Corso di geografia umana

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Corso di geografia umana

La Globalizzazione. Cause e processi

Tratto da: Amato V., 2005, Nuovi Scenari della Globalizzazione, CUEN, Napoli

 

IL PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE IN PROSPETTIVA

Quando si tenta di ricostruire la nascita e l'evoluzione di un concetto o di una teoria socio-econornica raramente ci si trova di fronte ad un processo unitario bensì, piuttosto, a stimoli disparati in filoni di ricerca diversi, a risposte date a problemi e priorità del momento, a elementi descrittivi di una realtà in movimento ed evoluzione. Solo a partire da un certo momento in poi questi stimoli, queste risposte e queste descrizioni si saldano in una visione coerente, che spesso assume caratteri normativi, nella quale vengono ricompresi interrogativi, istanze e soluzioni emersi in precedenza in modo separato. La globalizzazione, sotto questo profilo, non fa eccezione.
La parola "globalizzazione" è una traduzione del termine inglese globalization la cui prima apparizione, registrata dall'Oxford English Dictionary, risale ad un articolo della rivista Spectator del 1962, intitolato "The US Eyes Greater Europe" (Gli Statti Uniti tengono d'occhio la più grande Europa). Nell'articolo l'autore Charles A. Cerami, commentando l'incontro tra il lord del sigillo britannico ed il sottosegretario di stato americano che aveva per oggetto l'eventuale adesione di alcuni paesi europei al Trattato di Roma, osservava come gli americani "dopo aver a lungo biasimato in privato i francesi per la loro paura della mondialisation si accorgono ora del carattere sconcertante della globalizzazione".
Sulla scorta di questo articolo, la parola globalization deriva dal termine mondialisation, già diffuso in Francia. Il Grand Larousse, infatti ne fa risalire il primo uso al 1953, mentre il Tresor de la Laungue Francaise fa riferimento ad un saggio dell'economista spaziale Francois Perroux dei 1961.
Sotto il profilo concettuale, un primo importante contributo, sotto forma dì intuizioni profonde di una realtà ancora largamente a venire, si deve a Marshall McLuhan un pensatore che, proprio per aver largamente precorso i tempi, è difficile da collocare nel panorama della cultura occidentale della seconda metà del Ventesimo secolo. Per McLuhan, che fu probabilmente il primo già negli anni '60 ad usare il termine "globale" in senso moderno, sono i mezzi di comunicazione in sé, e non le informazioni o le idee che essi disseminano, a plasmare la società. Così come l'invenzione della stampa ha spinto l'uomo all'individualismo e all'introspezione, i nuovi sviluppi tecnologici, intuiti da McLuhan in un periodo in cui Internet e televisione satellitare non erano neanche dei progetti, consentendo all'insieme degli abitanti del pianeta di comunicare immediatamente tra loro, erano destinati a trasformare il mondo in un "villaggio globale", ovvero un luogo culturalmente interattivo e sostanzialmente coeso sotto una molteplicità di aspetti. Nelle idee di McLuhan sì ritrova una chiara radice del concetto di globalizzazione ossia quella di interazione tra individui; inoltre nella sua opera si coglie l'evoluzione del termine globale che da un originario significato di complessivo o totale va via via connotandosi sempre più con i concetti di interattività e interdipendenza.
La seconda radice del concetto di globalizzazione, ossia l'analisi dell'interazione tra sistemi economici, si può individuare nell'opera della scuola storica francese della rivista "Les annales" e, in particolare, in quella del suo rappresentante più significativo, Femand Braudel. Studiando gli albori del capitalismo nella società del cinquecento e del Seicento, Braudel mise in luce il carattere strutturale delle interdipendenze che il commercio internazionale portava con sé e dei legami che così si venivano a creare tra differenti nazioni e aree geografiche. Su questa base introdusse il concetto di "economia mondo" ovvero un'economia non necessariamente caratterizzata da un'estensione a livello planetario, ma definita da uno spazio geografico interdipendente, strutturata al suo interno con un centro dominante, zone intermedie ed aree periferiche. Partendo da queste basi, un allievo di Braudel, Immanuel Wallerstain, ha sostenuto l'unicità dell' "economia-mondo" identificandola con quella europea a partire dal XVI secolo ed ha introdotto in quest'analisi anche l'elemento politico, da cui il concetto di "impero-mondo"
La terza radice del concetto di globalizzazione è l'interazione delle imprese in un mercato mondiale di tipo concorrenziale, analisi da cui deriva, in larga parte, l'uso attuale del termine e può essere ricondotta al lavoro di alcuni economisti d'impresa negli ultimi due decenni del secolo scorso. Gli statunitensi Teodore Levitt e Thomas Porter e il giapponese Kenichi Ohmae furono probabilmente i primi ad usare, verso la metà degli anni Ottanta, il termine "globalizzazione" per indicare l'essenza del cambiamento che venivano osservando nelle strategie delle grandi imprese multinazionali.

Queste imprese erano tradizionalmente presenti in un insieme piuttosto vasto non solo di paesi ma anche di settori e riservavano alle sedi centrali, oltre ad un coordinamento generale, le attività finanziarie, quelle della ricerca scientifica e la politica delle acquisizioni e delle cessioni, mentre concepivano come semiindipendente l'operato delle singole controllate nazionali. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, per contro, anche a seguito della radicale riforma dei mercati finanziari, le multinazionali mostrano la tendenza a concentrare l'attività in uno o pochi settori in cui raggiungono dimensioni ragguardevoli, e ad abbandonare così la struttura a conglomerato.
In particolare Porter indica come global competition la sfida che hanno di fronte le imprese nel mercato concorrenziale in un contesto in cui il mercato globale sembra diventare la forma moderna della libera concorrenza. Ohmae, dal canto suo, parla specificamente di borderless economy, ossia di un'economia senza confini, in cui vengono meno le distinzioni tra interno ed internazionale e sussistono, al massimo, aggregazioni di tipo regionale, determinate soprattutto da contiguità geografiche.
A posteriori risulta quindi possibile individuare con una certa chiarezza i filoni di pensiero che sono confluiti nel moderno concetto di globalizzazione ma risulta molto più difficile, pur nella vastissima produzione scientifica sull'argomento, identificare una "teoria generale" della globalizzazione.
I principi della globalizzazione si possono, invece, più facilmente desumere dalla pratica, e in particolare da un insieme di linee guida comuni a tre istituzioni chiave della politica economica mondiale con sede a Washington, vale a dire la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e il Tesoro degli Stati Uniti. Tali principi sono conosciuti con la formula divenuta poi famosa di Washington consensus.
L'espressione di deve all'economista John Williamson che l'ha coniata in un suo saggio del 1990 preparato a seguito di una conferenza organizzata dall Institute for Intemational Economics nel 19897. Williamson descrive questo consenso come un insieme di dieci aree sulla cui riforma si registrava un sostanziale consenso tra responsabili delle politiche e studiosi di Washington. Un consenso condiviso sia dalla Washinton politica rappresentata dal Congresso e dai membri dell'amministrazione sia dalla Washinton tecnocratica delle istituzioni finanziarie internazionali, delle agenzie economiche del governo statunitense, del consiglio di amministrazione della Federal Reserve e dei cosiddetti think tanks. Idieci punti del Washington consensus, che riassume di fatto e proietta su un orizzonte internazionale i principi della politica economica degli Stati Uniti dal l'amministrazione Reagan in poi, erano:
• disciplina fiscale (eliminazione di disavanzi)
• priorità della spesa pubblica (riduzione della spesa sociale)
• riforma fiscale (abbattimento delle aliquote d'imposta)
• liberalizzazione finanziaria (eliminazione dei controlli sui flussi)
• tassi di cambio competitivi (svalutazione)
• liberalizzazione degli scambi commerciali (barriere tariffarie)
• investimenti diretti esteri (liberalizzazione)
• privatizzazione
• deregolamentazione
• diritti di proprietà

Si tratta a ben vedere di nuove libertà (di commercio, investimento e disinvestimento internazionale e interno) per i privati e soprattutto per le imprese e di nuovi obblighi per i governi (di privatizzare, liberalizzare e ridurre il deficit pubblico), di regola associati a un quadro dei diritti civili e politici e a sistemi istituzionali di tipo democratico occidentale. Questo insieme risulterebbe in grado di portare i paesi in via di sviluppo alla crescita e al benessere. In un articolo successivo, Williamson ribadisce l'ortodossia del Washington consensus definendolo una "convergenza universale" che costituisce "il nucleo comune di giudizio condiviso da tutti gli economisti seri" e liquidando come "cranks" chiunque lo metta in discussione.
Se la filosofia che informava il Washington consensus e la politica degli aggiustamenti strutturali che ne derivava, promossa dalle istituzioni economiche internazionali, aveva per oggetto i paesi in via di sviluppo e rifletteva le visioni delle istituzioni internazionali dominanti sulle ricette per la soluzione di tali problemi, la globalizzazione come ideologia rappresenta, senza significative variazioni nel nucleo centrale di ortodossia, l'estensione all'intero mondo di queste ricette con quella che si potrebbe definire una mondializzazione dei Washington consensus, che sposta l'enfasi dal rigore e dall'austerità impliciti nel concetto di aggiustamento strutturale, alle opportunità e ai vantaggi offerti da una nuova idea dello sviluppo. Lo sviluppo continua ad essere inteso esclusivamente in termini di crescita economica e l'ideologia della globalizzazione identifica gli impedimenti allo sviluppo in fattori interni alle nazioni imponendo, però, soluzioni basate sull'orientamento all'esterno delle economie nazionali magnificando i vantaggi dell'integrazione e dell'interdipendenza sotto la disciplina dei mercati.
Contemporaneamente, sul fronte opposto, le agenzie dell'ONU hanno acquistato negli anni Novanta nuova vitalità. In quegli anni hanno preso forma due importanti sfide al Washington consensus. La prima è stata quella dell'elaborazione di un approccio per lo sviluppo umano portata avanti dall'UNDP che elabora e divulga queste tematiche in una pubblicazione annuale. La seconda si è basata su analisi prodotte nella prospettiva dei paesi cosiddetti late comers e si può considerare il risultato della convergenza tra le posizioni dell'ECLAC e quelle degli studi sullo sviluppo dei paesi dell'Asia orientale esposti in un rapporto dell'ESCAP del 1990 convergenza che è stata ripresa e più compiutamente articolata negli annuali rapporti dell'UNCTAD.
In effetti in un'area disciplinare ormai monopolizzata dalle istituzioni internazionali, si può dire che lo sviluppo, negli anni Novanta e nei primi anni di questo nuovo secolo sia diventato il campo di battaglia ideologico di uno scontro tra le istituzioni influenzate dai paesi centrali dell'economia mondiale e quelle che tendono a dare voce alle istanze dei paesi della periferia. Gli strumenti di questo scontro sono stati le pubblicazioni occasionali e periodiche, ufficiali o riconducibili agli opposti fronti, che hanno dato vita ad un serrato dibattito.
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le resistenze all'ideologia della globalizzazione sia da parte di stati, soprattutto quelli colpiti dalle crisi manifestatesi sul finire degli anni Novanta sia da parte di movimenti ed organizzazioni non governative che continuano a denunciare i fallimenti della globalizzazione e gli interessi che ne sarebbero alla base. Lo stesso Washington consensus, anche all'interno delle istituzioni e dell'establishment che lo hanno prodotto, non gode più di un sostegno monolitico. Le istituzioni pubbliche e private, nazionali e multilaterali che erano state tra le più convinte sostenitrici del credo globalizzatore hanno, in molti casi, attenuato le loro posizioni dedicando, almeno nella retorica, una maggiore attenzione alla dimensione sociale ed istituzionale dello sviluppo economico. Ad esempio la Banca Mondiale, che può essere considerata come la più potente organizzazione nella produzione e divulgazione di saperi legati ai temi dello sviluppo, ha modificato il suo lessico ed i suoi orientamenti introducendo tra gli elementi cruciali di un riuscito percorso di sviluppo fattori come la good governance e il capitale sociale.
Parallelamente, la contrapposizione tra le istituzioni di Bretton Woods e le agenzie delle Nazioni Unite si è attenuata. "L'ONU riconosce oggi le grandi opportunità offerte dalla globalizzazione nelle parole della dichiarazione congiunta dei capi di stato e di governo al Millennium Summit del 2000. Dal canto loro le istituzioni di Bretton Woods riconoscono che la globalizzazione crea perdenti oltre che vincenti a detta dei direttore del FMI, Horst Kóhler, Ie disparità tra le nazioni più ricche e più povere del mondo sono più ampie che mai'
Il consenso delle principali organizzazioni multilaterali verte su una serie di principi quali ad esempio: la centralità di amministrazione, legalità, istruzione e salute nel determinare lo sviluppo; il ruolo positivo degli investimenti ed in particolare delle competenze e tecnologie diffuse dagli investimenti diretti esteri; la necessità di uno sgravio dei debito e di altre forme di assistenza allo sviluppo dei paesi più poveri, l'urgenza dell'abbattimento delle barriere commerciali imposte alle esportazioni dei paesi in via di sviluppo dai sussidi agricoli e da altre barriere non tariffarie nei paesi più sviluppati; le potenzialità offerte dalla subordinazione degli accordi commerciali a vincoli sociali e ambientali; la necessità della collaborazione tra organizzazioni nazionali ed internazionali, settore privato e società civile. Nonostante, però, la nuova retorica e i tentativi di collaborazione interistituzionale, queste iniziative non sembrano aver costituito, finora, niente di più che un'elaborata operazione di cosmesi istituzionale nata dalla necessità delle istituzioni di Bretton Woods di rifarsi un'immagine e delle Nazioni Unite di uscire dall'impasse di una critica che non riesce ad essere costruttiva.
Ciò che enfatizza la maggior parte delle definizioni presenti nella più recente letteratura sulla globalizzazione è come ora il mondo sia più piccolo e come ciò che prima era lontano ora lo sia meno . Sebbene questi concetti possano riferirsi ai piani più diversi delle relazioni sociali, da quelli politici e militari a quelli culturali, è sul piano delle relazioni geoeconomiche che essi trovano la loro essenza. La globalizzazione, nella nostra prospettiva, è fondamentalmente un fenomeno geoeconomico, ovvero la tendenza dell'economia ad assumere una dimensione mondiale, anche se, poi, il fenomeno della crescente integrazione dei mercati dei beni, dei servizi e dei fattori produttivi può dar luogo a implicazioni politiche, culturali e ambientali. A tale proposito una definizione che pone l'enfasi su questa dimensione può essere quella proposta dal Fondo Monetario Internazionale secondo il quale per globalizzazione deve intendersi Ia crescente interdipendenza economica tra paesi, realizzata attraverso l'aumento del volume e delle varietà di beni e servizi scambiati internazionalmente, la crescita dei flussi internazionali di capitali e la rapida ed estesa diffusione della tecnologia"
Ciò detto, va verificato se la definizione di globalizzazione aderisce alla realtà geoeconomica odierna, se la dinamica globale e quella locale sono effettivamente sovrapposte e se, in sostanza, il mondo è veramente divenuto più piccolo.
Se si assume come prospettiva quella dei paesi industrializzati e di una parte dei paesi in via di sviluppo (PVS), non si può non constatare che il commercio internazionale ha un peso rilevante e cresce in genere ad un ritmo più sostenuto di quello del redditi nazionali; il paniere di beni acquistati dai cittadini di un paese è in parte composto da beni prodotti in altri paesi (siano essi beni finali o beni intermedi utilizzati nella produzione nazionale); il portafoglio finanziario dei risparmiatori nazionali è composto anche da titoli esteri; imprese multinazionali sono presenti sul mercato nazionale e lavoratori stranieri partecipano al mercato del lavoro nazionale; le imprese possono scegliere di localizzare fasi diverse della produzione in luoghi geograficamente distanti e sono evidenti i fenomeni di agglomerazione produttiva legati alla presenza di economie di scala.
Tuttavia, anche se è indiscutibilmente vero che tutti gli elementi esposti caratterizzano l'economia contemporanea, la visione d'insieme generalmente proposta dai mass media tende ad essere considerevolmente esagerata. Da ciò deriva che il "globale" e il "locale" sono, in definitiva, ancora dimensioni ben distinte e il mondo non è poi così tanto piccolo da rendere irrilevante la differenza tra nazionale e internazionale
In merito a quest'ultimo punto, va notato che due filoni di ricerca hanno cercato di indagare direttamente tale questione giungendo a conclusioni che interessano direttamente l'approccio geoeconomico stesso. Il primo filone viene indicato con l'espressione home bias, con la quale s'identifica la tendenza, sottostante l'evidente preferenza nella produzione, nel consumo e nell'allocazione del risparmio, per ciò che è locale; il secondo riguarda l'utilizzazione di una "equazione gravitazionale", in cui la distanza è esplicitamente considerata come variabile esplicativa, nella stima dei flussi commerciali bilaterali.
I lavori sull'home bias18 hanno messo in evidenza, ad esempio, come, nella maggior parte dei paesi, la composizione del portafoglio finanziario dei risparmiatori avesse una quota di titoli esteri di molto inferiore rispetto a quanto prevedibile in base ad una diversificazione ottimale. Ma l'home bias non vale unicamente per l'aspetto strettamente finanziario. Anche la dinamica dei processi di agglomerazione e di diffusione della produzione nello spazio è, infatti, legata alla rilevanza economica della distanza in termini di barriere commerciali e costi di trasporto e, anche in termini di consumo esiste, poi, una sostanziale evidenza empirica della presenza di un home bias nelle preferenze dei consumatori.
Nel secondo filone di ricerca, parzialmente collegato al primo, il ruolo della distanza è ancor più evidente 20. Infatti, il termine "gravitazionale" deriva dal fatto che il flusso degli scambi internazionali tra due paesi viene fatto dipendere positivamente dalla "massa economica" dei due paesi (il PIL) e negativamente dalla distanza tra i paesi. Anche seguendo questo approccio, le analisi condotte tendono a dimostrare che la distanza è un fattore che anche attualmente continua a rivestire il suo peso.
Ma anche se la distanza non ha perso del tutto rilevanza e il mondo è assai meno piccolo di quanto supposto dalla one-worldness, è pur vero che la percezione del ridimensionarsi dell'elemento spaziale nelle relazioni umane si manifesta in relazione simbiotica con la percezione di nuove opportunità e soprattutto di nuovi rischi. Se la percezione dei secondi risulta prevalente nell'opinione di molti, ciò è dovuto alla evidente asimmetria temporale nel ponderare i rischi (presenti) e le opportunità (future). E' come se la globalizzazione venisse percepita come un fenomeno inarrestabile e del tutto nuovo il cui effetto sugli individui è un aumento nel grado di incertezza con cui attuano le scelte presenti.
Tale suggestione è però fondata sulla errata percezione, largamente sostenuta dai media, che la globalizzazione sia un fenomeno nuovo. Porre, quindi, il tutto in una prospettiva storica può aiutare a distinguere tra ciò che è mito e ciò che è realtà.

Le tre fasi della globalizzazione
Utilizzando un insieme di dati presentati dalla Banca Mondiale è possibile identificare una tendenza abbastanza evidente dell'economia ad assumere una dimensione mondiale che perdura negli ultimi secoli21. Se si considerano tre variabili chiave flussi migratori, esportazioni e investimenti diretti all'estero nei PVS è possibile identificare il succedersi di tre distinte fasi di globalizzazione. La prima coincidente con la fine del diciannovesimo secolo, la seconda con gli anni dal 1945 al 1980 e la terza con la fine del ventesimo secolo.
La figura 1.1 lascia intravedere queste tre fasi e mostra, tra l'altro, come il processo di globalizzazione non sia irreversibile. Se si guarda, infatti, il periodo tra il 1914 e il 1950 si può notare come il peggioramento nelle relazioni internazionali si sia tradotto in un annullamento dell'effetto della prima ondata di globalizzazione. L'errore di percezione che identifica la globalizzazione con la fine del ventesimo secolo è invece dovuto al periodo storico cui si fa riferimento. Il confronto tra il 2000 e il secondo dopoguerra tende a rafforzare l'idea che la globalizzazione sia un fenomeno esclusivo della fine del ventesimo secolo ma, andando indietro nel tempo fino al 1870, tale affermazione perde forza. Si potrebbe persino affermare che la seconda e la terza fase non sono altro che un recupero della prima fase di globalizzazione. Tuttavia anche questa constatazione non sarebbe corretta poiché esistono notevoli differenze tra le diverse fasi. La globalizzazione della fine del ventesimo secolo non è, dunque, né un fenomeno interamente nuovo né la replica di quella del secolo precedente.

 

Nella ricerca retrospettiva delle origini storiche della globalizzazione si potrebbe essere tentati di continuare a ritroso ma ci si imbatterebbe in una serie di gaps tecnologici che renderebbero l'analisi vana. E' solo intorno al 1870 che si verificarono, infatti, una serie di innovazioni tecnologiche cruciali per la diffusione internazionale del processo di industrializzazione: la costruzione di navi più robuste e veloci, con lo scafo in ferro e l'elica immersa, ridusse enormemente i tempi di navigazione; l'apertura del canale di Suez, nel 1869, dimezzò la durata del viaggio da Londra a Bombay; ma, soprattutto, l'inaugurazione del sevizio telegrafico transatlantico, tra Londra e New York (1866), Melbourne (1872) e Buenos Aires (1874), permise alle comunicazioni transcontinentali di passare dalle settimane ai minuti.
La riduzione dei tempi di percorrenza e dei costi, tanto del trasporto su rotaia quanto di quello transoceanico, nonché della trasmissione delle informazioni via telegrafo, determinò quella accelerazione nei flussi commerciali internazionali, nei movimenti di capitale e nei flussi migratori individuabile nella figura 1.1 come prima fase della globalizzazione.

 

Il ruolo della tecnologia e della politica commerciale
E' dunque la tecnologia il motore fondamentale della globalizzazione. Lo sviluppo della ferrovia e della navigazione transoceanica continuarono ad avere una influenza determinate nelle relazioni tra i continenti e all'interno degli stessi sino alla seconda metà del ventesimo secolo.
Come si può evincere dalla tabella 1.1, il costo del trasporto marittimo continuò a ridursi nel primo quarto di secolo e, dopo un arresto intorno alla seconda guerra mondiale, riprese a scendere in modo sensibile fino agli anni '60. A partire dagli anni '30 al trasporto marittimo si aggiunse quello aereo, la cui dinamica è stata ancor più pronunciata, sino agli anni '80.
Ma se la rivoluzione tecnologica dei trasporti era stata il catalizzatore della prima fase di globalizzazione, le fasi successive furono il frutto di una diversa rivoluzione tecnologica, quella della trasmissione e dell'elaborazione dell'in formazione.
Alla diffusione internazionale del telegrafo nella seconda metà del diciannovesimo secolo si aggiunse a partire dagli anni '20 l'influenza di un altro mezzo di comunicazione: il telefono. Già nei primi anni di diffusione, il costo delle comunicazioni telefoniche a lunga distanza si ridusse enormemente. Il costo di una telefonata di tre minuti da New York a Londra passò dai 245 dollari del 19 10 ai 189 dollari del 1940 e ai 53 dollari del 1950. Dagli anni '60 in poi alle innovazioni nella trasmissione si aggiunsero quelle nell'elaborazione dell'in formazione. Nella tabella 1.1 viene messa in luce l'evoluzione del costo nell'uso di elaboratori elettronici a partire dall'utilizzo nel 1960 di un Mainframe IBM sino ai recenti desktop. Fatto 100 il costo al secondo dell'elaborazione dell'in formazione nel 1990, questo costo era pari a 12.500 nel 1960. Lo sviluppo e la diffusione del computer da una parte e il progresso nella tecnologia della comunicazione dal telefono sino all'estensione internazionale del world wide web dall'altra, costituiscono l'equivalente per la seconda e la terza fase di globalizzazione della rivoluzione nei trasporti e nella diffusione del telegrafo nella prima fase di globalizzazione.
In sintesi, la prima, la seconda e la terza fase sono simili nel nesso che lega la tecnologia all'apertura dei mercati, ma tale somiglianza si riduce quando si tiene conto delle caratteristiche proprie della tecnologia nelle diverse fasi: soprattutto trasporti nella prima fase, prevalentemente comunicazioni nelle ultime due.
Ma se la globalizzazione è tecnologia, e la tecnologia è quel flusso inarrestabile che a partire dal diciannovesimo secolo rende sempre più interconnesse le diverse aree del mondo, bisogna spiegare la brusca interruzione nella prima fase della globalizzazione. Il problema, in proposito è che, come si accennava all'inizio, la tecnologia non è tutto.
Quello che accadde tra il 1914 e il 1945 è noto a tutti: due guerre e una crisi economica di portata internazionale. L'effetto complessivo sul grado di apertura dei mercati e sulla integrazione delle economie nazionali fu veramente impressionante. Nel 1950 il rapporto tra esportazioni e PIL mondiale era tornato al 5%, una percentuale analoga a quella del 1870. Questa inversione di tendenza porta ad affermare che "il protezionismo annullò 80 anni di progresso tecnologico nei trasporti Bairoch, ad esempio, fornisce una descrizione dettagliata dell'evoluzione della politica commerciale nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo . Prendiamo ad esempio i dati dell'imposizione tariffaria sulle importazioni statunitensi tra il 1870 e il 1990 riportati nella figura 1.2.

 

Tra il 1930 e il 1933 le importazioni statunitensi si contrassero del 30% e le esportazioni si ridussero del 40% 26

Il periodo storico associato alla prima fase della globalizzazione fu per gli Stati Uniti un periodo di graduale liberalizzazione. Mentre tra il 1860 e il 1877 la politica di libero scambio inglese si estendeva nell'Europa continentale, gli USA adottavano un orientamento meno deciso, cominciando a ridurre i dazi prima sulle merci non direttamente in competizione con le produzioni nazionali e poi gradatamente, fino al 1929, su tutte le importazioni. Il picco in entrambe le serie corrisponde alla grande depressione dei 1929. Se in Europa il ventesimo secolo si era aperto all'insegna del nazionalismo economico e della guerra mondiale, negli USA la prima fase della globalizzazione tramontò il 17 giugno del 1930 con l'adozione da parte del presidente Hoover dello Sinoot Hawley Act, il quale portò il dazio medio statunitense oltre il 50% e provocò una contro reazione protezionista nella maggior parte dei partner commerciali internazionali.

 

La tecnologia e la politica commerciale ripresero ad orientare nella medesima direzione le relazioni economiche internazionali solo a partire dal secondo dopoguerra. L'istituzione del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) alla fine degli anni '40 portò alla diffusione del libero scambio a livello internazionale e determinò una riduzione nei dazi medi, soprattutto nei paesi industrializzati, a livello di quelli evidenziati per gli Stati Uniti nella figura 1.2.
La situazione attuale, corrispondente alla terza fase di globalizzazione, è caratterizzata, in termini di politiche commerciali, da una generale tendenza alla liberalizzazione 27. Nonostante il successo del processo di liberalizzazione multilaterale in sede GATT, rimangono ancora sacche consistenti di protezionismo. Innanzitutto, sul fronte dei dazi doganali attualmente i paesi in via di sviluppo sono in media più protezionisti dei paesi industrializzati (tab. 1.2).
Allo stesso tempo, questi ultimi mantengono un livello elevato di protezionismo in settorì come l'agricoltura ed il tessile abbigliamento, in cui i paesi in via di sviluppo hanno un vantaggio comparato. Inoltre, l'uso di barriere non tariffarie è oramai particolarmente diffuso anche tra i PVS: ad esempio, tra il 1995 ed il 1999 i paesi industrializzati hanno iniziato 461 pratiche anti dumping, mentre 559 sono state le iniziative da parte di PVS.

Flussi commerciali
L'indicatore con cui viene generalmente misurata la globalizzazione è il grado di apertura reale di una economia, calcolato come la somma delle esportazioni e delle importazioni rapportata al prodotto nazionale. Volendo visualizzare l'evoluzione tra il 1870 e il 2000 di questo indicatore il risultato sarebbe una curva a forma di J.

 

 

Durante la prima fase di globalizzazione il commercio internazionale subì una accelerazione ragguardevole e, in tale fase, il grado di apertura medio dei paesi europei passò dal 25% al 40% la seconda fase, pertanto, rappresenta un sempli ce recupero rispetto alla contrazione degli scambi avutasi tra il 1914 e il 1945. Le cause risiedono, come si accennava in precedenza, nell'ulterìore progresso nei trasporti transoceanici e nella riduzione dei dazi coordinata dal GATT ma anche nei processi di frammentazione della produzione, favoriti dalle innovazioni nella trasmissione del l'informazione. Nella terza fase di globalizzazione tali meccanismi si rafforzarono ulteriormente favorendo l'emergere dell'elemento che distingue quest'ultima fase da quella intermedia. Intorno al 1980 alcuni paesi del sudest asiatico (ma anche altri come il Cile e il Messico) orientarono il proprio modello di sviluppo economico proprio sulle nuove opportunità offerte dalle aumentate possibilità di partecipazione ai flussi commerciali mondiali. Durante la terza fase di globalizzazione questi nuovi attori30 assunsero ruoli rilevanti sulla scena del commercio mondiale. Questa, tuttavia, non può certo essere considerata la sola novità di questa fase di globalizzazione.
Infatti la seconda e la terza fase di globalizzazione non possono essere considerate semplicemente delle fasi di recupero rispetto all'intervallo 1914 1945 poiché quattro aspetti fondamentali intervengono a rendere la globalizzazione del diciannovesimo e del ventesimo secolo profondamente diverse dal punto di vista degli scambi commerciali.
Il primo è il deciso aumento nel grado di apertura commerciale degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Questo, infatti, dopo aver oscillato intorno al 10% tra la fine del '800 e il 1950 è passato al 25% negli anni '90.
Il secondo aspetto riguarda l'aumentato peso della spesa pubblica nel secondo dopoguerra nella formazione del prodotto nazionale. L'istituzione dello stato sociale nei paesi industrializzati e l'esplicitazione della piena occupazione come obiettivo di politica economica hanno determinato una espansione della quota del settore pubblico nelle economie miste. Essendo questa componente parte del denominatore (il PIL) del grado di apertura di una economia, questo indicatore sottostima in modo rilevante l'evoluzione degli scambi commerciali privati della seconda metà del ventesimo secolo e il raffronto tra i dati del 2000 e quelli del 1870 devono tenere conto dì questa distorsione.
Il terzo aspetto riguarda i processi di integrazione regionale o trade blocs, come li classifica la Banca Mondiale 31 che saranno approfonditi più avanti nel libro. La figura 1.3 riporta il numero di accordi di integrazione regionale aree di libero scambio, unioni doganali e unioni economiche a partire dall'istituzione della Comunità Economica Europea nel marzo del 1957.
Per il momento basti notare che negli anni '90 il numero degli accordi di integrazione regionale è notevolmente aumentato e il fenomeno ha mutato le sue caratteristiche passando dalla prevalenza di accordi Nord-Nord o Sud-Sud ad accordi Nord-Sud. Anche le motivazioni alla base degli accordi sono mutate rispetto a quelle più tradizionali della seconda fase di globalizzazione. 1 dazi medi bilaterali si sono sostanzialmente ridotti in seguito all'Uruguay Round del GATT, tanto da ridurre gli incentivi alla formazione di aree di libero scambio basati sulla garanzia reciproca all'apertura dei mercati nazionali. Le motivazioni devono essere quindi cercate altrove, probabilmente nella dimensione economica dei mercati regionali necessaria allo sfruttamento di economie di scala o al ruolo strategico che un club di paesi può svolgere anche al tavolo delle trattative multilaterali.
Un ulteriore aspetto di differenziazione tra la globalizzazione del diciannovesimo secolo e quelle del ventesimo risiede nella composizione dei flussi commerciali. Nel diciannovesimo secolo la riduzione dei costi di trasporto favorì i movimenti migratori e l'adozione di tecniche di produzione land intensive nei paesi di destinazione . A sua volta la riduzione delle barriere tariffarie favorì le esportazioni di prodotti primari da parte degli stessi paesi. Il commercio internazionale aveva dunque le tipiche caratteristiche del commercio Nord-Sud: il Nord europeo industrializzato esportava prodotti manufatti e importava i prodotti primari esportati dal Sud agricolo (dalle Americhe, ma ancor più, nel caso dell'Inghilterra, dall'India). Nella seconda fase di globalizzazione il commercio internazionale assume le attuali caratteristiche proprie del commercio intra-industriale Nord-Nord.
Secondo gli ultimi dati del WTO circa il 70% dei commercio mondiale avviene tra paesi industrializzati, a reddito medio-alto e con analoghe dotazioni fattoriali, i quali esportano e importano prodotti manufatti simili. La terza fase di globalizzazione non inverte la situazione precedente ma la modifica parzialmente.

 

 

La sempre maggior rilevanza dei Globalizers rettifica la direzione Nord-Nord del commercio mondiale inserendo una componente Sud all'interno dei flussi di interscambio manifatturiero. 1 paesi di nuova industrializzazione, infatti, forniscono i mercati mondiali di prodotti intensivi di lavoro e sottraggono quote di mercato ai produttori occidentali i quali, da una parte, differenziano le proprie produzioni soprattutto dal punto di vista qualitativo e si specializzano nella fornitura internazionale di servizi, dall'altra, tendono ad arroccarsi utilizzando nuovi strumenti di protezione, quali il ricorso strategico alla normativa antidumping dei GATT (e dopo il 1996 del WTO), l'adozione di norme e standard che rendono più costoso l'accesso delle esportazioni dei NICs nei mercati occidentali, o l'adozione di norme provvisorie di salvaguardia in difesa delle produzioni nazionale o dell'occupazione, le quali assumono carattere globale nel caso dell'accordo multifibre (che permette l'adozioni di contingentamenti sulle importazioni del settore tessile) o di quello sull'acciaio.
In sintesi, la terza fase di globalizzazione mostra caratteristiche distinte rispetto a quelle delle due fasi precedenti. Queste caratteristiche il maggior grado di apertura degli USA, il maggior grado di apertura in termini di transazioni private, la specializzazione nelle produzioni manifatturiere e il maggior peso dei NICs divengono ancora più rilevanti se associate al ruolo rivestito dagli investimenti e dalla finanza.

Investimenti, flussi finanziari e transazioni valutarie
La percezione che la globalizzazione sia un fenomeno altamente distintivo della attuale fase del capitalismo internazionale è sicuramente legata agli sviluppi dei mercati finanziari internazionali negli ultimi anni". Cosi come per i flussi commerciali, tale percezione è solo parzialmente corretta. Lo sviluppo dei mercati telematici, la liberalizzazione dei movimenti di capitale e le numerose opportunità di investimento nei Globalizers hanno certamente rafforzato le connessioni internazionali dei mercati finanziari moltiplicando allo stesso tempo le opportunità di crescita nonché la possibile diffusione internazionale degli shock, distinguendo in questo modo la terza fase di globalizzazione da quelle precedenti.
Come mostrano i dati dell'UNCTAD, il flusso di investimenti diretti all'estero (IDE) si è moltiplicato per otto a partire dal 1985 e la capacità delle imprese di produrre in più mercati nazionali si è estesa dalle imprese di grande dimensione alle medie e alle piccole imprese. Ma ciò non costituisce una novità assoluta. Oggi, come nel 1870, l'elemento cruciale nella spiegazione della crescita degli IDE è la trasmissione dell'informazione, alla quale è associata la possibilità di separare spazialmente le attività di una impresa, non rinunciando al contempo all'accentramento e al controllo del processo decisionale.
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo le comunicazioni via telegrafo aumentarono enormemente le possibilità della casa madre di controllare le attività delle consociate, e ciò favorì moltissimo la diffusione degli investimenti produttivi all'estero. Gli IDE, soprattutto inglesi, ma anche francesi, tedeschi, svedesi, seguirono in buona parte le rotte dei flussi migratori e contribuirono ad orientare i flussi commerciali bilaterali. Così come lo era il commercio, il flusso degli IDE era essenzialmente Nord-Sud.
Nella seconda fase di globalizzazione le cose cambiano e anche il flusso degli IDE assume le caratteristiche di uno scambio intra-industriale Nord-Nord. Gli IDE sia in entrata (75% del totale) che in uscita (97%) si concentrano nei paesi industrializzati e gli IDE verso i PVS passano dal 63% del 1914 al 25% del 1980.
Durante la terza fase, i dati sugli IDE mostrano un ulteriore mutamento nelle caratteristiche della distribuzione geografica dei flussi sia in entrata che in uscita 37. Lo schema Nord-Nord si stempera, il peso degli IDE verso il Sud aumenta in termini relativi e alcuni Globalizers diventano non solo ricettori ma anche fornitori di IDE. Tale mutamento seppur sostanziale ridimensiona solo in parte il ruolo preponderante dei paesi industrializzati.

 

Nella graduatoria delle 200 maggiori imprese multinazionali il 91% appartiene a paesi OCSE e tutte le maggiori operazioni di acquisizione e fusione di imprese multinazionali avvenute negli ultimi anni riguardano imprese dei paesi OCSE
Il cambiamento più evidente è nella composizione settoriale degli IDE. Alla fine del diciannovesimo secolo gli IDE si concentravano nel settore agricolo, in quello estrattivo e in quello ferroviario, alle manifatture e ai servizi spettava una minima quota. Alla fine del ventesimo secolo questi ultimi due comparti coprono il 95% degli IDE.
Dopo gli investimenti è opportuno completare il quadro confrontando i flussi finanziari e quelli valutari nelle diverse fasi della globalizzazione. Con l'unica eccezione ma niente affatto di poco conto degli Stati Uniti, della Germania e del Giappone, per la maggior parte dei paesi industrializzati il periodo di più intensa integrazione finanziaria internazionale non corrisponde alla attuale fase del capitalismo globale bensì al periodo di maggior stabilità dei tassi di cambio ovverosia al regime di gold standard, tra il 1880 e ed il 1914. Inoltre, tutta la seconda fase di globalizzazione è caratterizzata da un basso livello di integrazione dei mercati finanziari e da politiche di controllo dei movimenti di capitale (in Europa, con l'eccezione del Regno Unito, e in America Latina). Solo dopo la fine dei sistema di Bretton Woods e in particolar modo nella seconda metà degli anni '80 la globalizzazione finanziaria ha ripreso vigore fino a raggiungere i livelli attuali, comparabili con quelli del 1914
La prima sostanziale differenza è nelle politiche di controllo dei movimenti di capitale. Queste, misurate attraverso un indice di restrizione (compreso tra 0 e 100), mostrano una netta variazione di tendenza a partire dalla fine degli anni '80. Tra il 1973 e il 1988 tutti i paesi, industrializzati o Globalizers, adottavano meccanismi di controllo sui movimenti di capitale, mentre a partire dal 1989 vi è una tendenza generalizzata alla liberalizzazione che è pressoché totale nei paesi industrializzati, e particolarmente significativa per i paesi asiatici e dell'America Latina.
Inoltre, rimanendo in tema di movimenti di capitale, se tra questi distinguiamo i movimenti di breve da quelli di lungo periodo, la differenza tra la prima fase di globalizzazione e la terza appare in maniera evidente. Quest'ultima è caratterizzata dalla enorme rilevanza dei movimenti speculativi di breve periodo.
Un ulteriore elemento di differenza sta nello strabiliante volume di transazioni valutarie effettuate quotidianamente sui mercati internazionali. Il turnover giomaliero che nel 1973 era pari a 15 milioni di dollari era passato nel 1995 a 1 miliardo e 200 milioni di dollari, una cifra di gran lunga superiore rispetto a quanto necessario per finanziare l'insieme di flussi commerciali, IDE e squilibri mondiali delle bilance dei pagamenti.
Questa prevalenza del breve sul lungo periodo, della speculazione sull'investimento produttivo, all'interno di un regime di cambi sostanzialmente flessibili (tra blocchi regionali), aumenta l'instabilità potenziale del sistema economico. In tema di instabilità va tuttavia rilevato che le crisi finanziarie non sono un fenomeno odierno, ci sono sempre state e con molta probabilità ci saranno anche nel futuro. La caratteristica nuova è il progressivo sostituirsi delle crisi valutarie a quelle bancarie e il sempre maggior peso delle crisi originate nelle "economie emergenti", quei paesi definiti Globalizers. In sostanza, la natura delle crisi e la loro origine geografica è profondamente mutata

Flussi migratori
Probabilmente le grandi migrazioni internazionali sono state, sin dalla scoperta dell'America, il principale fattore che ha concorso alla formazione dell'attuale sistema mondiale, che della globalizzazione costituisce la necessaria premessa. Gli stessi Stati Uniti d'America, la potenza ormai da tempo mondialmente egemone, sono sorti da quelle migrazioni, così come altri importanti Paesi del cosiddetto Nord del mondo come il Canada e l'Australia e tutti i Paesi dell'America più o meno propriamente definita latina, fra cui l'Argentina, il Brasile, l'Uruguay, il Cile e il Venezuela, Paesi cui ha dato un apporto fondamentale l'emigrazione italiana. Anche molti Paesi dell'Asia e dell'Africa, ove pure la popolazione autoctona era molto più numerosa che in America o in Australia, hanno conosciuto una consistente immigrazione europea durante la loro più o meno lunga colonizzazione diretta o indiretta. Ancor oggi gli effetti di tale processo si fanno largamente sentire in molti Paesi sia per ciò che concerne la lingua sia per molti altri aspetti della cultura e dell'organizzazione sociale, fra cui la stessa religione. In ogni caso, a questo processo si deve la formazione in quei contesti delle prime vere società multiculturali della storia moderna che fuori d'Europa non sono dunque cosa nuova.
Va sottolineato però che, per quattro secoli e mezzo, dal 1492 alla seconda guerra mondiale, i flussi migratori andarono essenzialmente dal centro del sistema mondiale in formazione, allora costituito dalla vecchia Europa, alle sue periferie ovvero le Americhe, l'Africa, l'Asia e la lontana Oceania. All'indomani della seconda guerra mondiale nel quadro dei cambiamenti epocali che caratterizzarono quegli anni e che videro fra l'altro l'emergere della potenza americana, la divisione del mondo in due grandi blocchi politici, economici, ideologici e militari in competizione, la fine dei grandi imperi coloniali con l'accesso all'indipendenza di quasi tutti i Paesi asiatici e africani e lo scoppio di grandi rivoluzioni sociali in alcuni Paesi del Terzo Mondo, fra cui la Cina in Asia, l'Algeria in Africa e Cuba in America Latina si ebbe anche l'inversione della direzione fondamentale dei flussi migratori, che cominciarono a scorrere, per lo più, dalle periferie del sistema mondiale al suo centro, comprendente ormai, come sua parte integrante, gli Stati Uniti d'America, divenuti anzi proprio in questo periodo il centro dei centro.
Il fattore di fondo, sotteso a questo rovesciamento della tendenza secolare, è stato indubbiamente il diverso andamento dei trends demografici nel centro e nella periferia, fattore che ha indotto alcuni autori ad individuare in questi movimenti di popolazione, più che la continuazione dei vecchi flussi migratori, l'inizio di un nuovo grande processo destinato a ridisegnare sul lungo periodo la stessa mappa etnografica dei continenti.

 

ACCORDI REGIONALI E MULTILATERALISMO

Formazione e crescita degli accordi regionali
In tutta la storia del capitalismo, l'espressione istituzionalizzata della vita economica e politica ha tipicamente raggiunto l'articolazione più elevata e più chiara rispettivamente nell'economia nazionale e nello stato sovrano. Negli ultimi due secoli, in particolare, la relazione fra i due è divenuta così forte e organica che si è teso ad accettarla come una condizione quasi scontata. Un'importante conseguenza di questa nozione dell'economia nazionale e dello stato come entità integrate è che il sistema internazionale è stato spesso interpretato come un terreno concorrenziale disordinato, nel quale un numero finito di questi fenomeni interagiscono fra di loro.
Nel contesto della globalizzazione, tuttavia, il concetto di economia nazionale è sottoposto ad una considerevole pressione alla luce dei rapidi cambiamenti che si stanno verificando in tutto il mondo nelle strutture delle interazioni economiche e politiche. Ciò, evidentemente, implica il bisogno di una riconcettualizzazione della geografia economica e politica del mondo moderno, che abbia come elemento principale il tentativo di spiegare il divario sempre più ampio tra lo stato sovrano come unità territoriale definita e le realtà dei sistemi economici moderni i cui tentacoli, in continua espansione e ramificazione, si estendono ormai in tutto il mondo.
Seguendo Allen Scott, la riorganizzazione politico-economica mondiale, la cui struttura si sta delineando in questo inizio di Ventunesimo secolo, può essere illustrata nei termini di una gerarchia delle relazioni di governo strutturata su quattro livelli. Ogni livello di questa gerarchia rappresenta un importante nesso di relazioni sociospaziali che pongono complessi problemi di politica.
Al vertice della gerarchia troviamo un regime globale emergente costituito da organizzazioni sovranazionali, accordi internazionali, convenzioni diplomatiche, e così via. Sebbene, ameno attualmente, esso possa apparire politicamente fragile e disgiunto, questo regime ha avuto origine come risposta a un insieme critico di pressioni alla regolamentazione nell'arena globale. E' a questo livello che si stanno gradualmente concentrando i tentativi di costituire forum per il coordinamento dei tassi di cambio, per la supervisione delle grandi imprese multinazionali, per la gestione dei diritti di proprietà intellettuale, per la protezione dell'ambiente e delle condizioni di salute internazionali, per citare alcuni tra i temi salienti. Allo stato attuale, la capacità del regime globale di svolgere tali funzioni è strettamente limitata, ma sembra ragionevole supporre che in futuro possa divenire più efficace dal punto di vista politico. Tuttavia, la forma istituzionale precisa che verrà ad assumere alla fine (ovvero un sistema fluttuante di contratti internazionali; una nuova concertazione di nazioni; un governo mondiale) a questo stadio rimane interamente una questione speculativa.
Subito sotto il regime globale si trova uno strato di unità economico-politiche che consistono di blocchi cui partecipano molte nazioni quali l'Unione Europea (UE), il North American Free Trade Agreement (NAFTA), e l'Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) per citare solo alcune tra le più note esperienze di regionalismo. Il numero di queste organizzazioni è cresciuto rapidamente fin dagli anni '50, quando vennero mossi i primi passi verso l'integrazione dell'Europa occidentale. Attualmente, per quanto solo poche di loro abbiano un peso politico ed economico effettivo, esse possono essere viste soprattutto come una risposta alla richiesta di crescita accelerata attraverso il libero scambio fra paesi appartenenti ai diversi blocchi. In più, il numero relativamente limitato di nazioni partecipanti in ognuno di questi esempi assicura a tali blocchi la possibilità complessiva di agevole gestione. Di nuovo, sembra ragionevole ipotizzare che le singole unità a questo livello della gerarchia globale, nel normale corso degli eventi, continueranno a consolidare il loro ruolo quali centri di autorità e di influenza.
Il terzo livello della gerarchia è costituito dagli stati sovrani, che rappresentano, tuttora, l'incarnazione di gran lunga più potente del potere economico e politico nel mondo moderno. Ciò nonostante esiste un crescente divario spaziale fra lo stato sovrano in quanto tale e le caratteristiche organizzative del capitalismo moderno. Di conseguenza, molte delle funzioni di regolamentazione economica dello stato sovrano stanno ora passando ai livelli superiori della gerarchia, quello multinazionale e globale, mentre anche il capitalismo stesso si sta ricostituendo in modo simile in diversi modi. Allo stesso modo, molte funzioni stanno passando al livello inferiore, poiché la rinata importanza della regione nel capitalismo moderno dà origine a molte esigenze e opportunità nuove di azione politica e di regolamentazione a livelli di governo subnazionali.
L'ultimo livello della gerarchia è, infine, costituito da un vasto gruppo di singole regioni che formano un complesso mosaico globale. Nel territorio dello stato sovrano tradizionale, le regioni svolgono necessariamente la funzione di unità amministrative subordinate, il cui campo di azione è il riflesso del bilanciamento fra centralizzazione e decentramento tipico di ogni dato contesto nazionale. Con l'erosione che sembra si stia verificando nella capacità di regolamentazione dello stato sovrano, si sta chiaramente aprendo uno spazio in cui le regioni diventano sedi di iniziative amministrative e attività politiche locali importanti indipendentemente dal livello immediatamente superiore.
Le unità identificate in ognuno dei quattro livelli descritti, rappresentano strutture spaziali complesse dove si realizzano investimenti, attività produttive, concorrenza di mercato e regolamentazione politica, e pongono tutte importanti questioni analitiche, sia sui propri diritti che sulla loro dipendenza dalle unità degli altri livelli della gerarchia e sulla loro influenza sugli eventi che si verificano in questi ultimi. Nei paragrafi che seguono la nostra attenzione sarà rivolta al secondo livello della gerarchia or ora esposta.

L'esperienza del regionalismo.
Probabilmente la clausola della nazione più favorita, secondo la quale qualsiasi concessione commerciale offerta da un Paese membro del GATT ad un altro Paese deve essere estesa anche agli altri membri, è stata, più di altri fattori, alla base del processo di liberalizzazione multilaterale del commercio internazionale nel secondo dopoguerra. Attraverso di essa è stato possibile trasformare un sistema mercantilista, come quello che si era affermato nel periodo precedente alla seconda guerra mondiale, in un nuovo ordine internazionale capace di favorire lo sviluppo degli scambi commerciali. Grazie alla citata clausola, le nazioni più piccole e con minor potere contrattuale hanno potuto godere, sotto gli auspici del GATT, dei vantaggi delle negoziazioni bilaterali portate a buon fine dalle nazioni maggiori.
Accanto al movimento verso la liberalizzazione multilaterale degli scambi commerciali, si è assistito, in questi anni, ad almeno due fasi di regionalismo, vale a dire di formazione e crescita di accordi commerciali a livello regionale.
La prima fase si sviluppa negli anni sessanta, stimolata dal successo ottenuto dalla CEE. Il desiderio di emulare i risultati positivi ottenuti in Europa convinse, infatti, molti Paesi dell'Africa, dell'America Latina e dell'Asia a sviluppare analoghe forme di accordo commerciale.
Le caratteristiche di questa prima fase sono molteplici. Innanzi tutto, gli accordi erano di tipo "orizzontale", vale a dire che comprendevano solo Paesi simili tra loro per livello di sviluppo economico e strutture di produzione (accordi Nord-Nord e Sud-Sud). Tali accordi avevano anche motivazioni diverse: quelli Nord-Nord, ed in particolare la CEE, trovavano ragion d'essere sia da motivazioni economiche (cogliere le opportunità di aumento del benessere offerte da un mercato allargato) che da motivazioni politiche (assicurare la pace e la coesione europea dopo le esperienze della seconda guerra mondiale e di fronte alla minaccia rappresentata dall'Unione Sovietica) e culturali (preservare l'identità culturale europea in un periodo storico che vedeva la caduta dell'egemonia europea nel sistema mondiale).
Negli accordi Sud-Sud, per contro, le motivazioni per l'integrazione erano prevalentemente di carattere economico. I Paesi partecipanti, generalmente economie "piccole", erano accomunati dal desiderio di uno sviluppo rapido basato su una strategia di sostituzione delle importazioni. Tale strategia si basava sull'assunto che, tramite la protezione doganale esterna e la creazione di un mercato interno sufficientemente ampio, fosse possibile favorire la crescita dell'industria nazionale ed affrancarsi dalla dipendenza nei confronti dei Paesi industrializzati.
L'accordo regionale doveva dunque permettere loro di superare le ristrettezze nazionali che limitavano il successo di questa strategia, e di gestirla, invece, in un mercato regionale più vasto. Questa prima fase del regionalismo giunse ad una conclusione poco felice, con l'eccezione della CEE, nel corso degli anni settanta . Probabilmente la ragione principale sia del fallimento dei tentativi d'integrazione Sud Sud che del successo di quello europeo deve essere cercata nella posizione degli Stati Uniti, allora Paese egemone nel sistema internazionale. Gli USA erano fermi sostenitori del processo multilaterale di liberalizzazione degli scambi e non sostennero, con la sola eccezione della CEE, alcun accordo regionale. Per quest'ultima, la motivazione del sostegno americano era, in ogni modo, legata ad una visione multilaterale: un'Europa occidentale bene organizzata sotto la leadership della CEE avrebbe facilitato i negoziati in sede GATT. Oltre a questa motivazione, tuttavia, bisogna considerare anche il fallimento della strategia di sostituzione delle importazioni, possibile in Paesi relativamente avanzati, come quelli europei, ma inconsistente nei Paesi in via di Sviluppo dell'America Latina, dell'Asia e dell'Africa .
La seconda fase di regionalismo è iniziata intorno alla metà degli anni ottanta, partendo sempre dai Paesi industrializzati, con una particolare accentuazione nell'America del Nord. Gli Stati Uniti modificarono sostanzialmente la propria precedente posizione a favore del multilateralismo, probabilmente a causa dì una profonda insoddisfazione per l'andamento dei negoziati in sede GATT, e favorirono, prima, la conclusione dell'accordo per il libero scambio fra USA e Canada (CUSTA) e, successivamente, la conclusione dell'accordo per il libero scambio nell'America del Nord (NAFTA). Nello stesso periodo lanciarono la proposta per un'area di libero scambio comprendente l'intero continente americano con l' "Enterprise for Americas Initiative" (EAI).
Una caratteristica nuova di questa seconda ondata di regionalismo è l'associazione agli accordi commerciali di Paesi di diverso livello di sviluppo e di diversa struttura economica (accordi verticali o Nord-Sud). Basti pensare al NAFTA, che ingloba oltre ad USA e Canada anche il Messico, all'allargamento verso Est dell'UE con l'inglobamento di alcuni Paesi dell'Europa Centro-Orientale (di cui si discuterà più avanti), agli "Accordi Mediterranei" che associano sempre alla UE i Paesi del Maghreb e del Mashreq. Cambiano, rispetto alla prima fase, anche le motivazioni. Gran parte dei Paesi interessati a questi accordi partivano con livelli tariffari già relativamente ridotti, e quindi la discriminazione 8 commerciale non poteva essere la ragione della loro formazione.
Le nuove motivazioni sono state invece da alcuni indicate, anche con grande preoccupazione, in due modi diversi. Secondo una prima interpretazione, l'accordo regionale potrebbe essere una conseguenza dei possibile fallimento del GATT, particolarmente temuto all'inizio degli anni novanta. Una seconda interpretazione sostiene che l'accordo regionale è un tentativo di ottenere vantaggi in termini di ragioni di scambio usando strategicamente la forza del blocco commerciale che si viene a creare. In entrambi i casi se queste fossero nella realtà le vere motivazioni degli accordi regionali si dovrebbe concludere che il regionalismo non precede il multilateralismo ma vi si contrappone, creando il timore di una rottura dell'attuale regime commerciale e dell'involuzione verso blocchi commerciali caratterizzati da un comportamento ostile verso l'esterno. Si tratterebbe quindi di un capovolgimento completo delle prospettive ipotizzate nel corso della prima fase del regionalismo.
Visto, infatti, che la liberalizzazione è estesa solo ai partners, il regionalismo è inevitabilmente discriminatorio; allo stesso tempo, tuttavia, consente un passo verso un commercio più libero fra i partners. quindi un complemento al multilateralismo o è, al contrario, un suo sostituto? uno strumento per accelerare i negoziati commerciali multilaterali, o si afferma proprio in seguito al loro fallimento? L'attuale tendenza alla formazione di tre grandi blocchi commerciali, gravitanti rispettivamente verso gli USA, l'Unione Europea ed il Giappone, deve essere vista con favore o no?
I diversi argomenti che negli ultimi anni hanno rafforzato la tendenza all'integrazione regionale possono essere così sintetizzati:

  • il regionalismo è considerato come un sostituto del multilateralismo ed acquista importanza politica, specie negli Stati Uniti, soprattutto quando il secondo è presentato come sinonimo di "altruismo", mentre il primo soddisfa la necessità di "guardare finalmente ai propri interessi";

•     il regionalismo è invece, per altri autori, un utile supplemento del multilateralismo, non un'alternativa, perché rafforza la tendenza alle aperture commerciali;
•     il regionalismo può addirittura far accelerare il processo di liberalizzazione multilaterale in quanto sollecita, per timore d'involuzioni politico-commerciali, il raggiungimento di accordi multilaterali che altrimenti resterebbero fermi;
•     inoltre, il completamento del mercato interno comunitario e la sottoscrizione degli "accordi europei" con i Paesi dell'Europa Centro Orientale, ha prodotto la stessa reazione che si ebbe nei primi anni sessanta dopo la costruzione dei mercato comune europeo, vale a dire lo stimolo, per contrapposizione, alla formazione di blocchi rivali.
•     la tendenza all'integrazione Nord-Sud, specie nel caso di NAFTA, è anche spiegabile in termini politico-culturali con l'attrazione che il modello statunitense ha nei confronti del Messico e soprattutto delle sue élites politico-economiche, in gran parte formatesi nelle Università degli USA;
•     infine, la concomitanza dell'approfondimento e dell'allargamento del processo di integrazione europea e la creazione del NAFTA in America ha creato anche in altri Paesi, in particolare dell'Asia, la convinzione che i blocchi commerciali regionali sono ormai ineluttabili nel sistema economico attuale e che è quindi necessario adeguarvisi.

Il nuovo regionalismo e i custodi della globalizzazione.
Il GATT ha sempre fatto un'eccezione alla regola di non discriminazione per le Unioni Doganali e le Aree di Libero Scambio.
La formula originale dell'articolo XXIV consente il controllo e il monitoraggio delle UD/ALS da parte del GATT. In teoria, se una parte contraente sbaglia nell'esecuzione/applicazione di una o più di queste regole, le può essere richiesto di smantellare o emendare ogni accordo in vigore. In pratica, questo non è mai successo e le regole sono state spesso violate senza che nessuna azione sia mai stata presa contro gli Stati coinvolti . Va in merito notato che durante il periodo 1948 1990, il GATT ha ricevuto la notifica di circa settanta accordi commerciali regionali e nessuno di questi è mai stato dichiarato incompatibile con il GATT, mentre solo quattro accordi sono stati dichiarati compatibili. Per molti aspetti, il problema cominciò con la formazione della Comunità Europea nel 1958, quando il GATT sostanzialmente "decise, di non decidere" sulla compatibilità dell'accordo proposto con le proprie norme. Le ragioni in questo caso erano sostanzialmente politiche poiché gli Stati Uniti sostennero la formazione della CE come mezzo di rafforzamento dell'Europa Occidentale contro la minaccia orientale. Allo stesso tempo gli Stati Uniti erano ansiosi di non fare nulla che potesse causare l'uscita della CE dal GATT.
Comunque, a parte la formazione della CE nel 1958 e dell'EFTA nel 1960, la maggior parte dei tentativi di integrazione a livello regionale, durante i primi venticinque anni dopo la seconda guerra mondiale, coinvolsero i Paesi in via di sviluppo. Come si è già avuto modo di ribadire molte di questi ebbero scarso successo e, oltre a ciò, il loro effetto sul commercio mondiale fu minimo. Essi quindi non costituirono una seria minaccia al sistema non discriminatorio del commercio mondiale, garantito dal GATT.
Alla fine degli anni Ottanta e Novanta, la situazione è cambiata sostanzialmente. Il mondo ha assistito a una proliferazione di accordi commerciali regionali che coinvolgevano anche Paesi sviluppati e non solo quelli in via di sviluppo. Particolarmente importante a questo riguardo fu la conversione degli USA, fino allora considerati i custodi del multilateralismo, alla causa del regionalismo. Nel 1985 gli Stati Uniti hanno siglato un accordo di libero scambio con Israele. Chiaramente, questo non fu nemmeno un accordo regionale di libero scambio in senso stretto, e gli effetti sul commercio mondiale furono minimi, e pur tuttavia, si trattò del primo segnale del cambiamento di posizione degli USA.
Poi, nell'ottobre dei 1987, gli USA siglarono un accordo di libero scambio con il loro vicino a nord, il Canada, che stabilì l'eliminazione di tutte le tariffe e delle restrizioni quantitative nell'arco di dieci anni, a partire dal 1989. Le tariffe tra i due Paesi erano già abbastanza basse, così che gli effetti ancora una volta furono minimi. Tuttavia, l'accordo prevedeva anche l'eliminazione di molte barriere non-tariffarie, la fine di molte restrizioni sugli investimenti diretti tra i due Paesi e il tentativo di liberalizzare il commercio dei servizi.
Nel marzo 1990, il vicino a sud degli Stati Uniti, il Messico, premette per un accordo di libero scambio. Un accesso preferenziale al mercato statunitense era, con evidenza, una motivazione importante, anche perchè era visto come una via per attrarre nel Paese nuovi investimenti interni insieme al desiderio di "bloccare", attraverso gli impegni assunti con l'adesione all'accordo, le riforme economiche introdotte nel tentativo di liberalizzare l'economia. Gli Stati Uniti erano ansiosi di avviare questo processo ma, piuttosto che la conclusione di un accordo separato con il Messico, fu proposta la creazione di un'Area di Libero Scambio Nord Americana (NAFTA) comprendente gli Stati Uniti, il Canada e il Messico, sul modello dell'accordo di libero scambio già in vigore tra gli Stati Uniti e il Canada. Sebbene il NAFTA abbia incontrato una notevole resistenza interna, a causa della paura che gli Stati Uniti potessero subire degli effetti negativi sull'occupazione per la concorrenza delle imprese messicane nei settori a bassa tecnologia, fu tuttavia approvato dal Congresso nel 1993.
Alcuni Paesi espressero la propria preoccupazione perché gli Stati Uniti stavano abbandonando il multilateralismo per il regionalismo, ma questi ultimi risposero che i due erano complementari e non alternativi. Gli Stati Uniti erano sempre più dell'idea che si potesse ottenere un maggiore successo attraverso negoziazioni bilaterali con i Paesi partner che l'avessero voluto, piuttosto che ricercare accordi globali con tutti i Paesi membri del GATT. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti videro gli accordi commerciali regionali come un'interessante soluzione per spingere i loro maggiori partner commerciali nel sistema mondiale verso negoziazioni multilaterali.
Indubbiamente, un'importante considerazione era l'approfondirsi del processo di integrazione economica europea che si stava attuando. Nel 1985 la Comunità Europea firmò l'Atto Unico, con il quale stabilì la creazione del Mercato Unico Europeo caratterizzato dal libero commercio di beni e servizi e dalla libertà di movimento di lavoro e capitali a partire dalla fine del 1992. L'obiettivo era l'eliminazione di tutte le frontiere interne e l'instaurazione di una nuova struttura, normativa ed istituzionale, per gli scambi (l’acquis communautaire) al quale tutte le leggi nazionali avrebbero dovuto adeguarsi.
1 produttori dei Paesi terzi cominciarono a temere di dover subire, nei confronti dei concorrenti europei, un ulteriore svantaggio in termini di costo. Svantaggio che sarebbe aumentato se, nel momento stesso del l'abbassamento delle barriere interne, la CE fosse ricorsa a maggiore protezione dall'esterno. La paura di essere esclusi dal mercato interno comune aumentò per la decisione della CE di espandere il numero dei suoi membri da dieci a dodici Paesi, ampliando così l'area di discriminazione. Inoltre, in base ad un accordo firmato con i membri dell'Area di Libero Scambio Europea, molti dei benefici del mercato unico furono resi disponibili anche per i produttori dell'EFTA. In seguito, la maggior parte di questi Paesi ha fatto domanda per la completa adesione all'UE.
La possibilità di una polarizzazione del mondo in tre blocchi regionali fu incrementata dai paralleli sviluppi nella regione dell'Asia-Pacifico. Nel 1981, l'Australia e la Nuova Zelanda firmarono l'Accordo per più profonde relazioni economiche e commerciali tra l'Australia e la Nuova Zelanda (ANZCERTA), che rimpiazzava il precedente accordo di libero commercio tra Nuova Zelanda e Australia (NAFTA), siglato nel 1965.
Il primo gennaio del 1993, i sei membri dell'Associazione dei Paesi del SudEst Asiatico (ASEAN) diedero inizio al programma per l'Area di Libero Scambio dell'ASEAN (AFTA), prevedendo l'eliminazione completa delle tariffe nell'arco di quindici anni. A questo passo in avanti verso una più stretta integrazione nel Pacifico seguì, nel 1989, la formazione dei Forum per la Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC) comprendente quindici Paesi. Nel novembre del 1994, i Paesi dell'APEC, incontratisi a Giacarta, sottoscrissero l'impegno di realizzare un mercato libero entro il 2020. Sebbene non ci fu accordo su una scheda dettagliata di riduzioni o su una lista di prodotti da includere, venne deciso che tutte le riduzioni tariffarie che ci fossero state, sarebbero state estese automaticamente, su una base non discriminatoria, anche a tutti i Paesi aderenti al GATT.
Negli ultimi anni si è realizzata una miriade di accordi commerciali regionali anche in altre regioni del mondo. Una complessa rete di accordi sovrapposti è stata creata nei Paesi dell'America Latina e, probabilmente, l'Accordo commerciale del Mercosur dell'agosto del 1994 può essere considerato come lo sviluppo più importante in questa area. Esso prevedeva la creazione di un'unione doganale tra il Brasile, l'Argentina, l'Uruguay e il Paraguay, con effetto a partire dal primo gennaio 1995. Nell'ottobre del 1996, il Cile divenne membro associato del Mercosur così come la Bolivia nel dicembre dello stesso anno. La diffusione del regionalismo è evidenziata dal fatto che, di settanta accordi notificati al GATT e in vigore alla fine del 1995, quarantacinque sono entrati in vigore a partire dal 1990. La tabella 2. 1. elenca gli accordi regionali attualmente in vigore che sono stati ufficialmente notificati al GATT.

Il ruolo della crescita del nuovo regionalismo
L'esperienza storica acquisita indica che, fino ad oggi, la maggior parte dei blocchi commerciali regionali formati tra i Paesi sviluppati si risolvono nella creazione di commercio. Precedenti tentativi verso un'integrazione regionale tra i Paesi non sviluppati hanno avuto meno successo e possono essere sfociati in distorsioni commerciali. Anche in questo caso, tuttavia, l'effetto sul benessere economico globale è stato marginale.
In un certo senso, i blocchi commerciali regionali possono in realtà accelerare il processo di liberalizzazione del commercio mondiale. La liberalizzazione del commercio mondiale attraverso negoziati commerciali multilaterali deve, infatti, fare i conti con numerosi problemi. Tra questi il principale è certamente quello delfree rider.
Dato che il GATT/WTO è basato sul principio della non condizionalità della clausola della nazione più favorita (MFN), un Paese sarà sempre tentato di accordare le minori concessioni possibili, sapendo che riceverà automaticamente qualunque riduzione delle tariffe che gli altri Paesi hanno negoziato tra loro.
Nel riconoscere questo problema, l'Accordo Generale impone ai membri la reciprocità delle concessioni commerciali, in modo da evitare che uno o più membri si limitino a godere delle concessioni offerte dagli altri e non siano disposti a farne a loro volta. Tuttavia, anche quando i Paesi sono disposti ad agire reciprocamente, possono ancora essere trattenuti dal fare concessioni importanti se ritengono che altri Paesi stiano cercando, in qualche misura, di agire secondo la logica delfree rider. Ciò comporta che il ritmo dei negoziati per la liberalizzazione sia imposto dal Paese meno disposto a fare concessioni. Il regionalismo può offrire una via alternativa per ovviare a questo problema. 1 Paesi che hanno maggiore disponibilità a fare importanti riduzioni delle loro barriere commerciali, possono farlo senza il bisogno di estenderle a tutti i partners commerciali. Quest'effetto può talvolta essere salutare se, come risultato, i Paesi più riluttanti sono spronati a fare concessioni. Un secondo problema degli accordi multilaterali è che possono richiedere molto tempo per concludere un negoziato, sia a causa del numero di Paesi coinvolti, sia per via della complessità degli accordi da raggiungere. Se ci sono molti Paesi che devono aderire ad ogni pacchetto di misure negoziate, può essere necessaria una più complessa rete di compromessi. Ogni round del CATT è stato più grande e più complicato. Come conseguenza, i negoziati tendevano a trascinarsi più a lungo. Ad esempio, il Tokyo Round è durato sei anni e l'Uruguay Round sette. D'altra parte, la gamma dei temi coperti dai negoziati regionali è spesso più ampia e talvolta più complessa di quella dei negoziati multilaterali. Pochi accordi regionali vertono solamente sull'abbassamento delle tariffe sul commercio dei beni. La maggior parte cerca anche di affrontare barriere non tariffarie e può estendere le trattative anche ad altri temi quali investimenti, servizi, libertà di circolazione di lavoratori e politica concorrenziale. Da questo punto di vista gli accordi commerciali regionali possono richiedere negoziati più complessi.

 

Rimane da comprendere il motivo per il quale si sono formati così tanti blocchi. La risposta a ciò può essere trovata nei vantaggi che i negoziati regionali hanno sulle negoziazioni multilaterali come metodo di liberalizzazione del commercio 15. Il numero di partecipanti ai negoziati regionali è minore, cosa che riduce il rischio difree riding e rende gli accordi più facili da raggiungere. Inoltre, la fedeltà ad un accordo è più facile da monitorare quando la sua applicazione concreta avviene a livello regionale piuttosto che multilaterale. C'è, anche, un maggiore probabilità che i Paesi coinvolti abbiano somiglianze istituzionali fra di loro, il che accresce un senso di fiducia sul rispetto reciproco dell'accordo.
Per dare una spiegazione al fenomeno dei regionalismo è stata altresì proposta una "teoria del domino" . A tale proposito si sostiene che, nel corso degli ultimi 50 anni, ciascun nuovo blocco commerciale regionale ha causato un effetto moltiplicatore nel quale le barriere bilaterali all'importazione sono cadute alla maniera del gioco del domino. L'argomentazione è la seguente: la formazione di un'area di commercio preferenziale causa una distorsione, sia del commercio che degli investimenti, che porta, successivamente, ad una "pressione per l'inclusione" all'interno del blocco regionale da parte dei Paesi non partecipanti. Più grande è il blocco commerciale, maggiore è la pressione per assicurarsi l'entrata. Inoltre, più grande è il numero dei Paesi che vi partecipano, maggiore è la pressione di chi sta fuori ad evitare di esserne escluso. Dove la membership è aperta, essa aumenterà rapidamente. Dove, per contro, la membership è fortemente ostacolata, i Paesi esclusi possono decidere di negoziare accordi commerciali preferenziali tra di loro.
Un aspetto importante della teoria del domino è che, contrariamente ad altre argomentazioni sul regionalismo, la formazione di accordi regionali non si verifica perché questo tipo di accordo è più facile da negoziare di quelli multilaterali. Piuttosto, gli Stati comunemente percorrono le due strade in parallelo, come hanno fatto gli USA nei primi anni 90, quando i negoziati per la creazione di NAFTA avvennero contemporaneamente alle negoziazioni dell'Uruguay Round. La forza principale che sta dietro il regionalismo, nella teoria del domino, è invece il desiderio di chi sta fuori di non essere escluso da nuovi gruppi regionali. Se la teoria del domino è corretta, c'è sempre motivo di aspettarsi che la membership dei gruppi commerciali regionali cresca nel tempo
Volendo concludere è possibile affermare che esistono diverse e contrastanti argomentazioni rispetto all'ipotesi che gli accordi commerciali regionali ostacolino i tentativi del GATT/WTO di realizzare il libero scambio mondiale. Nessuna conclusione certa può essere raggiunta in alcuna delle due direzioni. Ciò che è chiaro, comunque, è che il regionalismo è divenuto una opzione per molti Paesi negli ultimi anni.

Tipologie e fasi del processo d'integrazione regionale.
Le esperienze d'integrazione regionale realizzatesi sino ad oggi presentano delle forme anche molto differenti l'una dall'altra. Il più importante elemento di differenza è naturalmente l'estensione ed il livello di approfondimento del processo d'integrazione.
Una distinzione iniziale è fra integrazione settoriale ed integrazione globale. La prima riguarda solo alcuni settori di un sistema economico, mentre la seconda comprende all'interno del processo di unificazione tutti i settori.
La liberalizzazione commerciale e l'integrazione economica possono inoltre giungere a diversi e sempre più approfonditi livelli:
a)   area di libero scambio (ALS), che comprende un gruppo di Paesi fra i quali il commercio avviene liberamente, vale a dire in assenza di tariffe doganali e di restrizioni quantitative agli scambi. 1 Paesi partecipanti conservano la propria autonomia per quanto riguarda la politica commerciale nei confronti dei Paesi esterni all'area.
b)   unione doganale (UD), che aggiunge all'eliminazione all'interno delle barriere visibili la creazione di una tariffa esterna comune (TEC), o, più precisamente, di un'unica politica commerciale verso l'esterno per quanto riguarda sempre le barriere visibili.
c)    mercato interno dei beni e dei servizi (MI), dove tutte le restrizioni sul commercio interno devono essere abolite. Ciò comprende sia le barriere visibili che quelle invisibili, ossia gli ostacoli al commercio che derivano dalle differenze nazionali relative agli standards ed alle non ne tecniche che regolano il mercato dei beni e dei servizi e dalla tendenza delle autorità nazionali a preferire i fornitori interni per gli acquisti pubblici.
d)   mercato comune (MC), che presuppone, oltre alle liberalizzazioni già descritte, anche la piena mobilità dei fattori della produzione, sia per quanto riguarda la libera circolazione del capitale e del lavoro che il diritto di stabilimento delle attività produttive e di servizio.
e)   unione monetaria (UM), che si situa in una fase ancora più avanzata dei processo di unificazione in quanto aggiunge al livello d'integrazione precedentemente raggiunto anche un sistema monetario interno con una valuta comune. Ciò consente di eliminare l'ulteriore ostacolo alle transazioni interne al mercato rappresentato dall'incertezza sui tassi di cambio.
f)    unione economica (UE), che è un'unione monetaria nella quale esiste anche un forte livello di coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri. L'unione monetaria già presuppone un'unica politica monetaria; nell'unione economica assume particolare rilievo l'integrazione delle politiche fiscali e delle politiche settoriali, come quelle inerenti l'industria, l'agricoltura, i problemi sociali etc.
Con l'eccezione dell'area di libero scambio, tutte le fasi del processo d'integrazione qui sinteticamente descritte comprendono elementi di integrazione negativa, cioè di rimozione di regole che creano discriminazioni fra gli operatori economici interni e quelli degli altri Paesi membri, e di integrazione positiva, cioè di creazione di politiche comuni dirette al raggiungimento di obbiettivi comuni. Mentre l'area di libero scambio comprende solo misure di integrazione negativa, le misure di integrazione positiva contenute nelle fasi successive indicano una volontà politica di unificazione molto più forte, in quanto richiedono la rinuncia all'autonomia nazionale nelle materie per le quali si è realizzato uno strumento di intervento comune.
In una visione più ampia e più aderente alla realtà, il processo d'integrazione economica si presenta in modo molto complesso se ci si vuole riferire ad una sua definizione capace di coglierne gli aspetti fondamentali.
In effetti, se guardiamo in modo approfondito ad una definizione attuale d'integrazione economica, all'apparenza molto semplice (un processo di graduale eliminazione di tutte le barriere ai movimenti di beni, servizi, persone e capitali, volto a sostituire più mercati nazionali con un mercato unico o un mercato interno, nella definizione dell'UE ) ci accorgiamo della sua implicita complessità.
L'eliminazione di tutte le barriere, in un sistema economico contemporaneo, significa in concreto eliminare tutti i motivi, di natura legislativa o amministrativa, che impongono l'effettuazione di controlli alle frontiere: questi motivi sono tanto più numerosi quanto più un sistema economico è regolamentato. Basti pensare alle regole che tutti i Paesi tendono ad imporre per disciplinare i mercati dei beni (regole dirette alla tutela della salute, della sicurezza, dell'ambiente, dei consumatori etc.), dei servizi (regolamentazione dell'attività di trasporto, delle libere professioni) del lavoro (regolamentazione del mercato del lavoro, tutela dei diritti dei lavoratori, tutela della sicurezza nel mondo del lavoro) e dei capitali (regolamentazione dell'attività degli intermediari finanziari). Se queste regole, per quanto necessarie, creano barriere agli scambi, soprattutto quando il rispetto delle diverse regolamentazioni nazionali crea forti costi aggiuntivi agli operatori economici, il completamento del processo d'integrazione economica richiede l'eliminazione della loro funzione di barriera, o, meglio, richiede un processo di armonizzazione delle regole nazionali che consenta il libero accesso e la parità di condizioni nei mercati nazionali a tutti gli operatori economici, in particolare a quelli appartenenti ad altri Paesi membri dell'accordo di integrazione.

 

In sintesi, per la sua complessità, un processo di integrazione economica non può essere inteso semplicemente come eliminazione di ostacoli agli scambi ma anche come sostituzione di politiche nazionali con politiche comuni. Inoltre, un processo di integrazione economica avanzato contiene, fin dalle prime fasi, la necessità di realizzare politiche comuni di integrazione positiva e ciò è un indice importante della forte "politicizzazione" dell'accordo d'integrazione. Infine, il processo si autoalimenta. In effetti, il passaggio dagli stadi iniziali, meno impegnativi dal punto di vista politico, a quelli successivi, dove l'impegno da parte dei Governi nazionali a rinunciare alla propria autonomia nell'uso di strumenti di politica economica si fa più forte, è normalmente reso possibile dalle pressioni "dal basso" che provengono dagli operatori economici, incentivati dai risultati ottenuti fino a quel momento dall'integrazione già realizzata, e dall'irreversibilità dell'interdipendenza economica raggiunta dai paesi partecipanti.

 

Fonte: https://www.unisalento.it/c/document_library/get_file?folderId=965798&name=DLFE-103708.doc

Sito web da visitare: https://www.unisalento.it

Autore del testo: Fabio Pollice

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