mentre il plastico nell’espressione risulta armonioso e pacato, l’inquietudine rende l’invisibile/percettivo un po’ angosciato , interferendo spesso con il processo comunicativo.
Come si diceva, gli affettivi apprendono attraverso la relazione e il contatto,attraverso le storie e i racconti. Per poter apprendere in modo efficace hanno necessità di stabilire un rapporto affettivo con chi insegna.
Sono i ragazzini che hanno estrema difficoltà negli scritti, perché bisognosi di riconoscimento , di verificarsi nel non verbale dell’insegnante.
Per questo spesso hanno necessità di studiare con qualcuno, su cui, però, si appoggiano eccessivamente, rischiando di non mostrare quanto sanno in sua assenza.
Le persone si distinguono anche per l’attribuzione di responsabilità.  Ovvero, ogni individuo attribuisce, a seconda della sua tipologia emozionale e cognitiva , gli effetti del suo successo o del suo insuccesso a se stesso o agli altri.
Può essere utile qui, brevemente, illustrare le differenze, ricordando che questa classificazione è puramente didattica.
Il Logico attribuisce la responsabilità a se stesso sia di fronte ad un successo, sia di fronte all’insuccesso.  Nelle estremizzazioni di questo atteggiamento si nasconde un delirio di onnipotenza, che può divenire irrazionale.
Anche il pragmatico, sebbene sia più istintivo, attribuisce a se stesso sia la causa dell’insuccesso, sia del successo.
Il successo del creativo è sempre attribuito a se stesso, mentre il fallimento viene addossato all’incomprensione altrui o ad altrui responsabilità.
L’Emozionale può attribuire il merito dei successi e degli eventi positivi sia a se stesso, sia al lavoro di gruppo: mentre la causa degli eventi negativi e degli insuccessi è sempre altrui.
Il Plastico  attribuisce gli eventi positivi e i propri successi sempre al merito degli altri o alla fortuna: di fronte agli eventi negativi si spegne e si rifugia nell’oblio rimuovendo il problema.
I percettivi/invisibili tendono ad attribuire al favore di altri il merito dei propri successi. Al contrario, si colpevolizzano di fronte all’insuccesso o ad eventi negativi.
Infine, il Relazionale è solito attribuire il merito dei successi alla collaborazione del gruppo con il quale opera. Per eccessiva disponibilità verso gli altri, attribuisce a se stesso gli insuccessi, anche nel caso siano chiaramente causati da altri.
L’attività scelta deve tener conto anche della capacità di leadership, laddove “”essere il capo” è necessario a condurre un gruppo di lavoro, o un’impresa o a promuovere la propria attività.
Il logico Analitico ha una leadership forte, in genere data dall’autorevolezza, o, nei casi negativi, dall’autoritarismo. Sa essere strategico nelle scelte, ma poco capace di dimostrare interesse relazionale e affettivo.
Il leader pragmatico è capace di incoraggiare e faticare con i suoi collaboratori. Talvolta è troppo impulsivo e rischia di esplodere in scenate.
La leadership del creativo è troppo morbida, dal momento che quest’individuo è spesso troppo originale e distante dal resto del gruppo, pertanto può risultare incompreso. E’ però la persona giusta nel ruolo di innovatore.
L’Emozionale sostiene e aiuta. Data la sua solarità e il suo conformismo, è accettato nel gruppo. E’ il leader ideale per promuovere le iniziative e per definire l’immagine del gruppo.
Nel gruppo il Plastico Apatico svolge la funzione interpretativa, dal momento che le sue capacità cognitive sono molto sviluppate in senso costruttivo (quando non si spegne); riesce a offrire sia in termini teorici che relazionali delle innovazioni comprese dal gruppo. Tuttavia, spento e passivo com’è, non può svolgere funzioni di suggerimento e d’aiuto. Spesso nel gruppo viene isolato, o magari svolge nominalmente la funzione di leader, ma non la esercita.
Il Percettivo svolge nel gruppo un ruolo di supporto, sostenendo l’azione altrui, senza per questo dare aiuto. . Inoltre ha funzioni di comprensione, dovute alla sua capacità di comprendere le posizioni degli altri. Può rimanere in una posizione intermedia,in cui, pur non esponendosi troppo, può agire positivamente sul gruppo.
Il Relazionale aiuta in modo attivo, dinamico. Il suo ruolo nel gruppo dipende dal tipo di contesto in cui è inserito. Rischia di essere svalutato nei gruppi molto competitivi e in cui l’importanza delle relazioni è sottovalutata a favore del business.
L’espressione più completa ed emblematica di Leadership affettiva è la maestra di scuola materna, che tende a creare legami e a sedare conflitti.
La Leadership materna quando sono rispettati i ruoli tradizionali,corrisponde a quella Affettiva Relazionale e Invisibile, mentre quella paterna , magari anche consensuale, è più orientata verso il versante motivante organizzativo.
La Leadership , dunque, riguarda il proprio modo di considerarsi, il modo  di relazionarsi alle cose pratiche e il modo di entrare in relazione con gli altri.
Si può dire, per esempio, che in assoluto coloro che ottengono migliori voti a scuola sono gli Emozionali e gli Analitici; questo non vuol dire che siano i più intelligenti o i più preparati, ma solo che rendono più efficacemente nelle prove scolastiche, dal momento che gli Analitici sono meticolosi e sistematici nello studio e gli Emozionali sono furbi nel porsi nella relazione.
La Leadership, di per sé, è l’espressione più matura di una struttura di personalità e, dunque, di un percorso esistenziale.
In età adulta la soddisfazione delle scelte fatte  , e dunque l’espressione evoluta della leadership personale, è determinata dallo sviluppo armonico delle potenzialità, , dal potenziamento dei talenti naturali, dall’acquisizione di competenze di campo, specifiche e necessarie al raggiungimento degli obiettivi esistenziali ambiti.
A questo si deve anche aggiungere che l’espressione evoluta delle attitudini spinge l’individuo, ad ogni età, ad esplorare , espandere approfondire ulteriormente le proprie conoscenze specifiche e limitrofe al campo in cui opera, in una costante ricerca di ulteriore gusto e significato del proprio fare.
In altre parole, ciò che può favorire la definizione di tappe esistenziali soddisfacenti e evolutive è l’opportunità di   fare ciò che viene meglio, più ancora che svolgere la mansione per cui si è preparati o per la quale si hanno i titoli.
Ovvero, è probabile che un laureato in giurisprudenza con una grande passione per il teatro sarà più felice e appagato, nel caso in cui decidesse di investire sulla sua passione, piuttosto che nel caso in cui decidesse di seguire la professione familiare.
Così, per gli Analitici i settori professionali d’elezione sono quelli che hanno a che fare con l’amministrazione, con la burocrazia, con il controllo delle procedure; in altre parole, questi individui vanno orientati verso le mansioni connesse al concetto di responsabilità, di precisione, di accuratezza.
L’area dell’imprenditoria intesa come grinta, rischio, fatica e coraggio, prontezza e reattività, è elettiva per i Pragmatici. Ovvero, è meglio che queste persone scelgano il ruolo di libero professionista, di consulente, piuttosto che di dipendente.
Il Creativo deve essere orientato verso percorsi  di ricerca, verso l’insegnamento. Non ha bisogno di spendere energie fisiche come il Pragmatico; pertanto, sta bene giorni interi in laboratorio o sul computer. Anche per svolgere la professione di pubblicitario, può essere coinvolto un Creativo. Tuttavia, l’Emozionale trova in questo settore un suo ambito elettivo, perché sa farsi comprendere dagli altri e sa rispondere alle esigenze altrui.
Dunque, l’Emozionale va orientato verso le pubbliche relazioni, perché sa come fare contenta la gente.
Il Plastico va orientato verso il settore burocratico e diplomatico. E’ il mediatore per eccellenza. Può svolgere anche la professione di sommelier o di “naso”, per la sua raffinatezza sensoriale, per la sua flemma estatica, che lo rende in grado di cogliere le sfumature.
L’area del sostegno e del servizio alle persone è quella dei Percettivi.
Per il relazionale le mansioni verso cui essere orientato sono quelle legate all’istruzione primaria  , o quelle legate ai rapporti con la clientela . Sono persone che hanno piacere nel parlare con le persone, nel dare indicazioni.
In conclusione, sembra opportuno sottolineare che le specificità individuali entrano in gioco, e devono esser prese in considerazione, non solo nelle scelte professionali, ma anche nelle scelte relazionali e nelle attività volontaristiche o hobbistiche.
In qualunque ambito gli individui operino, per essere soddisfatti e attribuire un valore alla propria quotidianità, un presupposto ineliminabile consiste proprio nella possibilità di esplicitare il meglio di sé, ciò per cui si è fieri e orgogliosi, ciò in cui più pienamente si riconosce se stessi.

 

BIBLIOGRAFIA

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CREPET P., I figli non crescono più, Editore Einaudi, 2005.
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Fonte: http://www.prepos.it/DISPENSE/per%20migliorare%20la%20consapevolezza.doc

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