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La dinamica del rischio e la sicurezza sul lavoro
Carli R., Paniccia R.M., Salvatore S. (1995), “La dinamica del rischio e la sicurezza sul lavoro”, in La sicurezza sul lavoro (D. L. 626/94), Fondazione Enérgeia Edizioni, 55-80.
1 - PREMESSA
In queste brevi note a forma di dispensa ci proponiamo un preciso obiettivo: presentare gli aspetti psicologici della prevenzione agli infortuni e della sicurezza sul lavoro.
Ci si potrà chiedere cosa c'entra la psicologia con questa tematica. Ma anche che cosa sia la psicologia. Chi ci legge potrà legittimamente porsi un interrogativo sul senso di un approccio psicologico alla sicurezza.
Prima di addentrarci in questi problemi vediamo se ci si pu’ intendere in poche righe su cosa sia la psicologia, su quale sia l'area dei fatti umani alla quale si rivolge la psicologia. Vediamo di spiegarci con un esempio, tratto da un fatto storico.
Nel 1334 la duchessa del Tirolo - racconta in un suo libro lo psicologo Paul Watzlawick
fece stringere d'assedio un castello in Carinzia. La duchessa sapeva molto bene che la fortezza, posta su una rupe scoscesa, alta sulla vallata, era inespugnabile ad un assalto diretto e avrebbe ceduto solo dopo un lungo assedio, contando sul blocco dei rifornimenti alimentari agli assediati. Il tempo passava, e la situazione si faceva critica per i difensori: un brutto giorno si accorsero che tutto ci’ che restava delle loro provviste era un bue e due sacchi d'orzo. Anche le truppe della duchessa, che sostenevano da lungo tempo l'assedio, mostravano segni di impazienza e di indisciplina.
A questo punto, il comandante del castello decise un'azione disperata, che apparentemente poteva sembrare una "follia": fece uccidere e cuocere l'ultimo bue, lo fece farcire con l'orzo rimasto e ordin’ che il tutto, cibo particolarmente ben riuscito, venisse fatto rotolare nel campo nemico. La duchessa, alla vista di quel messaggio, tolse l'assedio allontanandosi con le sue truppe.
E' sorprendente quanto possa essere efficace una comunicazione, un messaggio in modi e tempi particolari. Ed è anche sorprendente quanto sia imprevedibile ed apparentemente strano il comportamento umano: il capo di una fortezza assediata getta al nemico le ultime riserve di cibo, mentre sta per essere sconfitto per fame; e per tutta risposta gli assedianti, ormai sicuri vincitori, abbandonano il campo. Roba da pazzi!
Già, si è subito portati a definire pazza o folle una persona che non fa quello che noi avremmo sicuramente fatto in quel frangente; eppure nel caso del comandante del castello non si tratt’ di una follia, bens“ di un rischio calcolato.
Il comportamento umano: una realtà che tutti credono di poter capire e valutare, ma che di fatto non si conosce quasi per niente. Soltanto da poco si è iniziato ad esplorare questo continente sconosciuto.
Se si guarda bene, sono molti a credere di poter consigliare o decidere per l'altro quale sia la cosa migliore da farsi: l'insegnante nei confronti dei suoi allievi, i genitori verso i figli, gli adulti nei confronti dei giovani; sacerdoti, militari, letterati, dirigenti, uomini politici, benpensanti, esperti d'organizzazione, amici fidati, ognuno trova sempre un consiglio, un suggerimento, un rimprovero.
Tutti, si dice, siamo un po' psicologi.
Ecco una prima caratteristica della psicologia: si tratta di una scienza che riguarda il comportamento dell'uomo, e quindi tutti gli esseri umani pensano di esserne esperti. Contrariamente a quanto accade per altre scienze: è raro trovare chi afferma di essere un po’ chimico, un po’ biologo, un po’ astrofisico....
Ma la psicologia, contrariamente a quello che si ritiene usualmente, si occupa del comportamento proprio a partire da ciò che non è ovvio, da ciò che non fa parte del senso comune.
La psicologia è una scienza, ed utilizza specifici modelli per l'analisi e la comprensione di ciò che studia. Possiamo allora comprendere l'obiettivo di queste dispense: fornire al lettore alcuni modelli "psicologici" per la lettura e la comprensione di quella parte del comportamento umano che concerne il rischio, la sicurezza, la prevenzione degli infortuni in ambito lavorativo. I limiti della dispensa non ci consentiranno una trattazione esauriente di un tema che ha visto impegnati molti ricercatori, sul quale sono state proposte moltissime pubblicazioni, per il quale si sono formulate differenti teorie in base ai modelli psicologici di riferimento.
Vi diremo le nostre idee in proposito; frutto di anni di esperienza nell'ambito delle organizzazioni aziendali e di ricerche sui processi decisionali, sulle dinamiche sociali, sulle motivazioni e sulla rappresentazione sociale di differenti fenomenologie, tra le quali la rischiosità.
Un'ultima notazione in proposito: concerne il lavoro, il rapporto tra i lavoratori e la relazione dei singoli e dei gruppi con l'organizzazione del lavoro. Molti anni fa uno psicologo statunitense intese studiare i fattori "oggettivi" che potevano influenzare il rendimento lavorativo. Si propose di studiare il comportamento lavorativo delle operaie di un reparto di fabbricazione di semiconduttori. Pensava che il livello di illuminazione del reparto potesse influenzare il livello di produzione; dispose quindi un esperimento ove il rendimento produttivo veniva misurato, nel suo variare, al variare dell'illuminazione del reparto. E riscontrò quello che si aspettava: le operaie rendevano di più con un livello elevato di illuminazione. Pensò allora alla prova del nove: diminuì l'illuminazione, aspettandosi una diminuzione del rendimento. Ebbene: il rendimento continuò ad aumentare (entro certi limiti di abbassamento dell'illuminazione, s'intende). E allora? Per farla breve: ci si accorse che quelle operaie avevano aumentato il loro rendimento per il fatto che qualcuno si era occupato di loro, sia pure trafficando con l'illuminazione del reparto. Si scoprì la motivazione affiliativa!
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti della psicologia clinica nelle organizzazioni. Ma quella scoperta è rimasta nella storia del pensiero umano. L'uomo al lavoro (ma non solo) non "si comporta" soltanto in funzione delle condizioni "strutturali" del contesto lavorativo; la realtà motivazionale, la dinamica istituzionale rivestono altrettanta importanza nella comprensione dei fenomeni lavorativi.
Ci sia consentita una osservazione in proposito; l'occasione di queste dispense riveste essa stessa un'interessante valenza psicologica. Il fatto che impresa e sindacato siano chiamati a tutelare in modo sinergico la sicurezza sul lavoro crea un contesto culturale nuovo. Si apre un'area ove la simbolizzazione reciproca tra responsabili d'impresa e sindacato può richiedere modelli nuovi. E' già questa un'area che potremo considerare come spunto per riflessioni orientate dai modelli psicologici che presenteremo. Nella speranza di essere di qualche utilità a chi ha la pazienza di leggerci.
Un'ultima notazione sulla struttura delle dispense. Ci siamo trovati, al momento della loro estensione, davanti ad un bivio, entro una decisione non facile. Potevamo proporre una trattazione sistematica, storico critica del tema. Scrivendo una dispensa divisa per temi, capitoli, paragrafi ben definiti. Il lettore avrebbe saputo "tutto" su quello che si è scritto sulla sicurezza dal punto di vista psicologico. Ma è questo il nostro obiettivo? Ci sembra di no. Se una persona vuole apprendere ad andare in bicicletta non lo farà mai leggendo un trattato sulla bicicletta; con i trattato saprà quando è stata fabbricata la prima bicicletta, il numero delle biciclette in Cina, quali sono i nuovi materiali per la costruzione del telaio etc. Ma non apprenderà ad andare in bicicletta.
Noi vorremmo insegnarvi ad andare in bicicletta. Vorremmo porre delle questioni, perchè il lettore si interroghi su quanto può sembrare scontato, perchè possa guardare da un nuovo punto di vista la tematica della sicurezza sul lavoro. Per questo tratteremo problemi, faremo esempi che non riguarderanno sempre la sicurezza, ma cose della vita quotidiana di ciascuno di noi. La nostra speranza è quella di stimolare un pensiero. E di motivare ad una competenza.
2 - LA VARIABILITA INDIVIDUALE E LE CULTURE LOCALI
Le nostre riflessioni partono da alcune considerazioni che segnalano la differenza di impostazione tra la nostra ottica - psicologica, appunto - e quella che caratterizza la tecnica ingegneristica o il sapere giuridico.
Ci sembra importante marcare la differenza tra l'impostazione che utilizzeremo in questo scritto e le due ora ricordate perchè la tendenza culturale attuale è quella di restringere all'ambito giuridico e tecnico la tematica della prevenzione. Il nostro intento è quello di giustificare l'integrazione nell'ottica psicologica agli approcci prima ricordati.
Tali approcci sono orientati, infatti, alla definizione di criteri di riferimento a cui conformare il comportamento:
- l’ottica giuridica dice come le cose devono andare da un punto di vista normativo;
- l’ impostazione tecnica dice come le cose devono andare da un punto di vista tecnico.
Sia il contributo giuridico come quello tecnico, d'altro canto, riconoscono come non sia per niente scontato il rapporto tra i criteri che vengono elaborati e i comportamenti realmente messi in atto. Nel campo degli studi giuridici la problematicità del rapporto tra le norme e i comportamenti normati è diventata di per sè un oggetto di studi specifico. Dalla fine degli anni '50, infatti, soprattutto nei paesi anglosassoni, si è avuto un fiorire di ricerche e teorie sui cosiddetti "processi di implementazione", cioè sulle dinamiche caratterizzanti la messa in atto (ecco il comportamento e le sue cause psicologiche!) di disposizioni normative (Selznick 1949, Pressman e Wildavsky 1973; Salvatore e Paplomatas 1992). Più o meno nello stesso periodo, ha cominciato a definirsi l'idea che il comportamento organizzativo non può essere controllato soltanto in funzione del suo contenuto tecnico. Si pensi, ad esempio, a quegli autori che negli anni '60, in polemica con le convinzioni allora consolidate, hanno definito il comportamento come "sistema socio-tecnico" (Emery F. D. e Trist E. L., "The evolution of Organization Enviroments1968, trad. it. parz. in De Masi D. (a cura di), Sociologia dell'azienda, Il Mulino, Bologna 1973).
Quanto detto in generale vale anche nel caso della sicurezza. Anche in questo ambito specifico, infatti, sono gli stessi "addetti ai lavori" a segnalare il carattere problematico del rapporto tra norma e comportamenti. Si afferma, da parte di chi si occupa di sicurezza in ambito normativo, che si sta passando da una legislazione centrata su norme tecniche, ad una centrata sui comportamenti; sottolineando che il problema verte proprio su quanto le persone fanno, più che sulle eventuali carenze dell’ apparato normativo. Ciò, del resto, è ben comprensibile se si tiene conto del fatto che la normativa sulla sicurezza in Italia è da lungo tempo (fin dagli anni '50) molto avanzata (Pavanello R., "La prevenzione al TOP (totale, organizzata, preventiva). Introduzione generale", in Manuale D. Lgs. 626/94: lavoro e sicurezza al "TOP", Numero speciale di Dossier Ambiente, , anno VII, n. 28, dicembre 1994). Il problema, quindi, non sta nel migliorare le norme, ma nell'applicarle. Ed ancora, il problema dell'applicazione concerne temi a fondamento psicologico.
Sul piano eminentemente tecnico, d'altra parte, si segnala la problematicità nel connettere il dire col fare; una ricca casistica illustra questa discrasia. Chi si occupa di sicurezza sa quanto sia tutt’altro che scontato che i lavoratori adottino gli scarponi adatti o gli elmetti, nei cantieri o nei reparti di produzione; chi si occupa di sicurezza sa quanto sia difficile convincere i lavoratori all'uso dei mezzi di prevenzione ed all'adozione delle procedure di sicurezza sul lavoro; chi si occupa di sicurezza sa che avrà a che fare con atteggiamenti non prevedibili, apparentemente irrazionali, atteggiamenti definiti "spavaldi e irresponsabili” da più di un addetto.
Chiediamoci, allora, cosa vuol dire: ‘è difficile convincere le persone’. Quando evochiamo questo problema, stiamo dicendo che, in contrasto con quanto si pensa sia ragionevole o doveroso fare, resta una variabilità individuale dei comportamenti legata ad alcuni fattori che chiamiamo psicologici.
E' qui necessaria una precisazione. Quanto fin qui detto potrebbe far pensare che la psicologia entra in gioco quando il problema è quello di sanare il comportamento deviante. In realtà, l'impostazione di questo intervento riflette un'idea molto diversa, che speriamo si chiarisca nel corso del discorso. Per il momento la specifichiamo in negativo: la psicologia non è quel che rimane quando si è spiegato tutto quello che di comprensibile c’è nel comportamento e nella realtà organizzativa.
Nello Studio di consulenza organizzativa del quale facciamo parte, usiamo, nel gergo, parlare della ‘sindrome-Agatha-Christie’. La scrittrice, in uno dei suoi gialli, parla di alcuni furti, che tutti presumono, ovviamente, siano motivati da mancanza di danaro. Quando si scopre che l'autore dei furti è un ricco possidente terriero, un altro personaggio esclama stupefatto: ‘ma allora quel signore ruba per motivi psicologici!’. In altri termini, se uno ha bisogno di soldi, ‘si capisce’ perchè ruba; se è ricco, se ha molto denaro allora interviene la psicologia. Ancora un passo, un po’ meno di compostezza inglese, e si arriva a ‘roba da pazzi!’ e al ‘tu hai bisogno dello psicologo!’, detto come qualcosa di poco cortese.
Nella ‘sindrome-Agatha-Christie’ i fattori psicologici sono intesi come "quello che rimane incomprensibile" dopo che abbiamo cercato di capire le cose col buon senso. La riteniamo una lettura falsata della realtà; evitiamo quindi di pensare che la psicologia spiegherà quanto risulta dal fallimento del ‘bisogna fare così‘ .
In effetti abbiamo, senza dichiararlo, appena fatto un altro piccolo passo per andare verso un criterio di lettura dei comportamenti; torniamo indietro e chiariamolo: il ‘buon senso’ e il ‘bisogna fare così ‘ non sono la stessa cosa della normativa giuridica o della procedura tecnica; sono la normativa giuridica e la procedura tecnica calate in quel tessuto connettivo di atteggiamenti e modi di vedere le cose che caratterizzano il gruppo di persone che condivide uno stesso contesto organizzativo. Insieme di atteggiamenti e di rappresentazioni della realtà che definiamo ‘culture locali’.
La psicologia, quindi, cerca di capire come funziona il buon senso: ad esempio nei comportamenti all'interno di una struttura organizzativa.
E cerca di stabilire quale rapporto possa esservi tra buon senso e cose che non si capiscono, tra il buon senso e il suo fallimento. Buon senso che, come si vedrà, è diverso da luogo a luogo, da contesto a contesto, ed alcune volte, visto da un estraneo, da chi a quel contesto non appartiene, può apparire piuttosto stravagante e tutt’altro che sensato. Si pensi alla contessa del Tirolo ed al comandante del castello assediato!
Viene alla mente l’artificio letterario adottato da uno scrittore illuminista, Montesquieu, che volendo parlare dell’Europa osservandola in modo spregiudicato, disincantato e insieme attento, curioso, ne prese le distanze, invitando i suoi lettori a fare altrettanto; fingeva di essere un persiano che viveva in Europa e scriveva ai suoi conterranei parlando di un paese straniero, dove tutto quanto per gli ‘indigeni’ era ovvio a lui pareva relativo e oggetto di interrogazione. Noi psicologi studiamo queste specifiche configurazioni del buon senso che chiamiamo, come abbiamo detto, ‘culture locali’, cercando di adottare un’ottica ‘persiana’ ed invitiamo le persone con cui lavoriamo a fare la stessa cosa, come quello scrittore con i suoi lettori europei. ( de Montesquieu C. L. S., Lettere Persiane, Feltrinelli, Milano 1981).
Non a caso, quando facciamo ricerca sul nostro lavoro interloquiamo anche con gli antropologi. Un nostro amico antropologo ci portava come esempi di buon senso paradossale, due casi. Intendiamo dire, parlando di ‘buon senso paradossale’, che si tratta di due casi dove due gruppi umani attuano dei comportamenti che all’interno dei due gruppi sono condivisi e ritenuti più che sensati; ma anche di comportamenti che non garantiscono la sopravvivenza! Il primo di questi esempi riguarda una popolazione nomade siberiana, che utilizzava il cavallo come mezzo di locomozione; popolazione che, spostandosi sempre più a nord nella Siberia, in seguito ad una serie di vicissitudini, arriva in una zona dove non cresce più erba; l“ inizia a dar da mangiare carne ai cavalli, e continua così senza cogliere le sconferme del proprio tentativo, sino alla morte dell'intero branco. Col secondo esempio l’amico antropologo calca la mano e ci parla dei shaker, quel popolo vissuto nel nord america che praticava la castità, adottata come valore assoluto; questo popolo arriva ad estinguersi, inesorabilmente, in conseguenza del valore di vita adottato; dando per altro prova, in contemporanea, di una capacità notevole di produzione culturale: i loro mobili dal puro disegno essenziale, ancora riprodotti e qualche volta in vendita a carissimo prezzo sul mercato antiquario, sono un esempio insuperato di design.
Come vedete, stiamo arrivando ai problemi della sicurezza, connettendoli con quelle che abbiamo chiamato ‘culture locali’. Stiamo dicendo, in altri termini, che la cultura locale di un certo gruppo, in un determinato contesto storico, ambientale, organizzativo, può portare a vedere le cose in modo tale che non si abbiano criteri adeguati a garantire che i pericoli, anche quelli che mettono in pericolo la stessa esistenza, vengano evitati. Non si hanno strumenti culturali per vedere il fallimento del proprio ‘buon senso’ locale. Stiamo dicendo pure che ciò è possibile anche per quei gruppi che pure dimostrano di avere capacità di una produzione culturale molto ricca.
3-LA DISTINZIONE TRA FINI E OBIETTIVI. IL POSTULATO
DELLA RAZIONALITA’
Possiamo momentaneamente mettere da parte il concetto di ‘cultura locale’ e la sottolineatura della sua possibile non adeguatezza nel leggere il fallimento dei comportamenti, ai fini della sopravvivenza; invitiamo il lettore a fare riferimento ad un criterio di lettura del comportamento fondato sulla distinzione tra ‘fini’ e ‘obiettivi’, che è invece ancorato ad un postulato di razionalità del comportamento stesso. Questo passaggio di prospettiva è importante per inquadrare il tema della sicurezza e per iniziare una sua esplorazione nell'ottica psicologica.
Pensiamo alle organizzazioni sociali: nel linguaggio comune si tende ad utilizzare indifferentemente i termini "fini" o "obiettivi" per indicare ciò che l'organizzazione intende perseguire. Proviamo ad approfondire il tema individuando un'importante distinzione.
Un fine è uno stato della realtà socialmente desiderabile. In questo senso, la sicurezza è un fine. L’ infortunistica, ad esempio, tende a zero, anche se sappiamo che non vi si arriverà mai. L’ergonomia dice, in effetti, che in una fabbrica o in una situazione di lavoro ben organizzata, gli incidenti o gli infortuni non dovrebbero essere superiori a quelli che si verificano in casa. Si prende come pietra di paragone la situazione domestica perchè si suppone che in quel tipo di contesto le persone siano interessate e razionali - per quanto è possibile - almeno quel tanto da perseguire questo stato desiderabile delle cose, in altri termini la sicurezza. E' evidente il carattere di desiderabilità sociale del fine: nessuno penserebbe che il fine di un'organizzazione sia quello di creare occasioni per infortuni: in tal caso ci si troverebbe confrontati con un'organizzazione criminale. Ma non basta l'enunciato del fine per il raggiungimento di quanto con tale enunciato ci si propone.
L’obiettivo è il risultato più probabile di una tecnica scientificamente fondata. Quindi, la ‘sicurezza’ non è ancora un obiettivo, ma un fine da tradurre in obiettivo. Ecco allora un interrogativo importante: come realizzare tale traduzione, attraverso quali soluzioni tecniche "scientificamente fondate"? Interrogativo, quest'ultimo, per nulla scontato, vista l'abitudine prevalente a sottolineare i fini (come dovrebbero essere le cose) piuttosto che gli obiettivi (come si fa a farle andare come vogliamo).
Come finalità la sicurezza è desiderata da tutti: chi desidera che gli caschi una trave sulla testa, o che cada in testa al numero più alto possibile di colleghi o dipendenti in una fabbrica, senza che questa aspettativa non assuma con evidenza una fisionomia deviante? Noi ipotizziamo che ci sia una razionalità, intesa come tendenza, nelle persone, a massimizzare gli esiti corretti (ai fini della sopravvivenza) delle decisioni. Infatti, se ci risulta impossibile dire che il comportamento è sempre razionalmente orientato, ci sfuggirebbe, però, la comprensione di una gran parte di eventi sociali, e la possibilità di intervenire su di essi, se non postulassimo che esiste la possibilità di attuare comportamenti adeguati alla sopravvivenza e ad un rapporto utile con la realtà. In quest'ottica, possiamo allora considerare i comportamenti che violano le regole della sicurezza, come una sconferma del postulato della razionalità.
Quindi, come realizzare la sicurezza? Come trasformare il fine in obiettivi? Il problema diventa ‘tecnico’. Di una tecnica che sia in grado di affrontare anche la ‘difficoltà a convincere’, ‘gli atteggiamenti irresponsabili’ etc., ovvero la variabilità personale e i limiti del ‘buon senso locale’: quelle dinamiche che, come abbiamo visto, sconfermano il postulato di razionalità.
Spesso le committenze per i nostri interventi di consulenza organizzativa nascono proprio dalla percezione, da parte della committenza, dell’ inadeguatezza della cultura locale ad affrontare i problemi organizzativi (la declinazione in obiettivi) che l’indirizzo strategico (le finalità che l’organizzazione si pone) indica come necessari. In un’azienda produttrice di software, stiamo attuando un intervento per capire la cultura locale dell’area del personale, per vedere ostacoli e risorse presenti in rapporto allo sviluppo di competenze utili per trattare con i clienti interni ed esterni. Di fatto, l’area del personale viene da un passato di competenze prevalentemente amministrative e la cultura presente, di fronte alle richieste del cliente, dà risposte che sono molto più del tipo ‘questo non si può fare’ che non del tipo ‘vediamo come possiamo risolvere il problema’. Il nostro committente, responsabile del personale, ci diceva, parafrasando in modo divertente e acuto il nostro modello: ‘cercate di capire qualcosa dei nostri capricci locali!’.
4 - SICUREZZA, INFORTUNISTICA, TUTELA SALUTE
Ancora un passo in questo difficile cammino. Proponiamo al lettore di distinguere, nell'ambito della sicurezza, tra ‘tutela della salute’ e "infortunistica".
- La tutela della salute pone al centro del suo interesse la struttura dell’ ambiente di lavoro. Vale a dire: la sicurezza, in casi di questo tipo - ad esempio la protezione da agenti cancerogeni - è perseguita nei termini di costruzione dell'ambiente in funzione dello scopo di eliminare/ridurre gli agenti dannosi.
- L'infortunistica riguarda la definizione dei comportamenti lavorativi funzionali alla sicurezza e l'intervento che renda altamente probabile la loro attuazione . Nell’ infortunistica, quindi, il problema - dal punto di vista psicologico - è diverso, in quanto, entrando in gioco il comportamento, risulta implicata la variabilità personale e la relatività delle culture locali, che diventano fattori fortemente incidenti sulla sicurezza.
In effetti, si tratta delle due polarità di un continuum; per articolarle, possiamo dire che nella tutela della salute la tendenza alla razionalità - intesa come prevenzione dalle malattie professionali, ad esempio la silicosi o l’ asbestosi etc. - è fortemente coerente con i modelli culturali generalmente condivisi dalla nostra cultura occidentale. In altri termini, in questo ambito si suppone che quello che abbiamo chiamato ‘il tessuto connettivo’ in cui si calano norme e procedure tecniche, ovvero il comportamento delle persone, è sufficientemente coerente con ‘il si deve fare così‘ delle norme e procedure stesse.
Nell’ infortunistica, invece, si pone una problematica strettamente collegata con le specificità, con i modelli culturali locali, quelli che caratterizzano il particolare sistema lavorativo di cui ci si occupa; in altri termini, mentre la ‘tutela della salute’ è il campo della declinazione del ‘si deve fare così‘; l’’infortunistica’ è il campo delle divergenze da queste indicazioni generali e dell’intervento psicologico ed organizzativo, che elaborino lo scarto tra ciò che si deve fare e ciò che di fatto si fa.
Occupiamoci quindi dell’ infortunistica. Le teorie che hanno in qualche modo orientato la problematica dell’ infortunistica sono tre:
- teoria della causalità individuale di 1¡ tipo (la predisposizione individuale agli infortuni). Siamo nel periodo in cui si pensava che la psicologia fosse qualcosa che caratterizzava i singoli individui, ad esempio l’’intrapsichico’ delle persone. Si riteneva, di fatto, che alcune persone avessero una specifica propensione all’ infortunio (accident proneness), e quindi che - a differenza delle altre - sviluppassero comportamenti che favorivano infortuni. Naturalmente, questa ipotesi si basava su una lettura fenomenica che caratterizzava l’ incidente come più tipizzante certi individui che non altri, all’ interno di una situazione a contesto fisso: l’attenzione era tutta rivolta all’individuo e per nulla all’ambiente.
La teoria della predisposizione si è sviluppata a partire dalla ricerca svolta nel 1919 da Greenwood e Woods presso l'arsenale londinese. I due studiosi analizzarono gli infortuni subiti dalle operaie della fabbrica lungo un periodo di circa un anno, concludendo che alcune di esse, rispetto alle altre, mostravano una suscettibilità a subire incidenti. A partire da questa conclusione, gli studiosi si orientarono alla identificazione dei fattori (strettamente individuali) differenzianti i soggetti con predisposizione da quelli privi di tale "fattore". Studi di questo tipo si moltiplicarono, soprattutto nel ventennio '30-'40, quando si arrivò a definire la predisposizione come "tendenza costituzionale, durevole e stabile, di alcuni individui a subire un numero enormemente elevato di infortuni" (Pistaceci C. e Santini G., La sicurezza sul lavoro, Etas, Milano 1973).
Oggi questa teoria risulta chiaramente obsoleta: oltre a non aver ottenuto valide conferme statistiche, non ha dato strumenti adeguati per l’intervento.
- teoria della causalità individuale di 2¡ tipo (i fattori correlati). Un’ altra teoria individualistica è quella che si propone di evidenziare quelle caratteristiche specifiche delle persone che si suppongono collegate con le loro capacità, e le mette in rapporto col processo infortunistico. Si tratta, in realtà, dell'evoluzione della teoria precedente, nella direzione di una specificazione più dettagliata delle componenti che intervengono a differenziare i lavoratori predisposti dagli altri. In quest'ottica, si è cercato, ad esempio, una correlazione tra l'incidenza degli infortuni ed una vasta gamma di variabili psico-socio-biologiche (sesso, età, esperienza lavorativa, livello formativo, intelligenza) (per una rapida panoramica sui fattori presi in considerazione da queste ricerche, cfr. Marocci G., "La sicurezza sul lavoro", in Bruscaglioni M e Spaltro E. (a cura di), Psicologia Organizzativa, Enciclopedia di direzione e organizzazione aziendale, Sez. I, Vol. V, Tomo III, Franco Angeli 1990).
Anche in questo caso, si parte da una situazione a contesto fisso e si cercano cause collegate con le capacità delle persone. Anche in questo caso, inoltre, i dati sono risultati contraddittori e poco convincenti, poco validi sul piano statistico, e scarsamente utilizzabili ed utilizzati sul piano dell'intervento.
Di fatto, l’ ipotesi della casualità individuale dell’ infortunio forza la realtà del rapporto individuo/contesto per sbilanciarla in favore del polo ‘individuo’ e del singolo caso.
- teoria della causalità ambientale : negli anni Ô50/’60, invece, si sviluppa una letteratura sull’ infortunistica che legge l’ infortunio in termini di cause ambientali. Questa attenzione all’ambiente produce alcune interessanti ipotesi di intervento, che si declinano in termini di prevenzione. La nostra impressione è che il decreto legislativo 626 rientri in questo ambito, sottolineando innanzitutto la possibilità di prevenire intervenendo sull’ ambiente.
- teoria individuo/contesto: c’ è infine una quarta ipotesi teorica, che nasce in ambito psicologico e che ipotizza per l’ infortunistica un’analisi causale che metta in relazione l’ individuo con il contesto. Questa teoria legge il comportamento individuale in funzione del contesto in cui è iscritto.
Come dovrebbe essere ormai chiaro, il presente intervento si inserisce in questa quarta ottica teorica, che adesso andremo ad approfondire.
5-LA COMPETENZA ORGANIZZATIVA NELL’OTTICA PSICOLOGICA
Il gruppo scientifico e professionale del quale gli autori del presente scritto fa parte ha proposto una specifica definizione della competenza organizzativa: la competenza organizzativa, nella nostra ottica, è la capacità di una persona di leggere, capire il contesto in cui si trova, e di collocarsi utilmente, realisticamente al suo interno. Una competenza a prima vista ovvia, alla portata di molti se non di tutti. Vedremo che le cose non stanno così, vedremo che la lettura competente del contesto è difficile, e che sulla sua strada si possono trovare numerosissimi ostacoli.
Qualche esempio in proposito. Pensiamo a quei capi, durante una riunione di lavoro, che parlano ininterrottamente, senza lasciare alcuno spazio agli altri partecipanti; anche dopo aver detto: ‘adesso vorrei sentire la vostra opinione!’. E magari hanno indetto quella riunione proprio con l'obiettivo di raccogliere informazioni e pareri.
E' evidente che siamo confrontati con un caso di incompetenza all'utilizzazione di uno strumento di lavoro. Qui l'incompetenza organizzativa può comportare costi molto alti: supponiamo, ad esempio, che la riunione sia indetta per avere informazioni necessarie a gestire i problemi di sicurezza...
Come si capisce, questo tipo di competenza organizzativa - la competenza organizzativa vista in un’ ottica psicologica - è quella che coopera alla prevenzione dell’ infortunio, insieme alla presenza di corrette normative comportamentali e procedure tecniche. La competenza organizzativa intesa in senso psicologico, quella per cui una persona sa "dove si trova" e "a che fare", comporta una comprensione dell’ organizzazione: dei suoi obiettivi, dei ruoli e delle funzioni, ma anche una comprensione della traduzione emozionale che dell'organizzazione viene data da sè e dagli altri, della cultura locale in atto. Su questo ultimo punto torneremo tra breve.
6- PERICOLO/RISCHIO/DECISIONE
Il punto centrale del Decreto Leg. 626 è la valutazione del rischio: questa diventa infatti un’ operazione richiesta dalla legge. Ciò, evidentemente, pone un problema definitorio.
Si veda in proposito il documento Orientamenti riguardo alla valutazione dei rischi sul lavoro (Comunità Europea DG V/E/2, Unità di medicina e igiene del lavoro; cfr.: Bello G. C., Galatola E., Tazzioli R., Zucchini A., "La valutazione dei rischi ai sensi del D. Lgs. 626/94. Linee guida e strumenti operativi", in Decreto Legislativo 626/94: Salute e Sicurezza sul Lavoro. La valutazione dei rischi" Numero speciale di Dossier Ambiente, , anno VIII, n. 29, marzo 1995). In tale documento si forniscono le seguenti definizioni:
- pericolo: proprietà o qualità intrinseca di una determinata entità avente il potenziale di causare danno;
- rischio: probabilità che sia raggiunto il limite potenziale di danno nelle condizioni di impiego e/o esposizione.
E’ come se si dicesse: esistono situazioni pericolose - collegate con il voltaggio dell’ energia elettrica, o con la presenza di sostanze nocive nel processo produttivo, o di virus ad alta valenza infettiva nel gruppo dei lavoratori etc. - che comunque devono essere avvicinate. C’è quindi una oggettiva situazione di pericolo; di conseguenza ci devono essere delle misure di sicurezza. Il rischio è ciò che rimane una volta che si siano attuate le misure di sicurezza in rapporto a situazioni oggettivamente pericolose.
Ricapitoliamo: esistono situazioni oggettive di pericolo e le corrispondenti misure di sicurezza Il rischio è ciò che rimane dopo aver attuate tali misure di sicurezza. In altri termini, il rischio è definito come qualcosa che esiste sul posto di lavoro e che caratterizza fenomeni ambientali, attrezzistici o di prodotto. Simile impostazione definisce anche il modello generale adottato per la quantificazione del parametro. Nel documento comunitario, infatti, il rischio viene valutato nei termini del prodotto della probabilità dell’ evento per la conseguenza che provoca. In termini matematici, R= f(M,P), con R= magnitudo del rischio; M= magnitudo delle conseguenze dannose; P= probabilità del verificarsi delle conseguenze (Bello G. C., Galatola E., Tazzioli R., Zucchini A., op. cit.).
Entrambe le definizioni lasciano, pero’, delle perplessità dal punto di vista psicologico, in quanto concepiscono tutti i parametri in termini tecnico-oggettivi, come proprietà intrinseche, anche se descrivibili in termini probabilistici, del contesto ambientale. In altri termini: possiamo sempre intendere il rischio come sinonimo di pericolo? Vediamo se non ci è di aiuto il proporre una distinzione tra i due.
Proponiamo di continuare a considerare il pericolo come una condizione oggettiva di probabilità di danno. Definiamo, invece, il rischio come un sentimento soggettivo di pericolo. Naturalmente col concetto di "sentimento" introduciamo la soggettività, ma anche la cultura locale. Il rischio, in questa ottica, è la rappresentazione soggettiva del pericolo. Per esempio, noi, in questo momento ,mentre stiamo scrivendo queste dispense, possiamo vivere un sentimento di rischio: il rischio di non essere compresi, il rischio che il lettore fraintenda quello che gli stiamo proponendo. Effettivamente, il pericolo è una condizione data: ogni volta che una persona parla, scrive, comunica con altri, si espone al pericolo di non essere capita. Ma noi possiamo vivere il sentimento di questo pericolo in modi molto diversi, e reagire in modi altrettanto diversi. Per esempio, possiamo metterci a scrivere in modo molto complicato, molto difficile; riparandoci dal rischio di non essere capiti con l’assunzione di un ruolo ‘colto’, ‘alto’: se non siamo capiti, è perchè siamo a un livello del sapere molto elevato. Oppure, possiamo dichiararci sconfitti dal pericolo di non essere capiti e perdere il testo della dispensa, che così non diventerà mai la dispensa che state leggendo; non si ha l’idea, se non si frequentano un po’ gli ambienti scientifici, del numero di dattiloscritti in un’unica copia che vengono smarriti nelle circostanze più strane da autori inconsapevolmente reticenti a mettere nero su bianco il loro pensiero. Pensate a quando parliamo a qualcuno: possiamo iniziare a ripeterci continuamente perchè non possiamo che controllare in modo compulsivo il rischio che viviamo, cioè il rischio di non essere capiti. Oppure, quando avvertiamo il rischio di non essere capiti gridiamo, mentre la persona a cui parliamo ci sente benissimo: non è che non ci sente, non ci capisce. E noi invece gridiamo, come per ‘fargli entrare le parole in testa’. Ancora, possiamo, per esempio, vivere il rischio in modo estremamente basso e allora diciamo le cose senza partecipazione, senza impegno emotivo: se l’altro le capisce bene, se non le capisce, per noi è lo stesso; andiamo avanti senza badare ai riscontri, alle facce perplesse...
Questi esempi non riguardano direttamente l’ infortunistica, e, tuttavia, non sono tanto lontani dai problemi in essa implicati: vi stiamo parlando infatti di quanto una persona - in questo caso una persona che intenda comunicare qualcosa a qualcuno - abbia competenza organizzativa, sia in grado, cioè, di essere in un rapporto realistico e utile con il contesto, di orientarsi in base ai feedback. Qui si comincia forse a poter capire un punto che prima abbiamo lasciato in sospeso, ovvero quanto la competenza organizzativa implichi una comprensione del contesto non solo in termini di obiettivi, ruoli e funzioni, ma anche della traduzione emozionale che ne viene data.
Diventa, inoltre, evidente il nesso tra il rischio e la dimensione decisionale: ad ogni sentimento di rischio corrisponde una determinata strategia decisionale, che si traduce in un determinato insieme di comportamenti. Il nesso tra rischio e decisione è, dal punto di vista psicologico, una dimensione molto importante. Se gli ambienti implicanti pericolo non avessero anche valenze di incertezza, non ci sarebbe rischio: il rischio deriva dal fatto che si possono avere gradi di libertà (quindi, incertezza) di comportamento all’interno di un sistema. Gradi di libertà che valgono per tutto ciò che è definito, per esempio dalle procedure o dalle leggi; e gradi di libertà che dipendono dalla propria individualità.
La decisione, a sua volta, è la modalità attraverso la quale si riduce tale incertezza. Definiamo, quindi, la decisione come riduzione/gestione dell’ incertezza tramite scelte nel rischio.
Allora: noi viviamo in situazioni di incertezza; e nelle situazioni di incertezza tendiamo - entro certi limiti - a ridurre l’ incertezza in certezza. Per esempio, la competenza - quella ingegneristica, quella psicologica, quella organizzativa, e così via - si può definire come la capacità di trasformare l’ incertezza in una situazione di minore incertezza. Anche quanto stiamo facendo con questa dispensa si può leggere come un tentativo di riduzione, per quanto ci è possibile, dell’ incertezza rispetto alla variabilità del comportamento individuale e delle culture locali. Ma per ridurre l’incertezza dobbiamo fare scelte nel rischio; quindi la rischiosità rispetto alla pericolosità passa attraverso un problema decisionale.
Un nucleo del problema che riguarda l’ infortunistica è la decisione in funzione del vissuto del rischio. Mentre le componenti di pericolosità sono in qualche modo trattate dalle iniziative di prevenzione e dalle iniziative strutturali intervenienti sull’ ambiente, è in rapporto a questo aspetto che proponiamo il nostro contributo
7-UN MODELLO DECISIONALE. LA TEORIA DELLA DETEZIONE DEL SEGNALE
Proponiamo una matrice decisionale che aiuta a spiegare cosa vuol dire decidere in situazioni di incertezza, in rapporto a una situazione di pericolo all’ interno di un contesto (cfr. Carli R. Psicologia clinica. Introduzione alla teoria ed alla tecnica, UTET, Torino 1987)
Questo schema è stato usato inizialmente per addestrare alla decisione i radaristi nordamericani negli anni Ô40, al tempo della seconda guerra mondiale. Dal momento, però, che i comportamenti avvengono quasi sempre in situazioni di incertezza, ha una validità pressoché universale, collegata a tutte le occasioni in cui un’ operatore deve decidere qualcosa - qualsiasi cosa: se dare un segnale d’ allarme, se accendere o spegnere un apparato, se deve andare a dire al suo capo certe cose oppure no - in situazione di incertezza
Possiamo definire il comportamento dell’ operatore lungo due dimensioni radicali. La prima dimensione riguarda le alternative generali della scelta: il fare e il non fare, il s“ e il no. Prendere o non prendere quella decisione. Agire o sospendere l’ azione. La seconda dimensione riguarda gli esiti della decisione, che possiamo radicalizzare come esito corretto e esito scorretto, + e -.
Se mettiamo in rapporto il comportamento di scelta con gli esiti, possiamo avere:
- un esito corretto in rapporto a cose fatte; in questo caso abbiamo HIT: l’operatore ha colpito il bersaglio (ricordiamoci dei radaristi).
- un esito corretto in rapporto a cose non fatte; si tratta del rifiuto corretto di decisioni sbagliate: RIFIUTO CORRETTO
Sono questi i due esiti corretti in rapporto a situazioni di incertezza. Ci sono poi le due possibilità di errore, quelli che gli statistici chiamano errore di primo e secondo tipo:
- fare delle cose considerandole corrette che poi si rivelano sbagliate: FALSO ALLARME
- non fare quelle cose che se l’operatore avesse fatto sarebbero state corrette: MISS
Fin qui niente di strano; ci si aspetta come cosa ovvia che si facciano le cose giuste e si tentino di ridurre al massimo le cose sbagliate; al tempo stesso, anche se nella nostra cultura è meno rilevante, tendiamo anche a ridurre al massimo l’errore del non fare le cose che, se avessimo fatto, sarebbero state giuste.
Ma ora sottolineiamo che la decisone avviene in stato di incertezza; proviamo a pensare a come funziona un sistema di allarme come quello del cruscotto dell’ automobile. Tutto va bene quando tutti i segnali di allarme sono spenti. Ovvero, c’ è un sistema di controllo del tipo: tutto va bene, a meno che non mi si dica che va male. E’ quello che possiamo definire un ‘funzionamento sulle assenze’.
Ma pensate a una situazione con alto livello di rischio. A situazioni in cui non c’è ‘tutto spento’, a meno che non vada male qualcosa; ma dove la situazione deve essere seguita continuamente, perchè l’intervento deve essere assolutamente tempestivo. La strategia in questo caso è: va tutto male a meno che. La spia dell'apparato di controllo sarà continuamente accesa, a luce intermittente, e l'allarme verrà dato quando viene a mancare questo segnale continuo sul fatto che le cose vanno bene. L’ottica è quella di ricevere continuamente segnali che dicono: le cose vanno bene. E’ quello che possiamo definire un ‘funzionamento sulle presenze’.
Ora, riproduciamo una situazione di decisione nell’incertezza mettendoci nell’ ottica psicologica: incontriamo una persona in ascensore; non la conosciamo. Di cosa parleremo? Del tempo. Certamente non parleremo di politica e nemmeno commenteremo la sua cravatta; stiamo attenti a non fare FALSO ALLARME. Restringiamo le cose che diremo a quelle poche che pensiamo non creeranno problemi. Poi magari scopriamo che siamo stati in ascensore con il premio Nobel della pace e che ci siamo persi un incontro interessante: abbiamo fatto un errore di MISS.
Questa è una situazione dove l’estraneità dell’altro non viene affrontata, esplorata, perchè ‘manca il tempo’; ma pensiamo a quest’altra: andiamo a trovare nostra madre. C’è il massimo della familiarità; tuttavia il problema non è risolto; forse è meglio evitare anche i commenti sul tempo, perchè potremmo cadere nel pericolo di suscitare osservazioni sulle nostre cattive abitudini a evitare la maglia di lana in presenza di refoli dannosi. E magari anche nostra madre è un premio Nobel. Questo secondo esempio valga per ricordare che il massimo di familiarità non è per nulla il massimo di conoscenza.
Come regolarsi, allora, se si hanno problemi di conoscenza? Evidentemente la strategia del puntare tutto sull’evitare il FALSO ALLARME non sempre è la più adatta: ci sono contesti ambientali che non funzionerebbero con questa strategia; pensiamo, per esempio, ad una situazione in cui dei creativi cercano un nome per un prodotto. In tale circostanza, che significativamente viene definita "tempesta di cervelli" (brain storming), tutti dicono - devono dire - tutto ciò che passa per la mente; certamente è un errore starsene l“ tacendo, con il timore di sbagliare, a chiedersi qual’è la cosa intelligente da dire .
Come si possono regolare queste situazioni? Con la competenza e con i costi. L’adozione di una strategia opportuna dipende dalla competenza: quanto piùù una persona conosce il contesto tanto più ha probabilità di ridurre sia gli errori di FALSO ALLARME che quelli di MISS. Entro certi limiti.
Il tipo di strategia, infatti, dipende anche dai costi. Se diamo costi molto elevati al FALSO ALLARME, l’operatore tenderà e restringere le cose che fa, riducendo insieme alla probabilità di FALSO ALLARME anche quella di HIT, e aumentando, di contro, la probabilità di RIFIUTI CORRETTI, ma anche di MISS. Parliamo in questo caso di strategia automatizzata di comportamento: si tende alla ripetizione dei comportamenti, senza assumerne di ulteriori. Se diamo costi molto elevati all’errore di MISS, l’operatore tenderà a fare quanto più possibile diminuendo così (insieme alle probabilità del MISS) i RIFIUTI CORRETTI, e aumentando gli HIT, ma anche i FALSO ALLARME. In questo caso parliamo di strategia esploratoria: si tende a considerare come informazioni e non come errori gli eventi imprevisti.
Vediamo meglio come si declina nella prassi la presenza dei costi, che sono una funzione della cultura locale, propria del contesto in cui avviene la decisione. Noi spesso usiamo dire che le cose vanno fatte presto e bene. Ma presto e bene non è possibile; o l’una, o l’ altra cosa. Con ‘presto’, corriamo il rischio di fare FALSI ALLARMI; con ‘bene’, corriamo il rischio di fare MISS. Sono due strategie di tipo diverso, antitetiche, e le specifiche culture locali premieranno di fatto l’una o l’altra. Attenzione al contesto vuol dire anche attenzione al valore ambientale assegnato al FALSO ALLARME o al MISS.
Queste categorie, proposte dallo schema della detenzione del segnale, possono servire per orientare la descrizione di un sistema culturale proprio di un contesto: se la competenza è una caratteristica individuale, la variabile che stiamo considerando ora è un valore culturale. Se andate in un’azienda e girate negli uffici o nei reparti, capite in 5 minuti se è un contesto culturale di un tipo a dell’altro. Basta misurare il numero di ‘non si può fare’ detti in un minuto. Oppure provate, per esempio se siete dei consulenti, a proporre soluzioni ragionevoli ai problemi che vi vengono proposti; e misurate l’intensità dell’espressione di commiserazione con cui venite guardati - ‘poveretto! non sa proprio come sono le cose da noi!’ - moltiplicandola per la durata: più è elevato il prodotto, e più siete in una cultura che non valuta il costo dei MISS.
Uno di noi tre è medico come formazione di partenza, e ricorda uno dei contesti della sua formazione come esemplare di una strategia poco esploratoria: l’internato in clinica medica, a Padova. Il professore dell’internato aveva la Volkswagen, e tutti i medici del reparto avevano la Volkswagen; il professore fumava le Muratti, e i medici fumavano tutti, e fumavano Muratti. Il professore aveva una mania: evitare di tenere insieme i fogli delle cartelle mediche con le clips, perchè diceva che i fogli si perdevano; li teneva insieme invece con degli spillini - assai scomodi - e tutti tenevano insieme i fogli con gli spillini. I costo dei FALSI ALLARMI era, quindi, piuttosto elevato, e, conseguentemente, i MISS commessi davvero tanti.
In altri contesti invece, esistono, come abbiamo detto per la situazione di brain storming, situazioni strutturate che favoriscono la produzione di pensiero, di esploratività. Per esempio, l’intervento psicologico nelle organizzazioni quando invita ad assumere una posizione da ‘persiani’- cioè di presa di distanza e di riflessione sull’esistente - struttura situazioni di incontro tra persone, o di ricerca, che sollecitano proprio la produzione di idee, riflessioni, associazioni, pensieri, sospendendo il costo dei FALSI ALLARMI, perchè ne sospende le conseguenze pragmatiche. Per capire di cosa stiamo parlando, invitiamo a pensare alle situazioni di gioco o di formazione. I FALSI ALLARMI certamente crescono, ma il metodo adottato garantisce al tempo stesso di diminuire i MISS e di aumentare gli HIT.
Ma non è detto che sia preferibile in sè la strategia esploratoria rispetto a quella automatizzata; per esempio, quest’ultima è auspicabile quando si tratta di applicare una procedura tecnica o di stare alle prescrizioni di una normativa sulla sicurezza. Gli automatismi che funzionano fanno risparmiare in termini di tempo, errori, pensiero. Ricordiamo quel pilota dell’Alitalia, con un passato nell’aviazione militare, che atterrava sempre sul limite destro della pista; e gli addetti alla sicurezza erano piuttosto allarmati. Poi si è scoperto che veniva dalla pattuglia acrobatica e che era abituato a volare e ad atterrare sulla destra della formazione acrobatica stessa. La situazione tornò alla tranquillità quando imparò ad atterrare al centro della pista, come tutti gli altri.
Quindi, non c’è una strategia che sia migliore dell’altra in sè; piuttosto, è necessaria - proprio per i problemi di sicurezza - la capacità di passare flessibilmente da un comportamento automatizzato a uno esploratorio. E’ utile che le persone siano in grado di affrontare sia compiti routinari e procedurali senza sentirsi problematizzate, sia problemi di creatività quando c’ è da prendere un’iniziativa relativamente autonoma, senza avere il conforto immediato e diretto di un dettato procedurale.
8- COLLUSIONE E CATEGORIZZAZIONE COME MODI DIVERSI E COMPLEMENTARI DI LEGGERE LA REALTA’
Abbiamo iniziato parlando della variabilità individuale e delle culture locali; ne abbiamo sottolineato i gradi di libertà. Abbiamo detto che sia l’una che le altre non sono scontatamente adeguate a rispondere ai problemi di sopravvivenza. Abbiamo affermato che in più di un caso se le culture locali vengono viste da un estraneo, da un ‘persiano’, possono sembrare paradossali e non così razionali. Abbiamo fatto due esempi di culture locali ‘paradossali’ e poi, via via nel corso del lavoro, abbiamo fatto riferimento a casi ed esempi che proponevano situazioni non razionali. In seguito però, andando avanti nel ragionamento, ci siamo riferiti soprattutto alle persone come dotate di razionalità e tendenti a massimizzare gli esiti corretti della decisione.
Concluderemo affermando che in effetti le persone non sono prevalentemente orientate alla razionalità. La razionalità è una piccola parte - qualcuno dice insignificante, qualcun altro è meno pessimista - del nostro modo di interagire all’interno del contesto. A volte le strutture organizzate sembrano gabbie di matti. Vengono alla mente certe procedure burocratiche, pensate - ricordiamocelo! - per introdurre razionalità nelle organizzazioni, che nella loro attuazione sembrano folli. Per inciso: a proposito di culture locali, mentre in Italia ‘burocrazia’ è una brutta parola, sinonimo di disfunzione, in Francia è sinonimo di competenza: tra l’una e l’altra realtà la differenza la fa il contesto, con la sua storia e i suoi valori, dato che la ‘logica’ burocratica è sempre la stessa.
Un ispettore del lavoro evocava, nel parlare della tematica concernente la burocrazia nel nostro paese, un tentativo, fallito, di portare razionalità nei comportamenti attraverso i regolamenti; ricordava che una legge del 1908 - ancora valida - rende abusivo tutto il pane panificato tra le 21 di sera e le 4 del mattino. All’epoca della promulgazione di questa legge, infatti, si risolse con l’istituzione di quell’intervallo di tempo la mancanza di controllori che andassero a verificare nelle ore notturne l’igienicità del processo di preparazione e cottura del pane. Il fatto che oggi, per riportare razionalità nella preparazione e quindi nel consumo del pane, si debba trasgredire la legge che regola la panificazione è un bell’esempio di follia istituita.
Certamente non è l’unico. Il nostro Studio professionale era, poco tempo fa, impegnato in un corso di formazione per dirigenti del Servizio Sanitario Nazionale in una regione dell’ Italia centrale; a metà circa del lavoro di formazione, con una ricerca in atto per ottenere supporti nella conoscenza della realtà locale, arriva una telefonata del responsabile del corso che "blocca tutto". La comunicazione era di questo tenore: cari signori - formatori e formandi - scusate tanto, ma un’ impiegata si è dimenticata di mettere in bilancio la voce di questo corso; i fondi sono passati in economia e non si possono più recuperare. A quel punto esploriamo la possibilità di dare comunque una conclusione, anche senza pagamento dello staff, perchè la disfunzione sembra a tutti troppo dannosa; niente da fare: i partecipanti senza corso istituito non hanno la possibilità di assentarsi dal servizio.
La ‘follia’ della quale stiamo parlando - che come vedete concerne la gente normale, e non ha nulla a che fare con quella, forse meno problematica, che riguarda le persone mentalmente disturbate con cui si pensa abbiano sempre a che fare gli psicologi - è sintomatica di un processo mentale; processo mentale, appunto, del tutto normale. Quando noi siamo nelle strutture organizzate non siamo soltanto soggetti che agiscono processi razionali, comprensibili secondo la logica condivisibile della razionalità; noi traduciamo anche - e questo accade sempre - tutto quello che facciamo, tutto ciò che ci circonda, in termini di simboli affettivamente connotati. Noi siamo ‘macchine’ - in funzione 24 ore su 24, anche di notte con i sogni, che tutti facciamo, anche se a volte non li ricordiamo; sogni che sogniamo 5 o 6 volte a notte, a seconda delle ore che dormiamo - ‘macchine’ che trasformano continuamente stimoli percepiti nel contesto in emozionalità (Carli R e Paniccia R. M., "Percorsi per la definizione del prodotto in psicologia clinica", in Rivista di Psicologia Clinica, 7, 1993, pp. 21-45).
E l’emozionalità è una modalità estremamente semplificata e radicalizzata, confusiva, di leggere la realtà contestuale; una modalità in questo senso ‘folle’ ed efficace al tempo stesso. Vi ricordate Andy Luotto che alle spalle di Renzo Arbore, in quella vecchia trasmissione, valutava tutto ciò che accadeva in termini di ‘buono’ / ‘no buono’? Ecco, quello è un bell’esempio di come si possa tradurre emozionalmente la realtà. Mentre leggete queste dispense, con una parte di voi state dicendo: ‘è buono, o no buono?’: emozionalmente è un discorso che vi implica, vi ci riconoscete, o vi sentite annoiati, irritati?
Perchè quanto stiamo dicendo si traduce in un notevole problema in rapporto al comportamento? Perchè se non ci fossero dei coordinatori, dei mediatori dell’emozionalità, il nostro comportamento sarebbe una semplificazione e una confusione totale: mentre sul piano razionale siamo tutti d’accordo su come si risolve a+b al quadrato, non accade altrettanto per quel che concerne la percezione di altri aspetti della realtà. Pensate a questo nostro contributo. Pensate se i diversi lettori si ritrovassero a parlarne insieme, quante valutazioni, associazioni, comprensioni diverse ci sarebbero.
Noi siamo continuamente confrontati con la traduzione emozionale di tutto ciò che viviamo, in tutti i contesti in cui ci troviamo: i capi, i dipendenti, i colleghi, tutto viene tradotto in termini di emozionalità. Pensate alla difficoltà di creare integrazioni orizzontali quando prevalgono culture endogamiche nei gruppi, nelle unità di lavoro. Stiamo parlando di endogamia per indicare quelle appartenenze chiuse al loro interno, dove le persone hanno vissuto tutta la loro vita organizzativa, piùù o meno esplicitamente ostili a chiunque venga da fuori. E si può capire perchè si creano le endogamie, sempre fondate sulla prevalenza di integrazioni verticali, o gerarchiche: il riferimento gerarchico organizza, orienta, ‘ordina’ l’emozionalità, funzionando, appunto, come un mediatore tra emozionalità e realtà organizzativa. Per esempio, organizzando le emozioni in affiliazione al capo, o in reattività controdipendente; permettendo di tradurre i rilievi critici in lamentazioni semplificanti contro le incapacità, di comandare o di eseguire...Quando le emozionalità non sono definite dalla gerarchia, il problema si complica: le relazioni orizzontali confrontano con le rivalità, con la mancanza di appartenenze certe.
Fin qui abbiamo portato esempi di come l'emozionalità possa condizionare il comportamento delle organizzazioni, di come, cioè, la "pazzia" sia inscritta nella fisiologia del vivere quotidiano. In maniera complementare, va osservato che l'emozione è utile; anzi, che è ‘il sale della vita’: senza emozioni non ci si diverte, non si inventa nulla. Vengono alla mente quelli che fanno finta di essere solo razionalità, con l’espressione fissa, dura, di chi ha inghiottito, tutt’intero, Kant. E sono spesso persone che capiscono poco delle situazioni in cui si trovano; persone alle quali non a caso non andresti mai a parlare di un problema - di qualsiasi tipo, anche ‘tecnico’ - aspettandoti che ti ascoltino e che sappiano darti qualche elemento di comprensione...
9-LA COERENZA TRA COLLUSIONE E CATEGORIZZAZIONE
Ricapitolando, potremmo dire che la realtà organizzativa si può leggere come orientata dal postulato della razionalità, e allora gli strumenti di comprensione, di accordo tra persone, di orientamento dell’azione sono dati dalle categorie razionalmente fondate di lettura della realtà; oppure, che la realtà organizzativa si può leggere come orientata dalla traduzione emozionale, collusivamente condivisa (nel senso etimologico, di giocare insieme, cum ludere. Sul concetto, centrale per la psicologia, di "collusione" si rimanda a Paniccia R. M., "La collusione", in Rivista di Psicologia Clinica 1989, anno III, pp. 291-306) che le persone che vi partecipano ne danno; in questo secondo caso le simbolizzazioni affettive prendono il posto delle categorie.
La situazione ottimale si ha quando tra categorizzazioni della realtà e simbolizzazioni affettive c’è coerenza. Quando c’ è incoerenza - e questo può dipendere da molti fattori, come vedremo da qualche rapido esempio - il comportamento diventa imprevedibile.
Facciamo un esempio: voi sapete che i medici hanno un rapporto con i pazienti fondato su un elevato potere. Il medico ‘prescrive’ il farmaco; vi immaginate il vostro droghiere che vi prescriva il taleggio? Impossibile. Il droghiere, e molte altre figure professionali insieme con lui, non ha lo stesso potere prescrittivo del medico, che è legittimato a mettere il suo cliente - non a caso chiamato paziente - in una situazione di forte dipendenza. Il medico può dire ‘si spogli!’, può mettere le persone che si rivolgono a lui in situazioni di passività e dipendenza obbediente. A questo proposito, si può osservare che i sistemi sanitari sono alquanto ‘curiosi’: le persone vengono messe in pigiama e a letto anche in un reparto di oculistica dove non ce ne sarebbe apparentemente alcun bisogno, se uno - mettiamo il caso - ci arriva con un problema di funzionamento dell’occhio sinistro e per il resto sta benissimo, potrebbe fare un giro in giardino o magari andarsi personalmente a comperare il giornale. Invece, nulla da fare: a letto, tutto il giorno. Il sistema sanitario si regge sul grande potere prescrittivo dei medici; naturalmente, un potere fondato sull’ipotesi che venga usato per il bene dei pazienti. Quando si leggono i casi di mala sanità, non c’è solo una disfunzione sul piano della razionalità dell’intervento medico: c’è un tradimento destabilizzante di tutto il sistema di simbolizzazione affettiva su cui si fonda il rapporto medico-paziente.
Tenendo a mente quanto abbiamo detto del sistema sanitario, pensiamo ora ai Sert, i Servizi di assistenza ai tossicodipendenti. Nei Sert operano anche medici; i quali sono convinti di trattare con ‘pazienti’. Ma il tossicodipendente non è affatto un paziente. Non condivide una simbolizzazione emozionale del rapporto con il Sert e con il medico del Sert tale da proporre la sua dipendenza affinché il medico possa curarlo! Il tossicodipendente va al Sert per avere il metadone, per essere aiutato nella sua ricerca di sostanze stupefacenti. I medici che lavorano nei Sert si trovano così a partecipare a una dinamica di simbolizzazione emozionale del rapporto tra sè e il preteso paziente che non è quella che vivono gli altri medici. Con la conseguenza che non hanno nessuna possibilità di mettere in atto l’intervento medico. Tanto è vero che quando tutto va bene si occupano delle broncopolmoniti del tossicodipendente. Di fatti, la terapia del tossicodipendente non ha ancora una sua prassi tecnica, non si è trovato il modo di risolvere il problema da un punto di vista medico.
In questi casi tra dinamica collusiva e categorizzazione si crea un’incoerenza e quello che può derivarne per gli operatori è la sindrome del burn out - uno dei grossi problemi delle persone che si occupano di assistenza agli altri, compresi i sindacalisti - sindrome che deriva dal fatto che la simbolizzazione affettiva di quel contesto è incoerente con gli strumenti categoriali che si hanno a disposizione. Nel caso del Sert: il contesto è stato costruito come se fosse medico, ma in realtà non è in grado di operare secondo categorie mediche. Tra categorizzazione e collusione non c’è coerenza.
Un altro esempio, classico nell’ambito dell’infortunistica: la prevenzione affidata all’elmetto. Facciamo riferimento a una ricerca effettuata a Bagnoli nei primi anni Ô70, da un nostro collega di Napoli, il prof. Iacono. Siamo in un impianto metalmeccanico: caduta di pesi e movimenti di macchinari. E’ molto importante indossare l’elmetto. Per incentivarne l’uso c’è uno spreco di cartelli e di impegno grafico. Conseguenze sul comportamento: pochissimi elmetti, soprattutto in due reparti. I ricercatori ipotizzano che ci sia incoerenza tra dinamica collusiva e categorizzazione, tale da alterare il comportamento sociale. E vanno a vedere la dinamica collusiva rispetto all’indossare l’elmetto, scoprendo che la simbolizzazione emozionale, condivisa soprattutto dalle persone dei due reparti a bassissimo uso, era di una scarsa virilità in chi portava l’ elmetto. Perchè non sfidava il pericolo.
E' possibile, quindi, amare il rischio, adottare, cioè, sul posto del lavoro la stessa logica emozionale del giocatore di poker. Il riferimento alla ricerca sugli operai di Bagnoli ci consente, in altri termini, di evidenziare come possono esserci culture locali che valorizzano la rischiosità. Culture entro le quali nessuno trova desiderabile un trauma cranico, ma, al contempo, tutti si trovano emozionalmente "presi" in una simbolizzazione di segno opposto.
Fate il conto, ad esempio, che seguire le procedure venga simbolizzato come adeguarsi acriticamente a quello che vuole un capo non accettato, a fare ‘quello che vuole il padrone’; se lo stare alle procedure viene simbolizzato come essere soggetti a quello che vuole il padrone, si arriva rapidamente - magari senza esserne consapevoli - a ‘faccio succedere un incidente così quello vede’ ! Senza avere presente che il rapporto tra lavoratori e padronato è cambiato da quando i lavoratori sono diventati consumatori oltre che produttori di beni, e che insieme è cambiato il modello di economia, di convenienza economica.
10- CONCLUSIONI
Due osservazioni a mo' di conclusione. In quest'ultima parte del discorso a piùù riprese sono state evocate le emozioni. D'altro canto, se si resta fuori contesto, senza ancorarsi a situazioni specifiche, ma rimanendo sul piano di osservazioni generali, si corre il rischio della genericità, lasciando l'impressione che sia vero tutto e il contrario di tutto. Evidentemente altri, nel discorso che in queste dispense è stato possibile sviluppare, sono gli strumenti che permettono di passare dall’ evocazione di un fenomeno alla conoscenza di situazioni specifiche. Soprattutto, che permettano di incrementare la cultura della sicurezza: strumenti attraverso i quali leggere la specificità delle culture locali; attraverso i quali passare da rappresentazioni implicite e condivise acriticamente di un evento a rappresentazioni dette e pensate, criticabili di un evento.
Infine, si vuole sottolineare come l'attuazione del decreto 626 non sia semplice, in quanto implica un processo culturale da mettere in atto, che riorganizzi i processi collusivi entro le varie situazioni di lavoro e li renda coerenti con le procedure di sicurezza. E, insieme, li renda coerenti con i processi di funzionalità organizzativa: la non sicurezza - le moderne teorie organizzative lo dicono - è disfunzione, patologia organizzativa. Gli incidenti non sono eventi che calano dal cielo come i fulmini di Giove: sono la conseguenza di organizzazioni pensate male e di persone che non sanno fare il loro mestiere.
Se ne deduce una specifica funzione gestionale: chi ha la responsabilità del processo organizzativo - vedete che non parliamo di capi - supporterà il processo di sviluppo dei sistemi di sicurezza dando spazio a situazioni di manutenzione della coerenza tra collusione e categorizzazione, in funzione dell'integrazione di funzionalità organizzativa, comportamenti di sicurezza e dimensioni emozionali condivise nel contesto.
Fonte: http://www.spsonline.it/Letture/sicurezza_energeia.doc
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