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Lo Yoga classico: storia, princìpi e altre informazioni (N.B.: le date sono sempre approssimative!)
epoca |
Veda e Bràhmana; Puràna |
Upanishad e Bhagavadghìta |
Dàrshana e Buddhismo |
1500 |
1° Veda (“Rigveda”) |
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2° Veda |
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800 |
3° Veda , i Bràhmana |
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700 |
Puràna (“Mahàbhàrata” originale) |
Up. antiche (accenni a Yoga) |
inizi dàrshana Sàmkhya; Buddha; Mahavir Jain |
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500 |
4° Veda |
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primi scritti (Sutra) dei sei dàrshana (Sàmkhya, Nyàya, Vaisheshika, Mimànsa) |
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400(inizio medioevo indiano) |
Puràna (“Mahàbhàrata”,“Ràmayàna”) |
ultime Up. antiche (più yoga) |
“Dhammapada”(buddista) |
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200 a.C. |
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Up. medie (molto più yoga); “Bhagavad Ghita” (primato dello yoga) |
“Yoga Sutra” (di Patànjali); “Vedànta Sutra” |
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200 d.C. |
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ultime Up. medie |
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300 d.C. |
inizio della diffusione del tantrismo |
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700 |
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1°commento a “Yoga Sutra” |
800 |
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Shànkara |
1000 |
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1100 |
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inizi Hathayoga (Gorakhnàth) |
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1400 |
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ultime Up. (totale: 112) |
“Hathayogapradìpika” |
Il vocabolo yoga serve in generale a indicare ogni tecnica d’ascesi e ogni metodo di meditazione.
Ciò che contraddistingue lo Yoga non è solamente il suo aspetto pratico, ma anche la sua struttura iniziatica, ossia nel suo percorso assistiamo a una morte seguita da una rinascita in un altro modo d’essere: quello rappresentato dalla liberazione. L’analogia tra lo Yoga e l’iniziazione è ancor più palese se si pensa ai riti iniziatici, “primitivi” o d’altro tipo che perseguono la creazione di un “nuovo corpo”, “mistico” (assimilato simbolicamente presso i primitivi al corpo del neonato). Ora, il “corpo mistico” che permetterà allo yoghin di inserirsi nel modo d’essere trascendente, svolge un ruolo considerevole in tutte le forme dello Yoga e, in particolare, nel tantrismo e nell’alchimia.
Lo Yoga è presente dappertutto, nella tradizione orale indiana e nelle letterature sànscrite e dialettali. E’ una dimensione specifica della spiritualità indiana. E’ il prodotto non solo degli Indo-Europei, ma anche e soprattutto delle popolazioni preariane.
In sintesi, si può dire che lo Yoga è giunto a imporsi come tecnica universalmente valida, ricollegandosi a due tradizioni: 1° quella degli asceti e degli “estatici” documentati a partire dal Rigveda; 2° il simbolismo dei Bràhmana, e soprattutto le speculazioni che giustificano la “interiorizzazione del sacrificio”.
Nei Veda si possono notare solamente alcuni rudimenti dello Yoga classico; quegli antichi testi, però, documentano discipline ascetiche e ideologie “estatiche” che, senza avere sempre rapporti diretti con lo Yoga vero e proprio, finirono per essere inserite nella tradizione yoga. Tuttavia non bisogna confondere queste due categorie di fatti spirituali; metodi ascetici, tecniche d’estasi, sono attestate presso gli altri Indo-Europei, per non parlare degli altri popoli asiatici, mentre lo Yoga si incontra solamente in India e nell’ambito di culture influenzate dalla spiritualità indiana.
La parola tapas (lett. “calore, ardore”) designa lo sforzo ascetico in generale.
Aumentare magicamente il calore del proprio corpo o “dominare” il fuoco fino a diventare insensibili alla temperatura della brace, sono due prerogative magiche universalmente attestate presso gli stregoni, gli sciamani ed i fachiri. Sul suolo indiano questa tradizione magica, incontestabilmente arcaica e diffusa ovunque, conobbe una fioritura, che non ebbe l’uguale in nessun’altra parte del mondo.
Il tapas faceva parte dell’esperienza religiosa dell’intero popolo indiano. Vi era continuità tra il rituale del sacrificio e l’ascesi.
E’ importante sapere come il tapas è stato assimilato dalla tecnica yoga. Il tapas, che si ottiene con il digiuno, con la veglia accanto al fuoco, ecc., si ottiene anche con la ritenzione della respirazione. L’arresto del respiro comincia ad avere funzione rituale, soprattutto a partire dall’epoca dei Bràhmana. Ciò permetterà di assimilare, da una parte, le tecniche yoga ai metodi ortodossi bràhmanici, e d’altra parte lo yoghin al tapasvin; infine, si intravede già l’audace equiparazione del sacrificio vedico alle tecniche dell’estasi.
Il sacrificio rituale fu assimilato al tapas molto presto. Anche il tapas, infatti, è un sacrificio. Se durante un sacrificio vedico si offre agli dèi il soma (bevanda inebriante o allucinogena), il ghi (burro fuso) e il fuoco sacro, nella pratica ascetica si offre loro un “sacrificio interiore”, nel quale le funzioni fisiologiche si sostituiscono alle libagioni e agli oggetti rituali. Inoltre, il sacrificio ha un simbolismo iniziatico, dove l’iniziazione non si riduce al rituale di morte e rinascita, ma comporta una conoscenza superiore e salvifica, segreta. Col tempo, la “scienza” del sacrificio e delle tecniche liturgiche perde valore, ed una scienza nuova, quella della conoscenza di Brahman, ne prende il posto. E’ dunque aperta la via ai Rishi (saggi, Maestri) delle Upanishad e, più tardi, ai Maestri del Sàmkhya, per il quale la vera scienza è sufficiente alla liberazione.
Con le Upanishad la ricerca dell’assoluto si spinge ai margini dell’ortodossia bràhmanica dando la possibilità alle tecniche yoga di trovare una prima “sistemazione”, e aprendo la via ai “sei sistemi filosofici” ed alle speculazioni “eretiche” del Buddhismo e del Giainismo. L’osmosi tra gli ambienti upanishadici e quelli yoga è costante.
La grande scoperta delle Upanishad è stata l’affermazione sistematica dell’identità dell’àtman (il “centro” spirituale dell’uomo) e del brahman (l’imperituro, l’immutabile, il fondamento, il principio di ogni esistenza, asse e “centro” cosmico e fondamento ontologico al tempo stesso, legge universale). Ciò comportava che l’immortalità e la potenza assoluta divenivano accessibili ad ogni essere che si sforzasse di penetrare la conoscenza dei misteri.
Fin dall’epoca delle Upanishad, l’India rifiuta il mondo come è e svaluta la vita come essa si rivela agli occhi del saggio: effimera, dolorosa, illusoria. Tale concezione non porta al nichilismo né al pessimismo. Si rifiuta questo mondo e si deprezza questa vita, perché si sa che esiste qualcosa d’altro di là dalla temporalità, dalla sofferenza, dal divenire. In termini religiosi, si potrebbe quasi dire che l’India rifiuta il Cosmo e la vita profàni, perché assetata di un mondo e di un modo d’essere sacri.
Le Upanishad hanno indicato la via per emanciparsi dai rituali e dalle opere. Su questo punto i Rishi upanishadici si incontrano con gli asceti e con gli yoghin; partiti da altre premesse, sollecitati da altre vocazioni (meno speculative, più tecniche, più “mistiche”), questi ultimi riconoscevano, essi pure, che l’effettiva conoscenza dei misteri si traduce nel possesso di una forza spirituale senza limiti; essi erano però inclini a forzare questa conoscenza del Sé servendosi di tecniche in parte contemplative, in parte fisiologiche. Essi giunsero a identificare il Cosmo con il loro corpo, portando all’estremo alcune equiparazioni micro-macrocosmiche attestate già nel Rigveda.
Per organizzare tutti gli aspetti e le pratiche yoga in un sistema unico e giustificato logicamente, nel periodo in cui – peraltro – lo Yoga veniva compreso in molte altre correnti e loro scritture (Upanishad medie, Bhagavad Ghita e altro), sono stati scritti gli Yoga Sutra. Qui la concezione dello Spirito, del Cosmo e della vita fa riferimento alla filosofia Sàmkhya, già esistente, nella quale si afferma:
Lo Yoga classico di Patànjali riprende tali principî aggiungendovi:
La conoscenza della verità (ossia che lo Spirito è da sempre libero e auto-realizzato) è risveglio, illuminazione, rivelazione in cui l’oggetto (qui è lo Spirito, il Sé) si identifica col soggetto (ancora lo Spirito, il Sé). Liberazione è cessare di credere che lo Spirito sia asservito.
La ricerca di ciò è avviata dalla sofferenza, presente secondo Sàmkhya e Yoga in ogni aspetto dell’esperienza ordinaria, profàna. Lo Spirito ignorando la sua vera natura si identifica nell’intelletto, che benché evoluto è pur sempre un prodotto della Natura; esso si riflette nell’intelletto “come un fiore in un cristallo”, conosce la conoscenza dell’intelletto pur non essendone influenzato o modificato. Si tratta di una corrispondenza simpatetica o ‘avvicinamento di tipo particolare’, spiega la filosofia Sàmkhya.
E’ da notare che la personalità umana in questa visione non esiste come elemento ultimo: esiste solo come sintesi delle esperienze psichiche e mentali.
Lo Yoga classico di Patànjali afferma l’esistenza di Dio, o il Signore (Ìshvara). Negli Yoga Sutra la sua funzione è modesta, se non addirittura inutile in via di principio; probabilmente nello sforzo sistematico (cioè di organizzare tutto ciò che concerne lo yoga, o gli yoga, in un unico sistema o insieme logicamente costituito) Patànjali tenne conto del successo raggiunto da chi, con molto maggiore intensità devozionale di quanta sia deducibile dal testo, meditava su una divinità personale (cioè non impersonale come il Brahman delle Upanishad, vedi sopra).
Qui il Signore è “solo” il primo Spirito auto-realizzato, mai incarnatosi, mai afflitto da sofferenza, modello dello yoghin; non è il Creatore e aiuta solo chi si impegna a seguire il suo modello.
Più avanti, anche nei commenti più autorevoli agli Yoga Sutra, il Signore sarà “rivalutato” moltissimo, sulla scia del successo di varie correnti mistiche e devozionali, a spese dell’orientamento maggiormente magico dello Yoga classico di Patànjali dove il risultato è conseguito soprattutto praticando le tecniche appropriate.
specificamente yoga) e conseguente “fissazione su un solo punto” (ekàgrata, primo stato di coscienza propriamente yoga, ottenuto con àsana e pranayàma): con questi lo yoghin/la yoghini supera sperimentalmente la modalità profàna dell’esistenza. Comincia a divenire autonomo rispetto al Cosmo; le tensioni esterne non lo disturbano più; l’attività sensoriale non lo proietta più all’esterno, verso gli oggetti dei sensi. Il flusso psichico e mentale non subisce più violenze e non è più dominato dalle distrazioni, dagli automatismi e dalla memoria. Questo estraniarsi dal Cosmo è accompagnato da una immersione in se stessi, lo yoghin “ritorna a sé”, prende per così dire possesso di sé.
le sensazioni come se il contatto fosse reale; è autonomo rispetto agli stimoli del mondo esterno e del dinamismo del subcosciente; parimenti, gli organi di senso non funzionano più in modo autonomo (cioè come nell’esistenza ordinaria nella quale essi possono introdurre nella coscienza pensieri conseguenti alle esperienze sensoriali). L’intelletto può sempre avere rappresentazioni di tipo sensoriale, ma esse sono ottenute “direttamente” con la saggezza o potenza della contemplazione. Pratyahàra è l’ultima tappa dell’ascesi psico-fisiologica. Ogni attività è sospesa. La psiche può riflettere gli oggetti senza che i sensi si interpongano. L’autonomia dell’intelletto però non comporta la soppressione dei fenomeni che lo yoghin/la yoghini, ora, contempla direttamente nella loro essenza.
turbata da sensi, attività sensoriale, memoria ecc. la psiche può servire da specchio agli oggetti senza la mediazione dei sensi. Senza ulteriori tecniche fisiologiche lo yoghin/la yoghini impegnandosi sperimenta la fissazione su un solo punto, oggetto o sensazione per un tempo sufficientemente lungo da farlo/la “scivolare”, anche involontariamente, nello stadio successivo. Qui egli/ella si serve preferibilmente, come oggetto della concentrazione, di punti del corpo che, secoli dopo la compilazione degli Yoga Sutra, si ritrovano nei testi tantrici descritti come chakra.
categorie e dell’immaginazione; si ha la conoscenza perfetta dell’oggetto, senza le distinzioni indicate sopra; è una condizione della psiche in cui l’oggetto si rivela “in se stesso”, in ciò che ha di essenziale, e la corrispondente forma di coscienza (o archètipo o essenza dell’oggetto) prevale su tutte le altre possibili forme di coscienza; se scompare, anziché essere sostituita da un’altra è sostituita da una che le è identica. Ciò può culminare in un arresto (o soppressione) definitivo: se anche quest’ultima forma di coscienza (scelta in quanto era la più adatta al soggetto che aveva intrapreso la via della meditazione) scompare, lo yoghin/la yoghini conoscerà finalmente la distinzione tra l’intelletto più elevato e lo Spirito e potrà situarsi nello stato supremo di esistenza o kaivalya, unità-solitudine o liberazione. Nella tabella: pragya = intelletto nel suo aspetto più elevato e sottile; pratyaya = idea, oggetto, punto.
meditazione flusso costante del pensiero verso l’oggetto; il pensiero inizia a penetrare nell’essenza o più intima realtà dell’oggetto; inizia a perdersi la distinzione tra soggetto, oggetto e procedimento/pensiero/il meditare (ossia inizia a prodursi “coalescenza” o “samàpatti” tra questi tre) |
samàdhi differenziato o con ‘pragya’
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samàdhi indifferenziato o senza ‘pragya’ |
dhyàna |
sampragyàta samàdhi |
asampragyàta samàdhi |
sabìja o sàlambana samàdhi s. con seme o sostegno (con pratyaya) |
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savikalpa samàdhi s. in stato dinamico |
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nirvikalpa o nirbìja samàdhi s. statico, dominio dell’infinito, esperienza senza chi sperimenta, perfetto assoluto stato del Sé |
* secondo una interpretazione differente: vitarka è argomentativa (savitarka) o non argomentativa (nirvitarka); vichara è riflessiva (savichara) o non riflessiva (nirvichara); con ànanda (ànandànugata) e asmità (asmitànugata) il totale è di sei specie di samàdhi differenziato o sampragyàta.
Il messaggio del Buddha (vissuto nel VII secolo a.C., v. tabella sulla 1ª pagina) è rivolto all’essere umano che soffre, preso nelle reti della trasmigrazione. Per il Buddha, come per tutte le forme dello Yoga, la salvezza si può ottenere solo in seguito ad uno sforzo personale, ad una assimilazione concreta della verità. Non si tratta né di una teoria né di una evasione in uno sforzo ascetico qualunque: bisogna comprendere e, al tempo stesso, sperimentare la verità. Il Buddha insegnava la via ed i mezzi per morire alla condizione umana, alla schiavitù ed alla sofferenza (similmente a quanto insegnato dagli altri sistemi visti, v. “Fondamenti delle Upanishad” alla 3ª pagina) per rinascere alla libertà, alla beatitudine e all’incondizionato, al Nirvàna. Ma esitava a parlare di questo incondizionato, per non tradirlo: aveva attaccato i bràhmani (sacerdoti) e gli altri maestri che discutevano troppo sull’inesprimibile e pretendevano di poter definire il Sé (atman).
Per ottenere lo stato dell’incondizionato, del Nirvàna, il Buddha utilizza le tecniche Yoga, pur correggendole e completandole con un profondissimo lavoro, da parte del praticante, di “comprensione” della verità. Il percorso comincia con un’attenzione permanente alla propria vita fisiologica, per poter capire continuamente la fragilità del mondo fenomenico e l’irrealtà dell’“anima”. Realizzato ciò comincia la vera meditazione buddhista, con punti comuni al samàdhi dello Yoga classico. Buddha collegava sempre la conoscenza ad una esperienza meditativa di tipo yoga, ossia la prima doveva essere convalidata dalla seconda e viceversa.
Verso l’inizio della nostra era anche nel Buddhismo alle vie della conoscenza (filosofia, gnosi) e dell’esperienza (yoga) si aggiunge quella della devozione (bhakti), che qui è fede nel Buddha, del quale si ha una proliferazione di immagini ed aspetti, maschili e femminili.
La B.G. (“Il Canto del Beato”, ossia “L’Insegnamento del dio Krishna”), è forse il più famoso testo indiano di insegnamenti spirituali. Contiene riferimenti alle Upanishad, al Sàmkhya, allo Yoga e alla devozione verso il dio Vishnu (nella sua 8ª incarnazione terrestre, ossia Krishna). E’ stato inserito nel VI libro dell’epopèa Mahàbhàrata, conosciuta dal popolo e perciò ottimo veicolo per la diffusione di tali insegnamenti, probabilmente tra il II e il I secolo a.C. (v. 1ª pagina), in un periodo di progressiva affermazione delle correnti e sètte devozionali (cioè che praticano principalmente la meditazione su un Dio personale).
Nella B.G. è stata formulata per la prima volta l’identificazione del brahman delle Upanishad con Vishnu (dio che ottiene ora la supremazia) e con il suo avatar terrestre, Krishna. Vi si citano frequentemente il Sàmkhya e lo Yoga, ma senza valorizzarli in quanto dàrshana (filosofia, v. 2ª pag.): il termine Sàmkhya indica qui ogni conoscenza metafisica, mentre Yoga indica ogni disciplina pratica (e non l’arresto di ogni forma di coscienza, v. samàdhi alla 4ª pagina); e le differenze tra i due sistemi (uno ateo, l’altro teista) scompariranno.
Lo Yoga che “trionfa” nella B.G. è uno Yoga appropriato all’esperienza religiosa vishnuita: un metodo mirante all’acquisizione dell’unione mistica. Esso è, inoltre, purificato dai residui magici (l’ascesi rigorosa) e la più importante delle sue antiche tecniche, il pranayàma, ha solo più una parte insignificante.
Il problema fondamentale della B.G. è però quello di sapere se l’azione può, anch’essa, condurre alla conquista della salvezza, affiancandosi alla conoscenza e/o la contemplazione. Krishna cerca di superare questo dilemma dimostrando che i due metodi (azione; conoscenza/contemplazione), che prima di questa sua rivelazione erano considerati in contrasto, sono ugualmente validi, potendo ogni individuo scegliere il metodo che la sua attuale condizione karmica gli permette di praticare. Ma ancor prima di ciò l’aspirante spirituale (qui il condottiero Arjuna) trova il senso della sua vita storica e insieme ottiene la liberazione quando comprende ciò che Krishna è e ciò che Krishna fa. Tutto ciò che Egli svela sul proprio Essere e sul proprio “comportamento” nel Cosmo e nella Storia deve servire da modello esemplare per Arjuna. Egli crea continuamente il mondo per mezzo della sua prakriti (Potenziale creativo, Energia), ma questa incessante attività non lo incatena; egli si limita ad essere lo spettatore della propria creazione. Proprio questa valorizzazione, apparentemente paradossale, dell’attività (ossia del karman), costituisce la lezione fondamentale dello yoga rivelato da Krishna. Ad imitazione di Dio che crea e sostiene il mondo senza parteciparvi, l’uomo imparerà a comportarsi nello stesso modo. L’uomo ha un bell’imbrigliare l’attività dei propri sensi: anche se si astiene dall’atto, tutta un’attività incosciente, provocata dai tre princìpi di movimento o modi di attività della Natura (i tre guna) continua ad incatenarlo al mondo e ad integrarlo al circuito karmico.
In conclusione l’uomo deve, da una parte, rifiutare realtà ontologica a qualsiasi “condizione” umana (perché solo Krishna è “saturo” di Essere) e, d’altra parte, deve guardarsi dal godere i “frutti delle sue azioni”.
La grande originalità della B.G. è di avere insistito su questo “Yoga dell’azione”; questo è anche il principale motivo del suo successo, che non ha precedenti in India. E’ lecito per ogni essere umano sperare di salvarsi anche quando continuerà a partecipare alla vita sociale, ad avere una famiglia, delle preoccupazioni, a svolgere funzioni profàne, e anche a commettere azioni “immorali” (come uccidere un avversario in guerra). Agire tranquillamente, automaticamente, senza essere spinto dal “desiderio del risultato”, vuol dire ottenere un dominio di sé ed una serenità che solo lo Yoga può conferire. Il solo fatto di aver tentato la via dello Yoga eleva l’essere umano al di sopra di colui che si è attenuto ai riti prescritti dai Veda; ed i più grandi elogi sono prodigati non allo yoghin interamente staccato dal dolore e dalle illusioni di questo mondo, ma a colui che considera il dolore e la gioia altrui come se fossero suoi.
Questa interpretazione della tecnica yoga come strumento che permette di staccarsi dal mondo pur continuando a viverci e ad agire caratterizza il grande sforzo di sintesi dell’autore della B.G., che voleva conciliare tutte le vocazioni (ascetiche, mistiche, d’azione).
Oltre a questo “Yoga” accessibile a tutti la B.G. espone sommariamente una vera e propria tecnica yoga, morfologicamente analoga a quella esposta negli Yoga Sutra ma senza pranayàma (menzionato invece in un altro contesto, come un “rituale interiorizzato” simile a quelli incontrati all’epoca dei Bràhmana e delle Upanishad) e praticando la concentrazione esclusivamente su Krishna. La devozione mistica (bhakti) di cui Krishna è oggetto gli conferisce una funzione infinitamente più importante di quella che aveva Ìshvara negli Yoga Sutra: chi così medita otterrà la grazia del Dio.
Così, tra le vie che conducono alla salvezza la migliore e la più raccomandabile è lo Yoga, superiore all’ascesi (tapas), alla conoscenza (gyàna) e al sacrificio (yagya).
Dal IV al VI secolo d.C. si diffonde fino a diventare una “moda” il tantrismo. Si afferma presso filosofi/teologi, asceti/yoghin, e la popolazione, influenzando tutta la cultura indiana compresa la letteratura; è buddhista (indiano e tibetano), indù, jainista, vishnuìta, shivaìta, ed altro ancora. (E’ interessante constatare la sconcertante simmetria tra il tantrismo e la grande corrente misteriosofica occidentale nella quale confluirono, all’inizio dell’era cristiana, la Gnosi, l’ermetismo, l’alchimia greco-egiziana e le tradizioni dei Misteri).
Per la prima volta nella storia spirituale dell’India ariana la Grande dea acquista una posizione predominante. Si riconosce in ciò quella “religione della Madre” che già si era affermata in un’area egéo-afroasiatica vastissima e che fu, in ogni tempo, la principale forma di devozione presso le numerose popolazioni autòctone dell’India. La donna viene a simboleggiare l’irriducibilità del sacro e del divino, l’essenza inafferrabile della realtà ultima. La Donna incarna al tempo stesso il mistero della Creazione e il mistero dell’Essere, di tutto ciò che è e che diviene, che muore e rinasce in modo incomprensibile. Si prolunga, sul piano metafisico come su quello mitologico, lo schema della filosofia Sàmkhya: lo Spirito, il “Maschio”, Purusha è il “grande impotente”, l’immobile, il contemplativo; è la Prakriti che lavora, genera e nutre. Quando una grave minaccia incombe sulle fondamenta stesse del Cosmo, gli dèi fanno appello alla Shakti (nel Sàmkhya Spirito e Natura prendono il nome di purusha e prakriti, nel tantrismo Shiva e Shakti) per scongiurarla.
Filosoficamente, la riscoperta della Dea è connessa con la condizione carnale dello Spirito nel kali-yuga (età del Ferro nella quale ci troviamo tuttora secondo i Veda). La dottrina tantrica è allora un’ulteriore rivelazione della Verità, destinata agli esseri umani di questa “epoca buia”, in cui lo spirito è profondamente velato dalla carne. E’ loro necessario partire dalle esperienze fondamentali e specifiche della loro condizione decaduta; ecco perché la ritualizzazione di certi atti della vita, il “cuore”, la “sessualità” servono da veicoli per accedere alla trascendenza. La carne, il Cosmo vivente, il Tempo costituiscono tre elementi fondamentali del sàdhana (percorso, pratica) tantrico.
Da ciò deriva una prima caratteristica del tantrismo: la tendenza anti-ascetica e, in generale, anti-speculativa. Poiché il corpo rappresenta il Cosmo e tutti gli dèi, poiché la liberazione non si può ottenere se non partendo dal corpo, è importante avere un corpo sano e forte. In alcune scuole tantriche, il disprezzo dell’ascesi e della speculazione si accompagna al rifiuto categorico di ogni pratica meditativa: la liberazione è la spontaneità pura.
Visto dal di fuori, il tantrismo sembrerebbe dunque costituire una “via facile”, che conduce gradevolmente e quasi senza ostacoli alla libertà. Tutti gli opposti sono illusori, il male estremo coincide con il bene estremo, la condizione di Buddha può – entro i limiti di questo mare di apparenze – coincidere con la suprema immoralità: tutto questo perché solo il Vuoto universale è, mentre tutto il resto è privo di realtà ontologica. La “facilità” della via tantrica è però più apparente che reale. In realtà il sàdhana tantrico si articola in un complesso liturgico al quale partecipano insieme immagini, gesti e suoni. Di fatto, la via tantrica presuppone un lungo e difficile sàdhana che talvolta ricorda le difficoltà del percorso dell’alchimista.
Per la metafisica tantrica la realtà assoluta racchiude in se stessa tutte le dualità e le polarità riunite, reintegrate, in uno stato di assoluta Unità. La Creazione e il divenire che ne procede rappresentano la deflagrazione dell’Unità primordiale e la separazione dei due princìpi (Shiva-Shakti, ecc.); si sperimenta, di conseguenza, uno stato di dualità (oggetto-soggetto, ecc.) ed è la sofferenza, l’illusione, la “schiavitù”. Lo scopo del sàdhana tantrico è la riunione dei due princìpi polari nell’anima e nel corpo stesso del discepolo.
Le immagini divine costituiscono nel tantrismo un universo “religioso”, che è necessario penetrare e assimilare. L’interiorizzazione dell’iconografia non può certo realizzarsi senza la disciplina yoga, senza dhàrana e dhyàna.
I “suoni mistici” noti e praticati da sempre e spiegati già nei Bràhmana e nelle Upanishad, i mantra e le dhàranì (queste ultime sono suoni per lo più senza significato probabilmente utilizzati e affinati durante meditazioni dirette dal pranayàma), nel tantrismo buddhista e shivaìta hanno per la prima volta dignità di Veicolo di salvezza. Il valore pratico e l’importanza filosofica dei mantra investono due ordini di fatti: la funzione yoga dei fenomeni, utilizzati come “sostegni” per la concentrazione; e, apporto propriamente tantrico, l’elaborazione di un sistema gnostico e di una liturgia interiorizzata che rivaluta le tradizioni arcaiche sul “suono mistico”. Un mantra è un “simbolo” nel senso arcaico del termine: esso è, nel medesimo tempo, la “realtà” simboleggiata ed il “segno” simboleggiante.
Tra il Veicolo di salvezza-suono e l’iconografia esiste una perfetta corrispondenza; infatti, ad ogni piano e grado di santità corrispondono una immagine, un colore ed una lettera ben precisi.
Il corpo umano acquista nel tantrismo un’importanza mai raggiunta nella storia spirituale dell’India. Il pessimismo e l’ascetismo delle Upanishad e dei periodi seguenti sono aboliti. Il corpo non è più la “sorgente dei dolori”, ma lo strumento più sicuro e più completo che l’uomo ha a sua disposizione per “conquistare la morte”. Deve essere conservato il più a lungo possibile, ed in perfetto stato, per facilitare la meditazione. Si possono distinguere due orientamenti: 1°, l’importanza attribuita all’esperienza totale della vita come parte integrante del sàdhana; 2°, la volontà di dominare il corpo per tramutarlo in un “corpo divino”: quest’ultimo è l’atteggiamento dello Hathayoga.
La comparsa dello Hathayoga è legata alla figura di un asceta, Gorakhnàth, del XII secolo o prima, fondatore di un ordine, i Kànphata-yogi. Il termine Hathayoga indicò in seguito l’insieme delle formule e discipline tradizionali per dominare perfettamente il corpo. Secondo una tradizione la via concreta delle pratiche poi conosciute come Hathayoga (con la nozione di energie sottili e con i nomi che noi oggi usiamo per le posizioni) era già stata proposta nel VI secolo come parte del cammino spirituale, non strettamente iniziatico e aperto a tutti, dal saggio Nàthamuni.
Nei testi classici dello Hathayoga c’è poca giustificazione filosofica e la scrittura è sommaria; essi sono quasi completamente dedicati alle descrizioni e formule tecniche. Gli stati di coscienza corrispondenti ai diversi esercizi sono menzionati raramente e in modo rudimentale. Soprattutto la fisica e la fisiologia interessano gli autori. I testi insistono sul valore magico ed igienico delle àsana. Grande importanza è data alle purificazioni preliminari.
Un vero “potere” ottenuto dagli Hathayogi è la stupefacente capacità di controllare il sistema neuro-vegetativo, e l’influenza che essi possono esercitare sui loro ritmi cardiaci e respiratori.
E’ portato alla massima evidenza il simbolismo dell’uomo-microcosmo, già affermato nei Veda. La colonna vertebrale, immaginata dalla tradizione come un solo osso, è identificata con la Montagna-Asse cosmico; gli occhi, i “respiri” pràna e apana, i “canali sottili” ida e pìngala ai lati della colonna vertebrale, sono identificati con il Sole e la Luna, ecc.; l’energia cosmica e divina si trova, latente, nei chakra (cerchi, dischi, centri); l’energia vitale, sotto forma di “respiri”, circola attraverso le nàdì (canali, vene o arterie). Tali “vene” e “centri” si riferiscono in primo luogo a stati realizzabili esclusivamente con una straordinaria amplificazione della “sensazione del corpo”. Si tratta di un “corpo sottile” e di una “fisiologia mistica”; e tuttavia non vi è nulla di astratto, di concettualizzato, ma si tratta di immagini che esprimono esperienze trans-mondane. I testi ripetono con insistenza che nel non-iniziato le nàdì sono divenute “impure”, “ostruite” e che è necessario “purificarle” con gli àsana, il pranayàma e le mudra.
L’ida e la pìngala portano i due “respiri”, ma anche tutta l’energia sottile del corpo: esse non sono mai puramente e semplicemente dei “vasi” o “canali”, degli organi fisiologici. Una chiave di tale simbolismo delle nàdì è la possibilità, per mezzo dei “respiri” e “canali sottili”, di distruggere il Tempo creando così la condizione della morte e rinascita iniziatiche. Il/la praticante vuole unificare la “Luna” e il “Sole” e, per far questo, si serve della “via di mezzo” (ossia riesce ad attivare il “canale sottile” centrale o sushumna, situato tra ida e pìngala). Alla sommità del capo, nel settimo chakra, alla fine egli/ella sperimenterà l’unione finale di Shiva e Shakti, scopo del sàdhana tantrico: là sbocca la Kundalini (“energia”, Dea, serpente dimorante nel corpo, che accumula in sé gli attributi di tutti gli dèi e dee, normalmente dormiente) dopo aver attraversato i sei chakra inferiori, risvegliata per la grazia del maestro (guru) e, tecnicamente, soprattutto dall’arrestare la respirazione (kumbhaka) in una speciale posizione del corpo (àsana, mudra). Il settimo chakra non appartiene più al livello del corpo, e indica già il piano trascendente. A proposito del significato profondo della tecnica, occorre considerare che il salto di livello, il raggiungimento della trascendenza, è provocato da un arresto “violento”, innaturale e prolungato (l’arresto della respirazione): ossia, se il Tempo e la Vita scorrono normalmente non si hanno esperienze trascendenti, ma se il tempo è sospeso grazie al kumbhaka la Vita è “preservata” dal consumarsi e Kundalini, l’Energia del trascendente, si manifesta.
Il discepolo non si identifica solamente con il Cosmo, ma arriva a riscoprire nel suo corpo la genesi e la distruzione degli Universi.
Fonte: http://web.tiscali.it/yoshpi1/yo2_it/disp%20yoga%20avanzato.doc
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