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1. L’ambiente e lo sviluppo sostenibile: l’evoluzione della tutela ambientale a livello internazionale.
1.1 Il “problema ambientale”.
Il “problema ambientale” nasce nel momento in cui era del tutto tramontato il sogno dell’uomo di poter attingere senza limite dalle risorse naturali. In ambito politico, a fronte delle dottrine economiche classiche, che si erano sviluppate dapprima tenendo conto di una sola variabile (il capitale) e successivamente, a seguito delle teorie marxiste-socialiste, di una seconda variabile (il lavoro), nel corso della seconda metà del 1900 ci si rese conto che occorreva assumere un’ulteriore variabile: quella della limitatezza delle risorse naturali. Questo progresso tecnico-scientifico, tuttavia, non è stato repentino e ancora tutt’oggi non ha del tutto pervaso le scienze economiche e trova diverse resistenze di natura culturale. Infatti, se dovessimo osservare i testi di introduzione allo studio assunti nelle facoltà di economia, ci accorgeremmo come risultino carenti di qualsiasi accenno al rapporti tra crescita economica e disponibilità di risorse naturali, tra i conflitti per l’accesso alle medesime risorse e il conseguente effetto sui prezzi e i costi della produzione e del consumo. Sostanzialmente l’economia viene ancora definita, come un modello chiuso partendo dalla produzione fino a comprendere il consumo, ma avendo come unico parametro quello monetaristico. Non si ha alcuna considerazione dell’aspetto fisico del procedimento, ossia della produzione come trasformazione della materia e dell’energia in merci e servizi, nonché in scarti, emissioni e liquami inquinanti, che vengono a pesare sull’ambiente e, dunque, sulla collettività e sui depositi naturali delle risorse. Questo rilievo può essere riportato anche in sede macroeconomica nella quale alberga ancora la convinzione di una crescita economica legata al consumo delle risorse senza tener conto delle sue conseguenze sull’ambiente naturale. Da qui, nasce l’illusorio concetto di benessere, che a sua volta condiziona il comportamento dei governi, i quali timorosi delle conseguenze sociali di un cambiamento operano resistenze all’introduzione di un nuovo modello di crescita. Tale convinzione deriva dalle teorie economiche classiche in cui si pone nei confronti della natura una fiducia illimitata considerandola come essere indistruttibile, inesauribile, indeteriorabile, come “liberi doni della natura” (Ricardo, economista britannico massimo esponenti della scuola classica). Ad esempio l’aria e l’acqua, pur essendo fondamentali alla vita dell’uomo, sono di libero accesso e quindi non hanno un costo, ossia “non sono beni economici”. Questa esclusione fa sì che essi non vengano assunti nelle declinazioni delle dottrine economiche, le quali, tengono in considerazione solo i valori di scambio e non quelli di uso, tanto da far affermare che “solo le risorse che possono essere scambiate e che sono considerate limitate devono essere usate efficientemente, affinché gli articoli che limitati non sono non diventino inesorabilmente limitati, e perciò acquistino valore”
Oggi, purtroppo questa tesi viene sempre più frequentemente smentita nei fatti quotidiani. Daly (un economista-ecologo americano) disse: “Finora abbiamo considerato il capitale costituito dalla natura come un libero bene. Se questa valutazione si poteva giustificare nel modo vuoto di ieri, nel modo pieno di oggi è una valutazione antieconomica”.
Nonostante le resistenze delle teoria economica classica, una parte sempre più larga di economisti, tuttavia, hanno iniziato ad inserire i problemi ambientali nelle valutazioni relative allo sviluppo. Dapprima considerandoli microproblemi (ossia relegati in alcune regioni o a qualche settore produttivo), successivamente osservando che in realtà essi erano divenuti macroproblemi. Ci si è resi conto che l’azione congiunta di tanti microagenti comportano conseguenze rilevanti su aree molti più vaste di quelle relative alla immediata ricaduta territoriale e investono beni e risorse più ampie e ben differenti da quelle, che sono immesse direttamente nel singolo processo produttivo o di consumo.
Ci si è resi conto che le capacità di assimilazione degli ecosistemi sono limitate e che non riescono a tenere il passo della quantità di flussi di materia ed energia che l’uomo riversa o preleva dagli stessi. Così come non riescono a sopportare il tasso di incremento demografico registrato nell’ultimo secolo, ovvero un aumento pari a 20 volte. Pertanto, beni che si ritenevano alla portata di tutti, sono diventati beni limitati e quindi beni economici tali da avere un prezzo. Ma se l’acqua e l’aria e gli ecosistemi in generale hanno un prezzo, occorre individuare chi è tenuto a pagarlo: da qui nasce il conflitto tra realtà ecologica e realtà socio-culturale, ossia il “problema ambientale”.
Il modello economico così analizzato, non è solo un’affermazione astratta, ma è radicato nei costumi, nelle condizioni e nelle relazioni sociali, in quanto offriva le opportunità di lavoro e, quindi, di sopravvivenza delle persone: è una realtà socio-culturale. Il “problema ambientale”, dunque, non è solo un problema economico, ma rappresenta un problema sociale, che investe anche altri valori (l’eguaglianza, il diritto alla vita dignitosa, la responsabilità, la democrazia). La sua risoluzione, pertanto, si scontra con le posizioni di vantaggio acquisite da alcuni stati o categorie, tocca interessi e situazioni di potere. Si può, dunque, ben immaginare come le resistenze incontrate in sede di definizione di un accordo internazionale, siano state sempre e solo quelle di conservare o acquisire un privilegio all’accesso o all’acquisizione di una data risorsa.
Per fare un esempio riferendosi ad un tema di pressante attualità – il protocollo di Kyoto (2005) –, si osserva come il nucleo del contendere consista nell’acquisizione delle quote di emissioni inquinanti da poter rilasciare in atmosfera. Visto sotto un diversa ottica, ciò significa che pur nella consapevolezza del declino della qualità dell’aria, gli stati tra di loro lottano, al fine di poter giungere ad accordi che garantiscano più alte quote disponibilità di atmosfera rispetto agli stati concorrenti. Questo perché oramai si è avuta la contezza che l’aria è diventato un bene limitato e, quindi, un bene economico.
Esiste una soluzione capace di contemperare gli interessi economici e sociali con il rispetto delle leggi di natura? Quale modello di sviluppo è possibile proporre e perseguire senza creare danni irreversibili all’ambiente? La soluzione individuata per il superamento del problema, quindi, deve essere quella di contemperare la crescita socio-economica con le capacità della terra, ossia una crescita che riesca ad essere sopportata dai processi di assimilabilità degli ecosistemi. In altri termini la ricerca dello sviluppo sostenibile.
1.2 Prima della conferenza di Stoccolma.
Già prima del 1972, nel contesto internazionale era dato registrare un interesse, sempre più crescente, su temi rientranti nel cosiddetto “problema ambientale”. Sebbene in molte realtà nazionali fosse già maturata una consapevolezza unitaria del concetto, questo non era stato ancora accolto presso i consessi sovrannazionali. Possiamo, infatti, individuare dapprima sporadici, successivamente più frequenti, momenti di interesse legati a specifici settori. Ad esempio, il 19 marzo 1902 veniva firmata a Parigi la Convenzione internazionale per la protezione degli uccelli utili all'agricoltura. Quindi, già all’inizio dello scorso secolo la comunità internazionale era consapevole dell’importanza di salvaguardare gli elementi costitutivi degli ecosistemi, in quanto si era sin da allora consapevoli che essi risultano essenziali ad assicurare lo sviluppo e la conservazione dei sistemi economici. Ancora più interessante risulta l’aggiornamento – mediante modifica di quella convenzione -, che avviene quando il 18 ottobre 1950 a Parigi viene sottoscritta da più di cento di nazioni la Convenzione internazionale per la protezione degli uccelli. Nelle sue premesse essa, infatti, testualmente riporta: “i Governi firmatari della presente Convenzione, Consci del pericolo di sterminio che minaccia alcune specie di uccelli, preoccupati d'altro canto della diminuzione numerica di altre specie e, in particolare, delle specie migratrici, Considerando che dal punto di vista della scienza, della protezione della natura e dell'economia propria di ogni nazionale, tutti gli uccelli devono, in linea di massima, essere protetti…”. La comunità internazionale al fine di salvaguardare un patrimonio naturale seriamente minacciato rilevava il bisogno di imporre un regime di protezione per le specie volatili viventi allo stato selvatico, imponendo divieti di cattura durante specifici periodi o tramite metodi di sterminio non selettivo. Ai giorni nostri, definiremo una decisione di questo tipo come un intervento di tutela della biodiversità.
Sostanzialmente,già da allora ci si rendeva conto che ad uno squilibrio consegue una serie di azioni, che a loro volta accentuano gli effetti negativi dello squilibrio. Ad esempio, la scomparsa di una specie competitrice di specie animali o vegetali, che aggrediscono alcune culture agricole, ha come conseguenza quella di annotare l’aumento di danni all’agricoltura, che a sua volta comporta l’aumento delle pratiche di utilizzo di agenti antiparassitari o insetticidi, con ulteriori ripercussioni negative sull’ambiente.
In occasione dell’Anno della conservazione della natura (1970), il Consiglio d’Europa emana la "Carta dell’acqua", che darà luogo nell’anno successivo ad una conferenza a Ramsar (in questa città tunisina l 2 febbraio 1971), in cui viene firmata una convenzione relativa alle zone umide di importanza internazionale soprattutto in quanto habitat pregiati e fondamentali per la sopravvivenza degli uccelli acquatici. Anche in questa circostanza possiamo osservare che nelle premesse della convenzione gli stati sottoscrittori, oggi 150, affermarono di essere convinti che le zone umide costituiscono una risorsa di grande valore economico, culturale, scientifico e ricreativo, la cui perdita sarebbe irreparabile…
Questa convenzione costituisce un notevole passo in avanti rispetto a quella in precedenza citata, in quanto introduce in sede internazionale tre diversi importanti concetti:
Se in sede internazionale gli stati riuscivano a discutere solo di alcuni settori del problema, si cominciarono a registrare alcune iniziative spontanee di alcuni studiosi e operatori per discutere della questione ecologica.
The Limit of the Growth: Il titolo della traduzione italiana è improprio: avrebbe dovuto essere Rapporto sui limiti della crescita. Aurelio Peccei, illuminato manager, nel 1968 riunì presso l’Accademia dei Lincei, una trentina di studiosi di tutto il mondo per discutere sui limiti ecologici della crescita. A seguito di questo incontro (al quale parteciparono un centinaio di studiosi), fondò il Club di Roma, la cui missione è di agire come catalizzatore dei cambiamenti globali, individuando i principali problemi che l'umanità si troverà ad affrontare, analizzandoli in un contesto mondiale e ricercando soluzioni alternative nei diversi scenari possibili. In altre parole, il Club di Roma intende essere una sorta di cenacolo di pensatori dediti ad analizzare i cambiamenti della società contemporanea. Nel 1972, alla vigilia dell’incontro di Stoccolma, il Club di Roma licenziò uno studio commissionato dal prestigioso Massachussets Institute of Technology (MIT), dal titolo i “Limiti dello sviluppo”. Questo lavoro offrì una ampia analisi sulle tendenze del modello economico legato alla crescita demografica e delle sue conseguenze sulle capacità di carico del pianeta. Le conclusioni consigliarono di modificare il modello di sviluppo e determinare una condizione di stabilità ecologica ed economica.
Venne inoltre formulato il modello World3 che viene usato per simulare il possibile andamento di popolazione, produzione industriale ed altre variabili mediante equazioni non lineari e cicli di retroazione.
In estrema sintesi, le conclusioni del rapporto sono:
•Se l'attuale tasso di crescita della popolazione, dell'industrializzazione, dell'inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse continuerà inalterato, i limiti dello sviluppo su questo pianeta saranno raggiunti in un momento imprecisato entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un declino improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità industriale.
•È possibile modificare i tassi di sviluppo e giungere ad una condizione di stabilità ecologica ed economica, sostenibile anche nel lontano futuro. Lo stato di equilibrio globale dovrebbe essere progettato in modo che le necessità di ciascuna persona sulla terra siano soddisfatte, e ciascuno abbia uguali opportunità di realizzare il proprio potenziale umano.
Sulla base di questi progressi, nel 1972 si giunse alla condivisione del primo documento internazionale, che ha affrontato il tema ambiente nella sua completezza.
Conseguenti alla pubblicazione di “The Limit of the Growth” abbiamo nel 1992 “Beyond the Limits” (oltre i limiti_ nel quale si sosteneva che erano già stati superati i limiti della "capacità di carico" del pianeta), nel 1994 Limits to Growth (The 30-Year Update hanno aggiornato e integrato la versione originale, spostando l'accento dall'esaurimento delle risorse alla degradazione dell'ambiente) e nel 2008 “un paragone tra i limiti dello sviluppo e 30 anni di dati reali”.
Un paragone tra i limiti dello sviluppo e 30 anni di dati reali”:
E’ una ricerca ha confrontato i dati degli ultimi 30 anni con le previsioni effettuate nel 1972, concludendo che i mutamenti nella produzione industriale e agricola, nella popolazione e nell'inquinamento effettivamente avvenuti sono coerenti con le previsioni del 1972 di un collasso economico nel XXI secolo. Il recente aggiornamento del Rapporto si giova di due concetti:
1_l'esigenza di uno sviluppo sostenibile (affermata per la prima volta nel Rapporto Brundtland del 1987);
2_la misurazione dell'impatto dell'uomo sulla Terra mediante l'impronta ecologica (tecnica introdotta da Mathis Wackernagel e altri nel 1996);
Si apre, in effetti, sottolineando che l'impronta ecologica ha iniziato a superare intorno al 1980 la capacità di carico della Terra e la supera attualmente del 20%.
Si ribadisce l'assunto fondamentale: la Terra non è infinita né come serbatoio di risorse (terra coltivabile, acqua dolce, petrolio, gas naturale, carbone, minerali, metalli, ecc.), né come discarica di rifiuti. La crescita della popolazione e della produzione industriale comporta sia il consumo delle risorse, sia l'inquinamento.
Attraverso l’utilizzo del modello World3, nel Rapporto vengono proposti 11 scenari diversi, definiti dagli autori tutti "ottimistici" in quanto:
1.3 La Conferenza di Stoccolma.
Sotto questi presupposti, nel 1972, si svolse a Stoccolma una conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, durante la quale si incontrarono rappresentanti di 110 paesi e 400 tra organizzazioni governative e non governative. Date le premesse, da questo incontro, come sarebbe stato lecito aspettarsi, non viene prodotta una convenzione, bensì una dichiarazione di principi. A fronte di un tema di così ampia portata gli stati, infatti, non si trovarono nelle condizioni di poter concordare immediatamente disposizioni che disciplinino le attività umane interessanti il tema ambiente, ma riuscirono a convergere solo su enunciazioni generali il cui scopo è quello di informare i successivi interventi disciplinanti la materia. Nel caso di una enunciazione di principi, pertanto, sotto un profilo strettamente tecnico non siamo di fronte a disposizioni giuridicamente vincolanti, in quanto mancano sanzioni e soggetti tenuti a comminarle, ossia di strumenti cogenti e/o deterrenti. Possiamo osservare ad esempio, che nel 3° principio della Dichiarazione di Stoccolma viene stabilito che la capacità della Terra di produrre risorse naturali rinnovabili deve essere mantenuta e, ove ciò sia possibile, ripristinata e migliorata. Una simile previsione sarà, quindi, capace di impegnare solo moralmente chi la sottoscrive.
Le dichiarazioni, così come i documenti programmatici assunti in sede internazionale non hanno un’efficacia giuridica vincolante, essi sono il risultato di un processo negoziale internazionale e quindi:
Il primo documento assunto sulla tutela globale dell’ambiente in sede internazionale deve, dunque, essere letto come una promessa assunta dalla comunità internazionale in una specifica sede (le Nazioni Unite) di operare nel rispetto di alcuni valori condivisi. Come è altrettanto importante sottolineare come questo impegno non sia stato dichiarato direttamente dagli stati, quanto dal consesso ONU.
Per ciò che attiene ai contenuti, già dal preambolo della Dichiarazione ci si rende conto che il livello della cognizione del problema ambientale è alto. Infatti viene affermato:
la centralità dell’essere umano all’interno della tematica: “ L’essere umano è al tempo stesso creatura e artefice del suo ambiente, che gli assicura la sussistenza fisica e gli offre la possibilità di uno sviluppo intellettuale morale, sociale e spirituale. Nella lunga e laboriosa evoluzione della specie umana sulla Terra, è arrivato il momento in cui, mediante il rapido sviluppo della scienza e della tecnologia, l’essere umano ha acquisito la capacità di trasformare il proprio ambiente in innumerevoli modi e in misura senza precedenti. I due elementi del suo ambiente, l’elemento naturale e quello da lui stesso creato, sono essenziali al suo benessere e al pieno godimento dei suoi fondamentali diritti, compreso il diritto alla vita.”
l’urgenza di affrontare il problema: “La protezione e il miglioramento dell’ambiente è una questione di capitale importanza che riguarda il benessere dei popoli e lo sviluppo del mondo intero; essa risponde all’urgente desiderio dei popoli di tutto il mondo e costituisce un dovere per tutti i governi.”
l’importanza di coniugare la ricerca e l’applicazione pratica con la valutazione degli effetti sull’ambiente: “ L’essere umano deve costantemente fare il punto della propria esperienza e continuare a scoprire, inventare, creare e progredire. Al presente la capacità dell’essere umano di trasformare il proprio ambiente, se adoperata con discernimento, può apportare a tutti i popoli i benefici dello sviluppo e la possibilità di migliorare la vita. Applicato erroneamente o avventatamente, lo stesso potere può provocare un danno incalcolabile agli esseri umani ed all’ambiente. Vediamo intorno a noi con crescente evidenza i danni causati dagli esseri umani in molte regioni della Terra, pericolosi livelli di inquinamento delle acque, dell’aria, della terra e degli esseri viventi, notevoli ed indesiderabili perturbazioni dell’equilibrio ecologico della biosfera, distruzione ed esaurimento delle risorse insostituibili e gravi carenze dannose alla salute fisica, mentale e sociale degli esseri umani nell’ambiente da loro creato e in particolare nel loro ambiente di vita e di lavoro.”
la possibilità di assicurare uno sviluppo compatibile con la tutela dell’ambiente: . “Approfondendo le nostre conoscenze ed agendo più saggiamente, possiamo assicurare a noi stessi e alla nostra posterità condizioni di vita migliori in un ambiente più adatto ai bisogni ed alle aspirazioni dell’umanità. Esistono ampie prospettive per il miglioramento della qualità dell’ambiente e la creazione di una vita più felice.”
nonché la necessità di condividere la responsabilità ai diversi livelli e di integrare le politiche di settore con quella di tutela dell’ambiente: “Affinché questo scopo possa essere raggiunto, sarà necessario che tutti, cittadini e collettività, imprese ed istituzioni ad ogni livello, assumano le loro responsabilità e si dividano i rispettivi compiti. Gli esseri umani di tutte le condizioni e le più diverse organizzazioni possono, sulla base dei valori da loro stessi ammessi e dall’insieme delle loro azioni, determinare l’ambiente futuro. Le autorità locali e i governi avranno la responsabilità principale delle politiche e delle azioni che dovranno essere adottate in materia di ambiente, nei limiti della loro giurisdizione. E’ altresì necessaria la cooperazione internazionale per riunire le risorse al fine di aiutare i Paesi in via di sviluppo ad assumere le loro responsabilità in questo campo.”
Afferma che siamo ormai giunti ad un punto della storia in cui “noi dobbiamo condurre le nostre azioni in tutto il mondo con più prudente attenzione per le loro conseguenze sull'ambiente”. La difesa e il miglioramento dell'ambiente sono divenuti “uno scopo imperativo per tutta l'umanità”, da perseguire insieme a quelli fondamentali della pace e dello sviluppo economico e sociale mondiale.
TESTO DELLA DICHIARAZIONE
Dichiarazione della conferenza (di Stoccolma) delle Nazioni Unite sull’ambiente (1972)
I 26 PRINCIPI
1. L'uomo ha un diritto fondamentale alla libertà, all'eguaglianza e a condizioni di vita soddisfacenti, in un ambiente che gli consenta di vivere nella dignità e nel benessere, ed è altamente responsabile della protezione e del miglioramento dell'ambiente davanti alle generazioni future. Per questo le politiche che promuovono e perpetuano l'apartheid, la segregazione razziale, la discriminazione, il colonialismo ed altre forme di oppressione e di dominanza straniera, vanno condannate ed eliminate.
2. Le risorse naturali della Terra, ivi incluse l'aria, l'acqua, la flora, la fauna e particolarmente il sistema ecologico naturale, devono essere salvaguardate a beneficio delle generazioni presenti e future, mediante una programmazione accurata o una appropriata amministrazione.
3. La capacità della Terra di produrre risorse naturali rinnovabili deve essere mantenuta e, ove ciò sia possibile, ripristinata e migliorata.
4. L'uomo ha la responsabilità specifica di salvaguardare e amministrare saggiamente la vita selvaggia e il suo habitat, messi ora in pericolo dalla combinazione di fattori avversi. La conservazione della natura, ivi compresa la vita selvaggia, deve perciò avere particolare considerazione nella pianificazione dello sviluppo economico.
5. Le risorse non rinnovabili della Terra devono essere utilizzate in modo da evitarne l'esaurimento futuro e da assicurare che i benefici del loro sfruttamento siano condivisi da tutta l'umanità.
6. Gli scarichi di sostanze tossiche o di altre sostanze in quantità e in concentrazioni di cui la natura non possa neutralizzare gli effetti, devono essere arrestati per evitare che gli ecosistemi ne ritraggano danni gravi o irreparabili. La giusta lotta di tutti i Paesi contro l'inquinamento deve essere appoggiata.
7. Gli Stati devono prendere tutte le misure possibili per prevenire l'inquinamento dei mari con sostanze che possano mettere a repentaglio la salute umana, danneggiare le risorse organiche marine, distruggere valori estetici o disturbare altri usi legittimi dei mari.
8. Lo sviluppo economico e sociale è il solo modo per assicurare all'uomo un ambiente di vita e di lavoro favorevole e per creare sulla Terra le conduzioni necessarie al miglioramento del tenore di vita.
9. Le deficienze ambientali dovute alle condizioni di sottosviluppo ed ai disastri naturali pongono gravi problemi e possono essere colmate, accelerando lo sviluppo mediante il trasferimento di congrue risorse finanziarie e l'assistenza tecnica, quando richiesta, in aggiunta agli sforzi compiuti da Paesi in via di sviluppo stessi.
10. Per i Paesi in via di sviluppo, la stabilità dei prezzi, adeguati guadagni per i beni di prima necessità e materie prime, sono essenziali ai fini della tutela dell'ambiente, poiché i fattori economici devono essere presi in considerazione, così come i processi ecologici.
11. Le politiche ecologiche di tutti gli Stati devono tendere ad elevare il potenziale attuale e futuro di progresso dei Paesi in via di sviluppo, invece di compromettere o impedire il raggiungimento di un tenore di vita migliore per tutti. Gli Stati e le organizzazioni internazionali dovranno accordarsi nel modo più adeguato per far fronte alle eventuali conseguenze economiche e internazionali delle misure ecologiche.
12. Si dovranno mettere a disposizione risorse atte a conservare e migliorare l'ambiente, tenendo particolarmente conto dei bisogni specifici dei Paesi in via di sviluppo, dei costi che essi incontreranno introducendo la tutela dell'ambiente nel proprio programma di sviluppo e della necessità di fornire loro, se ne fanno richiesta, aiuti internazionale di ordine tecnico e finanziario a tale scopo.
13. Per una più razionale amministrazione delle risorse e migliorare così l'ambiente, gli Stati dovranno adottare nel pianificare lo sviluppo misure integrate e coordinate, tali da assicurare che detto sviluppo sia compatibile con la necessità di proteggere e migliorare l'ambiente umano a beneficio delle loro popolazioni.
14. La pianificazione razionale è uno strumento essenziale per conciliare gli imperativi dello sviluppo con quelli della partecipazione e del miglioramento dell'ambiente.
15. Nella pianificazione edile e urbana occorre evitare gli effetti negativi sull'ambiente, ricavandone i massimi vantaggi sociali, economici ed ecologici per tutti. In considerazione di ciò, i progetti destinati a favorire il colonialismo e la dominazione razziale devono essere abbandonati.
16. Nelle regioni in cui il tasso di crescita della popolazione o la sua concentrazione eccessiva rischia di avere un'influenza dannosa sull'ambiente o sullo sviluppo, ed in quelle in cui la scarsa densità di popolazione impedisca il miglioramento dell'ambiente e freni lo sviluppo, si dovranno adottare misure di politica demografica che, rispettando i diritti fondamentali dell'uomo, siano giudicati appropriati dai governi interessati.
17. Appropriate istituzioni nazionali devono assumersi il compito di pianificare, amministrare e controllare le risorse ambientali dei rispettivi Paesi, al fine di migliorare l'ambiente.
18. Allo scopo di incoraggiare lo sviluppo economico e sociale, la scienza e la tecnologia devono essere impiegate per identificare, evitare e controllare i pericoli ecologici e per risolvere i problemi ambientali ai fini del bene comune dell'umanità.
19. L'educazione sui problemi ambientali, svolta sia fra le giovani generazioni sia fra gli adulti, dando la dovuta considerazione ai meno abbienti, è essenziale per ampliare la base di un'opinione informativa e per inculcare negli individui, nelle società e nelle collettività il senso di responsabilità per la protezione e il miglioramento dell'ambiente nella sua piena dimensione umana. E' altresì essenziale che i mezzi di comunicazione di massa evitino di contribuire al deterioramento dell'ambiente. Al contrario, essi devono diffondere informazioni educative sulla necessità di proteggere e migliorare l'ambiente, in modo da mettere in grado l'uomo di evolversi e progredire sotto ogni aspetto.
20. La ricerca scientifica e lo sviluppo, visti nel contesto dei problemi ecologici nazionali o multinazionali, devono essere incoraggiati in tutti i Paesi, specialmente in quelli in via di sviluppo. A questo riguardo, deve essere appoggiato e incoraggiato il libero scambio delle informazioni scientifiche e delle esperienze, per facilitare la soluzione dei problemi ecologici. Inoltre, occorre che le tecnologie ambientali siano rese disponibili per i Paesi in via di sviluppo in termini tali da incoraggiare la loro larga diffusione, senza costituire per detti Paesi un onere economico.
21. La Carta delle Nazioni Unite e i principi del diritto internazionale riconoscono agli Stati il diritto sovrano di sfruttare le risorse in loro possesso, secondo le loro politiche ambientali, ed il dovere di impedire che le attività svolte entro la propria giurisdizione o sotto il proprio controllo non arrechino danni all'ambiente di altri Stati o a zone situate al di fuori dei limiti della loro giurisdizione nazionale.
22. Gli Stati devono collaborare al perfezionamento del codice di diritto internazionale per quanto concerne la responsabilità e la riparazione dei danni causati all'ambiente in zone al di fuori delle rispettive giurisdizioni a causa di attività svolte entro la giurisdizione dei singoli Stati o sotto il loro controllo.
23. Senza trascurare i principi generali concordati dalle organizzazioni internazionali o le disposizioni e i livelli minimi stabiliti con norme nazionali, sarà essenziale considerare in ogni caso i sistemi di valutazione prevalenti in ciascuno Stato, ad evitare l'applicazione di norme valide per i Paesi più avanzati, ma che possono essere inadatte o comportare notevoli disagi sociali per i Paesi in via di sviluppo.
24. La cooperazione per mezzo di accordi internazionali o in altra forma è importante per impedire, eliminare o ridurre e controllare efficacemente gli effetti nocivi arrecati all'ambiente da attività svolte in ogni campo, tenendo particolarmente conto della sovranità e degli interessi di tutti gli Stati.
25. Gli Stati devono garantire alle organizzazioni internazionali una funzione coordinatrice, efficace e dinamica per la protezione e il miglioramento dell'ambiente.
26. L'uomo e il suo ambiente devono essere preservati dagli effetti delle armi nucleari e di tutti gli altri mezzi di distruzione di massa. Gli Stati devono sforzarsi di giungere sollecitamente ad un accordo, nei relativi organismi internazionali, sulla eliminazione e la completa distruzione di tali armi.
Come si può osservare dal testo della dichiarazione, la tutela dell’ambiente viene riconosciuta come un elemento costituente dei diritti alla libertà, all’eguaglianza e alla vita. Il diritto di non veder pregiudicare l’uso della natura e delle sue risorse – anche per i nostri discendenti – viene, dunque, riconosciuto come un principio di giustizia sociale e di un fondamento per la pace tra i popoli e le genti. L’approccio “sociologico” della tutela dell’ambiente non sempre ha trovato tutti d’accordo.
Analizzando a fondo la dichiarazione di Stoccolma, i suoi principi, hanno rappresentato la presa d’atto dell’esistenza di un problema e una condivisione di valori, sulla quale porre le basi perché la comunità mondiale cominciasse a lavorare su una serie di quesiti, che l’umanità si è trovata di fronte. In tal modo ci si trovati a dover inserire in un documento in cui tutti gli aspetti del convivere umano, sia positivi (il lavoro, le relazioni sociali) che negativi (la discriminazione, l’uso di mezzi di distruzione di massa, l’eccessivo consumo). Allo stesso tempo, di fronte alle condizioni di forte disparità economiche esistenti tra i diversi paesi si è dovuto affermare che la tutela dell’ambiente non dovesse avvenire a discapito dello sviluppo. Si può osservare come il richiamo allo sviluppo economico sia del tutto neutro e costituisca un valore intrinseco, che non viene in alcun modo messo in discussione nella dichiarazione: Un esempio di questo equivoco concetto di sviluppo lo si può cogliere al 16° principio, laddove viene affermato che una scarsa densità di popolazione impedisce il miglioramento dell’ambiente. Tale affermazione sottintende, infatti, un valore di relazione tra la presenza dell’uomo e la qualità dell’ambiente, implicitamente negando che un ambiente può essere di notevole qualità anche in assenza dell’uomo stesso. Inoltre, non viene mossa in maniera espressa alcuna critica ai modelli di produzione e di consumo fino ad allora adottati, quasi a voler implicitamente affermare che fosse indiscutibile una evoluzione virtuosa del modello di sviluppo che si era fino ad allora manifestato.
Come si può ben comprendere, nel 1972 i tempi non erano ancora sufficientemente maturi per introdurre il concetto di sviluppo sostenibile. Resta comunque, la fondamentale importanza storica della conferenza: vengono affermati i concetti della responsabilità dei singoli e degli stati (anche di fronte alle generazioni future), della ineluttabilità (operare in maniera coordinata), dell’importanza di pianificare e programmare le attività (tenendo conto degli oneri ambientali, della necessità di sviluppare la ricerca e l’innovazione), nonché di promuovere una nuova educazione e cultura. Alla conferenza seguirono una serie di iniziative. Come, nel 1973 il primo Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP – United National Environment Programm); nel 1973 il Primo Programma di Azione Ambiente delle Comunità Europee; nel 1974 il Programma Regionale dei Mari; nel 1976 la Convenzione sulla Protezione del Mediterraneo.
In molti paesi iniziano a costituirsi ministeri dedicati esclusivamente alla protezione dell’ambiente. Si comincia a vedere anche l’internazionalizzazione del movimento ambientalista, inteso non come forza partitica, ma sociale, di pressione sui cosiddetti decisori.
1.4 L’ esempio di CHERNOBYL
La convinzione che l’uomo abbia la capacità di controllare lo stato dell’ambiente, garantendo la qualità della vita per le generazioni future, risulta smentita da numerosi eventi che, nel corso dell’ultimo trentennio, hanno determinato catastrofi ambientali o quanto meno, danni alle persone, alla fauna, alla flora e alle risorse in genere.
Un esempio significativo di catastrofe provocata dall’intervento umano nell’impiego pacifico dell’atomo è rappresentato dall’incidente verificatosi il 26 aprile 1986 a Chernobyl, una cittadina sita in Ucraina ex URSS. Tale incidente ha dimostrato l’inadeguatezza della disciplina internazionale preesistente, la necessità che la materia venisse rapidamente regolata dal diritto internazionale (come in effetti è avvenuto) e – per quanto qui rileva- ha avuto conseguenze ambientali, politiche e giuridiche anche nel nostro paese.
I fatti possono essere così riassunti. L’incidente, le cui cause sono state attribuite ad errori e negligenze, ha determinato morti per esplosione o per contaminazione radioattiva nelle zone limitrofe; la nube radioattiva si è poi propagata in vari paesi, tra i quali l’Italia con preoccupanti conseguenze sia per la salute umana che per la fauna e la flora. È da rilevare che la disciplina internazionale dell’inquinamento atmosferico transfrontaliero (convenzione di Ginevra 1979) non comprendeva, secondo l’interpretazione corrente, l’inquinamento radioattivo; mentre la convenzione di Vienna, del 1973, riguardante i danni causati dall’energia nucleare, non era stata sottoscritta dell’URSS. In seguito al sinistro, le iniziative per correggere la normativa internazionale relativa all’inquinamento radioattivo produssero, su iniziativa dell’agenzia internazionale per l’energia atomica, due convenzioni: l’una, sulla tempestiva informazione di incidente nucleare, l’altra sull’assistenza in caso di incidente nucleare, o di emergenza radiologica, che recano la data del 26 settembre 1976. la prima convenzione ribadisce e rafforza principi già espressi in altra forma nel diritto internazionale. Non vi si menzionano le armi nucleari anche se gli stati che le detengono si sono dichiarati disposti in caso di incidente, a fornire le informazioni necessarie. Non si affronta nemmeno il problema delle responsabilità in caso di mancata informazione. In base alla seconda convenzione, gli stati che abbiano subito le conseguenze di un incidente nucleare possono richiedere di essere assistiti dalla parti contraenti che si impegnano a cooperare fra di loro e con l’agenzia sopra ricordata. Si ritiene in dottrina (kiss, beurier) che la vicenda di Chernobyl e i problemi da essa sollevati abbiano prodotto una svolta positiva nel diritto internazionale dell’ambiente.
In Italia dove la presenza di impianti nucleari aveva da tempo suscitato preoccupazioni, l’incidente di Chernobyl e, in conseguenza di esso, la distruzione di determinati prodotti che si temeva potessero essere contaminati, non mancarono di influenzare l’opinione pubblica.
1.5 WCS _ World Conservation Strategy of the Linving Natural Resources for a Sustainable Development
Strategia mondiale per la conservazione_1980
Negli anni '80 si fa strada l'esigenza di conciliare crescita economica ed equa distribuzione delle risorse in un nuovo modello di sviluppo. Il principio organizzativo di questo paradigma viene individuato nel concetto di sostenibilità dello sviluppo: un insieme di valori che interessa tutti i campi dell' attività umana, in modo trasversale e in una prospettiva di lungo termine.
Nel 1980, l’IUCN (oggi World Conservation Union), l’UNEP (United Nations Environment Programme, organismo istituzionale cui è attribuito il fine generale della tutela ambientale e dell'utilizzo sostenibile delle risorse naturali) e il WWF (Fondo mondiale per la natura) elaborano un documento diffuso in tutto il mondo chiamato World Conservation Strategy of the Linving Natural Resources for a Sustainable Develpment (WCS, detto anche Strategia Mondiale per la Conservazione). E’ il primo documento internazionale in cui si indica esplicitamente il concetto dello sviluppo sostenibile in cui vi si legge:
"Per affrontare le sfide di una rapida globalizzazione del mondo una coerente e coordinata politica ambientale deve andare di pari passo con lo sviluppo economico e l'impegno sociale";
“Perché lo sviluppo sia sostenibile è necessario tener conto dei fattori sociali ed ecologici, nonché di quelli economici, della situazione delle risorse esistenti e dei vantaggi e degli svantaggi a breve o a lungo termine di soluzioni alternative.”
Gli obiettivi principali sono:
• mantenimento dei sistemi che sostengono gli equilibri necessari alla vita e dei processi ecologici essenziali;
• conservazione della diversità genetica;
• utilizzo sostenibile delle specie e degli ecosistemi.
1.6 1987 Rapporto Brundtland - Il nostro futuro comune
Nel 1983 viene istituita dal segretario generale delle Nazioni unite la Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, che verrà presieduta dall’allora primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland.
Nel 1987, viene dato incarico a questa commissione di promuovere un’agenda mondiale per il cambiamento, teso a proporre strategie ambientali a lungo termine onde assicurare uno sviluppo sostenibile per l’anno 2000 e oltre.
Nello stesso anno viene presentato il rapporto “Our Common Future” (noto come Rapporto Brundtland), che formula una efficace definizione di sviluppo sostenibile, cioè:
"lo sviluppo che è in grado di soddisfare i bisogni della generazione presente, senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri"
Il rapporto Brundtland prendeva atto del fatto che i punti critici e i problemi globali dell’ambiente erano dovuti essenzialmente alla grande povertà presente nel sud e ai modelli di produzione e di consumo non sostenibili del nord. Il rapporto evidenziava, quindi, la necessità di attuare una strategia in grado di integrare le esigenze dello sviluppo e dell’ambiente. Questa strategia è stata definita in inglese con il termine «sustainable development», attualmente di largo uso, e tradotto successivamente con «sviluppo sostenibile».
Nel rapporto si legge inoltre:
I parte: preoccupazioni comuni
"La sostenibilità richiede una considerazione dei bisogni e del benessere umani tale da comprendere variabili non economiche come l'istruzione e la salute, valide di per sé, l'acqua e l'aria pulite e la protezione delle bellezze naturali…"
II parte: sfide collettive
"… Nella pianificazione e nei processi decisionali di governi e industrie devono essere inserite considerazioni relative a risorse e ambiente, in modo da permettere una continua riduzione della parte che energie e risorse hanno nella crescita, incrementando l'efficienza nell'uso delle seconde, incoraggiandone la riduzione e il riciclaggio dei rifiuti …"
III parte: sforzi comuni
"… La protezione ambientale e lo sviluppo sostenibile devono diventare parte integrante dei mandati di tutti gli enti governativi, organizzazioni internazionali e grandi istituzioni del settore privato; a essi va attribuita la responsabilità di garantire che le loro politiche, programmi e bilanci favoriscano e sostengano attività economicamente ed ecologicamente accettabili a breve e a lungo termine …"
Il 22 dicembre 1989, con la Risoluzione 44/228 l’Assemblea generale dell’ONU, dopo aver discusso il rapporto, decise di organizzare una Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo. Tale conferenza si svolgerà nel 1992 a Rio de Janeiro.
1.7 Conferenza ONU su ambiente e sviluppo (Rio de Janeiro, 1992)
L'estrema urgenza e necessità di individuare un percorso universale per costruire uno sviluppo sostenibile conduce la comunità mondiale a riunirsi nel 1992 a Rio de Janeiro nel quale parteciparono le delegazioni di 183 nazioni, più di 100 capi di stato e oltre 2.900 organizzazioni non governative. In tutto vi partecipano circa 17.000 persone. I Paesi aderenti riconoscono che le problematiche ambientali devono essere affrontate in maniera universale e che le soluzioni devono coinvolgere tutti gli Stati. Vengono quindi, negoziate e approvate tre dichiarazioni di principi, firmate due convenzioni globali.
Anche nel caso della dichiarazione di Rio dobbiamo registrare un’enunciazione di principi, come era avvenuto a Stoccolma ma è da osservare che, durante i 20 anni trascorsi tra le due conferenze, si era potuta annotare una crescita esponenziale di convenzioni internazionali su diversi temi ambientali: dal commercio di specie a rischio di estinzione alla prevenzione dell’inquinamento causato da navi; dalla costituzione di un fondo internazionale di indennizzo per inquinamento da idrocarburi all’inquinamento atmosferico attraverso le frontiere a lunga distanza, fino ai trattati per la non proliferazione e la dismissione degli arsenali delle armi nucleari e batteriologiche. Peraltro, pochi giorni prima del vertice di Rio, precisamente il 9 maggio del 1992 a New York era stata firmata la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Tutto ciò stava a significare, che la determinazione di principi condivisi globalmente si rilevava uno strumento idoneo per muovere gli stati su un percorso di riforma e di responsabilizzazione.
DICHIARAZIONE DI RIO SULL’AMBIENTE E LO SVILUPPO
La Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo, riunitasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 Giugno 1992, riconfermando la Dichiarazione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente umano, adottata a Stoccolma il 16 Giugno 1972, e cercando di considerarla come base per un ulteriore ampliamento, con l’intento di stabilire una nuova e equa cooperazione globale mediante la realizzazione di nuovi livelli di collaborazione tra Stati, settori chiave delle società e persone, operando per raggiungere accordi internazionali nel rispetto degli interessi di tutti per proteggere l’integrità del sistema ambientale e di sviluppo globale, prendendo atto della natura integrale e interdipendente della Terra, nostra casa,
PROCLAMA CHE:
Principio 1
Gli esseri umani sono al centro delle problematiche per lo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto a una vita sana e produttiva in armonia con la natura.
Principio 2
Gli Stati, in conformità alla Carta delle Nazioni Unite e ai principi delle leggi internazionali, hanno il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse in funzione delle rispettive politiche ambientali e di sviluppo e hanno la responsabilità di assicurare che tali attività nel loro ambito di competenza o di controllo non provochino danni all’ambiente di altri Stati o territori oltre i confini della giurisdizione nazionale.
Principio 3
Il diritto allo sviluppo deve essere deve essere attuato in modo da soddisfare equamente i bisogni di sviluppo e ambientali delle generazioni presenti e future.
Principio 4
Nel quadro della realizzazione dello sviluppo sostenibile, la tutela ambientale costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere considerata separatamente da questo.
Principio 5
Tutti gli Stati e le persone collaboreranno al compito fondamentale di sradicamento della povertà come requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile, al fine di ridurre le disparità dei livelli di vita e soddisfare meglio i bisogni della maggior parte della popolazione mondiale.
Principio 6
Una speciale priorità deve essere accordata alle condizioni e ai bisogni particolari dei Paesi in via di sviluppo, soprattutto di quelli meno sviluppati e più vulnerabili sotto l’aspetto dell’ambiente. Gli interventi internazionali nel campo dell’ambiente e dello sviluppo devono essere rivolti anche agli interessi e ai bisogni di tutti i Paesi.
Principio 7
Gli Stati devono cooperare in uno spirito di collaborazione globale per conservare, tutelare e ripristinare l’integrità e la salute dell’ecosistema della Terra. Nel quadro dei diversi contributi al degrado ambientale globale, gli Stati avranno responsabilità comuni, ma differenziate. I Paesi sviluppati prendono atto della propria responsabilità nel perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile, considerando le pressioni che le loro società esercitano sull’ambiente globale e le tecnologie e delle risorse finanziarie che essi controllano.
Principio 8
Per realizzare lo sviluppo sostenibile e ottenere una migliore qualità della vita per tutte le persone, gli Stati devono ridurre ed eliminare i modelli insostenibili di produzione e di consumo e promuovere adeguate politiche demografiche.
Principio 9
Gli Stati devono collaborare per rafforzare la formazione endogena di competenze per lo sviluppo sostenibile, promuovendo il sapere scientifico attraverso scambi di conoscenze scientifiche e tecniche e favorendo lo sviluppo, l’adattamento, la diffusione e il trasferimento di tecnologie, incluse quelle nuove e innovative.
Principio 10
I problemi ambientali vengono affrontati al meglio con la partecipazione di tutti i cittadini interessati, ciascuno a seconda del proprio livello. A livello nazionale ogni individuo dovrà avere idoneo accesso alle informazioni riguardanti l’ambiente in possesso delle autorità pubbliche, comprese le informazioni su materiali e attività pericolose nelle loro comunità, e dovrà avere la possibilità di partecipare ai processi decisionali. Gli Stati dovranno facilitare e incoraggiare la consapevolezza e la partecipazione dei cittadini rendendo ampiamente disponibili le informazioni. Dovrà essere garantito un accesso effettivo ai procedimenti giudiziari e amministrativi, comprese le iniziative di riparazione e di rimedio.
Principio 11
Gli Stati dovranno attuare un’efficace legislazione ambientale. Gli standard ambientali, gli obiettivi e le priorità di attuazione dovranno riflettere il contesto ambientale e di sviluppo cui si riferiscono. Gli standard applicati da alcuni Paesi possono risultare inadatti e con inaccettabili costi economici e sociali per altri Paesi, in particolare per quelli in via di sviluppo.
Principio 12
Gli Stati devono collaborare per promuovere un sistema economico internazionale aperto e di sostegno che possa condurre a una crescita economica e allo sviluppo sostenibile in tutti i paesi, al fine di affrontare meglio i problemi del degrado ambientale. Le misure di politica commerciale per scopi ambientali non dovranno costituire uno strumento di discriminazione arbitraria o ingiustificabile o una restrizione occulta nel commercio internazionale. Dovranno essere evitate le iniziative unilaterali per affrontare le sfide ambientali al di fuori della giurisdizione del paese importatore. Le iniziative ambientali concernenti i problemi ambientali transnazionali o globali devono, per quanto possibile, essere basati su un consenso internazionale.
Principio 13
Gli Stati devono elaborare leggi nazionali riguardanti la responsabilità civile e l’indennizzo delle vittime dell’inquinamento e di altri danni ambientali. Gli Stati devono anche cooperare in modo più incisivo e determinato per emanare ulteriori leggi internazionali riguardanti la responsabilità civile e l’indennizzo per gli effetti nocivi dei danni ambientali provocati nell’ambito della loro giurisdizione o del loro controllo su zone al di fuori della loro giurisdizione.
Principio 14
Gli Stati devono cooperare efficacemente per scoraggiare o prevenire il dislocamento e il trasferimento ad altri Stati di ogni attività e di ogni sostanza che provochi grave degrado ambientale o che sia riconosciuta nociva alla salute delle persone.
Principio 15
Al fine di tutelare l’ambiente, gli Stati adotteranno ampiamente un approccio cautelativo in conformità alle proprie capacità. Qualora sussistano minacce di danni gravi o irreversibili, la mancanza di una completa certezza scientifica non potrà essere addotta come motivo per rimandare iniziative costose in grado di prevenire il degrado ambientale.
Principio 16
Le autorità nazionali dovranno cercare di promuovere l’internazionalizzazione dei costi ambientali e l’uso di strumenti economici, tenendo presente il principio che chi inquina deve fondamentalmente sostenere il costo dell’inquinamento, con la dovuta considerazione dell’interesse pubblico e senza distorsioni del commercio e degli investimenti internazionali.
Principio 17
La valutazione dell’impatto ambientale deve essere adottata come strumento nazionale per le attività proposte che potrebbero avere un rilevante impatto negativo sull’ambiente e che sono soggette a una decisione da parte di un’autorità nazionale competente.
Principio 18
Ogni Stato deve immediatamente comunicare agli altri qualsiasi disastro naturale o altre emergenze che potrebbero produrre improvvisi effetti nocivi sull’ambiente di tali Stati. La comunità internazionale farà tutti gli sforzi per aiutare gli Stati colpiti da tali emergenze.
Principio 19
Gli Stati daranno preventiva e tempestiva comunicazione e forniranno adeguate informazioni agli Stati potenzialmente colpiti su attività che possano avere un negativo effetto ambientale transnazionale e si consulteranno con tali Stati prontamente e in buona fede.
Principio 20
Le donne hanno un ruolo fondamentale nella gestione e nello sviluppo ambientale. La loro piena partecipazione è pertanto essenziale per la realizzazione dello sviluppo sostenibile.
Principio 21
La creatività, gli ideali e il coraggio della gioventù di tutto il mondo devono essere mobilitati per creare una collaborazione globale, al fine di realizzare uno sviluppo sostenibile e assicurare un migliore futuro per tutti.
Principio 22
Le genti indigene e le altre comunità locali hanno un ruolo fondamentale nella gestione e nello sviluppo ambientale grazie alla loro conoscenza e alle usanze tradizionali. Gli Stati devono riconoscere e debitamente sostenere la loro identità, cultura e interessi e consentire la loro efficace partecipazione per il raggiungimento dello sviluppo sostenibile.
Principio 23
Le risorse ambientali e naturali dei popoli oppressi, sotto dominazione e occupazione dovranno essere tutelate.
Principio 24
La guerra è intrinsecamente distruttiva per lo sviluppo sostenibile. Gli Stati pertanto dovranno rispettare le leggi internazionali assicurando la tutela dell’ambiente nei periodi di conflitto armato e, se necessario, collaborare nelle fasi successive.
Principio 25
La pace, lo sviluppo e la tutela dell’ambiente sono interdipendenti e indivisibili.
Principio 26
Gli Stati risolveranno le controversie ambientali pacificamente e con gli strumenti idonei in conformità alla Carta delle Nazioni Unite.
Principio 27
Gli Stati e le persone collaboreranno in buona fede e in uno spirito di cooperazione per l’attuazione dei principi stabiliti in questa Dichiarazione e per l’ulteriore evoluzione delle leggi internazionali nel campo dello sviluppo sostenibile.
Raffrontando i principi assunti a Rio con quelli della dichiarazione di Stoccolma non si può non notare come l’evoluzione delle definizioni e dei concetti sia marcata. Emerge chiaramente la critica a modelli di produzione e di consumo insostenibili, la preoccupazione per la crescita demografica, lo sviluppo economico dovrà essere consentito solo se sostenibile ambientalmente e socialmente, nel presente e nei confronti delle generazioni future. Viene riconosciuto il principio di precauzione, inteso come azione preventiva per evitare il verificarsi di danni gravi e irreversibili. Si introducono sistemi di valutazione preventiva (VIA) riguardo alla realizzazione di particolari opere. Viene stimolata la produzione di specifiche normative tese alla introduzione di azioni risarcitorie per danno ambientale. Si assume il principio del “chi inquina, paga” attraverso l’imposizione dell’internalizzazione dei costi di produzione.
L’aspetto sociale già presente nella dichiarazione di Stoccolma viene meglio circoscritto alle fasce più deboli: i poveri, gli indigeni, i popoli sottoposti a dominazione, e più in generale le donne e i giovani. Per rafforzare le scelte e incontrare una crescita della cultura ambientale viene sollecitata la nascita di diritti di partecipazione e di accesso alle informazioni inerenti all’ambiente. La pace si assume come un valore non più assoluto ma legato alla tutela dell’ambiente.
Rimangono, tuttavia, ancora delle resistenze mercantilistiche, infatti nell’ 11° e del 12° principio, viene evidenziato come a fronte della globalità del problema possano essere accolte anche delle differenziazioni nelle modalità di come affrontarlo e possano essere consentite deroghe a standard di qualità degli ecosistemi. Oggi si sta osservando, come in forza di queste previsioni sia possibile assistere a dei veri e propri disastri ambientali e sanitari in alcuni dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, dovuti alla delocalizzazione di impianti e sistemi produttivi provenienti dai paesi industrializzati, presso i quali quelle produzioni non erano più tollerate.
Oltre la dichiarazione, in occasione della conferenza di Rio fu approvata:
L'AGENDA 21 (Programma d'Azione per il XXI secolo).
Questo documento rappresenta un "programma di azione" della Comunità internazionale (Onu, Stati, Governi, Ngo, settori privati) in materia di ambiente e sviluppo per il 21° secolo. E' un documento di 800 pagine che parte dalla premessa che le società umane non possono continuare nella strada finora percorsa aumentando il gap economico tra le varie nazioni e tra gli strati di popolazione all'interno delle nazioni stesse, incrementando la povertà, la fame, le malattie e l'analfabetismo e causando il continuo deterioramento degli ecosistemi dai quali dipende il mantenimento della vita sul pianeta. In questo documento, viene sostenuto che si rende necessario cambiare modello di sviluppo migliorando gli standard di vita per tutti e proteggendo e amministrando più saggiamente l'ambiente, al fine di conservarlo anche per le generazioni future.
Il documento viene articolato in quattro sezioni:
Sezione 1: Dimensione economica e sociale:
CAPITOLI:
Cooperazione internazionale per accelerare lo sviluppo sostenibile nei paesi in via di sviluppo e politiche interne correlate;
Lotta contro la povertà;
Cambiamento dei comportamenti di consumo;
Dinamiche demografiche e sostenibilità;
Protezione e promozione della salute;
Promozione dello sviluppo di insediamenti umani sostenibili;
Integrazione tra sviluppo e ambiente nel decision-making .
Sezione 2: Conservazione e gestione delle risorse per lo sviluppo:
CAPITOLI:
9 - Protezione dell'atmosfera
10 - Approccio integrato per la pianificazione e gestione del suolo e delle risorse
11 - Lotta alla deforestazione
12 - Gestione degli ecosistemi fragili: lotta alla desertificazione e alla siccità
13 - Gestione degli ecosistemi fragili: sviluppo sostenibile delle zone montane
14 - Promozione dell'agricoltura sostenibile e dello sviluppo rurale
15 - Conservazione della diversità biologica
16 - Gestione sostenibile delle biotecnologie
17 - Protezione degli oceani, di ogni categoria di mari, inclusi i mari chiusi e semichiusi, delle aree costiere, sviluppo e uso razionale delle loro risorse viventi.
18 - Protezione della qualità e delle riserve di acque dolci: applicazione di un approccio integrato allo sviluppo, alla gestione e all'uso delle risorse idriche.
19 - Gestione sostenibile (environmentally sound management) dei prodotti chimici tossici, prevenzione del traffico illegale internazionale di prodotti tossici e pericolosi.
20 - Gestione ambientalmente attenta dei rifiuti pericolosi, prevenzione del traffico illegale internazionale dei rifiuti pericolosi.
21 - Gestione ambientalmente attenta dei rifiuti solidi e degli scarichi.
22 - Gestione ambientalmente attenta e sicura dei rifiuti radioattivi.
Sezione 3: Potenziamento del ruolo dei principali gruppi:
CAPITOLI:
23 - Preambolo
24 - Azione globale delle donne verso uno sviluppo equo e sostenibile
25 - Il ruolo di bambini e dei giovani nello sviluppo sostenibile
26 - Riconoscimento e potenziamento del ruolo delle popolazioni tradizionali e delle loro comunità
27 - Rafforzamento del ruolo delle organizzazioni non governative: partner per uno sviluppo sostenibile
28 - Iniziative delle autorità locali a supporto dell'agenda 21
29 - Rafforzamento del ruolo dei lavoratori e del sindacato
30 - Rafforzamento del ruolo delle imprese e della finanza
31 - La comunità scientifica e tecnologica
32 - Rafforzamento del ruolo degli agricoltori
Sezione 4: Strumenti di implementazione.
CAPITOLI:
33 - Risorse e meccanismi finanziari
34 - Trasferimento di tecnologia ambientalmente attenta, cooperazione e capacity building
35 - La scienza per lo sviluppo sotenibile
36 - Promozione dell'educazione, della coscientizzazione della formazione
37 - Meccanismi nazionali e cooperazione internazionale per il capacity-building nei paesi in via di sviluppo
38 - Accordi istituzionali internazionali
39 - Strumenti legali e meccanismi internazionali
40 - Informazione per il decision-making
L’agenda 21, dunque, costituisce uno strumento per costituire programmi di sviluppo in sede locale secondo i criteri dettati nei capitoli, secondo tre principi fondamentali:
- Sussidiarietà
- Condivisione
- Integrazione
Ciò sta a significare che le scelte e le azioni da interprendere devono partire “dal basso” per essere il più vicine possibile alle esigenze della comunità locale e allo stesso modo è fondamentale che le scelte e gli obiettivi siano condivisi da tutte le forze economiche e sociali, tramite percorsi di confronto. A tale proposito, l’Agenda 21 individua una serie di categorie sociali che devono interagire, tra le quali le donne, i giovani ed i bambini, le organizzazioni non governative, le imprese e le autorità locali. Infine, lo sviluppo sostenibile non può concretizzarsi senza l’integrazione delle azioni intraprese ai diversi livelli; in tal modo viene superata la visione settoriale dell’ambiente e tutti gli aspetti della sostenibilità vengono verificati in ogni azione da intraprendere.
DICHIARAZIONE SULLE FORESTE
Si limita ad enunciare principi per far fronte al processo di deforestazione, di cui vengono rilevate le conseguenze negative, specie in relazione ai cambiamenti climatici. La dichiarazione appare inadeguata per soddisfare le richieste avanzate, su questi e su altri temi connessi, all’inizio dei lavori di Rio. In questi termini essa è stata considerata un vistoso insuccesso.
A Rio furono firmate anche laConvenzione quadro sui cambiamenti climatici cui seguirà la Convenzione sulla Desertificazione -, che pone obblighi di carattere generale miranti a contenere e stabilizzare la produzione di gas che contribuiscono all'effetto serra e la Convenzione quadro sulla biodiversità, con l'obiettivo di tutelare le specie nei loro habitat naturali e riabilitare quelle in via di estinzione.
Per sovrintendere all'applicazione degli accordi nasce la Commissione per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite (CSD) con il mandato di elaborare indirizzi politici per le attività future e promuovere il dialogo e la costruzione di partneriati tra governi e gruppi sociali.
PROTOCOLLO DI KYOTO
La convenzione quadro sui cambiamenti climatici firmata a rio nel 1992 ha fissato degli obiettivi poi ulteriormente sviluppati nel protocollo di kyoto del 1997. tale protocollo prevede la riduzione delle emissioni di gas serra su una “base giuridicamente vincolante” e tuttavia flessibile a seconda degli ordinamenti considerati. Esso introduce tre meccanismi innovativi:
join implementation;
clean development;
emission trading.
Nel 1997 l’Italia ha preso l’impegno di abbattere le proprie emissioni del 6,5% rispetto al 1990 entro il 2012 (obiettivo non facile da raggiungere vista l’ingente spesa). L’unione europea, per parte sua, si è impegnata ad abbattere l’8%, ma tale limite non riguarda le quote degli stati singolarmente considerati. L’accordo di Kyoto è stato confermato dalla conferenza tenutasi a Bonn nel 2001, senza l’accordo degli stati uniti.
Per la riduzione delle emissioni, il Protocollo individua come prioritari alcuni settori:
- l’energia, intesa sia come combustione di combustibili fossili nella produzione ed utilizzazione dell’energia (impianti energetici, industria, trasporti, ecc.), sia come emissioni non controllate di fonti energetiche di origine fossile (carbone, metano, petrolio e suoi derivati, ecc.);
- i processi industriali, intesi come quelli esistenti nella industria chimica, nell’industria metallurgica, nei produzione di prodotti minerali, di idrocarburi alogenati, esafluoruro di zolfo, nella produzione ed uso di solventi, ecc.;
- agricoltura, intesa come zootecnia e fermentazione enterica, uso dei terreni agricoli, coltivazione di riso, combustione di residui agricoli, ecc.;
- rifiuti, intesi come discariche sul territorio, gestione di rifiuti liquidi, impianti di trattamento ed incenerimento, ecc.
Ai fini della riduzione delle emissioni di gas di serra non va tenuto conto solo dei rilasci in atmosfera dei gas di serra provenienti dalle attività umane, ma anche degli assorbimenti che vengono effettuati dall’atmosfera attraverso idonei assorbitori che eliminano tali gas e li immagazzinati opportunamente in modo da non aumentare l’effetto serra naturale. Uno dei principali assorbitori di gas di serra, ed in particolare dell’anidride carbonica, è costituito da piante, alberi e, in generale, dall’accumulo di biomassa attraverso la crescita della copertura vegetale. Pertanto, opere di forestazione iniziate dopo l’anno di riferimento: il 1990, vanno tenute in debito conto ai fini del bilancio fra quanto rilasciato in atmosfera e quanto assorbito da boschi e foreste.
2. La tutela dell’Ambiente nei trattati e nei programmi dell’UNIONE EUROPEA
2.1 Origine e tappe della tutela ambientale della Comunità Europea
Brevi cenni storici.
Quando ebbe inizio il processo di integrazione europea, la sensibilità ambientale era molto scarsa tra le forze politiche e l’opinione pubblica. Gli originari trattati istitutivi della CECA (del 1951), dell’Euratom e della CEE (trattati di Roma, entrambi del 1957), perseguivano finalità limitate nelle quali la tutela ambientale aveva scarso spazio. Solo ragionando a ritroso si può forse ravvisare qualche traccia nelle disposizioni riguardanti la sicurezza del lavoro (ceca), la protezione sanitaria dalle radiazioni (Euratom) e il miglioramento delle condizioni di vita (cee). La tutela dell’uomo e del suo ambiente divenne argomento di rilievo europeo più tardi, verso la fine degli anni 60, mentre si consolidava l’idea che nel mercato comune le frontiere nazionali non erano più necessariamente sinonimo di frontiere economiche. Per permettere all’ordinamento giuridico comunitario di esprimere disposizioni di diritto ambientale, non fu inizialmente necessario modificare i trattati istitutivi che nella loro qualità di accordi internazionali rappresentano il fondamento dell’unione europea e si trovano al vertice di quel sistema normativo. Le prime disposizioni in materia ambientale furono infatti introdotte nella forma di direttive (impegnano gli stati cui sono destinate circa un risultato da raggiungere, in ordine al quale gli stati stessi devono provvedere con atti di diritti interno)e regolamenti (intendono sostituire la disciplina comunitaria a quella nazionale, sono direttamente applicabili negli ordinamenti statuali e risultano obbligatori in tutti i loro elementi per le istituzioni comunitarie, per gli stati membri e per i loro cittadini). Nello stato comunitario, direttive e regolamenti sono gerarchicamente subordinati ai trattati e pari ordinati tra loro sotto il profilo formale, ma non necessariamente su quello sostanziale poiché, proprio basandosi sulla sostanza, la corte di giustizia è in grado di determinare la prevalenza di un atto su un altro. Le prime misure europee, il cui contenuto può definirsi ambientale, riguardano le classificazioni di talune sostanze pericolose e il loro imballaggio, nonché la tutela dell’inquinamento acustico e atmosferico causato da veicoli a motore (direttive 67/548, 70/157, 70/220). Esse precedono la dichiarazione conclusiva della conferenza dei capi di stato e di governo, tenutasi a Parigi nel novembre 1972, dove si sottolinea che l’espansine economica non sia fine a se stessa.
Come è accaduto in Italia, il diritto ambientale europeo è stato l’incontro di produzioni normative di diversa origine: la normativa ambientale europea non si è sviluppata solo attraverso il ramo economico ma si deve registrare, anche una produzione legata a temi differenti come ad esempio quelli legati alla salute (1975, direttiva sulla qualità delle acque potabili; 1976, direttiva sulle acque di balneazione) e quella diretta alla salvaguardia dei beni naturali (1977, decisione inerente la convenzione sulla protezione del Mediterraneo.
Si dovette attendere fino all’adozione dell’Atto unico europeo, avvenuta il 17 dicembre 1985, ma entrato in vigore il 1° luglio 1987 (posto in esecuzione con l’art. 2, della legge 23.12.1986, n. 909) per poter affermare di aver raggiunto l’obiettivo di far entrare a pieno titolo la salvaguardia dell’ambiente tra le finalità costitutive della CEE. L’Atto unico emendava il Trattato all’art. 25 ed introduceva il capo VII relativo all’Ambiente, recante disposizioni sostanziali e procedimentale (artt. 130R, 130S e 130T). I cambiamenti apportati sono di notevole rilevanza, vengono infatti introdotti i principi direttivi dell’azione comunitaria: l’azione preventiva, la responsabilità per i costi ambientali in capo a colui che inquina (il principio “chi inquina, paga), il riconoscimento dei requisiti della politica ambientale quali componenti essenziali delle altre politiche comunitarie.
Nell’atto unico ambientale viene stabilito che l’azione comunitaria deve rispettare i seguenti fini:
L’atto unico, inoltre, determinò tre diversi strumenti procedimentale per l’avanzamento della politica ambientale nella CEE:
1. Ravvicinamento (ovvero del processo giuridico finalizzato all'eliminazione delle disparità esistenti in due o più sistemi legislativi) delle legislazioni nazionali, il cui raggiungimento venne perseguito con lo strumento della direttiva, ossia una specifica fonte di diritto comunitario, la cui applicabilità all’interno degli Stati membri è vincolata da un atto di recepimento.
2. Mutuo riconoscimento, ovvero nella presa d’atto che in alcune circostanze il progresso scientifico è più veloce dei tempi di recepimento delle direttive comunitarie e, dunque, si cominciò a utilizzare la precauzione che le direttive di armonizzazione (si fa riferimento al procedimento con cui i vari Paesi modificano una determinata norma o la struttura di un certo tributo nel tentativo di convergere verso un modello unico.), in particolare in materia di salubrità e di sicurezza dei prodotti, da adottare per stabilire categorie di prodotti non fissassero disposizioni tecniche di dettaglio, ma solo requisiti minimi (livelli e prestazioni di qualità). In tal modo in attesa della definizione delle norme tecniche – che deve avvenire con la partecipazione degli attori di mercato interessati – non potrà più essere invocata la disparità tra norme tecniche per impedire l’importazione di merci, se queste corrispondono agli standard indicati nelle direttive.
3. Principio dell’equivalenza. Con ciò si intende la possibilità di veder riconoscere la validità di alcune normative previgenti alle direttive presenti in determinati Stati membri, in quanto equivalenti alle disposizioni comunitarie.
La Cee nell’applicazione del diritto ambientale riconosce il principio di sussidiarietà: la Comunità interviene solo quando gli obiettivi ambientali stabiliti non possano essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell’azione in questione, possano essere realizzati meglio a livello comunitario. Con tale principio, se da un lato si riconosceva l’importanza dell’azione degli stati e quindi la loro autonomia, dall’altra si ammetteva esplicitamente la necessità di affrontarne le azioni in scala continentale (globale).
2.2 Cenni sull’evoluzione storica dell’Unione europea
Trattato di Maastricht
Il trattato sull'Unione europea (TUE) segna una nuova tappa nell'integrazione europea poiché consente di avviare l'integrazione politica. L'Unione europea da esso creata comporta tre pilastri: le Comunità europee, la Politica estera e di sicurezza comune (PESC), nonché la cooperazione di polizia e la cooperazione giudiziaria in materia penale (JAI). Il trattato istituisce una cittadinanza europea, rafforza i poteri del Parlamento europeo e vara l'unione economica e monetaria (UEM). Inoltre, la CEE diventa Comunità europea (CE).
Con il trattato di Maastricht, risulta chiaramente sorpassato l'obiettivo economico originale della Comunità - ossia la realizzazione di un mercato comune - e si afferma la vocazione politica.
In tale ambito, il trattato Maastricht consegue cinque obiettivi essenziali:
Trattato di Amsterdam
Il Trattato di Amsterdam è uno dei trattati fondamentali dell'Unione europea ed è il primo tentativo di riformare le istituzioni europee in vista dell'allargamento. Venne firmato il 2 ottobre 1997 dagli allora 15 paesi dell'Unione Europea ed è entrato in vigore il 1º maggio 1999.
Ha consentito il potenziamento delle competenze dell'Unione, attraverso la creazione di una politica comunitaria di occupazione, la comunitarizzazione di alcuni temi che in passato rientravano nella cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni, le misure destinate ad avvicinare l'Unione ai suoi cittadini e la possibilità di cooperazioni più strette tra alcuni Stati membri (cooperazioni rafforzate). Il trattato ha inoltre esteso la procedura di codecisione nonché il voto a maggioranza qualificata e ha semplificato e rinumerato gli articoli del trattato.
Il Trattato firmato ad Amsterdam contiene innovazioni che vanno nella direzione di rafforzare l'unione politica, con nuove disposizioni nelle politiche di Libertà, sicurezza e giustizia, compresa la nascita della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, oltre all'integrazione di Schengen. Altre disposizioni chiarificano l'assetto della Politica estera e di sicurezza comune, con la quasi - integrazione dell'UEO, mentre viene data una rinfrescata (insufficiente) al sistema istituzionale, in vista dell'adesione dei nuovi membri dell'est.
Il trattato di Lisbona è il trattato redatto per sostituire la Costituzione europea bocciata dal 'no' dei referendum francese e olandese del 2005. È entrato ufficialmente in vigore il 1° dicembre 2009. L'intesa è arrivata dopo due anni di "periodo di riflessione" ed è stata preceduta dalla Dichiarazione di Berlino (per celebrare i 50 anni dalla firma del trattato di Roma) del 25 marzo 2007, in occasione dei 50 anni dell'Europa unita, nella quale il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente del Consiglio dei ministri italiano Romano Prodi esprimevano la volontà di sciogliere il nodo entro pochi mesi, al fine di consentire l'entrata in vigore di un nuovo trattato nel 2009 (anno delle elezioni del nuovo Parlamento europeo).
Si deve a questa occasione la formazione del gruppo Amato (dal nome del politico italiano) : un gruppo di "saggi", uomini politici europei d'alto livello, che ha lavorato informalmente alla riscrittura della Costituzione europea dopo la sua bocciatura nei referendum in Francia e nei Paesi Bassi nel 2005. È stato al lavoro fra il 2006 ed il 2007, supportato dalla Commissione europea (che ha inviato due suoi rappresentanti alle riunioni), con il mandato non ufficiale di prospettare una riscrittura della Costituzione basata sui criteri che erano emersi durante le consultazioni della Presidenza tedesca con le varie cancellerie europee. l risultato è stato presentato nel Giugno del 2007 .
Per quel che riguarda i contenuti, l'accordo recepisce gran parte delle innovazioni contenute nella Costituzione europea. Rispetto a quel testo, sono state approvate a Bruxelles le seguenti modifiche:
•non esisterà un solo trattato (come la Costituzione europea), ma saranno riformati i vecchi trattati.
•è stato tolto ogni riferimento esplicito alla natura costituzionale nel testo;
•e si è ritornati alla vecchia nomenclatura per gli atti dell'UE: tornano "regolamenti" e "direttive" al posto delle "leggi europee" e "leggi quadro europee“•è stata confermata la figura del presidente del Consiglio europeo non più a rotazione e per un mandato semestrale ma con elezione a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo per un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una volta;
2.3 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
Essa risponde alla necessità emersa durante il Consiglio europeo di Colonia (3 e 4 giugno 1999) di definire un gruppo di diritti e di libertà di eccezionale rilevanza che fossero garantiti a tutti i cittadini dell’Unione. Un livello elevato di tutela dell'ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell'Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile.
Il testo vigente.
Oggi la tutela dell’ambiente nel trattato istituivo dell’UE è rintracciabile negli artt. 2, 3, 6 e 174, di seguito riportati. Come è possibile leggere, viene accolto da un lato il principio dello sviluppo sostenibile, dall’altro un implicito diritto/dovere di godere/assicurare un alto standard di qualità dell’ambiente.
Versione consolidata
1° PRINCIPI
Articolo 1 (ex articolo 1)
Con il presente trattato, le ALTE PARTI CONTRAENTI istituiscono tra loro una COMUNITA’ EUROPEA.
Articolo 2 (ex articolo 2)
La Comunità ha il compito di promuovere nell'insieme della Comunità, mediante l'instaurazione di un mercato comune e di un'unione economica e monetaria e mediante l'attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui agli articoli 3 e 4, uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, una crescita sostenibile e non inflazionistica, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di protezione dell'ambiente e il miglioramento di quest'ultimo, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà
tra Stati membri.
Articolo 3 (ex articolo 3)
1.. Ai fini enunciati all'articolo 2, l'azione della Comunità comporta, alle condizioni e secondo il ritmo previsti dal presente trattato:
a) il divieto, tra gli Stati membri, dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative all'entrata e all'uscita delle merci come pure di tutte le altre misure di effetto equivalente;
b) una politica commerciale comune;
c) un mercato interno caratterizzato dall'eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali;
d) misure relative all'entrata e alla circolazione delle persone, come previsto dal titolo IV;
e) una politica comune nei settori dell'agricoltura e della pesca;
f) una politica comune nel settore dei trasporti;
g) un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno;
h) il ravvicinamento delle legislazioni nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune;
i) la promozione del coordinamento tra le politiche degli Stati membri in materia di occupazione al fine di accrescerne l'efficacia con lo sviluppo di una strategia coordinata per l'occupazione;
j) una politica nel settore sociale comprendente un Fondo sociale europeo;
k) il rafforzamento della coesione economica e sociale;
l) una politica nel settore dell'ambiente;
m)il rafforzamento della competitività dell'industria comunitaria;
n) la promozione della ricerca e dello sviluppo tecnologico;
o) l'incentivazione della creazione e dello sviluppo di reti transeuropee;
p) un contributo al conseguimento di un elevato livello di protezione della salute;
q) un contributo ad un'istruzione e ad una formazione di qualità e al pieno sviluppo delle
culture degli Stati membri;
r) una politica nel settore della cooperazione allo sviluppo;
s) l'associazione dei paesi e territori d'oltremare, intesa ad incrementare gli scambi e proseguire in comune nello sforzo di sviluppo economico e sociale;
t) un contributo al rafforzamento della protezione dei consumatori;
u) misure in materia di energia, protezione civile e turismo.
2.. L'azione della Comunità a norma del presente articolo mira ad eliminare le inuguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne.
Articolo 6 (ex articolo 3 C)
Le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni comunitarie di cui all'articolo 3, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile.
TITOLO XIX
AMBIENTE
Articolo 174
1. La politica della Comunità in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi:
- salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente;
- protezione della salute umana;
- utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali;
- promozione sul piano internazionale di risorse destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale.
2. La politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga". In tale contesto, le misure di armonizzazione rispondenti ad esigenze di protezione dell'ambiente comportano, nei casi opportuni, una clausola di salvaguardia che autorizza gli Stati membri a prendere, per motivi ambientali di natura non economica, misure provvisorie soggette ad una procedura comunitaria di controllo.
3. Nel predisporre la sua politica in materia ambientale la Comunità tiene conto:
- dei dati scientifici e tecnici disponibili;
- delle condizioni dell’ambiente nelle varie regioni della Comunità;
- dei vantaggi e degli oneri che possono derivare dall’azione o dall’assenza di azione;
- dello sviluppo socioeconomico della Comunità nel suo insieme e dello sviluppo equilibrato delle sue singole regioni.
4. Nel quadro delle loro competenze rispettive, la Comunità e gli Stati membri cooperano con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali competenti. Le modalità della cooperazione della Comunità possono formare oggetto di accordi, negoziati e conclusi conformemente all'articolo 300, tra questa ed i terzi interessati.
Il comma precedente non pregiudica la competenza degli Stati membri a negoziare nelle sedi internazionali e a concludere accordi internazionali.
2.4 Principi in materia di tutela ambientale della politica comunitaria
La politica comunitaria in materia di tutela dell’ambiente è fondata su quattro principi fondanti:
il principio di precauzione, che consente di adottare misure immediate in caso di minaccia di danno all'ambiente;
il principio dell'azione preventiva, che raccomanda di impedire, sin dall'inizio, inquinamenti o altri inconvenienti ambientali con l'adozione di misure atte ad eliminare un rischio noto;
il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, intendendosi con ciò la necessità che l'intervento debba riguardare lo stesso oggetto che provoca direttamente o indirettamente l'impatto ambientale, il che si traduce, prendendo ad esempio la normativa comunitaria sulle spedizioni di rifiuti, nei principi detti «dell'autosufficienza e della vicinanza»;
il principio «chi inquina paga», che impone a chi fa correre un rischio di inquinamento o a chi provoca un inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
Analizziamo i vari principi nello specifico:
Il principio di precauzione_ Negli ultimi tempi vi è stato un ampio dibattito riguardo al principio di precauzione, in particolare riguardo all’introduzione di nuove tecnologie, delle quali non sono appieno conosciuti gli effetti sull’ambiente. Come si è detto questo principio consiste nell’obbligo di intervenire in tutti quei casi, in cui esista la minaccia di un danno all’ambiente. Esso pertanto trova applicazione in tutti i casi, in cui una preliminare valutazione scientifica obiettiva indica che vi si rintracciano ragionevoli motivi di temere che i possibili effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possano essere incompatibili con l’elevato livello di protezione prescelto dalla Comunità. La portata di questo principio è enorme e in molte sedi si tende a ridimensionarlo con una lettura restrittiva dello stesso. Preliminarmente, occorre osservare che il principio per come è stato assunto dal Trattato istitutivo dell’UE differisce dalla formulazione assunta in altre sedi. Infatti, secondo il Trattato l’operatività del principio di precauzione non interviene solo nell’ipotesi in cui ricorra una minaccia di danni “gravi e irreversibili”, essendo sufficiente la semplice situazione di pericolosità presunta. La Commissione Europea, infatti, ha affermato che “Il fatto di invocare o no il principio di precauzione è una decisione esercitata in condizioni in cui le informazioni scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte e vi sono indicazioni che i possibili effetti sull'ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possono essere potenzialmente pericolosi e incompatibili con il livello di protezione prescelto.” Dunque, nessun riferimento alla minaccia di danno “grave e irreversibile”. Mentre, invece, tale inciso appare in due atti internazionali alla quale ha aderito l’UE: la dichiarazione di Rio e la convenzione sui cambiamenti climatici. La dichiarazione di Rio all’art.15 si dice che “in caso di danni importanti e irreversibili, l’assenza di prove scientifiche non potrà giustificare alcun ritardo nell’adozione di misure efficaci per contrastare il degrado ambientale Questa differente formulazione potrebbe essere giustificata dalla diversa sfera di applicazione dei rispettivi atti. Le due convenzioni citate, infatti, fanno riferimento a fenomeni globali, che possono essere osservati solo ambiti territoriali molto ampi, addirittura sovranazionali. In queste ipotesi diviene difficile ricollegare gli effetti sull’ambiente alla scelta o all’utilizzo di determinate tecnologie o metodologie di produzione. Pertanto, l’invito ad adottare il principio di precauzione è in quei casi indirizzato all’azione degli stati per gli atti di pianificazione e programmazione e, dunque, esso non può trovare applicazione se non in riferimento a rischi di danno di particolare gravità.
Il ricorso al principio precauzionale può essere illustrato da un esempio significativo: raccomandazione del 12 luglio 1999 “limitazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici da 0Hz a 300gHz”. Si tratta di un esempio interessante anche dalla prospettiva italiana perchè il nostro parlamento, richiamandosi all’art. 174.2 del trattato Ce e ai suggerimenti del Consiglio europeo, si è espresso con la Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici (n.36 22 Febbraio 2001); in termini ben più incisivi di quelli manifestati nelle aspettative precauzionali dell’Unione.
In tutti gli altri casi, ossia quando occorra valutare una singola tecnologia o una politica di settore, infatti, non risulta necessario imporre particolari limitazioni al principio di precauzione. Come del resto si registra in altri atti internazionali (Protocollo sulla biosicurezza: "La mancanza di certezze scientifiche dovute a insufficienti informazioni e conoscenze scientifiche riguardanti la portata dei potenziali effetti negativi di un organismo vivente modificato sulla conservazione e l'utilizzazione sostenibile della diversità biologica nella Parte d'importazione, tenendo conto anche dei rischi per la salute umana, non dovrà impedire a tale Parte di adottare decisioni adeguate rispetto all'introduzione degli organismi viventi modificati in questione, di cui al precedente paragrafo 3, al fine di evitare o limitare tali effetti potenzialmente negativi."; Accordo dell’OMC sull’applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS); relazione dell’Organismo d’appello sugli ormoni; Conferenza internazionale sulla protezione del Mare del Nord).
Del resto occorre ricordare come la dottrina comunitaria attribuisca alla tutela dell’ambiente e della salute un carattere preponderante rispetto alle considerazioni economiche quindi, gli interessi economici vengono subordinati a quelli della tutela dell’ambiente (ogni qualvolta i primi possano minacciare i secondi). Si deve comunque rilevare che il principio di precauzione riveste grande importanza in materia di tutela dell’ambiente e di sviluppo sostenibile in quanto esso:
- stimola sempre maggiori sforzi volti ad accrescere le conoscenze;
- presuppone la creazione di strumenti di vigilanza scientifica e tecnica per identificare le nuove conoscenze e comprenderne le implicazioni;
- comporta l'organizzazione di un ampio dibattito sociale in merito a ciò che è auspicabile e a ciò che è fattibile.
L’applicazione del principio di precauzione dovrebbe essere considerato nell’ambito di una strategia strutturata di analisi dei rischi, comprendente tre elementi: valutazione, gestione e comunicazione del rischio. Il principio di precauzione è particolarmente importante nella fase di gestione del rischio. Quindi, secondo la Commissione europea il ricorso al principio di precauzione interviene prima ancora che vi sia prova dell’esistenza del rischio, essendo invero sufficiente la presenza in un’ipotesi di rischio potenziale, anche se questo rischio non può essere interamente dimostrato, circa la sua portata quantificata, i suoi effetti determinati per l’insufficienza o il carattere non concludente dei dati scientifici.
Data la notevole estensione del principio, è opportuno rilevare, tuttavia, che la precauzione non può in nessun caso legittimare l’adozione di decisioni arbitrarie. Quindi, non dovrà essere utilizzato come strumento indiretto per creare svantaggi o vantaggi commerciali.
Nel caso in cui si riscontrino le condizioni dianzi riportate e si ritenga necessario agire, le misure basate sul principio di precauzione devono tener conto dei seguenti criteri:
proporzionalità rispetto al livello prescelto di protezione,
non discriminatorietà nella loro applicazione,
coerenza con misure analoghe già adottate,
previo esame dei potenziali vantaggi e oneri dell’azione o dell’inazione (compresa e non esclusivamente basata su di un’analisi economica dei costi/benefici, ove questa sia possibile e adeguata),
· revisionabilità delle misurealla luce dei nuovi dati scientifici, e
· attribuibilità della responsabilità per la produzione delle prove scientifiche necessarie per una più completa valutazione del rischio.
Analizziamoli nello specifico:
Proporzionalitàsignifica configurare le misure secondo il livello di protezione prescelto. Il rischio può essere raramente ridotto a zero, ma una valutazione incompleta del rischio può ridurre notevolmente l’ambito delle opzioni possibili per coloro che debbono gestirlo. Non sempre un divieto totale può essere una risposta proporzionale al rischio potenziale. Tuttavia, in alcuni casi, è la sola risposta possibile.
Non discriminazionesignifica che situazioni comparabili non devono essere trattate in modo diverso e che situazioni diverse non debbono essere trattate nello stesso modo, a meno che non vi siano motivi oggettivi.
Coerenzasignifica che le misure debbono essere di portata e natura comparabili a quelle già adottate in aree equivalenti, nelle quali tutti i dati scientifici sono disponibili.
L’esame dei vantaggi e degli onericomporta un confronto fra i costi generali della Comunità dell’azione e dell’inazione, nel breve e nel lungo periodo. Non si tratta semplicemente di un’analisi economica costi/benefici: la sua portata è molto più ampia e comprende considerazioni non economiche, quali l’efficacia delle possibili azioni e la loro accettabilità da parte del pubblico. Nell'effettuare tale analisi, si dovrà tenere conto del principio generale e della giurisprudenza della Corte di giustizia, per cui la protezione della salute ha la precedenza sulle considerazioni economiche.
Soggette a revisionealla luce dei nuovi dati scientifici significa che le misure basate sul principio precauzionale dovrebbero essere mantenute finché le informazioni scientifiche sono incomplete o non concludenti e il rischio è considerato ancora troppo elevato da essere imposto alla società, tenuto conto del livello di protezione prescelto. Le misure dovrebbero essere riviste periodicamente alla luce dei progressi scientifici e, se necessario, modificate.
Attribuire la responsabilità per la produzione di prove scientifichecostituisce una conseguenza di tali misure. I paesi che impongono il requisito della previa approvazione (autorizzazione all’immissione sul mercato) sui prodotti considerati a priori pericolosi prevedono l’inversione dell’onere della prova, trattando tali prodotti come pericolosi a meno che e sino a quando gli operatori economici non compiano le ricerche necessarie per dimostrare che tali prodotti sono sicuri. Se non vi sono procedure di previa autorizzazione, la responsabilità di dimostrare la natura di un pericolo e il livello di rischio di un prodotto o di un processo può spettare agli utilizzatori o alle pubbliche autorità. In questi casi, potrebbe essere adottata una specifica misura precauzionale consistente nell’imporre l’onere della prova sul produttore o sull’importatore, ma ciò non può costituire una regola generale.
Principio di Correzione_ La precauzione induce all’azione preventiva. Se questa non basta, si ricorre alla correzione. Il cerchio si chiude con il ricorso al principio di “chi inquina paga”. La ratio del principio è chiara: salvaguardare l’ambiente con misure cautelative o correttive che evitino o diminuiscano gli effetti nocivi di talune fonti inquinanti, facendo ricadere i costi di tali operazioni sul produttore-inquinatore responsabile o eventualmente sul consumatore, ma non sulla collettività. L’idea di fondo è di indirizzare produttore e consumatore verso alternative meno dannose atte ad evitare l’effetto perverso :”ho pagato e quindi inquino”. La previa determinazione di appositi standard porta come conseguenza che il produttore sia tenuto a dotarsi degli strumenti idonei a ridurre o eliminare l’inquinamento. Incentivi in questo senso possono avere carattere economico e costituiscono un utile spinta verso l’innovazione tecnologica.
Principio “Chi inquina paga”_ La precauzione induce all’azione preventiva. Se questa non basta, si ricorre alla correzione. Il cerchio si chiude con il ricorso al principio di “chi inquina paga”.
La ratio del principio è chiara: salvaguardare l’ambiente con misure cautelative o correttive che evitino o diminuiscano gli effetti nocivi di talune fonti inquinanti, facendo ricadere i costi di tali operazioni sul produttore-inquinatore responsabile o eventualmente sul consumatore, ma non sulla collettività. L’idea di fondo è di indirizzare produttore e consumatore verso alternative meno dannose atte ad evitare l’effetto perverso :”ho pagato e quindi inquino”. La previa determinazione di appositi standard porta come conseguenza che il produttore sia tenuto a dotarsi degli strumenti idonei a ridurre o eliminare l’inquinamento. Incentivi in questo senso possono avere carattere economico e costituiscono un utile spinta verso l’innovazione tecnologica.
In materia di diritto ambientale la CE interviene soprattutto con:
Non sono immediatamente efficaci ma devono essere recepite da leggi interne allo stato.
Lo stato membro è libero di scegliere il modo con cui recepire la direttiva a patto che venga raggiunto il fine imposto dalla direttiva della CE.
Talvolta le direttive sono definite self executing, in quanto a causa del loro contenuto di notevole importanza entrano immediatamente nell’ordinamento dello stato.
La legge “ La Pergola “ del 1989 ha dato la tecniche normative di recepimento delle direttive ed in seguito all’emanazione di questa legge è cominciata una prassi chiamata LEGGE COMUNITARIA, che viene emanata annualmente dal Parlamento degli stati membri della CE. In una legge comunitaria vengono indicati gli obblighi che ha uno stato della CE .
è una legge comunitaria è un programma annuale di ciò che lo stato deve fare per conformità alla CE.
Una direttiva può essere recepita-adottata anche a livello regionale e ciò accade sia nell’ambito delle competenze esclusive delle regioni sia nell’ambito delle competenze concorrenti.
L’Art.117 Cost. stabilisce che le regioni hanno una potestà legislativa anche in materia ambientale.
In alcune materie può intervenire solo la regione (COMPETENZE ESCLUSIVE), mentre in altre lo stato definisce le linee essenziali e poi alle regioni spetta l’emanazione di leggi più specifiche che seguano però tali linee generali ( COMPETENZE CONCORRENTI).
2.5 I programmi comunitari di azione ambientali.
Come accennato in precedenza, oltre alla produzione normativa, l’azione della Comunità si distingue anche per l’attuazione di appositi programmi, finalizzati al fattivo perseguimento di una politica di tutela ambientale.
Il primo programma (1973-1977) si proponeva di ridurre e (laddove possibile) eliminare l’inquinamento; conservare gli equilibri della biosfera; promuovere una gestione razionale delle risorse naturali; definire obiettivi di qualità; stimolare la ricerca di soluzioni condivise, anche in sede internazionale e in settori, nei quali l’ambiente rappresenta un valore trasversale. Queste azioni hanno segnato, a ben vedere, i primi passi verso i principi successivamente accolti, come quello della prevenzione. Esso deve intendersi come elemento informatore della ricerca e della conoscenza, come introduzione della tutela ambientale a monte delle scelte e nelle programmazioni settoriali. Quello dell’attribuzione dei costi in capo a chi cagiona l’inquinamento, in modo da far emergere gli effettivi costi delle produzioni più inquinanti. Quello della limitatezza delle risorse naturali e, quindi, delle valutazioni sul lungo termine riguardo le scelte da operare. L’importanza della formazione, dell’informazione e della partecipazione. L’attribuzione della competenza ad intervenire in considerazione del livello più idoneo rispetto alla tipologia dell’inquinamento (regionale, nazionale o comunitario).
I successivi due (1977-1981 e 1983-1987) programmi sviluppano il percorso tracciato dal primo programma. Bisogna attendere il quarto programma (1987-1992) per trovare qualche novità. Questo, infatti, individua alcune priorità quali: prevenzione dell’inquinamento (in particolare atmosferico, idrico e acustico); conservazione della natura; gestione dei rifiuti; sviluppo di sistemi di controllo; promozione di attività internazionali.
Il quinto programma (1993-1999) per la prima volta introduce il concetto di sviluppo sostenibile. Come è stato detto da taluni il 5° programma segna il passaggio da una politica di prevenzione dall’inquinamento – con strumenti autoritativi – a una politica di modificazione diffusa e generalizzata di tutti i comportamenti idonei a produrre effetti negativi per l’ambiente
Sulla scorta di questa diversa impostazione il programma si viene a basare su i seguenti settori di intervento, principalmente nei settori relativi all’industria, l’energia, i trasporti, l’agricoltura e il turismo:
2.5.2 VI Programma d’azione ambientale (2002-2010)
In questo programma l'Unione europea (UE) definisce le priorità e gli obiettivi della politica ambientale europea fino al 2010 e oltre, e descrive in modo particolareggiato i provvedimenti da adottare per contribuire alla realizzazione della strategia in materia di sviluppo sostenibile da essa elaborata.
Schematizzando il documento abbiamo che esso può essere suddiviso nei seguenti punti fondamentali:
•Azioni strategiche prioritarie (art. 3): applicazione delle leggi, integrazione nelle politiche, cambiamento di comportamenti, ruolo del mercato, pianificazione urbanistica;
•Aree prioritarie (artt. 4 ss): cambiamento climatico, biodiversità, salute, gestione delle risorse e rifiuti;
•Contesto internazionale: relazioni esterne (art. 9);
•Basi scientifiche ed economiche.
Qui di seguito riportiamo il testo del sesto programma comunitario di azione in materia ambientale.
DECISIONE N. 1600/2002/CE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO
del 22 luglio 2002 che istituisce il sesto programma comunitario di azione in materia di ambiente
Articolo 1
Campo d'applicazione del programma
…
2. Il programma stabilisce i principali obiettivi da raggiungere in materia di ambiente. Definisce, ove appropriato, traguardi e scadenze. Gli obiettivi e i traguardi dovrebbero essere raggiunti entro la scadenza del programma, a meno che non sia specificato diversamente.
…
4. Gli obiettivi corrispondono alle principali priorità ambientali che la Comunità deve affrontare nei seguenti settori:
— cambiamenti climatici,
— natura e biodiversità,
— ambiente e salute e qualità della vita,
— risorse naturali e rifiuti.
Articolo 2
Principi e scopi globali
Articolo 3
Approcci strategici per la realizzazione degli obiettivi ambientali
Gli scopi e gli obiettivi definiti nel presente programma sono perseguiti anche attraverso i mezzi illustrati di seguito:
1) Sviluppare la nuova normativa comunitaria e, se del caso, modificare la normativa vigente.
2) Incentivare l'attuazione e l'applicazione più efficaci della normativa comunitaria in materia di ambiente, fermo restando il diritto della Commissione di avviare procedure di infrazione…
3) Proseguire le iniziative per integrare le disposizioni in materia di protezione dell'ambiente nell'elaborazione, nella definizione e nell'attuazione delle politiche e delle attività comunitarie nei vari settori…
4) Promuovere modelli di consumo e di produzione sostenibili…
5) Migliorare la collaborazione e il partenariato con le imprese e con le organizzazioni che le rappresentano e coinvolgere le parti sociali, i consumatori e le relative associazioni,
6) Garantire che i singoli consumatori, le imprese e gli enti pubblici nel loro ruolo di acquirenti dispongano di migliori informazioni sui processi e sui prodotti in termini di impatto ambientale per raggiungere modelli di consumo sostenibile ...
7) Sostenere l'integrazione delle considerazioni ambientali nel settore finanziario.
8) Creare un regime comunitario in materia di responsabilità.
9) Migliorare la cooperazione e il partenariato con i gruppi di consumatori e le ONG e favorire una migliore comprensione delle tematiche ambientali e la relativa partecipazione da parte dei cittadini europei…
10) Incentivare e promuovere l'uso e la gestione efficaci e sostenibili del territorio e del mare tenendo conto delle considerazioni ambientali.
Articolo 4
Strategie tematiche
Articolo 5
Obiettivi e aree di azione prioritarie per il cambiamento climatico
1. Gli scopi definiti all'articolo 2 dovrebbero essere perseguiti mediante i seguenti obiettivi:
Articolo 6
Obiettivi e aree di azione prioritarie per l'ambiente naturale e la diversità biologica
1. Gli scopi definiti all'articolo 2 dovrebbero essere perseguiti attraverso i seguenti obiettivi:
— arrestare il deterioramento della diversità biologica al fine di raggiungere questo obiettivo entro il 2010, segnatamente prevenendo e riducendo l'effetto di specie e di genotipi invasivi esotici,
— proteggere e ripristinare in maniera appropriata la natura e la diversità biologica dalle emissioni inquinanti dannose,
— conservare, ripristinare in maniera appropriata ed utilizzare in modo sostenibile l'ambiente marino, le coste e le zone umide,
— conservare e ripristinare in maniera appropriata le zone con significativi valori legati al paesaggio, ivi comprese le zone coltivate e sensibili,
— conservare le specie e gli habitat, prevenendone in particolare la frammentazione,
— promuovere un uso sostenibile del suolo, con particolare attenzione alla prevenzione dei fenomeni di erosione, deterioramento, contaminazione e desertificazione.
…
Articolo 7
Obiettivi e aree di azione prioritarie per l'ambiente e la
salute e la qualità della vita
1. Gli scopi definiti all'articolo 2 dovrebbero essere perseguiti con i seguenti obiettivi, tenendo conto delle norme, delle direttive e dei programmi pertinenti dell'Organizzazione mondiale della sanità(OMS):
- far comprendere meglio le minacce per la salute umana e l'ambiente al fine di agire per impedire e ridurre tali minacce,
- contribuire ad una migliore qualità della vita mediante un approccio integrato concentrato sulle zone urbane,
- tendere a fare in modo che entro una generazione (2020) le sostanze chimiche siano unicamente prodotte e utilizzate in modo da non comportare un significativo impatto negativo sulla salute e l'ambiente, riconoscendo che deve essere colmata l'attuale lacuna per quanto riguarda le conoscenze in materia di proprietà, impiego e smaltimento di sostanze chimiche nonché di esposizione alle medesime,
- le sostanze chimiche che sono pericolose dovrebbero essere sostituite da sostanze chimiche più sicure o da tecnologie alternative più sicure che non comportino l'utilizzazione delle sostanze chimiche onde ridurre i rischi per l'uomo e per l'ambiente,
- ridurre gli impatti dei pesticidi sulla salute umana e l'ambiente e, più in generale, raggiungere un uso più sostenibile degli stessi nonché una significativa riduzione globale dei rischi e dell'impiego di pesticidi, coerentemente con la necessaria protezione dei raccolti. I pesticidi utilizzati che sono persistenti o bioaccumulanti o tossici o che hanno altre proprietà che destano preoccupazione dovrebbero essere sostituiti, qualora possibile, da altri pesticidi meno pericolosi,
raggiungere livelli di qualità delle acque sotterranee e di superficie che non presentino impatti o rischi significativi per la salute umana e per l'ambiente, garantendo che il tasso di estrazione dalle risorse idriche sia sostenibile nel lungo periodo,
- raggiungere livelli di qualità dell'aria che non comportino rischi o impatti negativi significativi per la salute umana e per l'ambiente,
ridurre sensibilmente il numero di persone costantemente soggette a livelli medi di inquinamento acustico di lunga durata, in particolare il rumore del traffico terrestre, che, secondo studi scientifici, provocano danni alla salute umana, e preparare la prossima fase dei lavori per la direttiva sul rumore.
2. Questi obiettivi sono perseguiti attraverso una serie di azioni prioritarie illustrate di seguito.
Rafforzamento dei programmi di ricerca e delle conoscenze scientifiche della Comunità e incentivo al coordinamento internazionale dei programmi di ricerca nazionali, a sostegno degli obiettivi in materia di salute e di ambiente, con particolare riferimento ai seguenti aspetti:
Articolo 8
Obiettivi e aree di azione prioritarie per l'uso e la gestione
sostenibili delle risorse naturali e dei rifiuti
1. Gli scopi definiti all'articolo 2 dovrebbero essere perseguiti con i seguenti obiettivi:
- prefiggersi di assicurare che il consumo di risorse e i conseguenti impatti non superino la soglia di saturazione dell'ambiente e spezzare il nesso fra crescita economica e utilizzo delle risorse. In questo contesto si ricorda l'obiettivo di raggiungere, entro il 2010 nella Comunità, la percentuale del 22 % della produzione di energia elettrica a partire da energie rinnovabili affinché l'efficacia delle risorse e dell'energia sia aumentata in modo drastico,
Articolo 9
Obiettivi e aree di azione prioritarie per le tematiche di
portata internazionale
1. Gli scopi definiti all'articolo 2 in merito alle tematiche di portata internazionale e le dimensioni internazionali delle quattro aree di azione prioritarie per l'ambiente del presente programma comportano i seguenti obiettivi:
2. Gli obiettivi sono perseguiti attraverso le seguenti azioni prioritarie:
Articolo 10
Politica ambientale
Gli obiettivi definiti all'articolo 2 riguardo a una politica ambientale fondata sulla partecipazione e sulle migliori conoscenze scientifiche disponibili e gli approcci strategici definiti all'articolo 3 sono perseguiti attraverso le azioni prioritarie illustrate di seguito:
a) sviluppo di meccanismi più efficaci, e di principi e norme generali di buon governo, per consultare in modo ampio ed estensivo, e in tutte le fasi, le parti interessate, in modo da facilitare le scelte più efficaci e ottenere i migliori risultati per l'ambiente e lo sviluppo sostenibile in connessione con le misure che vengono proposte;
b) partecipazione rafforzata al processo di dialogo da parte delle ONG in campo ambientale tramite un sostegno adeguato, compreso il finanziamento comunitario;
c) miglioramento del processo di definizione della politica attraverso:
d) garanzia che l'ambiente e segnatamente le aree di azione prioritarie individuate nel presente programma rimangano fra le principali priorità dei programmi di ricerca della Comunità. Dovrebbero essere effettuati riesami periodici delle esigenze e priorità della ricerca ambientale nel contesto del programma quadro delle azioni comunitarie di ricerca e sviluppo tecnologico. Garanzia di un migliore coordinamento delle ricerche in campo ambientale svolte dagli Stati membri fra l'altro per migliorare l'applicazione dei risultati;
instaurazione di collegamenti fra gli operatori in materia di ambiente e altri operatori nei settori dell'informazione, formazione, ricerca, istruzione e politica;
e) informazione periodica, a decorrere dal 2003, che possa contribuire a fornire la base per:
- le decisioni politiche in materia di ambiente e sviluppo sostenibile,
- il follow-up e la revisione delle strategie di integrazione settoriale e della strategia per lo sviluppo sostenibile,
- l'informazione del pubblico.
L'elaborazione di tali informazioni sarà sostenuta dalle relazioni periodiche dell'Agenzia europea dell'ambiente e di altri pertinenti organismi. Dette informazioni comprenderanno, segnatamente:
— i principali indicatori ambientali,
— gli indicatori sullo stato e sui trend ambientali,
— gli indicatori di integrazione;
f) revisione e controllo regolare dei sistemi di informazione e di relazione ai fini di un sistema omogeneo ed efficace per garantire un esercizio di relazione semplificato di qualità elevata e la produzione di dati e di informazioni ambientali comparabili e pertinenti. La Commissione è invitata a presentare una proposta al riguardo il più presto possibile. Il monitoraggio, la raccolta di dati e le prescrizioni in materia di relazioni dovrebbero essere efficacemente trattati nella futura legislazione ambientale;
g) potenziamento dello sviluppo e dell'utilizzo delle applicazioni e degli strumenti di monitoraggio terrestre (ad esempio tecnologia satellitare) a sostegno dell'attività di definizione e di attuazione della politica.
Articolo 11
Monitoraggio e valutazione dei risultati
1. Durante il quarto anno di esecuzione del programma, la Commissione valuta i progressi realizzati nell'attuazione del medesimo unitamente ai trend e alle prospettive ambientali ad esso correlati. Detta valutazione dovrebbe essere effettuata sulla scorta di una serie globale di indicatori. La Commissione presenta al Parlamento europeo e al Consiglio tale relazione intermedia, unitamente alle eventuali proposte di modifica che ritenga necessarie.
2. Durante l'ultimo anno di esecuzione del programma la Commissione presenta al Parlamento europeo e al Consiglio una valutazione definitiva del programma nonché dello stato e delle prospettive dell'ambiente.
I singoli cittadini operano quotidianamente decisioni che hanno un impatto diretto o indiretto sull’ambiente: un’informazione di miglior qualità e più facilmente accessibile in materia di ambiente e di questioni pratiche contribuirà a plasmarne le opinioni e quindi ad influenzarne le decisioni.
Le decisioni in materia di assetto e gestione territoriale negli Stati membri possono esercitare un forte influsso sull’ambiente, poiché possono frammentare le aree rurali ed esercitare pressioni sulle aree urbane e costiere. La Comunità può fornire un utile supporto promuovendo le buone prassi e mediante i Fondi strutturali.
Questi approcci dovranno applicarsi lungo tutto lo spettro delle tematiche ambientali. Inoltre sarà dedicata la massima attenzione a quattro aree di azione prioritarie.
Cambiamento climatico
Obiettivo – stabilizzare le concentrazioni atmosferiche di gas di serra ad un livello che non generi variazioni innaturali del clima terrestre.
Ambiente e salute
Obiettivo: ottenere una qualità dell’ambiente in virtù della quale il livello dei contaminanti di origine antropica, compresi i diversi tipi di radiazioni, non dia adito ad impatti o a rischi significativi per la salute umana.
Vi è una crescente consapevolezza ed evidenza del fatto che la salute umana è colpita da problemi ambientali correlati all’inquinamento atmosferico ed idrico, alle sostanze chimiche pericolose e al rumore. E’ quindi necessario un approccio olistico ed esaustivo all’ambente e alla salute, incentrato sulla precauzione e sulla prevenzione dei rischi e attento alle esigenze dei gruppi di popolazione particolarmente sensibili, come bambini e anziani.
Nelle singole aree di intervento sarà indispensabile garantire l’applicazione della legislazione esistente e intraprendere ulteriori azioni.
Uso sostenibile delle risorse naturali e gestione dei rifiuti
Obiettivo: garantire che il consumo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili non superi la capacità di carico dell’ambiente; ottenere lo sganciamento dell’uso delle risorse dalla crescita economica mediante un significativo miglioramento dell’efficienza delle risorse, la dematerializzazione dell’economia e la prevenzione dei rifiuti.
Le risorse del pianeta, soprattutto quelle rinnovabili come il suolo, l’acqua, l’aria e le foreste, sono soggette a forti pressioni esercitate dalla società umana. E’ necessaria una strategia che, mediante strumenti fiscali ed incentivi, possa garantire un uso più sostenibile delle risorse.
Secondo le previsioni i volumi di rifiuti sono destinati ad aumentare se non saranno intraprese azioni di rimedio. La prevenzione costituirà un elemento fondamentale della politica integrata dei prodotti. Urgono ulteriori misure per incoraggiare il riciclaggio e il recupero dei rifiuti.
L’Unione europea nel contesto mondiale.
L’attuazione del Sesto programma sarà intrapresa nel contesto di un’Unione europea allargata, e le successive misure dovranno tener conto di questa prospettiva più ampia.
Naturalmente l’attuazione della legislazione ambientale comunitaria costituirà il compito principale dei paesi candidati, che potranno avvalersi dell’aiuto di programmi di finanziamento comunitari. Questi paesi avranno l’opportunità di muoversi in direzione di uno sviluppo economico che risulti sostenibile e che eviti il tipo o la portata dei problemi ambientali con cui l’Europa occidentale è oggi costretta a confrontarsi.
Sul piano internazionale sarà essenziale che le problematiche ambientali siano adeguatamente e perfettamente integrate in tutti gli aspetti delle relazioni esterne della Comunità. L’ambiente merita la massima attenzione e finanziamenti adeguati da parte degli organismi internazionali, in particolare quelle relative a cambiamento climatico, biodiversità, sostanze chimiche e desertificazione.
La partecipazione e una solida conoscenza alla base del processo politico
Un aspetto centrale del Sesto programma, nonché il fattore determinante per il suo successo, sarà il coinvolgimento delle parti interessate, che dovrà permeare ogni fase del processo politico, dalla fissazione degli obiettivi alla concretizzazione delle misure. L’elaborazione, l’attuazione e la valutazione della politica ambientale si baseranno sulle più recenti conoscenze scientifiche ed economiche, su dati ed informazioni ambientali affidabili e aggiornati e sull’uso di appositi indicatori.
La proposta decisione relativa al Sesto programma di azione per l’ambiente fornirà alla Comunità allargata l’orientamento, l’impulso e gli strumenti di cui necessita per ottenere un ambiente pulito e sicuro. Coinvolgendo cittadini e imprese in questo processo, contribuirà in modo decisivo allo sviluppo sostenibile.
2.6 Qual è stata, qual è l’incidenza del diritto comunitario dell’ambiente nel nostro ordinamento giuridico? In che misura i principi e le regole della Ce relativamente all’ambiente hanno avuto ed hanno effettiva applicazione?
QUESITI QUESTI CHE SOLLEVANO problemi dalle molteplici articolazioni. Richiamiamo l’attenzione su tali problemi:
Esempio la VIA_ indica un procedimento per verificare la compatibilità ambientale di progetti relativi a determinate opere, considerate rilevanti; in questi casi, la valutazione è necessaria per dar corso a procedimenti autorizzatori o concessori. Tra i due livelli, comunitario e statale, quello comunitario si espresse per primo. La VIA venne introdotta dalla Direttiva 85/337/CEE. Lo fece precisando “l’autorizzazione di progetti pubblici e privati che possono avere un impatto rilevante sull’ambiente va concessa solo previa valutazione delle loro probabili rilevanti ripercussioni sull’ambiente [...] questa valutazione deve essere fatta in base alle opportune informazioni fornite dal committente e eventualmente completate dalle autorità e dal pubblico”. Il testo della direttiva forniva più di un elemento per delineare il concetto di ambiente nel diritto comunitario. Nella parte iniziale si legge che “considerando che gli effetti di un progetto sull'ambiente debbono essere valutati per proteggere la salute umana, contribuire con un migliore ambiente alla qualità della vita, provvedere al mantenimento della varietà delle specie e conservare la capacità di riproduzione dell'ecosistema in quanto risorsa essenziale di vita”. All’art. 3 veniva inoltre precisato “La valutazione dell'impatto ambientale individua, descrive e valuta, in modo appropriato gli e ffetti diretti e indiretti di un progetto sui seguenti fattori: - l'uomo, la fauna e la flora;
- il suolo, l'acqua, l'aria, il clima e il paesaggio;
- i beni materiali ed il patrimonio culturale;
- l'interazione tra i fattori di cui al primo, secondo e terzo trattino.
Come si vede, le nozioni sono risalenti nel tempo e, alla luce di oggi, incomplete. È stato osservato che la direttiva in questione è assimilabile ad una legge quadro “in quanto fissa i criteri di valutazione e i requisiti di procedura fondamentali”. Tuttavia, anche per effetto dell’evoluzione dei trattati europei con riferimento all’ambiente, la direttiva stessa risultò ben presto obsoleta e fu necessario modificarne il testo. Così si esprimeva la nuova direttiva 97/11/Cee la quale tra l’altro affidava agli stati il compito di adottare tutte le misure necessarie perchè l’impatto ambientale dei progetti fosse misurato in via preventiva. Questa direttiva si propone di accentuare rispetto al passato, l’importanza della valutazione. Configura, infatti, un maggior numero di ipotesi cui ricorrere alla procedura di VIA, introduce innovazioni circa le modalità d’esame, si sofferma sui criteri di determinazione dell’impatto potenziale ed apporta altri significativi cambiamenti.
3. Il Governo e l’Amministrazione dell’ambiente in Italia. Stato dell’ambiente e principali fattori di pressione.
Gli echi della Conferenza di Stoccolma ebbero conseguenze anche nel nostro Paese, infatti nell’estate del 1973 nella costituzione di ennesimo governo fu prevista la costituzione di un ministero senza portafoglio per l’Ambiente, a cui seguì la presentazione di un disegno di legge dedicato alla costituzione di un ministero apposito. Tale iniziativa non ebbe particolare successo. Si dovette scontare l’ostilità degli altri dicasteri, che non erano disposti a cedere proprie competenze a vantaggio di un nuovo ministero. Come fu facile attendersi con la caduta di quel governo scomparve anche il ministero senza portafoglio dell’ambiente. L’unica traccia lasciata fu quella di vedere arricchito il precedente Ministero dei Beni culturali che divenne da allora Ministero dei Beni culturali e ambientali. Nel 1983, vediamo risorgere un Ministero senza portafoglio dedicato alla tutela dell’ambiente, questa volta chiamato dell’Ecologia, che durerà fino all’approvazione della legge n. 349/86, ossia la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente. Questo percorso, in realtà, fu molto più travagliato di quanto si possa immaginare e la spinta finale fu data, purtroppo, da un fatto drammatico, che pose la coscienza collettiva di fronte all’emergenza del problema ambientale: l’incidente della centrale nucleare di Chernobyl.
3.1 La nascita del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e l’attribuzione delle competenze in materia di tutela ambientale.
In Italia, negli anni settanta, iniziano ad acquistare una propria struttura operativa le regioni. Questa operazione diede luogo al non facile compito della determinazione degli ambiti di competenza da riconoscere alle regioni e quelli da conservare allo Stato. La questione interessò anche la materia ambientale. Tuttavia, non essendo questa esplicitamente richiamata dalla nostra Costituzione ci si pose la domanda se la materia fosse da considerarsi di ambito nazionale o regionale. Con il decreto delegato del 14 gennaio 1972, si affermò il principio che detta materia fosse di competenza statale. Tale scelta sollevò molte critiche sia da parte delle stesse regioni che di una parte della dottrina. Entrambi, infatti, sostenevano che la protezione dell’ambiente non potesse essere considerata un’autonoma materia, bensì un principio informatore di altre materie come la sanità, l’agricoltura, le foreste, la gestione del territorio, i lavori pubblici, la caccia e la pesca, che la costituzione attribuiva all’art. 117 alle regioni. Pertanto, questa non potesse essere conservata dallo Stato, ma dovesse implicitamente essere considerata di spettanza regionale. Tale controversia si trascinò ancora per anni, soprattutto in proiezione dei successivi decreti di trasferimento di ulteriori competenze alle regioni. Ciò avvenne con il D.P.R. 616/1977, che sembrava invertire la filosofia del decreto del 1972. Questo, infatti, procedette a trasferire alle regioni una serie di competenze, che attengono strettamente alla tutela dell’ambiente, quali: la gestione delle acque, la protezione della natura, il contenimento dell’inquinamento atmosferico e acustico. Nonostante, tale conferimento di funzioni lasciava spazio a diverse letture interpretative e in ogni caso non accoglieva appieno la tesi del disconoscimento di una materia autonoma dedicata alla tutela dell’ambiente, poiché al settore “Assetto del Territorio”, in cui si riordinavano le materie altrimenti disaggregate indicate nell’art. 117 Cost. venne aggiunto un capitolo rubricato, per l’appunto, “tutela dell’ambiente dagli inquinamenti”. Quindi, in realtà tale assetto sistematico delle funzioni portava ad una riconferma dell’esistenza di una materia ambiente, le cui competenze regionali si svolgevano per connessione alle materie riconosciute dalla Costituzione in capo alle regioni o quelle dallo Stato trasferite. La polemica era così vivace che anche questa soluzione non fu scevra da obiezioni. Fu fatto rilevare che se la materia della tutela dell’ambiente rappresentava una nuova materia, si sarebbe dovuto procedere al trasferimento alle regioni solo attraverso una legge costituzionale. Pertanto, ne derivava che la tutela dell’ambiente avrebbe dovuto considerarsi non tanto una materia, quanto un profilo funzionale di altri settori. Da ciò ne discende che in tema di tutela ambientale lo Stato avrebbe potuto solo emanare delle leggi quadro, ossia dei principi informativi in base ai quali le regioni avrebbero potuto legiferare. Negli anni ottanta questa diatriba fu definitivamente risolta dapprima dal legislatore, che nel 1986 istituì il Ministero dell’ambiente, successivamente dalla Corte Costituzionale, che affermò definitivamente l’esistenza di una materia autonoma avente ad oggetto la tutela dell’ambiente, che non può essere ricondotta né all’urbanistica, né all’agricoltura, né alla sanità, pur riscontrando un collegamento funzionale con dette materie. Il Ministero dell’ambiente, tuttavia, non trovò immediatamente una propria identità. Per la sua costituzione si applicò quella che fu definita la tecnica del “ritaglio”, ossia più che assumere una funzione propria acquisì e accorpò funzioni che erano di spettanza di altri ministeri. Come ad es. in materia di tutela delle acque, acquistò le funzioni di spettanza del Ministero delle opere pubbliche, in materia di conservazione della natura quelle di competenza del Ministero dell’agricoltura e foreste e del Ministero della Marina, in materia di inquinamento acustico e atmosferico, quelle attribuite al Ministero della Sanità.
Sostanzialmente si osservava che il Ministero dell’ambiente più che disporre di una propria competenza, si irradiava in procedimenti amministrativi stratificati nelle competenze degli altri dicasteri. Questa osservazione nella maggioranza dei casi in parte corrispondeva a verità. Anche se vi erano materie come ad esempio la conservazione della natura, per la quale la competenza ricadeva interamente in capo al Ministero dell’ambiente. La tecnica del “ritaglio” non generò solo problemi di identità, ma anche di operatività. Infatti, il ministero non risultava tecnicamente e scientificamente attrezzato per promuovere e sviluppare politiche di tutela ambientale.
Alla carenza di strutture del Ministero si cercò di sopperire con la creazione dell’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (ANPA), ISPRA (ex APAT _Agenzia per la Protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici), oggi ISPRA la quale è tenuta a fornire supporto conoscitivo e assistenza tecnica al ministero.
Più recentemente il Ministero dell’ambiente, a seguito dell’applicazione del decreto legislativo 300/99, ha assunto la denominazione di Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, al quale vengono attribuite le funzioni e i compiti spettanti allo Stato in materia di:
Al ministero vengono riconosciute le funzioni e i compiti di spettanza statale nelle seguenti aree funzionali:
a) promozione di politiche di sviluppo sostenibile nazionali e internazionali; sorveglianza, monitoraggio e controllo, nonché individuazione di valori limite, standard, obiettivi di qualità e sicurezza e norme tecniche, per l'esercizio delle funzioni attribuite al ministero;
b) valutazione d'impatto ambientale; prevenzione e protezione dall'inquinamento atmosferico, acustico ed elettromagnetico e dai rischi industriali; gestione dei rifiuti; interventi di bonifica di siti contaminati; interventi di protezione e risanamento nelle aree ad elevato rischio ambientale; riduzione dei fattori di rischio;
c) assetto del territorio con riferimento ai valori naturali e ambientali; individuazione, conservazione e valorizzazione delle aree naturali protette; tutela della biodiversità, della fauna e della flora; difesa dei suolo; polizia ambientale; polizia forestale ambientale: sorveglianza dei parchi nazionali e delle riserve naturali dello Stato, controlli sulle importazioni e sul commercio delle specie esotiche protette, sorveglianza sulla tutela della flora e della fauna protette da accordi e convenzioni internazionali;
d) gestione e tutela delle risorse idriche; prevenzione e protezione dall'inquinamento idrico; difesa del mare e dell'ambiente costiero.
Nel frattempo, con la riforma della Costituzione, avvenuta nel 2001, che rinnovella l’art. 117 la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema viene riconosciuta a pieno titolo come una materia autonoma, il cui esercizio rientra tra le competenze esclusive dello Stato.
Tenendo conto di queste norme il Ministero è stato riordinato attraverso un’articolazione in sei direzioni generali:
a) Direzione per la protezione della natura;
b) Direzione per la qualità della vita;
c) Direzione per la ricerca ambientale e lo sviluppo;
d) Direzione per la salvaguardia ambientale;
e) Direzione per la difesa del suolo;
f) Direzione per i servizi interni del Ministero.
E' sottoposta alla vigilanza del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio (MATT) l'agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici. Questa agenzia presta supporto tecnico all’attività del Ministero.
La Direzione generale per la protezione della natura svolge le seguenti funzioni:
a) individuazione, conservazione e valorizzazione delle aree naturali protette;
b) predisposizione della Carta della natura, ai sensidell'articolo 3 della legge 6 dicembre 1991, n. 394;
c) individuazione delle linee fondamentali di assetto del territorio, di intesa, per le parti competenza, con la direzione per la difesa del suolo, al fine della tutela degli ecosistemi terrestri e marini;
d) conoscenza e monitoraggio dello stato della biodiversità, terrestre e marina, con la definizione di linee guida di indirizzo e la predisposizione del piano nazionale per la biodiversità, nonché istruttorie relative alla istituzione dei parchi nazionali e delle riserve naturali dello Stato;
e) adempimenti relativi all'immissione deliberata nell'ambiente degli organismi geneticamente modificati;
f) iniziative volte alla salvaguardia delle specie di flora e fauna terrestri e marine;
g) attuazione e gestione della Convenzione sul commercio internazionale di specie di fauna e di flora selvatiche in pericolo di estinzione (CITES), firmata a Washington il 3 marzo 1973 e ratificata con legge 19 dicembre 1975, n. 874, e dei relativi regolamenti comunitari;
h) monitoraggio dello stato dell'ambiente marino;
i) promozione della sicurezza in mare con riferimento al rischio di incidenti marini;
l) pianificazione e coordinamento degli interventi in caso di inquinamento marino;
m) autorizzazioni agli scarichi in mare da nave o da piattaforma;
n) difesa e gestione integrata della fascia costiera marina;
o) predisposizione della relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 6 dicembre 1991, n. 394, e sul funzionamento e i risultati della gestione dei parchi nazionali;
p) divulgazione della conoscenza del patrimonio naturale ed ambientale della relativa tutela e possibilità di sviluppo compatibile, presso gli operatori e i cittadini.
La Direzione generale per la qualità della vita svolge le seguenti funzioni:
a) definizione degli obiettivi di qualità dei corpi idrici, superficiali e sotterranei, relativamente alla quantità e qualità delle acque, alla qualità dei sedimenti e del biota, al fine di
mantenere la capacità naturale di autodepurazione dei corpi idrici, di sostenere comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate, nonché di consentire gli usi legittimi delle risorse idriche, contribuendo alla qualità della vita e alla tutela della salute umana;
b) individuazione delle misure volte alla prevenzione e riduzione dell'inquinamento dei corpi idrici, dovuto a fonti puntuali e diffuse, prevedendo particolari interventi per l'eliminazione delle sostanze pericolose, nonché definizione delle misure necessarie al loro risanamento;
c) definizione, indirizzo e coordinamento delle misure volte alla salvaguardia e al risanamento di aree che necessitano interventi specifici per la presenza di valori naturalistici, di peculiari caratteristiche geomorfologiche ovvero di aree che presentano pressioni antropiche, con particolare riferimento alla laguna di Venezia e al suo bacino scolante, alle aree sensibili, zone vulnerabili e alle aree di salvaguardia;
d) definizione, in collaborazione con la Direzione per la difesa del suolo, delle direttive per il censimento delle risorse idriche per la disciplina dell'economia idrica, nonché individuazione di metodologie generali per la programmazione della razionale utilizzazione delle risorse idriche e linee di programmazione degli usi plurimi delle risorse idriche, anche attraverso la definizione e l'aggiornamento dei criteri e metodi per il conseguimento del risparmio idrico e il riutilizzo delle acque reflue, con particolare riferimento all'uso irriguo;
e) definizione dei criteri per la gestione del servizio idrico integrato, nonché promozione del completamento dei sistemi di approvvigionamento idrico, di distribuzione, di fognatura, di collettamento, di depurazione e di riutilizzo delle acque reflue, in attuazione degli adempimenti comunitari e delle disposizioni legislative;
f) concessioni di grandi derivazioni di acqua che interessino il territorio di più regioni e più bacini idrografici in assenza della determinazione del bilancio idrico e concessioni di grandi derivazioni per uso idroelettrico;
g) definizione dei criteri generali e delle metodologie per la gestione integrata dei rifiuti;
h) individuazione di misure volte alla prevenzione e riduzione della produzione e della pericolosità dei rifiuti e dei rischi di inquinamento;
i) promozione e sviluppo della raccolta differenziata e individuazione delle iniziative e delle azioni economiche atte a favorire il riciclaggio ed il recupero dei rifiuti, nonché a promuovere il recupero di energia e il mercato dei materiali recuperati dai rifiuti e il loro impiego da parte della pubblica amministrazione;
l) individuazione dei flussi omogenei di produzione dei rifiuti con più elevato impatto ambientale, che presentano maggiori difficoltà di smaltimento o particolari possibilità di recupero sia per le sostanze impiegate nei prodotti base sia per la quantità complessiva dei rifiuti medesimi e indirizzo e coordinamento per la loro gestione;
m) definizione dei criteri per l'individuazione dei siti inquinati, per la messa in sicurezza, per la caratterizzazione e per la bonifica e il ripristino ambientale dei siti medesimi con particolare riferimento a suolo, sottosuolo, falda, acque superficiali e sedimenti, aggiornamento e attuazione del Programma nazionale di bonifica e formazione del piano straordinario per la bonifica e il recupero ambientale di aree industriali prioritarie, ivi comprese quelle ex estrattive minerarie;
n) indirizzo, coordinamento e controllo degli interventi sviluppati per superare situazioni di emergenza nelle materie di competenza;
o) supporto alle attività del Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche, garantendo la funzionalità della Segreteria tecnica e dell'Osservatorio di cui agli articoli 21 e 22 della legge 5 gennaio 1994, n. 36.
La Direzione generale per la ricerca ambientale e lo sviluppo svolge le seguenti funzioni:
a) promozione dei programmi e dei progetti per lo sviluppo sostenibile;
b) supporto al Ministro per la partecipazione ai comitati interministeriali di programmazione economica;
c) contabilità, fiscalità ambientale e meccanismi tariffari;
d) promozione della ricerca di iniziative per l'occupazione in campo ambientale, nonché di accordi volontari con imprese singole o associate per gli obiettivi dello sviluppo sostenibile;
e) informazione e rapporti con i cittadini e le istituzioni pubbliche e private in materia di tutela ambientale;
f) promozione della ricerca in campo ambientale;
g) redazione della relazione al Parlamento sullo stato dell'ambiente e attività di rapporto (reporting) in materia ambientale;
h) educazione e formazione ambientale;
i) gestione della biblioteca centrale di documentazione ambientale e promozione di tutte le iniziative nazionali e internazionali per l'acquisizione di dati, testi e documenti di interesse ambientale;
l) coordinamento operativo della partecipazione della rappresentanza del Ministero nei comitati di gestione delle convenzioni, dei protocolli, delle direttive, dei regolamenti e degli accordi in materia ambientale, nell'ambito del Programma ambientale delle Nazioni-Unite (UNEP), della Commissione economica per l'Europa (ECE-ONU), dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) e dell'Unione europea, d'intesa con le Direzioni generali competenti per materia;
m) coordinamento della partecipazione delle amministrazioni pubbliche e delle imprese italiane ai meccanismi finanziari e di cooperazione internazionale in campo ambientale;
n) rapporti con le altre Direzioni con riferimento alla protezione internazionale dell'ambiente;
o) supporto alle attività del Ministero nelle sedi internazionali della Convenzione sui cambiamenti climatici, del protocollo di Kyoto e del protocollo di Montreal per la protezione dell'ozono stratosferico, nonché attuazione dei relativi impegni e programmi.
La Direzione generale per la salvaguardia ambientale svolge le seguenti funzioni:
a) adempimenti tecnici e amministrativi relativi all'espletamento delle procedure per la valutazione dell'impatto ambientale e supporto alle attività delle relative commissioni;
b) attività di studio, ricerca e sperimentazione tecnico-scientifica in materia di impatto ambientale e trasformazione dell'ambiente;
c) supporto tecnico e amministrativo per la concertazione di piani e programmi di settore, di competenza di altre amministrazioni a carattere nazionale, regionale e locale, con rilevanza di impatto ambientale;
d) attività relative all'ecolabel-ecoaudit, di cui alla legge 25 gennaio 1994, n. 70, al sistema comunitario di ecogestione ed audit (EMAS), di cui al regolamento CE n. 761/2001, nonché alla promozione di tecnologie pulite e sistemi di gestione ambientale, ivi compresa la promozione del marchio nazionale;
e) valutazione, autorizzazione e monitoraggio delle attività a rischio di incidente rilevante;
f) coordinamento della valutazione integrata degli inquinamenti;
g) valutazione del rischio ambientale dei prodotti fitosanitari, delle sostanze chimiche pericolose e dei biocidi, nonché dell'introduzione di organismi geneticamente modificati;
h) prevenzione e protezione dall'inquinamento atmosferico;
i) prevenzione e protezione inquinamento acustico;
l) prevenzione e protezione dall'inquinamento da campi elettromagnetici;
m) prevenzione e protezione da radiazioni ionizzanti;
n) fissazione dei limiti massimi di accettabilità della concentrazione e dei limiti massimi di esposizione relativi ad inquinamenti atmosferici di natura chimica, fisica e biologica, nonché dei medesimi limiti riferiti agli ambienti di lavoro.
La Direzione generale per la difesa del suolo svolge le seguenti funzioni:
a) programmazione, finanziamento e controllo degli interventi in materia di difesa del suolo;
b) previsione, prevenzione e difesa del suolo da frane, alluvioni e altri fenomeni di dissesto idrogeologico;
c) indirizzo e coordinamento, dell'attività dei rappresentanti del Ministero nei comitati tecnici nei bacini di rilievo nazionale, regionale e interregionale;
d) identificazione, d'intesa con la direzione per la protezione della natura, delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale con riferimento ai valori naturali e ambientali e alla difesa del suolo, nonché con riguardo al relativo impatto dell'articolazione territoriale delle reti infrastrutturali, delle opere di competenza statale e delle trasformazioni territoriali;
e) determinazione di criteri, metodi e standard di raccolta, elaborazione e consultazione dei dati, definizione di modalità di coordinamento e di collaborazione tra i soggetti pubblici operanti nel settore, nonché indirizzi volti all'accertamento e allo studio degli elementi dell'ambiente fisico delle condizioni generali di rischio; valutazioni degli effetti conseguenti all'esecuzione dei piani, dei programmi e dei progetti su scala nazionale di opere nel settore della difesa del suolo;
f) compiti in materia di cave e torbiere in relazione alla loro compatibilità ambientale;
g) coordinamento dei sistemi cartografici;
h) esercizio dei poteri sostitutivi in caso di mancata istituzione, da parte delle regioni, delle autorità di bacino di rilievo interregionale di cui all'articolo 15, comma 4, della legge 18 maggio1989, n. 183, nonché dei poteri sostitutivi di cui agli articoli 18, comma 2, 19, comma 3, e 20, comma 4, della stessa legge.
3.2 Le regioni.
Il problema delle attribuzioni delle competenze in materia di tutela dell’ambiente ha incontrato numerose complicazioni. Si è detto in precedenza che nel nostro paese è presente un’articolazione delle funzioni legislative e amministrative che oltre lo Stato vede presente anche le regioni. Secondo il disegno costituzionale questi enti debbono disporre di competenze legislative e programmatorie in materie di propria spettanza o nell’alveo delle indicazioni fornite dallo Stato nelle materie da questo a loro conferite attraverso le leggi quadro. A loro volta le regioni sono tenuti a rimettere agli enti locali – comuni e province – l’ordinaria gestione delle attribuzioni amministrative di competenza. La realizzazione del sistema regionale, tuttavia, dovette avvenire all’interno di un ordinamento nel quale vi erano da tempo ben radicate entità quali lo Stato, i comuni e – sebbene con minor peso – le province. Come è avvenuto per il Ministero dell’ambiente, le stesse regioni, dunque, dovevano andarsi a ritagliare uno spazio in settori e funzioni, che fino a quel momento erano stati occupati da altri enti. Sostanzialmente, la strutturazione delle regioni comportava inevitabilmente una rimodulazione della ripartizione di poteri e di interessi ben radicati nel tessuto sociale del paese. Questo aspetto fu certamente una delle motivazioni, che causarono lunghi ritardi alla nascita delle regioni, ma ancor di più fu uno dei motivi, che resero travagliata la ripartizione delle competenze. La Costituzione, prima della riforma del 2001, attribuiva alle regioni una potestà legislativa su materie espressamente indicate nella stessa Carta Fondamentale o da altre leggi costituzionali. Secondo queste disposizioni l’esercizio di tale potestà avrebbe potuto avvenire solo nel rispetto dei limiti fondamentali stabiliti dallo Stato. In altre parole, lo Stato emanava delle leggi quadro, che intervenivano in una data materia dettandone i principi generali e le regioni avrebbero potuto legiferare nella stessa materia solo nel rispetto dei principi e criteri stabiliti dalla legge quadro. Le regioni, dunque, non avevano una competenza esclusiva, tranne il caso delle regioni a statuto speciale o le province autonome di Trento e Bolzano, alle quali veniva – viene riconosciuta ancora oggi – una più accentuata autonomia. Come accennato in precedenza, le regioni avevano nelle loro spettanze materie come l’agricoltura, il turismo, le foreste, la caccia, la pesca, la sanità, le opere pubbliche, l’urbanistica, le cave e le torbiere. Materie, che rilevano una diffusa competenza in un tema molto più ampio, che possiamo definire “assetto del territorio”. In assenza di un centro di imputazione nazionale in materia di tutela dell’ambiente, ossia fino all’istituzione di un dicastero dedicato, considerata l’importanza del tema nelle materie riconosciute alle regioni, queste rivendicavano poteri e competenze proprie al riguardo e sostenevano in capo allo Stato solo la potestà di emanare leggi quadro in materie nelle quali l’ambiente fosse interessato.
Tale tesi, peraltro confortata anche da autorevoli pronunce, come si è detto in precedenza, tendeva tuttavia ad escludere il riconoscimento dell’esistenza di una materia autonoma con finalità di tutela dell’ambiente. La Corte Costituzionale, sconfessando ad una simile interpretazione intervenne con una serie di pronunce che stabilirono chiari concetti
Del resto, si deve considerare che la produzione normativa in materia ambientale da parte della Comunità europea aveva già messo in crisi le aspettative delle regioni imponendo al riguardo regole da rispettare e principi da perseguire. Di conseguenza, ne derivava in capo agli Stati membri la necessità di coordinare le attività di recepimento e di attuazione da parte degli organismi sub-nazionali. Quindi per quanto riguarda l’Italia, di orientare le regioni in sede di attuazione delle disposizioni comunitarie e di poter eventualmente intervenire in loro sostituzione in caso di inadempimento delle stesse o mancato rispetto della disciplina europea. Non poteva essere altrimenti, dal momento che la responsabilità riguardo all’adeguamento della normativa vigente negli ordinamenti degli stati membri non poteva che ricadere in capo agli stessi stati centrali, in quanto soggetti membri della Comunità e non le regioni, che rappresentano delle articolazioni interne dello stato. Si deve ricordare, in proposito, che in caso di mancato recepimento di una direttiva comunitaria è lo Stato, che viene posto sotto procedimento e non la regione o altro ente inadempiente.
In un simile contesto era giocoforza da parte dello stato centrale rivendicare poteri specifici rispetto ad una materia che in sede internazionale aveva già ricevuto un condiviso riconoscimento. Si deve, altresì, aggiungere che il rispetto della normativa comunitaria comportava non solo l’incombenza da parte degli Stati di provvedere al coordinamento della normazione delle regioni, ma addirittura imponeva compiti non delegabili, come ad esempio quelli relativi all’applicazione dei principi relativi alla responsabilità in materia di ambiente. Del si osservava come anche negli stati a statuto federale o confederale la tutela dell’ambiente non veniva riconosciuta come appannaggio esclusivo degli enti sub-nazionali.
Le riforme costituzionali avvenute nel 2001 hanno da una parte stabilito l’autonomia della materia della tutela dell’ambiente, attribuendola alla competenza esclusiva dello Stato, dall’altra, hanno affermato una competenza primaria legislativa delle regioni, che si estende in tutte le materie tranne quelle, che non sono espressamente riservate alla legislazione dello Stato.
Oggi le regioni, dunque, collaborano al perseguimento delle politiche di tutela dell’ambiente secondo le direttive e gli indirizzi forniti dallo Stato, potendo apportare correzioni ai livelli di qualità dell’ambiente riconosciuti dalle leggi nazionali e dalle disposizioni comunitarie, solo nel caso in cui le stesse regioni dispongano un più grado di tutela dell’ambiente rispetto a quello indicato dallo Stato o dalla UE.
3.3 Province e Comuni.
L’articolazione amministrativa del nostro Paese riconosce anche altri enti territoriali: come le province e i comuni. A differenza dello stato e delle regioni, questi due enti non hanno competenze legislative, bensì solo amministrative. Per quanto attiene alle competenze ambientali, con la riforma introdotta nel 1990 dalla legge 142, il legislatore ha inteso strutturare le province tenendo conto della natura diffusiva dell’inquinamento, offrendo in tal modo alle regioni la facoltà di operare il decentramento amministrativo a favore di queste in tutti i settori relativi alla programmazione, pianificazione – sebbene entrambi di livello subregionale -, istruttoria dei procedimenti autorizzativi, di controllo, vigilanza. In altri termini la provincia è divenuta un ente a finalità generali, con competenze amministrative su questioni di rilevanza territoriale provinciale o sovraccomunale. Se in origine i poteri amministrativi, in materia di tutela dell’ambiente, devoluti alle province derivavano dalle leggi regionali, successivamente sono state le leggi statali a individuare direttamente competenze provinciali. L’apice di questo diretto conferimento di funzioni è stato raggiunto con il decreto legislativo 112/98, con il quale in occasione del trasferimento delle funzioni alle regioni, lo Stato ha provveduto a devolvere compiti e competenze anche alle province e, talvolta, ai comuni. Successivamente, con le riforme costituzionali introdotte nel 2001, le province e i comuni hanno acquisito un ruolo primario nell’esercizio delle funzioni amministrative. Il nuovo art. 118, infatti, dispone che le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
Lo stesso articolo al comma secondo, aggiunge alle competenze devolute, anche delle competenze proprie. Viene, infatti, affermato che i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.
E’ possibile osservare ciò in materia di tutela delle acque dall’inquinamento, di gestione dei rifiuti, di bonifica dei terreni contaminati, di istituzione di aree protette – anche di rilievo provinciale -, di inquinamento atmosferico e di autorizzazione alla costruzione e all’esercizio di impianti di produzione elettrica.
I comuni, a differenza delle province, prima delle riforme degli anni novanta erano già al centro delle politiche sanitarie e ambientali. Ciò era dovuto soprattutto per gli aspetti di gestione diretta del territorio, attraverso gli strumenti urbanistici, e per il riconoscimento del sindaco, sin dalla prima metà dello scorso secolo, quale massima autorità sanitaria locale.
Le riforme summenzionate hanno sviluppato il ruolo del comune quale programmatore delle diverse destinazioni d’uso del proprio territorio – funzione che in linea di principio abdica solo in caso di rilevato interesse superiore, anche se in questa ipotesi è comunque prevista la partecipazione del comune alle scelte rilasciando pareri al riguardo -. Inoltre, con l’impostazione del procedimento amministrativo data dalle riforme apportate nel corso degli ultimi anni il comune ha acquisito una funzione di capofila in tutti i procedimenti in cui prevale l’interesse territoriale. Pertanto, l’amministrazione comunale diviene “leading agency” in tutti quei procedimenti, che riguardano la localizzazione delle opere o degli impianti nel proprio territorio. Questo riconoscimento è stato ribadito dalle riforme costituzionali introdotte con l’art. 118 summenzionato, laddove richiama il principio di sussidiarietà sull’attribuzione delle competenze. Pertanto, l’imputazione della responsabilità d’iniziativa sul territorio deve privilegiare la sede rappresentativa più vicina alla comunità interessata dall’intervento. Accanto a funzioni di natura politico-amministrativa, ai comuni spettano anche competenze sull’erogazione di servizi nel settore ambientale. Ciò, ad es. accade in materia di gestione dei rifiuti o delle acque. In ipotesi i comuni possono adempiere a tali incombenze direttamente o mediante forme mediate. Dopo la riforma del 1990, i comuni debbono provvedere preferibilmente tramite forme mediate: concessione, costituzione di consorzi, aziende speciali o società per azioni. Nel primo caso, la gestione viene data a terzi, negli altri casi è prevista la partecipazione anche di terzi in queste aziende, ma deve rimanere la maggioranza in mano pubblica. L’affidamento della concessione, così come la scelta del terzo deve avvenire tramite evidenza pubblica, ossia gara aperta a tutti gli operatori interessati. Tranne nel caso in cui, se si tratti di società per azioni, vengano collocate le azioni sul mercato.
3.4 Agenzie e enti tecnici o consultivi.
Lo Stato, le regioni, le province e i comuni spesso per le loro attività si avvalgono di enti autonomi, caratterizzati da particolari specializzazioni. Nel settore della tutela ambientale la più importante è l’ISPRA (ex APAT, ex ANPA), ossia l’Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici, sottoposta alla vigilanza del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, con compiti relativi alla protezione dell'ambiente, per la tutela delle risorse idriche e della difesa del suolo. In tale ambito, essa svolge in particolare. In particolare, ai sensi del decreto-legge 4 dicembre 1993, n. 496, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 gennaio 1994, n. 61, vengono riconosciute in capo all’ISPRA le seguenti attività tecnico-scientifiche:
a) promozione, nei confronti degli enti preposti, della ricerca di base e applicata sugli elementi dell'ambiente fisico, sui fenomeni di inquinamento, sulle condizioni generali e di rischio, sulle forme di tutela degli ecosistemi;
b) raccolta sistematica, anche informatizzata, e integrale pubblicazione di tutti i dati sulla situazione ambientale, anche attraverso la realizzazione del sistema informativo e di monitoraggio ambientale in raccordo con i Servizi tecnici nazionali;
c) elaborazione di dati e di informazioni di interesse ambientale, diffusione dei dati sullo stato dell'ambiente, elaborazione, verifica e promozione di programmi di divulgazione e formazione in materia ambientale;
d) formulazione alle autorità amministrative centrali e periferiche di proposte e pareri concernenti: i limiti di accettabilità delle sostanze inquinanti; gli standard di qualità dell'aria, delle risorse idriche e del suolo; lo smaltimento dei rifiuti; le norme di campionamento e di analisi dei limiti di accettabilità e degli standard di qualità; le metodologie per il rilevamento dello stato dell'ambiente e per il controllo dei fenomeni di inquinamento e dei fattori di rischio nonché gli interventi per la tutela, il risanamento e il recupero dell'ambiente, delle aree naturali protette, dell'ambiente marino e costiero;
e) cooperazione con l'Agenzia europea dell'ambiente e con l'Istituto statistico delle Comunità europee (EUROSTAT), nonché con le organizzazioni internazionali operanti nel settore della salvaguardia ambientale;
f) promozione della ricerca e della diffusione di tecnologie ecologicamente compatibili, di prodotti e sistemi di produzione a ridotto impatto ambientale anche al fine dell'esercizio delle funzioni relative alla concessione del marchio CEE di qualità ecologica e all'attività di auditing in campo ambientale;
g) verifica della congruità e della efficacia tecnica delle disposizioni normative in materia ambientale nonché verifica della documentazione tecnica, che accompagna le domande di autorizzazione, richiesta dalle leggi vigenti in campo ambientale;
h) controlli di fattori fisici, chimici e biologici di inquinamento acustico, dell'aria, delle acque e del suolo, ivi compresi quelli sull'igiene dell'ambiente;
i) attività di supporto tecnico-scientifico agli organi preposti alla valutazione ed alla prevenzione dei rischi di incidenti rilevanti connessi ad attività produttive;
l) controlli ambientali delle attività connesse all'uso pacifico dell'energia nucleare e controlli in materia di protezione dalle radiazioni;
m) studi e nelle attività tecnico-scientifiche di supporto alla valutazione di impatto ambientale;
n) inoltre, più generalmente qualsiasi altra attività collegata alle competenze in materia ambientale assegnate all'Agenzia medesima con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, nell'ambito della normativa vigente.
L’ISPRA svolge, inoltre, le funzioni tecnico-scientifiche concernenti il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo e delle acque di cui agli articoli l e 4 della legge 18 maggio 1989, n. 183, nonché ogni altro compito a supporto dello Stato per le funzioni di rilievo nazionale nel settore della difesa del suolo.
Essa deve, infine, provvedere al coordinamento tecnico nei confronti delle Agenzie regionali e delle province autonome di Trento e di Bolzano, nonché degli altri organismi eventualmente costituiti per lo svolgimento di analoghe funzioni.
A completamento della rassegna degli enti tecnici e/o consultivi in materia di tutela dell’ambiente, senza entrare nello specifico delle loro funzioni, si ricordano i seguenti:
3.5 Il bene giuridico ambiente, forme di tutela e di partecipazione
Il 21 aprile 2004 è stata approvata la direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.
Questa direttiva è il risultato di un lavoro iniziato nel gennaio del 1997, quando la Commissione assunse l’impegno di elaborare un libro bianco, la cui determinazione a sua volta ha trovato la propria origine rispettivamente dal libro verde del 1993 e da una risoluzione del Parlamento Europeo del 1994, nonché da un parere del Comitato economico e sociale dello stesso anno.
Come si può notare, si tratta di un percorso molto lungo - e ciò fa immaginare come possa essere stato anche complesso -, pervicacemente perseguito, fino a giungere al momento attuale, in cui pur potendo discettare sull’affermazione dei diversi principi o impostazioni, si gode il vantaggio di potersi confrontare con un testo articolato e, in tal modo, cominciare a comprendere quali ripercussioni tale novella dispiegherà.
La portata – e dunque l’importanza – di questo argomento è con tutta evidenza notevole. Infatti la responsabilità per danno ambientale comporta il riconoscimento nella UE dell’ambiente quale bene giuridicamente protetto, ossia non più un semplice valore, ma una vera e propria entità, autonoma e distinta da tutti singoli beni con i quali è stata finora associata.
Si può ben comprendere, anche, quale sia l’impatto economico dato dal riconoscimento di una responsabilità per il risarcimento del danno ambientale uniformemente concepita su tutti gli Stati membri. E’ da tener presente, infatti, che l’attuale differenziazione esistente tra i differenti stati crea inevitabilmente delle posizioni di vantaggio/svantaggio per gli operatori presenti nel mercato unico. Infatti, laddove in uno Stato sia riconosciuto un livello di minore responsabilità, si viene indirettamente a scaricare – esternalizzare - i costi per la riparazione di un eventuale danno sulla collettività in misura maggiore rispetto a colui che invece si trova ad operare in un contesto giuridico, che invece abbia previsto un principio di più ampia responsabilità. In questo secondo caso, in genere, l’operatore è tenuto a sopportare maggiori costi sia in sede riparatoria, sia per la prevenzione.
Il percorso che ha portato al riconoscimento del bene giuridico ambiente è stato lungo e complicato anche in Italia. Nel nostro Paese è in vigore dal 1986 una disposizione, che prevede l’obbligo di risarcire il danno all’ambiente. Ciò significa che prima del 1986, nessuno poteva recriminare una lesione di questo bene, in quanto inesistente giuridicamente. Era possibile eventualmente invocare l’intervento del giudice per un mancato rispetto di una disposizione, che avesse a tutela l’ambiente, ma non era possibile rivendicare in senso tecnico un obbligo di riparazione del danno all’ambiente.
Esistevano, infatti, disposizioni, in correlazione a specifici divieti, che imponevano una riduzione in pristino dello stato dei luoghi alterati da una condotta vietata, ma rimanevano in ogni caso disposizioni particolari e non generali. Per fare un esempio si può citare la disciplina urbanistica, all’interno della quale è disposto che in caso di costruzione abusiva alla condanna si accompagna l’obbligo della demolizione del manufatto e il ripristino dello status quo ante.
La previsione di un obbligo/diritto al risarcimento di un bene, impone implicitamente la necessità di individuare l’essenza del bene medesimo. Infatti, se rimane incerta la sua estensione, non sarà mai possibile comprenderne la sua lesione. A tal fine, merita operare un excursus storico dell’evoluzione del diritto ambientale nel nostro Paese.
3.6 Definizione di danno ambientale
La direttiva 2004/35/CE definisce il «danno ambientale» come il mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, sia diretto che indiretto, e il «danno ambientale» come l'insieme del danno faunistico, del danno alle acque e del danno al terreno.
La direttiva prevede una sorta di responsabilità oggettiva a carico delle imprese, chiamate a sostenere il costo ambientale delle loro attività inquinanti, prevedendo però che gli stati possano prevedere un esonero da responsabilità nel caso il singolo operatore economico dimostri che il danno non deriva da suo dolo o colpa.
Gli Stati membri avevano tempo fino al 31 aprile 2007 per la trasposizione della direttiva nella legislazione nazionale ma il termine per recepire la direttiva 2004/35/Ce sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale è stato rispettato in tempo solo da Italia, Lettonia e Lituania.
La direttiva 2004/35/Ce è stata recepita in Italia “de facto” grazie alla parte VI (”Norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente”) del Dlgs 152/2006, in vigore dal 29 aprile 2006.
Rientrano nella defnizione di “danno ambientale”:
•danno alle specie e agli habitat naturali protetti,vale a dire qualsiasi danno che produca significativi effetti negativi sul raggiungimento o il mantenimento di uno stato di conservazione favorevole di tali specie e habitat. l'entità di tali effetti è da valutare in riferimento alle condizioni originarie,tenendo conto dei criteri enunciati nell'allegato i.
•il danno alle specie e agli habitat naturali protetti non comprende gli effetti negativi preventivamente identificati derivanti da un atto di un operatore espressamente autorizzato dalle autorità competenti,secondo le norme di attuazione dell'articolo 6,paragrafi 3 e 4 o dell'articolo 16 della direttiva 92/43/cee o dell'articolo 9 della direttiva 79/409/cee oppure,in caso di habitat o specie non contemplati dal diritto comunitario,secondo le disposizioni della legislazione nazionale sulla conservazione della natura aventi effetto equivalente;
• danno alle acque,vale a dire qualsiasi danno che incida in modo significativamente negativo sullo stato ecologico,chimico e/o quantitativo e/o sul potenziale ecologico delle acque interessate,quali definiti nella direttiva 2000/60/ce,a eccezione degli effetti negativi cui si applica l'articolo 4,paragrafo 7 di tale direttiva;
• danno al terreno,vale a dire qualsiasi contaminazione del terreno che crei un rischio significativo di effetti negativi sulla salute umana a seguito dell'introduzione diretta o indiretta nel suolo,sul suolo o nel sottosuolo di sostanze,preparati,organismi o microrganismi nel suolo;
Esempio direttiva 2000/60/ce (danno alle acque)
3.7 La nascita del diritto ambientale in Italia.
Come avvenne anche in altri paesi, anche in Italia la consapevolezza della problematica ambientale non andò di pari passo con l’evoluzione della rispettiva normativa. Purtroppo, la rivisitazione dell’impostazione socio-economica, che ha imposto il “problema ambientale”, ha causato molte resistenze all’introduzione e allo sviluppo di una specifica normativa da parte di diversi settori della nostra società.
Come è accaduto spesso queste resistenze sono state superate solo a seguito di eventi traumatici o per pressioni derivanti dalla sede internazionale. Così è stato per la creazione di un Ministero dell’ambiente, a seguito dell’incidente nucleare di Cernobyl, o del Dipartimento della protezione civile, a seguito di gravi crisi derivanti da eccezionali eruzioni dell’Etna.
Ciò nonostante prima ancora della nascita del Ministero dell’ambiente, la cui legge istitutiva ha previsto anche il diritto/dovere al risarcimento del danno ambientale, nel nostro ordinamento si erano sviluppati due filoni normativi, che possiamo definire gli embrioni del diritto ambientale italiano: la tutela del paesaggio e la tutela della salute.
In attesa della realizzazione di una normativa organica, le istanze ambientaliste erano tutte tese all’estensione interpretativa di quelle discipline, che si è tradotta in un ampliamento degli originari fini applicativi di dette normative.
In tal modo, accadeva che la disciplina di tutela delle cosiddette “bellezze naturali” dovesse superare i propri limiti estetici e si venisse pian piano a sostanziare a nella conservazione dei valori naturali costituenti tali bellezze.
Allo stesso modo le norme di igiene e di tutela della salute, pur partendo da una visione “salutistica”, attraverso il processo interpretativo avrebbero dovuto accogliere il concetto, che solo in un ambiente capace di fornire tutti i suoi “servizi naturali” si potesse svolgere appieno la funzione di prevenzione dalle malattie e dai disagi sociali, anche questi vettori di malattie o di ripercussioni ambientali.
Fu, dunque, un processo interpretativo del patrimonio normativo allora esistente quello che portò ai primi riconoscimenti delle istanze di tutela ambientale in Italia, a seguito di una incessante attività giurisprudenziale e dottrinale.
Per quanto riguarda il settore inerente la conservazione della natura, merita ricordare che sia la legge del giugno 1922, sulla tutela delle bellezze naturali, che il suo aggiornamento del 1939 avevano a cuore la protezione di aree di particolare bellezza – naturale o panoramica -. La loro visione prospettica, dunque, assumeva a valore non tanto la natura e l’ecosistema, ma il rapporto storico, artistico ed edonistico accolto dalla collettività rispetto ad uno specifico luogo anche in proiezione con l’attività economica connessa.
Questo è avvenuto anche con l’istituzione dei primi parchi nazionali, avvenuta a decorrere dal 1922 partendo dal Parco Nazionale dello Stelvio. Possiamo osservare, infatti, che il legislatore si era prefisso di perseguire le finalità di tutelare e migliorare la fauna e la flora e di conservare le speciali formazioni geologiche, nonché la bellezza del paesaggio, oltreché quella di promuovere lo sviluppo del turismo e dell’industria alberghiera.
Sostanzialmente, in questi testi normativi la tutela della natura non veniva rappresentata come un valore assoluto, bensì relativo. Tale impostazione era viziata dalla allora imperante concezione antropocentrica, secondo cui la natura era un bene a disposizione dell’uomo, a cui si subordinava la contrapposta visione della dipendenza dell’uomo dalla natura. La funzione “produttivistica” del parco nazionale rendeva, peraltro, palese la primarietà dell’interesse economico a quello conservazionistico, primarietà che vedremo essere ancora presente al momento della concezione della nostra Costituzione nel 1948.
Questa, infatti, seppur all’art. 9 dispone che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, in altri passi riporta il compito della tutela nell’alveo di un modello di sviluppo prettamente economico.
Ad esempio negli articoli dove si disciplinano i fattori di aggregazione fra le persone,come: all’art. 3, dove viene stabilito il principio di eguaglianza tra le persone, si precisa che debbono essere rimossi gli ostacoli economici; all’art. 41, dove si afferma che l’iniziativa economica privata è libera; all’art. 42, che riconoscendo la proprietà privata, viene posto come unico limite quello della funzione sociale della medesima, teso a ribadire la prevalenza degli interessi economici pubblici rispetto a quelli privati.
Pur partendo da basi diverse da quelle che oggi intendiamo parlando di diritto ambientale, la normativa sulle bellezze naturali è tuttavia servita a sostenere politiche e azioni a tutela dell’ambiente naturale nel nostro paese. La legge del 1939, infatti, riconosceva la facoltà alle amministrazioni di redigere dei piani territoriali paesistici, al fine di impedire che le aree di quelle località siano utilizzate in modo pregiudizievole alla bellezza panoramica.
Questa previsione è servita, fino al riordino della materia e all’introduzione di normative sulle aree naturali protette, ad assicurare un’azione di salvaguardia di luoghi, che oltre a valori estetici vantavano anche valori naturalistici importanti.
Man mano che la politica della tutela del paesaggio perdeva la sua originaria impostazione e si avviava a contemplare anche i fattori costituenti gli ecosistemi, si venne a incrociare con quella del governo del territorio. L’urbanistica, le cave, le infrastrutture, l’espansione industriale, la stessa agricoltura cominciava a doversi confrontare con nuovi temi e con nuovi problemi.
La stessa evoluzione vediamo svilupparsi nel settore della tutela dell’igiene e della salute. Le normative che disciplinavano la gestione dei rifiuti, degli scarichi delle acque originariamente non erano di certo improntate alla conservazione delle risorse naturali o dei corpi idrici recettori degli scarichi. Lo stesso per quanto riguarda le emissioni in atmosfera, l’interesse primario era dato dalla necessità di assicurare la salubrità degli ambienti di vita e di lavoro e non tanto quello di non intaccare la capacità di carico della Terra.
Tutte quelle norme che oggi adottiamo nella lotta all’inquinamento delle acque, dei suoli, dell’aria, da rumore e che oggi albergano a pieno titolo nel diritto ambientale, in precedenza rientravano esclusivamente nella branca del diritto che contempla la tutela della salute e dell’igiene. Tuttavia, attraverso i processi interpretativi, di cui si è accennato, si è iniziato dapprima ad introdurre concetti relativi alla tutela dell’ambiente all’interno di queste materie, fino a giungere ad invertire l’ordine di priorità della tutela, ossia considerando quella sanitaria una parte strutturante di quella ambientale.
Questa evoluzione si svolgeva solo attraverso la contrapposizione - e la conseguente composizione – tra gli interessi della produzione e quelli della salute. Nessun elemento relativo alla tutela dell’ambiente veniva assunto in tale contesto.
Accadde così che, fino a quando non fu riconosciuto nel nostro ordinamento l’esistenza del bene giuridico ambiente, questo veniva appunto tutelato in maniera indiretta tramite le norme di gestione del territorio – il filone conservazionistico – e quelle di igiene e di tutela della salute.
In questo contesto, si affermava che la nozione giuridica di ambiente non costituisse una materia o un concetto giuridico autonomo, ma fosse una mera “sintesi verbale”. Si affermava che tale espressione riconducesse a tre diversi istituti giuridici distinti: “quelli concernenti la qualità della vita; quindi la lotta agli inquinamenti; quelli concernenti la tutela delle bellezze naturali, quindi un’attività culturale; quelli concernenti il governo del territorio, in quanto siano da preservare certi tratti ecologici, quindi l’attività urbanistica”.
Accanto a tali tesi si svilupparono altre interpretazioni, che invece sostenevano l’esistenza e autonomia dell’ambiente, come fenomeno giuridico. Tale riconoscimento, però, non era da tutti inteso ugualmente. Chi individuava un diritto soggettivo all’ambiente salubre, chi un’estensione del diritto della personalità, chi invece come un diritto civico sui beni ambientali, quali beni collettivi.
In questo sviluppo ermeneutico fu chiamata ad intervenire la Corte Costituzione che riconobbe l’esistenza giuridica dell’ambiente nel nostro ordinamento quale “bene immateriale unitario”. Con due fondamentali sentenze la Corte risolse la discussione in materia, affermando nella sentenza n. 210/87, come sia stato operato un “riconoscimento specifico alla salvaguardia dell’ambiente come diritto della persona e interesse fondamentale della collettività… Si tende, cioè, ad una concezione unitaria del bene ambientale, comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali.”
Con la sentenza n. 641/87 la Corte aggiungeva che “il fatto che l’ambiente possa essere fruibile in varie forme e differenti ruoli, così come possa essere oggetto di varie norme che assicurano la tutela dei vari profili, in cui si estrinseca, non fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene unitario che l’ordinamento prende in considerazione. L’elemento unitario è riferito alla qualità della vita, all’habitat naturale nel quale l’uomo vive e agisce, necessario alla collettività e ai cittadini”.
Queste due sentenze, che giungevano dopo l’istituzione del Ministero dell’ambiente e introduzione di una norma che imponeva l’obbligo di risarcimento del danno all’ambiente, sostanzialmente affermavano che la tutela dell’ambiente fosse riconosciuta dalla nostra Costituzione ed era data dal combinato disposto degli artt. 9 (tutela del paesaggio) e 32 (tutela della salute). La stessa Corte è giunta ad affermare che l’interesse alla tutela dell’ambiente è insuscettibile di essere subordinato a qualunque altro interesse, anche di carattere economico. Pertanto, si veniva anche a ridimensionare l’impostazione economicistica del nostro ordinamento giuridico.
Il bene ambiente, dunque, dall’originaria configurazione quale res communes omnium diviene un bene collettivo, rispetto al quale i privati non godono di situazioni soggettive di potere e lo Stato non ha il monopolio della tutela giuridica.
Siamo tutti coinvolti nella tutela dell’ambiente. L’ambiente non é oggetto di un diritto soggettivo relativo al singolo individuo: riguarda piuttosto l'organizzazione dei poteri e delle comunità umane organizzate in Stati. Il ruolo dei politici é altrettanto importante e decisivo di quello dei singoli individui che devono rispettare l’ambiente. La responsabilità, quindi, é tanto del privato cittadino quanto del politico, come avviene in tutti i problemi che riguardano da vicino le collettività umane. Per garantire la propria vita occorre che il singolo individuo rispetti la vita degli altri. D’altra parte deve esistere una struttura organizzativa - un potere pubblico, uno Stato - che tuteli la salute e che contribuisca a garantire la vita di tutti i cittadini.
L’ambiente nella Costituzione italiana
Anche se non espressamente inserita tra i valori della Costituzione, la tutela dell’ambiente è stata riconosciuta come principio sia dalla Corte di Cassazione, che dalla Corte Costituzionale.
Il “diritto all’ambiente” è di fatto al centro di un intenso dibattito, ed è tutelato in modo esplicito all’interno di numerose direttive comunitarie e della nuova Carta costituzionale europea.
La materia ambientale è quindi, un buon esempio della grande utilità dei principi di cautela e di prevenzione quando si parla di riforme costituzionali. Il termine "ambiente"era assente nella Costituzione entrata in vigore quasi 56 anni fa. Attualmente è unanime, tuttavia, il riconoscimento che l'ambiente costituisce nel nostro ordinamento un "valore costituzionale". Varie successive sentenze della Corte Costituzionale (omogenee nella qualificazione dell'ambiente come valore costituzionale, non sempre su tutto il resto), attraverso il combinato disposto di vari articoli (2, 3, 9, 32, 41, 42,117), hanno riconosciuto il bene ambientale come valore primario, assoluto e unitario, non suscettibile di essere subordinato ad altri interessi, un bene fondamentale garantito e protetto, da salvaguardare nella sua interezza, qualcosa di più di un mero diritto soggettivo. Da circa due decenni, la forma continua a non esserci, c'è la sostanza; con pratiche conseguenze non solo per la costituzione materiale ma anche per la tutela quotidiana dell'ambiente. La giurisprudenza diffusa, la giurisdizione sia ordinaria che amministrativa hanno trovato spesso la strada per garantire il diritto dell'individuo all'ambiente salubre e per affermare il dovere connesso dello Stato alla tutela del patrimonio ambientale).
Da due anni è entrata in Costituzione anche la parola "ambiente". Nel nuovo titolo quinto della parte seconda, riorganizzando la ripartizione di competenze fra stato e regioni, si assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la "tutela dell'ambiente e dell'ecosistema".
(Riconosco la parzialità della formula. Conosco in parte il complicato dibattito dottrinario interpretativo su questi concetti. Non mi piace che la citazione sia tema solo di competenze di "materie". Non tutta la "materia" dell'ambiente è certo competenza esclusiva dello Stato. Comunque, il vuoto formale è colmato. E la Corte Costituzionale ha iniziato a tenerne conto (da ultimo con le sentenze 303/03 sulla legge nazionale "obiettivo" relativa alle infrastrutture e 307/03 sulle leggi regionali in materia di inquinamento elettromagnetico), probabilmente ancora in modo incerto, contraddittorio, parziale, conseguente anche alla complicata lettura del nuovo titolo V. Rispetto allo stesso nuovo assetto costituzionale nel settore della tutela dell'ambiente vi sono discutibili interpretazioni di nuovo intento centralista o di semplice razionalizzazione dell'esistente; una modifica della prima parte della Costituzione dovrebbe favorire con maggiori coerenze e certezze le "potenzialità" del nuovo Titolo V).
Gli articoli inerenti la parte “ambientale sono:
art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità...
art. 32: La Repubblica RICONOSCE e TUTELA IL BENE SALUTE come “DIRITTO FONDAMENTALE DELL’INDIVIDUO OLTRE CHE COME INTERESSE DELLA COLLETTIVITA’ ”.
art.9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”
art. 117: Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: nel punto s) viene definita la tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.
art. 18 L. 349/1986: norme in materia di danno ambientale.
Ma nessuna di queste norme definisce direttamente “l’ambiente”. In via esegetica, da esse si trae una nozione di ambiente onnicomprensiva, utilitaristica e di tipo antropocentrico che considera l’ambiente come l’insieme delle condizioni necessarie a garantire una vita salubre e la tutela del territorio.
Quando la Costituzione fu redatta le priorità erano altre, legate al riconoscimento e alla “guida” dei mutamenti sociali allora in atto, in primis quello di un crescente sviluppo industriale.
Bibliografia
Dispense di Legislazione ambientale Università di Parma
Diritto comunitario UTET
Ministero dell’Ambiente e del territorio
CORDINI, G. 1997 - Diritto ambientale comparato, CEDAM.
RICCI, R. 2004 - L’ambiente nella Costituzione, su: www.lexambiente.com.
Fonte: http://www.mcgformazione.it/wp-content/files/Legisazione_ambientale_Parte_prima.doc
Sito web da visitare: http://www.mcgformazione.it
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