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Corso base di fotografia, parte I
A cura di Carlo Righetti
Fotografare è una questione di scelte: scegliere il soggetto, il punto di ripresa, l'ottica adatta, e molte altre variazioni, tutte egualmente importanti e significative, tutti questi fattori possono essere gestiti con "rotelle" "bottoncini" che azionano strumenti meccanici o elettronici propri di ogni apparecchiatura, altre scelte possono essere influenzate dai luoghi, dagli eventi temporali o dal nostro modo di pensare.
Con calma cercheremo di affrontare ogni sfumatura di quest'arte, ma da qualche parte dobbiamo cominciare e una prima cosa importante su cui dobbiamo riflettere è:
Come intendo impiegare il risultato dei miei "scatti"?
Anche se è vero che le strade percorribili per giungere ad un risultato finale sono varie, è anche vero che se avremo già alcune idee chiare in testa, potremmo già rivolgere la nostra attenzione ad acquistare il materiale di consumo più idoneo e risparmiare tempo e denaro.
La risposta a questa domanda ci dovrà dare indicazioni su dove e come intendiamo "congelare" le nostre "foto", il sistema idoneo di archiviazione; quale sia la finalizzazione dei nostri lavori, se intendiamo farne un uso domestico o pubblico, quindi compiere il primo passo per iniziare: sapere cosa mettere nella nostra “borsa” fotografica, per quel “progetto”; magari simile a quello già perseguito sinora o magari diverso e nuovo, quindi attuabile con mezzi diversi.
Intendiamoci, qualsiasi scelta intrapresa all'origine può sempre essere trasformata in seguito, possiamo fotografare con una pellicola e poi scansirla e renderla digitale e viceversa, anche se dobbiamo pensare che ad ogni successiva trasformazione abbia a corrispondere un prevedibile decadimento di qualità; Quindi sarebbe meglio partire con il piede giusto ed un'attrezzatura idonea.
Le apparecchiature sono di due grandi famiglie: quelle che alloggiano le "vecchie" e "care" pellicole analogiche, ad effetto chimico, fotosensibili, e quelle che integrano un sistema per catturare le immagini (generalmente un sensore CCD (charge coupled device) più o meno sofisticato) e sono dotate di sistemi di memoria per l'archiviazione delle stesse.
Con questa prima classificazione possiamo cominciare a fare alcune riflessioni e cercare di mettere in risalto già alcune analogie e differenze:
L’analogia principale è che sia il sistema analogico che digitale hanno bisogno di sistemi per far sì che sul piano pellicola o sulla superficie del sensore si possa comporre un immagine (Obiettivo) ma che soprattutto arrivi una giusta quantità di luce e quindi entrambe le attrezzature sono costruite da un meccanismo che regoli il passaggio della luce (Diaframma) e da un meccanismo che dapprima protegga pellicola o sensore dalla luce e che successivamente, al momento dello scatto, gestisca il tempo necessario di esposizione alla luce (Otturatore Temporizzato)
Nelle macchine analogiche usiamo la pellicola, che si deve riposizionare ad ogni scatto (infatti prima dello scatto successivo la si fa avanzare in modo da proteggere il fotogramma già impressionato e preparare in posizione sul piano pellicola, situato proprio dietro l’obiettivo, un fotogramma ancora vergine).
Nelle macchine digitali è usato un sensore CCD che non cambia mai, ma viene anch’esso impressionato, però, dopo lo scatto, l’elettronica, fornita della macchina digitale, archivia o su memoria interna o su schede magnetiche estraibili l’immagine impressionata sul CCD, lo risensibilizza (sempre elettronicamente) per prepararlo ad essere nuovamente esposto.
Canon 300 S
Per questa stretta somiglianza i costruttori di apparecchi fotografici hanno trovato relativamente semplice alloggiare CCD ed elettronica necessaria nella zona della scocca dapprima destinata al piano pellicola delle macchine tradizionali e poterne così sfruttare la struttura dei corpi macchina già prodotti ed i relativi sistemi di ottiche intercambiabili.
Canon 300 D
Altre considerazioni:
Con il sistema analogico la nostra attrezzatura potrebbe restare la medesima nel tempo, senza preoccuparci di invoglianti evoluzioni; le caratteristiche tecniche di questi apparecchi non danno differenze sostanziali, il nostro pensiero, in questa fase, sarà rivolto solo alla pellicola da usare, che sarà quella cosa che determinerà le differenze.
Provocatoriamente potremmo definire sempre "attuali" i nostri vecchi "corpi macchina", in quanto la crescita tecnologica e qualitativa in questo campo riguarda il "fresco" rullino, quindi, utilizzandolo, magari con la medesima ottica, anche con un'antica macchina meccanica ci si porrà alla pari ed avere i medesimi risultati di una moderna elettronica.
Attenzione, la pellicola è un componente di primaria importanza, non vale la pena risparmiare pochi Euro sul suo acquisto e sul suo trattamento e soprattutto ricordate che le pellicole hanno una data di scadenza (per legge visibile sullo scatolino), e per la loro conservazione è consigliato l'immagazzinamento in luoghi freschi.
I professionisti usano mettere in frigorifero le loro pellicole di qualità, questo permette di usarle senza rischi anche dopo (ma comunque non molto dopo) la scadenza.
Al contrario, diffidate dei rullini venduti alle bancarelle, nelle piazze assolate e vulnerabili dal calore estivo, e non dimenticate mai i vostri rullini "vergini" o gia "esposti" in autovettura (un po' di tempo lasciati a "cuocere" a 40° e la vostra data di scadenza a lungo termine non ha più senso.
Con il sistema digitale non saremmo vincolati ad avere pellicole dalle diverse sensibilità a corredo; il sistema di queste apparecchiatura generalmente ci permette di entrare in un "menu", più o meno sofisticato, e per variare la qualità e la modalità dei nostri scatti, non dovremo più porci il dilemma di quale pellicola caricare e quindi tutto questo ci sembrerà una semplificazione, salvo che poi, in alcuni casi, dovremo ricorrere all’elaborazione a computer per migliorare o correggere le nostre foto.
Provocatoriamente, sino a che i grandi costruttori non ci proporranno un sistema funzionale ed economico per la sostituzione dei sensori (ma credo che a loro non convenga), le macchine digitali ci soddisferanno appieno sino a quando non verrà presentato il nuovo modello, con la conseguente evoluzione tecnologica e dalle sostanziali migliorie; purtroppo ci troveremo spesso e malvolentieri ad avere "macchine" digitali non attuali, tanto da doverci sentire penalizzati rispetto all'amico con il portafoglio sempre gonfio.
(La mia speranza è che, proseguendo questo corso, voi abbiate a comprendere che non serve dare troppa importanza a ciò che apparentemente vale di più in quanto costa di più, ma siate consapevoli che spesso la differenza la fate voi come persone che valutano e decidono scelte di altra natura).
Cominciamo a parlare di pellicole e della loro classificazione in quanto spesso, anche nei menu delle macchine digitali per alcune impostazioni, per esempio, ci si rifà come concetto alla sensibilità espressa in ISO, caratteristica dei rullini fotografici.
Le Pellicole
Anche qui esistono due grandi classificazioni: positive e negative.
Meriterebbe una citazione di riguardo anche una terza soluzione, il sistema di pellicole a sviluppo immediato rappresentato dalla famosa pellicola POLAROID, ma ad essa vale la pena dedicare una “finestra” di riguardo quando si dovrà parlare di fotografia creativa.
Pellicole Positive, "invertibili", in altre parole la Pellicola per Diapositive, definita positiva in quanto viene riportata ed ottiene un effetto "positivo" visibile direttamente sulla pellicola grazie ad un processo chimico particolare che gli addetti ai lavori identificano con la sigla "E-6" o "CR-56".
In realtà questa stessa pellicola si "negativizza" con la luce, infatti se trattata con il processo chimico per negative se ne otterrebbe comunque una negativa, anche se con strani, particolari, ma forse anche interessanti, effetti cromatici.
Il suo utilizzo è normalmente destinato alla creazione di proiezioni con sequenze di immagini, ideali per la presentazione su schermo ad un pubblico, con la possibilità di creare proiezioni semplici, gestite manualmente dall'autore sino alla realizzazione di multivisioni o diaporami, caratterizzate dall'utilizzo di più proiettori, gestiti da centraline e accompagnati da diffusione audio, che creano veri e propri spettacoli.
Le Dia diversificano per sensibilità e conseguente qualità della "Grana"; per immagini a Colori o in Bianco&Nero (quest'ultimo caso di rarissima reperibilità); per un'utilizzo in luce diurna o artificiale.
Nella realtà è naturale avere situazioni di luce diverse e con particolari dominanti, questo è dovuto alla differente temperatura colore riscontrabile nelle varie ore del giorno o in situazioni particolari.
Ad esempio all’alba e al tramonto la temperatura colore è notevolmente più bassa che durante la giornata e questo dà origine ad una luce dalla forte dominante rossastra.
Anche nella situazione di un interno serale, illuminato da normali lampadine ad incandescenza, si ha una fastidiosa contaminazione rossastra sulla pellicola.
Le Diapositive non potendo sfruttare il secondo passaggio espositivo caratteristico delle negative e che spesso viene usato come passaggio correttivo per le varie dominanti, devono essere costruite e tarate per usi specifici.
In breve esistono pellicole positive per luce diurna e per luce artificiale, queste ultime sono maggiormente arricchite di un’emulsione azzurra che compensa artificialmente la diversa tonalità di luce.
Sempre per l’utilizzo delle Dia è possibile utilizzare quelle strutturate per luce diurna in situazione di luce artificiale, correggendo con un filtro azzurro da mettere davanti all’obbiettivo in fase di ripresa, oppure utilizzando un Flash.
Tabella della temperatura colore
(espressa in KELVIN)
Da una "Dia" (diapositiva in gergo) è comunque possibile ricavarne delle stampe di ogni dimensione anche se segnaliamo un aumento dei costi per la realizzazione e un più difficile controllo dei risultati cromatici.
Una Dia non ammette sbagli, ne di esposizione, ne di inquadratura, il risultato del nostro scatto accompagnato dalle nostre scelte tecniche viene riportato fedele ed intelaiato pronto alla visione.
Strumento ideale per imparare seriamente a fotografare in quanto ci conduce a fare riflessioni sul modo di operare e mette anche in risalto i limiti della nostra attrezzatura.
Pellicole Negative, sino all'avvento del digitale sono state di gran lunga il materiale fotografico più diffuso, il loro utilizzo è necessariamente accompagnato allo sviluppo e la stampa di fotografie normalmente nel formato "cartolina".
Tra le scelte possibili del rullino vengono offerte emulsioni per stampe a Colori o per il Bianco&Nero (la tecnica preferita dai "Puristi", da coloro che ricercano le origini della fotografia e amano immergersi nella "magia" della Camera Oscura), ed è disponibile nelle varie sensibilità; mentre non ha diversificazione per un utilizzo con le varie situazioni cromatiche della luce.
La pellicola negativa ha ancora, rispetto alla "concorrenza", una migliore "armonia" nei dettagli, molto mordida e duttile, adatta per i grandi ingrandimenti; molto “reale”, le sfumature di colore le modella e le plasma la luce stessa per effetto chimico diretto sulla "lastra" e non risulta essere un codice RGB o esanumerico rielaborato.
La Negativa si presta inoltre, nelle mani di professionisti, a compensare molti errori di esposizione ed inquadratura dal momento che il risultato finale si ottiene con due processi:
Il primo processo chimico, che di norma viene identificato con le sigle "C-41" o "CN-16", serve a rilevare e fissare l'immagine negativa sul supporto della pellicola; Il secondo processo serve per riportare l'immagine da negativa a positiva, stavolta su un supporto cartaceo (anch'esso rivestito di materiale chimico fotosensibile), ne consegue che questo secondo passaggio in più rende il lavoro gestibile per eventuali correzioni, ma anche alle elaborazioni cromatiche e personalizzazioni.
La sensibilità:
Precedentemente, più volte, è stato citato il termine “sensibilità” a proposito delle pellicole; Cos’è?
La sensibilità è la capacità dello strato di materiale chimico che riveste la pellicola di reagire più o meno rapidamente alla luce.
Il materiale chimico, possiamo generalizzare, è formato da elementi come i cristalli di alogenuro d'argento che vengono stesi sul "Film".
Questi "grani" hanno svariate dimensioni e la loro fotosensibilità è direttamente proporzionale alla loro grandezza, più sono grandi più reagiscono velocemente alla luce, quindi più sensibili, ma per contro determinano una minore nitidezza dei dettagli dell'immagine.
Le pellicole a grana grossa (es. 1600/3200 ISO) sono più rapide e consentono, o comunque facilitano, riprese in presenza di luce scarsa.
Le pellicole a grana fine o finissima (es. 100 ISO o 50 ISO) sono più "lente" ed hanno bisogno, per un impiego a mano libera, di avere scene illuminate da buona luce o di un’esposizione prolungata, ma ripagano con una qualità ottima.
La nomenclatura: ASA, DIN, ISO
La necessità di fornire al fotografo un prodotto standardizzato da utilizzare con sicurezza potendo avere sempre dei buoni e controllati risultati, ha obbligato i produttori a commercializzare dei materiali classificandoli per sensibilità e dando loro un valore nominale che serviva la fotografo per regolarsi in fase di esposizione.
Proviamo a pensare che agli inizi del 1900 vi erano evidenti contrasti social-nazionali tra gli stati Europei ed ognuno di questi non era propenso a condividere tecnologie e sistemi con altre realtà e di fatto, a quel tempo, erano diffusi i prodotti principalmente realizzati negli USA (es. Kodak) ed in Germania (es. Agfa); Questi stessi produttori avevano imposto (ognuno per la propria produzione) dei criteri di riconoscimento delle pellicole.
In commercio, fino quasi alla fine del XX° secolo, si trovavano rullini con la dicitura del valore della sensibilità espresso in ASA (American Standards Association) o espresso in DIN (Deutsche Industrie Normen).
Per molti anni, soprattutto grazie anche alla recente ed apprezzata convivenza tra stati, i due sistemi comparivano affiancati sulle confezioni di tutti i produttori (es. si commercializzavano pellicole che indicavano 100 ASA / 21° DIN);
Ai giorni nostri questo è solo un ricordo e una curiosità didattica, il tutto è stato unificato e ora ogni pellicola si presenta semplicemente con la nomenclatura ISO (International Standardization Organization); anche se ancora oggi conviene parlarne, essendoci ancora la possibilità di poter aver tra le mani una macchina fotografica "vecchia", magari da collezione ma funzionante, dove dover impostare manualmente la sensibilità della pellicola introdotta e sull’apposita ghiera trovare, ovviamente, i valori ASA e DIN.
ASA è una scala di tipo aritmetico (il raddoppiare del numero indicato equivale al raddoppiare della sensibilità della pellicola";
DIN è una scala logaritmica indicata da un numero affiancato dal simbolo " ° ". Tale numero ha incrementi di 3 unità per ogni raddoppio di sensibilità.
ISO: una sorta di unificazione delle altre due, riprodotta attraverso l'indicazione di ASA e DIN separate da una barra ( / )
una pellicola da 100 ASA corrisponde a 21 DIN; tradotto nello standard ISO: 100/21°
I Formati:
Per finire questa lunga carrellata di varianti che identificano le pellicole, non ci resta che parlare dei diversi formati che caratterizzano le diverse confezioni dei rullini.
Il perché di questa nuova complicazione è presto detto: la ricerca di una maggiore qualità, non solo per uso professionale, per quelle fotografie che richiedono stampe di grandi dimensioni o dalla finissima definizione.
Quando un produttore di materiale fotosensibile produce un emulsione con una grana fine e che per convenzione risponde ad esempio allo standard di una sensibilità ISO 100/21°, la stessa grana può essere distesa su un rettangolo di pellicola di 24x36 mm. oppure anche su una superficie maggiore, col risultato che per una stessa inquadratura fotografica una pellicola più grande utilizza proporzionalmente un maggior numero di pigmenti, dando seguito ad una maggiore definizione.
Es.: una pellicola di formato 24x36 mm. (comunemente anche chiamata 35 mm.) offre una superficie per l’esposizione pari a 864 mm2, mentre una pellicola 6x6 cm. ha una superficie di 3600 mm2, quindi circa 4 volte superiore e conseguentemente carica di un numero di pigmenti fotosensibili quattro volte superiore (per fare un paragone con gli estimatori del moderno digitale, è come se in un caso si avesse a lavorare con un sensore che al massimo offra 3 Megapixel e nell’altro si abbia a disposizione un sensore di 12 Megapixel).
Ovviamente i diversi formati di pellicole possono essere caricati solamente da attrezzature dedicate e non sono intercambiabili.
Medio formato – 6x6
Grande formato – 10x15
Il formato Digitale
Fare una descrizione delle caratteristiche del formato digitale è molto più semplice e risulta un percorso meno contorto.
Tutto è definito da un sensore CCD che è integrato dall’apparecchiatura e le sue caratteristiche determinano i limiti sino a cui si può arrivare come qualità d’immagine.
CCD
Charge Coupled Device = Dispositivo ad accoppiamento di carica
Si tratta di un sensore in grado di misurare la luce; i segnali analogici del sensore vengono inviati ad un convertitore che li trasforma in serie di bit.
Semplificando, si può dire che ogni punto del sensore restituisce generalmente 8 livelli di bit per ogni colore primario (RGB ossia Rosso Verde e Blu), per un totale di 24 bit (equivalenti ad oltre 16 milioni di colori).
I sensori CCD delle diverse fotocamere digitali sono caratterizzati da un certo numero di punti sensibili alla luce (pixel). Il numero totale di punti viene denominato risoluzione e viene espresso dal prodotto dei punti in orizzontale e in verticale.
Bisogna distinguere tra risoluzione fisica del sensore e risoluzione effettiva dell'immagine finale: per vari motivi tecnici una parte dei pixel esterni del sensore non vengono utilizzati per la memorizzazione dell'immagine finale. Per questo motivo si parla di categoria di appartenenza del CCD, facendo riferimento a tutti i pixel che possiede.
Ad esempio, un CCD della categoria di 2,11 megapixel (milioni di punti) crea un'immagine effettiva di 1600x1200=1.920.000 punti; i pixel equivalenti alla differenza tra 2.110.000 e 1.920.000 vanno persi.
Spesso generalizziamo parlando e portando a esempio il sensore CCD, mentre i produttori sono sempre alla ricerca di nuove soluzioni e tra queste segnaliamo anche i sensori CMOS
CMOS
Complementary Metal Oxide Semiconductor = Metallo ossido semiconduttore ad accoppiamento complementare
Tecnologia di semiconduttori utilizzata nella costruzione di sensori per fotocamere digitali.
A differenza dei sensori CCD, quelli CMOS consumano pochissima energia elettrica ma sono più lenti.
Il CCD delle fotocamere digitali, così come per gli scanner in generale, è basato su piccolissimi elementi fotosensibili detti pixel, organizzati o su una superficie (CCD a matrice rettangolare) o su un’unica linea (CCD lineari); i primi servono per la registrazione simultanea di tutta l’immagine formata dall’obiettivo (fotocamera); i secondi “scorrono” sull’immagine registrandola in tempi lunghi (scanner)
1,3 Megapixel / 2,1 Megapixel / 3 / 5 / 6 / 8 Megapixel, e ancora non sappiamo sino a dove l’elettronica può spingersi; Questi valori rappresentano la quantità di pixel disposti sulla matrice
Esempio: un sensore che riesce a scansire un immagine formata da 1024x768 (larghezza per altezza) sarà composta da circa 800.000 pixel, mentre una acquisizione che arriva a 2048x1536 ha circa 3.200.000 pixel (3,2 megapixel).
Così come già accennato per il formato analogico una maggiore quantità di pixel corrisponde proporzionalmente ad una maggiore qualità finale.
Una curiosità da fonti scientifico-giornalistiche: come termine di paragone con la risoluzione della pellicola tradizionale si può ragionare così: pellicola 24x36 =CCD da 2400x3600 pixel (8,64 Megapixel)
Seppure la tecnologia digitale riesca a correggere in tempo reale le variazioni di dominanti cromatiche potendo fare delle misurazioni di bilanciamento del bianco, come con una videocamera, ovviando così ai problemi propri delle pellicole, dal punto di vista della sensibilità anche il sensore CCD ha i suoi limiti a lavorare in situazioni di scarsa luce.
Simulazione degli ISO:
Quasi tutte le fotocamere digitali prevedono un impostazione automatica o manuale degli ISO (100 / 200 / 400 ISO e a volte anche 800 iso o più).
Possiamo dire che sia una simulazione che effettua il sistema digitale ed i valori credo siano parametri di confronto con il sistema analogico, mantenuti tali per non gettare in un mare di confusione chi passa da un sistema all’altro e deve avere dei dati di paragone; in pratica un impostazione a 400 ISO rispetto ad un 100 ISO permette al sensore di lavorare più velocemente, di essere meno preciso, a discapito di una definizione ottimale; in gergo, aumentando la sensibilità si tollera che il sistema abbia dei difetti di scansione e dia vita al “Disturbo Elettronico” che assomiglia molto all’effetto “Grana Grossa” delle pellicole.
Le schede di memoria
Spiegare cosa sono è semplice, basterebbe dire che sono il sistema di archiviazione dei files che contengono le informazioni che compongono l’immagine digitale; non serve molto anche a comprendere che hanno una loro capacità, che è sarebbe sempre meglio che fossero il più capienti possibile per poter avere a disposizione il maggior numero di scatti utili; invece, . . . . ., invece non è così tutto semplice, ci hanno pensato i produttori a creare casini e a farci venire molti dubbi prima di fare un’acquisto.
Premesso che in questo campo, il digitale, qualsiasi dato io valuti ora rischia di divenire un trattato obsoleto nel giro di un mese a causa della velocità di come cambiano le cose.
Apro una parentesi perché, per far capire alcune cose, bisogna ripercorrere un po’ la storia del digitale:
Quando, agli inizi degli anni ’90, cominciava a muoversi il digitale, i vari produttori capirono che questo nuovo mondo gli avrebbe dato molte soddisfazioni economiche e nessuno aveva l’intenzione, qualora fosse riuscito a trovare la tecnologia giusta, di dividere la “torta” con la concorrenza; quindi, ad esempio, Canon cominciò a sperimentare da sé, o al limite cercò la collaborazione di partners apparentemente non concorrenti come Kodak piuttosto che di qualche colosso elettronico; alla stessa maniera si mossero Nikon, Olympus, Minolta, e quant’altro; ci furono intrecci commerciali che a volte vedevano una multinazionale collaborare con un partners ma anche con il concorrente di quest’ultimo; ci fù chi volle fare da sé come Sony o Fuji, . . . . . , risultato: una moltitudine di sistemi diversi, non unificati, non intercambiabili tra loro.
Nulla di preoccupante, non ci hanno cambiato la vita, però, in un corso di fotografia, ritengo sia opportuno dare consigli a chi si appresta a nuovi acquisti, per evitare che magari nella stessa famiglia si abbiano due attrezzature che tecnologicamente non possono condividere gli stessi accessori.
Conclusione: alla fine di questa storia possiamo dire che ormai tutti i produttori, elettronicamente, offrono prodotti egualmente validi; se non siamo interessati a strumenti professionali dai costi importanti, non dovremo preoccuparci molto di quale modello scegliere, con quali ottiche, quali tasti e tastini, ma di quale sistema utilizzano per archiviazione; perché poi, una volta fatto l’acquisto, il materiale di consumo più importante diventano le schede di memoria, e tra un sistema e un altro, oltre che avere prezzi molto diversi, hanno anche reperibilità diversa presso i centri commerciali; conviene quindi sempre chiedere informazioni agli addetti alla vendita per sondare da che parte il “mercato” si stia movendo.
Attualmente i modelli delle schede di memoria sono:
Compact Flash, sigla CF
Secure Digital Card, sigla SD
Smart Media, sigla SM
Memory Stick, sigla MS
MultiMedia Card, sigla MMC
XD Picture Card, sigla XD
ed altre ancora
Un’ulteriore consiglio che riguarda le schede di memoria è rivolto alla scelta della loro capacità.
Avere una scheda di memoria capiente è importante.
A volte non sfruttiamo al massimo la dimensione in Pixel perché quando rivediamo le nostre immagini in un monitor impostato a 1024x768 pixel, già un immagine di misura doppia ci appare molto grande.
Se il nostro utilizzo è quello di una visione a PC o video allora tutto OK e per questa misura il sistema della fotocamera salverà i files in formato JPG che ricavandone delle immagini “leggere” in termini di memoria e allora anche una scheda da 128 MB risulta essere sufficiente per la gita domenicale.
Se però ci prefiggiamo di perseguire la qualità massima della nostra attrezzatura, allora anche nel formato JPG (che è un metodo di “compressione” delle immagini) le nostre “memorie” saranno messe a dura prova; ancor di più se impostiamo un salvataggio delle immagini nei formati TIF o RAW, i formati di livello qualitativo assoluto.
Ecco che allora, spesso, ci sentiremo tentati di prendere la scheda di memoria più capiente che il mercato propone.
Voi guardate alla convenienza, fate pure i conti con le vostre “tasche” (ovviamente), ma considerate anche quest’aspetto: le schede di memoria non sono eterne ed essendo la scheda un supporto magnetico hanno le stesse problematiche dei vecchi floppy; sono a rischio di perdita dei dati; consigliarvi di affidare tutte le immagini del vostro irripetibile viaggio ad un solo supporto magnetico non me la sento; ad esempio, invece di investire i soldi in una scheda da 1 Gb preferirei spenderli per due da 512 Mb o quattro da 256 Mb, oppure attrezzarsi con qualche pratico modello di Hard Disk portatile, in modo da mettere sempre al sicuro il lavoro appena fatto, almeno avremo la certezza di portare a casa qualcosa.
Fonte: http://www.gfclick.it/pagine/dispense/corso/1-supporti.doc
autore: Carlo Righetti
link sito web : http://www.gfclick.it
Corso base di fotografia, parte I I
A cura di Carlo Righetti
Una corretta esposizione
Dopo aver preso in esame le pellicole e i sensori CCD passiamo a capire i criteri di una giusta esposizione.
A dir la verità mi aspetto che qualcuno mi dica: < Ma io ho speso soldi per avere un’attrezzatura tutta automatica e “intelligente” e . . . >.
Calma, per quanto intelligente la vostra macchina non sa che cosa voi desiderate, ma “suppone”, si imposta per un utilizzo senza rischi proponendo criteri di scatto per non sbagliare le fotografie.
Ma cosa vuol dire foto sbagliata?
Forse che un mosso ricercato è una foto sbagliata? oppure, come fa la vostra macchina a sapere che noi l’abbiamo stabilmente fissata su di un cavalletto e che desideriamo ed abbiamo la certezza di un risultato usando un tempo d’esposizione lungo?
La macchina non sa cosa noi perseguiamo.
E ancora, . . ., la nostra attrezzatura super automatica ci mette a disposizione dei programmi, ad esempio, studiati per agevolarci in una situazione di fotografia sportiva oppure un “computerino” integrato ci imposta la macchina per la fotografia paesaggistica; in pratica il primo privilegia l’utilizzo di tempi veloci, il secondo base le sue scelte preferendo l’utilizzo di messa a fuoco più estesa sfruttando il diaframma.
E se da questo corso scoprissimo che a volte il sistema usato dal programma per la foto sportiva va bene anche per il ritratto, che quello per il paesaggio, in certe situazioni, è indicato per la foto sportiva? . . ., anzi, io mi sbilancerò affermando che spesso è molto meglio di quello ad essa dedicato.
In realtà dopo questo corso nessuno vi vieterà di far ricorso alle “comodità” che la tecnologia ci mette a disposizione, ma conoscere come avvengono le cose ci aiuterà a scegliere per il meglio.
Premessa:
da qui in avanti parleremo solo della pellicola prendendola come esempio e metro di paragone dei “materiali” fotosensibili in uso, in senso generico, avendo chiaro il concetto che anche il sistema digitale, per una giusta esposizione, ha analogie e stesse problematiche del sistema analogico e che quindi eviteremo tutte le volte di ripeterci.
Cominciamo!
Per ora l’unica certezza, cominciando a fotografare, sarà il sapere le caratteristiche della pellicola caricata o a che sensibilità di lavoro abbiamo impostato la nostra “digitale”; il resto è tutto relativo e variabile, a cominciare dalle situazioni di luce.
Dobbiamo per forza aprire una parentesi e sapere che esiste per noi un vincolo attorno a cui ragionare.
La pellicola è stata costruita con precisi criteri e meticolose alchimie ed la sua produzione è stata standardizzata per poter commercializzare dei materiali dalle caratteristiche del tutto uguali ad altri che, con uno stesso codice ISO, definiscono un ben preciso prodotto.
In sostanza possiamo essere certi che un rullino 100 ISO di Fuji ha le stesse caratteristiche di sensibilità alla luce del rullino siglato 100 ISO di Kodak e così via.
In questo modo noi sappiamo ed abbiamo la certezza (ed il nostro vincolo) che il nostro fotogramma, per essere “impressionato” nel modo corretto, ha bisogno di una giusta e precisa “Quantità di Luce”; se ciò non avvenisse la nostra immagine risulterebbe troppo SCURA (SOTTOesposta) nel caso in cui la luce pervenuta al piano pellicola risultasse insufficiente; mentre otterremmo delle immagini troppo CHIARE (SOVRAesposte) nel caso facessimo arrivate molta più luce del necessario alla nostra pellicola.
Per fare un esempio, noi dobbiamo immedesimarci in un cuoco che mettendo la sua torta nel forno, avrà un piacevole risultato programmerà di cuocere il suo “capolavoro” fornendogli la giusta quantità di calore, il risultato non dovrà ne essere un impasto ancora crudo ne un “coso” bruciato.
Chiarito qual è la nostro compito ci appresteremo ad attuare delle scelte sapendo che avremo una variabile piuttosto incostante e a volte incontrollabile: la luce; più due strumenti che noi potremo controllare e gestire che sono il Diaframma e l’Otturatore.
Il primo lavoro ora è misurare la luce con un esposimetro.
L’esposimetro.
L’esposimetro è uno strumento per misurare la luce.
L’esposimetro trova applicazione anche in molti altri campi; a seconda dei casi può essere tarato per dare indicazioni espresse in Watt (come nel campo dell’illuminazione civile), in Lux (come nell’ambiente della cinematografia e delle videocamere) ed in EV (Esposition Value) come nel nostro campo.
EV 8, in campo fotografico, sarà relativo ad una certa situazione di luce; un Valore Esposimetrico che avrà un numero più alto nel caso in cui ci sia un aumento di luce; un EV con indice numerico minore sino ad avere valore Zero o anche numero negativo in caso di scarsità di luce.
Come viene misurata la luce?
Esistono due modi principali di misurazione della luce: a LUCE INCIDENTE e a LUCE RIFLESSA.
La misurazione della luce incidente avviene posizionando il nostro strumento nella posizione in cui “staziona” il soggetto da riprendere, sul set della nostra inquadratura, valutando con l’esposimetro la luce che incide sul posto; in pratica l’esposimetro si sostituisce al soggetto nella scena; questo metodo è particolarmente utilizzato negli studi fotografici e per l’uso si applica davanti alla fotocellula uno schermo diffusore opalino (tarato e a corredo dello strumento) dalla forma semisferica per ampliare maggiormente l’angolo di lettura della luce.
La misurazione della luce riflessa avviene valutando una luce che risulta essere indiretta rispetto alla posizione dell’esposimetro, la luce che riflettono i nostri soggetti; misureremo la luce non più mettendoci al posto del soggetto verso la luce, ma direttamente dal punto di ripresa verso il soggetto; la luminosità degli stessi, non come sorgente di luce ma la loro capacità di riflettere la luce.
Gli elementi fotosensibili utilizzati nei vari periodi sono stati diversi: alcuni che grazie alla loro reazione alla luce generano un piccolo impulso elettrico misurabile (fotocellula al Selenio), altri che si comportano come una resistenza e quindi grazie ad un circuito alimentato da una pila registrano l’intensità della luce (la più affidabile fotocellula al CdS (Solfuro di Cadmio; le ultime generazioni di esposimetri utilizzano materiali come il silicio blu o l’arseniuro di gallio e la strumentazione è passata dagli “Aghi” analogici, ai Led, ai moderni display a cristalli liquidi.
Purtroppo il loro utilizzo è legato, come per quasi tutte le strumentazioni odierne, all’energia delle batterie; ricordate di portarvi sempre appresso una scorta di accumulatori.
Gli esposimetri sono impiegati separatamente, trovano alloggiamento nei corpi macchina e anche nei Flash.
L’esposimetro è generalmente strutturato per fornirci altre indicazioni:
Impostando il valore ISO che è il nostro punto di partenza, oltre che a darci il valore EV ci fornisce una “prima” coppia di valori relativi alla regolazione del diaframma e otturatore per una giusta quantità di luce da fornire alla pellicola.
Esposimetri manuali, per luce incidente e riflessa, analogico e digitale in grado di effettuare misurazioni Spot
Sono ormai molti decenni che le “moderne” fotocamere vengo corredate di esposimetro interno; dapprima una fotocellula inserita nel corpo macchina con un’apposita “finestra” all’esterno posta a leggere la luce riflessa sulla scena, poi, sempre più sofisticatamente, si arrivò a misurare la luce direttamente sul piano pellicola, via via con sistemi sempre più precisi.
Per varie scelte costruttive (e forse per semplificare) gli esposimetri interni alle macchine fotografiche non hanno praticamente mai reso noto l’indicazione della misurazione della luce espresso in EV ma, una volta impostato gli ISO di lavoro, passano direttamente a fornirci indicazioni per un giusto accoppiamento diaframma tempo.
Gli esposimetri moderni sono in grado di attuare misurazione in diversi modi:
Integrata: è la misurazione della luminosità media relativa all’intero zona inquadrata; forse la più inaffidabile in situazioni di luce critica.
Semi Spot: la valutazione della lettura è concentrata nell’area centrale dell’inquadratura, tenendo anche moderatamente conto del resto dell’immagine; la misurazione dai compromessi più bilanciati e ideale nei casi più frequenti.
Spot: misurazione della luminosità concentrata in una ristretta area di lavoro, per una selettività avanzata, dedicata ad un uso particolareggiato; necessita di una buona dose di esperienza e capacità tecnica, ma se seguita da un uso razionale può dare i risultati attesi.
Zonale o Matrix: la misurazione della luce avviene in varie zone dell’inquadratura, un software (diverso da modello a modello) elabora i dati e stabilisce la corretta esposizione; per affidarsi a questo modo di esporre è bene conoscere i criteri e le diversificazioni che il microcomputer elabora.
A volte ci capitano situazioni di luce davvero bizzarre, a volte sono i nostri stessi soggetti che ci mettono alla prova; ad esempio: provate a immaginare di ritrarre un gruppo, ma anche una coppia, con amici di colore diverso (in questa società multietnica diventa sempre più frequente), anche con uno “spot” cosa andiamo a misurare? . . . , il volto del nostro “fratello” del Senegal o il volto dell’amica Finlandese?
Diciamo che comprendere quale sia il metodo più idoneo è difficile e dipende dalle situazioni; di certo c’è che anche chi non possiede tutti questi sistemi, con la pratica trova sempre il rimedio per misurare la luce; a volte per esempio basta avere con sé un cartoncino di color grigio medio (18%) per risolvere il dilemma.
Tono medio e cartoncino grigio al 18% -
Tutti gli esposimetri vengono tarati sul potere riflettente di un cartoncino Kodak standard di colore grigio al 18% (= grigio medio).
Quindi, l'esposimetro di una fotocamera usata sul campo esporrà correttamente solo i soggetti o i particolari effettivamente di tono medio: un soggetto scuro verrà erroneamente 'letto' dall'esposimetro al pari di un grigio medio e il risultato sarà un soggetto più chiaro della realtà (il difetto di risposta esposimetrica produce una sovraesposizione).
Un soggetto chiaro verrà anch'esso 'letto' come grigio medio, per cui il risultato sarà un soggetto più scuro della realtà (l'eccesso di risposta esposimetrica produce una sottoesposizione).
Per ovviare, la misurazione può essere eseguita su aree dell'immagine già di per sé di tonalità media: erba, tronchi, campi, ecc. ;
Il palmo della mano è più chiaro di ~1 stop rispetto al grigio medio, per cui si può misurare il palmo rivolto alla luce come il soggetto, ma senza metterlo a fuoco, poi sovraesporre di 1 stop.
Regola pratica come semplice promemoria: aprire 1 mano per l'esposizione quindi aprire di 1 stop.
Altri esempi di tono medio: il cielo sereno in direzione del Nord nelle ore centrali del giorno
Altri esempi pratici di una compensazione manuale
se si fotografano soggetti scuri => sottoesporre
se si vuole scurire il soggetto => sottoesporre
se si fotografano soggetti chiari => sovraesporre
se si vuole schiarire il soggetto => sovraesporre
una situazione in cui ci sia da ricorrere ad una sovraesposizione è generalmente la ripresa in Controluce.
Suggerimento pratico: nel caso in cui un’attrezzatura analogica non presenti la possibilità di lavorare manualmente, e neppure abbia un selettore per una compensazione EV, forse potrebbe essere ancora fattibile sovra o sottoesporre ingannando l’esposimetro interno della macchina fotografica dandogli un’indicazione errata della pellicola in uso; ricordatevi però di ritornare alle impostazioni corrette dopo la sperimentazione.
Di certo c’è che alla fine ad una soluzione finale dobbiamo arrivare in quanto non abbiamo ancora a disposizione strumenti per lo scatto “modulabili”; quindi in automatico o ragionando, anche con più letture fatte dal nostro esposimetro in più punti, dovremo stabilire come lavorare ed impostare la nostra macchina fotografica per uno, ed un solo, valore EV, per un solo scatto.
Sempre che invece non decidiamo di avvalerci dell’esposizione a “Forcella” (bracketing), un metodo che prevede di fare una serie di scatti (in genere 3) prevedendo una foto sottoesposta, una foto esposta giusta secondo la nostra misurazione e una foto sovraesposta; sottolineo prevedendo, perché a volte lo scatto che avrebbe dovuto essere “sbagliato” invece poi risulta essere A NOI il più gradito.
Questa tecnica ha senso soprattutto se effettuata con le diapositive che devono dare un risultato diretto e definitivo per la visione e non possono essere corrette a posteriori.
Il Bracketing è anche una funzione del formato digitale, perché anche in questo caso, a monitor, è possibile una visione immediata e confrontabile; inoltre effettuare esposizioni a forcella con il digitale non ci costa nulla ed avere una ampia scelta di esposizioni potrebbe farci risparmiare tempo in seguito con le correzioni a computer; inoltre se le duplici immagini scattate ci creano problemi di memoria siamo sempre a tempo, dopo un’attenta valutazione, a “cestinare” le soluzioni che ci sembrano scadenti.
A questo punto mi viene da fare una riflessione sul trattamento della pellicola negativa: i "moderni" sistemi di sviluppo e stampa (minilab), che riescono a produrre foto sempre correttamente esposte a qualsiasi costo, spesso mortificano scelte creative del fotografo in fase di ripresa; fare delle curate sotto o sovraesposizioni in ripresa con le negative e poi farle stampare ai laboratori, automaticamente e senza specifiche, si rischia di riaverne come risultato tre inutili ed identiche immagini.
Per ottenere stampe ottimali e che rispecchiano le nostre interpretazioni comunicative è sempre bene avere un buon rapporto, magari diretto, con il laboratorio e possibilmente intendersi sulla base di “Provini” di stampa (in genere fotografie di piccolo formato).
Ora dobbiamo soffermarci un attimo a comprendere la tabella degli EV.
Questa è una tabella che forse nella pratica non incontrerete mai più, ma serve a farci capire che ad un valore EV corrispondono molte soluzioni di scatto.
La coppia Diaframma Tempo
Cominciamo a far la conoscenza con il Diaframma e l’Otturatore, e vediamo quale rapporto e legame reciproco hanno questi due strumenti.
Esempio: poniamo di dover riempire un bicchiere d’acqua, posto sotto al rubinetto domestico, sino ad una precisa misura; non può esistere un solo modo per raggiungere il risultato.
Possiamo decidere di aprire molto il rubinetto: l’acqua scorrerà con molta facilità ed in buona quantità; noi dovremo tenere aperta la “saracinesca” dell’impianto per pochissimo tempo.
Possiamo decidere di aprire molto poco il rubinetto: L’acqua potrebbe cadere anche goccia a goccia; ci metteremo molto, molto di più, anche con tempi doppi, quadrupli, . . ., elevati all’ennesima potenza, ma riusciremo lo stesso a riempire il nostro bicchiere; avremo comunque svolto il nostro compito.
Anche con gli strumenti della fotografia avremo molte soluzioni per far pervenire la giusta quantità di luce alla pellicola, con la differenza che mentre il bicchiere d’acqua riempito più o meno velocemente resta sempre lo stesso bicchiere d’acqua, in fotografia una diversa gestione dei meccanismi porterà ad uno stesso equilibrio e saturazione dei colori, ma ne cambierà significativamente le lettura dell’immagine.
In effetti potrebbe sembrare strano che ci si debba complicare la vita per una fotografia; potrebbe sembrare ovvio che di fronte ad una moltitudine di alternative per uno scatto la scelta debba rivolgersi verso quella che appare la più comoda; davanti ad una serie di proposte si potrebbe essere portati a scegliere al soluzione che prevede l’apertura del passaggio della luce il più aperta possibile per avere il vantaggio di essere il più rapidi possibile a congelare l’immagine.
A smontare le nostre aspettative c’è che in questo mondo una strada più difficile spesso ripaga, fotograficamente la scelta ci premia con un’immagine con una maggiore estensione dei soggetti a fuoco, o più correttamente, con una maggiore apparente nitidezza dei piani focali;
Avere una
MAGGIORE PROFONDITA’ DI CAMPO,
questa in gergo è la definizione per questa interessante alternativa fotografica.
Fonte: http://www.gfclick.it/pagine/dispense/corso/2-esposizione.doc
autore: Carlo Righetti
link sito web : http://www.gfclick.it
Corso di fotografia
Prima edizione: 1999
Seconda edizione: 2004
Prefazione alla seconda edizione.
Questo manuale ha lo scopo di dare una base per chi si accosta alla fotografia senza nessuna base teorica e pratica. La semplicità con cui ho tentato di affrontare e di spiegare gli argomenti fa di questo piccolo manuale una sorta di Bignami in cui si possono trovare le risposte alle domande più comuni.
Non ho la presunzione di pormi sul piano di autori professionisti, ma l’intento di fornire un semplice promemoria a chi non ha né il tempo, né la voglia di accostarsi alla fotografia tradizionale con eccessivo dispendio di energie.
Non sono trattati argomenti relativi alla fotografia digitale per mancanza di competenza.
Chiedo scusa a coloro che hanno esperienza nel campo e che possono ritenere “banale” questo breve Manuale.
La prima edizione è stata concepita come dispensa per coloro a cui ho insegnato a fotografare; per questo è schematica e sviluppata per argomenti chiusi e per punti.
La seconda edizione, corretta e ampliata in alcune parti, si differenzia per essere stata appositamente modificata per gli utenti internet.
Cristina Falla
Manuale Pratico di Fotografia Analogica
Parte prima
Conoscere l’attrezzatura e il suo funzionamento
Introduzione.
Il segreto per scattare delle belle foto è conoscere prima di ogni cosa la propria attrezzatura e il suo funzionamento.
Che cosa serve prima di tutto?
Cosa serve ad un fotografo è soggettivo, non esiste una distinzione tra fondamentali e optional. Diciamo che essenziale è possedere un corpo macchina, obiettivi che cambiano secondo il tipo di fotografia che si vuol fare, un flash portatile (per condizioni di luce avverse), un cavalletto stabile (il peso deve essere maggiore della fotocamera con l’obiettivo e il flash), un set di pulizia (le lenti sono molto delicate), delle batterie di riserva, del nastro adesivo nero (per le riparazioni d’emergenza).
Tutto ciò che si decide di usare dipende solo esclusivamente dai gusti e dalle intenzioni fotografiche.
CAP. 1 Le macchine fotografiche analogiche.
La compatta.
È il formato di macchina fotografica a 35 mm che lavora in maniera automatica, rapida, istintiva.
L’ideale per il rapporto peso-prezzo, poiché al giorno d’oggi esistono macchine compatte dotate di zoom d’ottima qualità. È l’ideale per chi vuole fare una fotografia “senza star lì a pensarci troppo”. Ottima in condizioni estreme, perché occupa poco spazio.
Comporta però dei limiti: misura un’esposizione media, non permette di intervenire sull’impostazione di tempi e diaframmi e spesso porta un errore di parallasse, in altre parole ciò che si vede nel mirino non corrisponde esattamente a ciò che l’obiettivo fotografa. Le macchine moderne hanno una correzione di quest’errore nel mirino, in cui sono disegnate delle vignettature che indicano il termine del fotogramma sull’immagine reale inquadrata.
La reflex 35 mm SLR (Single Lens Reflex)
Il sistema comunemente chiamato “reflex monobiettivo” ha un funzionamento basato sulla presenza di una serie di specchi chiamati pentaprisma, montati all’apice del corpo macchina, e di uno specchietto interno che si alza per permettere l’esposizione della pellicola. Attraverso questo sistema appunto di riflessione, l’immagine che l’obiettivo (il fuoco) percepisce è quella reale percepita dall’occhio umano al mirino (il valore è rappresentato dal 98% di fedeltà d'immagine). Il pentaprisma permette all’immagine di non essere proiettata capovolta dalle lenti dell’obiettivo (si tenga presente che la macchina fotografica percepisce la luce e l’immagine esattamente come l’occhio umano e quindi capovolta). Lo specchietto posto tra le tendine dell’otturatore e l’obiettivo ha un movimento basculante sincronizzato con le tendine dell’otturatore (che sono delle lamine metalliche che si muovono lateralmente o diagonalmente) e determinato dal tempo d’otturazione selezionato manualmente o automaticamente sul corpo macchina.
Le medio formato 6x 6, 6 x 7, 6 x 9.
Il medio formato è il formato professionale che utilizza pellicole da 120 mm, il cui fotogramma risulta quadrato (appunto 6 x 6 cm). Non hanno pentaprisma e quindi l’immagine appare capovolta. Sono utili per forti ingrandimenti grazie all’elevata precisione del dettaglio e perché dotate di un vano porta rullini intercambiabile (si può quindi passare da colori a bianconero senza difficoltà, solo cambiando il vano). Sono utilizzate prevalentemente per la fotografia di paesaggio e di architetture da fotografi professionisti.
Altri formati.
Panoramiche. Coprono ampi campi visivi (fino a 180°), senza per altro storcere l’immagine. Ne esistono tre tipi: ad obiettivo e film fisso, a film fisso e obiettivo mobile, a film e obiettivo mobili. Le moderne macchine APS e digitali permettono di fare fotografie panoramiche selezionando l’apposita funzione.
Grandi formati. Sono macchine che utilizzano pellicole piane e che hanno una fedeltà di dettagli eccellente. Sono utilizzate per la fotografia in architettura e per il rilievo architettonico.
A sviluppo istantaneo. È la classica Polaroid, permette quando si impara, di vedere subito gli errori, oppure è utilizzata dagli artisti per ottenere, mediante elaborazioni, fotografie di tipo impressionistico o pittorico.
A Telemetro. Sono macchine molto particolari, l’esempio eclatante è la prestigiosa Leica.
Non sono dotate di pentaprisma e quindi comportano un errore di parallasse (vedi supra), corretto mediante vignettature sul mirino. Per la messa a fuoco, usano un sistema chiamato stigmometro: al centro del mirino è presente un insieme di cunei incrociati che, al centro del vetro smerigliato, spezza l’immagine. L’immagine è correttamente a fuoco quando le linee che la compongono non appaiono spezzate.
Il banco ottico. Sono fotocamere usate solo in campo professionale, soprattutto per le fotografie di architetture, usano pellicole piane. Il banco ottico è costituito da due piastre montate su un binario e collegate tra loro tramite un soffietto; l’otturatore è centrale, situato nell’ottica, e accoppiato alle lamelle del diaframma. L’obiettivo è montato sulla piastra anteriore, mentre su quella posteriore è montato il porta pellicola. Per la messa a fuoco si muove la piastra anteriore lungo il binario, avanti e indietro. La possibilità di inclinare la piastra anteriore permette di correggere le distorsioni prospettiche delle linee cadenti dei soggetti.
La biottica. Monta due obiettivi, uno per la ripresa e uno per l’inquadratura. Le biottiche, non più molto diffuse, lavorano sull’uso di specchi interni inclinati.
Le fotocamere Aps (Advanced Photo System). Lavorano su un formato di pellicole diverse dal normale. Sull’emulsione vengono registrati dati relativi allo scatto e altre informazioni digitali. Il rocchetto della pellicola è più piccolo del normale. Una volta sviluppata, la pellicola Aps viene riavvolta nel rocchetto e riconsegnata al cliente.
Le “usa e getta”. Sono fotocamere compatte in materiali plastici rivestiti in cartone, costituite da un mirino, un foro per la ripresa e una pellicola. La qualità dell’immagine ottenuta è fortemente limitata, sia per il tipo di ripresa che per la definizione dell’immagine. Sono molto economiche e adattissime alle situazioni di emergenza.
Principali differenze tra fotocamere analogiche e fotocamere digitali.
Nella fotocamera digitale l’immagine non viene registrata su una pellicola, ma, attraverso un microcomputer, direttamente in pixel in un file su una scheda di memoria. Le fotocamere digitali permettono di visualizzare subito l’immagine scattata e decidere se mantenerla o cancellarla. Attraverso le macchine digitali si possono trasferire immediatamente le immagini su computer, tramite porte seriali e USB o attraverso adattatori simili a floppy disk nel quale viene inserito il microchip che contiene le immagini scattate. Esistono macchine digitali compatte o a ottiche intercambiabili, a zoom ottico e digitale.
Il mercato delle fotocamere digitali è in ampio sviluppo: escono sempre nuovi modelli sempre più sofisticati che coprono ormai quasi tutte le funzioni delle più sofisticate fotocamere reflex; il problema della qualità di stampa ad ingrandimenti spinti resta ancora il loro limite maggiore. Il vantaggio è rappresentato dall’immediatezza (sono utilissime per la fotografia documentaria) e per la possibilità di applicare immediatamente effetti speciali alle fotografie (uso di filtri, bianco e nero, ecc.), non che la possibilità di scegliere in un secondo momento quali immagini stampare.
CAP 2. Le ottiche
Le ottiche, o più comunemente “obiettivi”, si dividono in tre gruppi sulla base della distanza focale (vedi Glossario): grandangolari, normali e teleobiettivi.
I Grandangolari.
I grandangolari hanno un piano focale (distanza lente-pellicola) inferiore ai 35 mm. Man mano che il valore è minore, più il campo ripreso è ampio e maggiori sono le distorsioni.
Caso estremo è il fish-eye, un obiettivo che arriva quasi a raggiungere i 180° di ripresa, con una distorsione delle linee verticali tale che rimane diritta solo quella centrale.
Gli obiettivi grandangolari sono utili soprattutto nella fotografia di paesaggio: attenzione però che essendo il loro campo così alto si rischia di includere troppo nell’immagine rendendone meno chiara la lettura. Durante l’uso di grandangolari bisogna prestare attenzione anche a filtri spessi e paraluce, che creano una fastidiosa vignettatura agli angoli del fotogramma.
Gli Obiettivi standard o “normali”.
L’obiettivo che ha una focale media è comodo e versatile, utile in ogni situazione e per quasi tutti i generi di fotografia. È utile nel paesaggio, nel ritratto, ma anche nella macrofotografia (grazie alla sua luminosità e al fatto che non ha un'eccessiva focale). È abbastanza luminoso e leggero. La focale degli obiettivi standard o “normali” va dai 35 ai 70 mm.
I Teleobiettivi.
Ce ne sono di tutte le dimensioni e sono utilissimi per la foto sportiva, astronomica, paesaggistica. Attenzione però al loro peso e alla loro scarsa luminosità. Quando si usa un teleobiettivo sarebbe sempre meglio avere un appoggio stabile o un cavalletto.
Un accorgimento è che più gli obiettivi sono lunghi più l’immagine tende da essere appiattita (cioè diminuisce la profondità di campo).
Zoom e ottiche fisse.
Si definiscono “zoom” quegli obiettivi che portano in se varie ottiche, con la possibilità di passare da una focale all’altra senza dove necessariamente cambiare obiettivo (es. 70-210 mm, ecc.).
Obiettivi decentrabili.
Sono obiettivi che si possono spostare dall’asse normale dell’innesto, permettono di non ruotare la fotocamera e di correggere le linee cadenti (ad esempio quando si fotografa da basso un palazzo). Sono una risposta «economica» alle fotocamere di medio e grande formato.
CAP 3. Le pellicole.
Esistono tre principali famiglie di pellicole (e si differenziano per il tipo di sviluppo): colori, diapositive, bianconero.
Le pellicole per bianconero si distinguono in:
pancromatiche (ugualmente sensibili a tutti i colori dello spettro).
cromogenee: sono pellicole per stampe in bianco e nero da sviluppare nei bagni per pellicole a colori (es. la XPI della Ilford). Si stampano su carta colore.
Le pellicole a colori si dividono in:
pellicole per luce naturale (diurna)
pellicole per luce al tungsteno (artificiale).
Pellicole all’infrarosso: esistono in bianconero o a colori e registrano l’immagine sulla base del calore specifico e riflesso dei corpi.
Le pellicole per diapositive possono essere sia a colori, che in bianco e nero, sia per luce artificiale, che per luce naturale. Si differenziano per l’emulsione e per il tipo di trattamento nei bagni di sviluppo.
Le pellicole si possono classificare anche in base alla sensibilità o velocità del film, il cui valore è espresso in ASA (American Standard Association), ISO (International Standard Association) o DIN (Detusche Industrie Norm).
Si definiscono “lente” quelle pellicole che hanno sensibilità uguale o inferiore ai 64/50 ASA e “veloci quelle che hanno una sensibilità uguale o superiore a 400 ASA.
Pellicole lente (inferiori ai 64 ASA). Hanno felice applicazione in macrofotografia e paesaggio, poiché se sottoposte in stampa a forti ingrandimenti presentano colori più saturi e granulosità quasi nulla. Di chiamano “lente” perché richiedono tempi lenti di esposizione.
Pellicole veloci (superiori al 400 ASA). Hanno felice applicazione in condizioni di luce difficili (interni, notturni) e nella fotografia sportiva perché richiedono tempi veloci di esposizioni e diaframmi molto chiusi. Sottoposte a vari ingrandimenti presentano perdita nella fedeltà dei colori e molta granulosità.
La latitudine di posa di una pellicola indica la resistenza che la pellicola ha nell’essere “tirata”, cioè sottoposta ad una sensibilità diversa da quella prevista sulla confezione. Si prestano ad essere tirate le pellicole in b/n e le pellicole per diapositive.
CAP 4. Il funzionamento della reflex
Cosa avviene su di una reflex o su una macchina fotografica qualsiasi quando si preme il pulsante?
L’immagine che “catturata” dall’obiettivo passa attraverso le lenti, si riflette sullo specchietto, passa al pentaprisma dove viene ulteriormente riflessa e giunge al mirino diritta, come appare nella realtà. Quando si preme il pulsante di scatto lo specchietto si ribalta (infatti non si vede nel momento dello scatto il soggetto che si sta fotografando), lasciando passare la luce che colpisce, attraversando l’otturatore aperto, la pellicola. L’immagine latente, quella che impressiona la pellicola ma che non è visibile fino a dopo lo sviluppo, è capovolta rispetto alla realtà.
Affinché l’immagine venga “registrata” come immagine latente sulla pellicola, questa dev’essere “esposta”, ovvero colpita da una quantità di luce per un determinato periodo di tempo.
Separiamo per un attimo il rapporto stretto tra tempo e diaframma.
L’esposizione, quindi, non è altro che il rapporto tra tempo di otturazione (ovvero il lasso di tempo che intercorre tra l’apertura e la chiusura dell’otturatore) e il diaframma.
L’otturatore è un dispositivo di protezione del film, situato tra la pellicola e lo specchietto, che però permette anche l’esposizione; può essere “centrale” (è situato nell’obiettivo, simultaneo al diaframma) o piano (a tendina), composto da due lamine opache o due tendine in tessuto, le tendine non si muovono simultaneamente.
Per capire meglio l’esposizione proviamo ad analizzare separatamente il tempo e il diaframma.
Analizziamo il tempo d’otturazione, che possiamo brevemente definire come quel valore che indica il tempo d’esposizione della pellicola alla luce proveniente dall’obiettivo e quindi dall’esterno.
I tempi, espressi in frazione di secondo, si definiscono:
lunghi o lenti: dal 1/30 di secondo al tempo di posa B.
La posa B è la possibilità di lasciare aperto l’otturatore finché viene mantenuto premuto il pulsante di scatto – ovviamente si presuppone l’uso di un cavalletto o di un supporto e di un pulsante di scatto flessibile. “B”, infatti, deriva da "bulb”, la “peretta”, antenato dei nostri scatti flessibili. Lo scatto flessibile è costituito da un cavetto con a un’estremità l’innesto per il pulsante di scatto della reflex (le macchine meccaniche hanno la possibilità di avvitare lo scatto flessibile al pulsante, mentre le reflex più moderne hanno un collegamento elettronico), mentre all’altra hanno un pulsante;
medi: sono i tempi ai quali di solito sono sincronizzati i lampeggiatori (flash) e vanno dal 1/60 a 1/125;
brevi o veloci: sono quei tempi superiori al 1/250 di secondo.
Analizziamo poi il diaframma (costituito da un insieme di lamelle): questo determina la quantità di luce che entra nell’obiettivo e che colpisce la pellicola. Si indica con “f/” e ha valori compresi tra 1,8/2.8 a 32/36 (a seconda del tipo d’obiettivo e della marca).
Al numero minore indicato da f/: corrisponde un’alta quantità di luce che colpisce la pellicola (numero basso = diaframma aperto), al numero maggiore corrisponde la maggiore chiusura delle lamelle del diaframma, quindi la minor quantità di luce che colpisce la pellicola (numero alto = diaframma chiuso).
Compensazione tempo-diaframma.
La combinazione di tempi e diaframmi si chiama compensazione quando, per determinate scelte, si decide di raggiungere l’esposizione corretta operando su entrambi i fattori. Lo spazio tra due tempi o tra due diaframmi contigui si chiama “stop”.
Si lavora, invece, in priorità quando si sceglie di mantenere costante un determinato tempo o un determinato diaframma e si raggiunge la corretta esposizione variando solamente l’altro valore.
Esempio pratico. Misurando l’esposizione, risulta corretta con i valori f/5.6 e 1/125. Essa equivale a: f/4 e 1/250, f/8 e 1/60, ecc.
Scopo: si vuole raggiungere la massima profondità di campo (diaframmi chiusi) senza sovraesporre o sottoesporre l’immagine finale; per ogni valore (stop) che si fa aumentare (e quindi chiudere) sulla scala dei diaframmi, corrisponde uno stop sulla ghiera dei tempi, in maniera inversamente proporzionale.
Il valori del diaframma influiscono sulla profondità di campo; i valori dei tempi sulla “registrazione” dei movimenti del soggetto impresso sulla pellicola (vedi Gli scopi della compensazione)
CAP 5. L’esposimetro e l’esposizione.
L’esposimetro è un apparecchio che serve per misurare la luce.
Le reflex moderne sono tutte munite d’esposimetro incorporato. Le reflex completamente manuali hanno una lettura esposimetrica su tutta l’immagine inclusa nel fotogramma, la lettura avviene automaticamente e si basa sul valore medio tra la misurazione delle alte luci e delle zone d’ombra. Questi esposimetri sono a luce riflessa.
Esistono esposimetri che vengono posti al posto del soggetto e rivolti verso la fotocamera, questi misurano la luce incidente.
Alcune macchine sono dotate di lettura esposimetrica a spot, in altre parole nella porzione centrale dell’immagine. Questo tipo di lettura esposimetrica può essere indirizzata o sulle alte luci o sulle ombre, tenendo presente che ogni volta che si fa un’analisi di questo tipo sarebbe necessario farlo su entrambi i fattori per controllare la differenza d’esposizione, altrimenti si rischia di perdere eventuali dettagli.
L’esposizione corretta, nel caso degli esposimetri interni delle reflex, è dato da un LED luminoso verde, da un “ok”, da un galvanometro posto al centro di una scala di valori, o da una linea di riferimento, che si orientano col premere il pulsante a metà.
Sovraesposizione. È quando la coppia tra tempi e diaframmi fa sì che la luce che colpisce il fotogramma sia eccessiva. Il risultato sono immagini lattiginose, bianchi bruciati, colori opaci.
Per correggere la sovraesposizione si chiude il diaframma (salendo con i numeri della scala “f/”), oppure si diminuisce il tempo d’otturazione (per esempio passando da 1/125 a 1/250). Un’immagine può risultare sovraesposta anche a causa di un inganno esposimetrico dovuto alla presenza di bianco, cosicché l’immagine risulterà chiara e i colori sbiaditi.
Sottoesposizione. È quando la coppia tra tempi e diaframmi fa sì che la luce che colpisce il fotogramma sia insufficente. Si può correggere aprendo il diaframma o aumentando il tempo d’otturazione. Un’immagine sottoesposta risulterà buia.
Ovviamente è possibile fare uso creativo dell’esposizione sovrasponendo o sottoesponendo a piacere, molte volte l’uso di una determinata esposizione è la chiave della particolarità di una fotografia. Per questo a chi inizia a fotografare si consiglia di disinserire gli automatismi, solo così si riesce a capire il funzionamento della propria macchina fotografica.
L’uso degli automatismi è solo di carattere pratico.
CAP 6. La messa a fuoco.
La messa a fuoco avviene attraverso l’uso del mirino, un’area vignettata al centro del vetrino di messa a fuoco.
Può avvenire in vari modi: alcune macchine fotografiche hanno al centro del mirino uno stigmometro (vedi fotocamere a telemetro), altre hanno una serie di microprismi che permettono di vedere quando l’immagine è perfettamente a fuoco.
Le macchine autofocus mettono automaticamente a fuoco sul centro del mirino. Lavorando con questo automatismo non è possibile mantenere il soggetto a fuoco fuori dal centro dell’immagine se non con l’uso del blocco della messa a fuoco, che non tutte hanno.
CAP 7. I Filtri.
I filtri sono dei “vetrini”, in cellulosa o vetro, da montare davanti all’obiettivo per ottenere determinati effetti. Possono essere a vite in vetro o semplici lamine di resina montabili attraverso supporti standard.
Ci sono tre famiglie principali di filtri: di correzione, creativi e per il bianco e nero.
I filtri di correzione sono quei filtri che correggono le condizioni normali d’esposizione. Agiscono sull’assorbimento della luce e possono correggere dominanti cromatiche dovute a fattori di illuminazione e ambientali.
Il filtro arancio è il filtro di correzione per le dominanti bluastre o verdastre.
Il filtro blu è il filtro di correzione per le dominanti rosse.
Il polarizzatore, agendo sulla luce riflessa dai corpi, toglie i riflessi e influisce sulla saturazione dei colori.
Il filtro grigio neutro permette di togliere degli stop quando si vuole fare uso creativo dell’esposizione ma le condizioni di luce non lo permettono (luminosità elevata), cioè assorbono la luce senza modificare i colori.
Il filtro magenta serve per togliere le dominanti della luce al tungsteno.
I filtri creativi sono quei filtri che influiscono sull’immagine creando qualcosa che in condizioni normali non c’è (filtri graduati per il cielo, multi immagine, a stella, ecc.)
I filtri per il bianco e nero sono filtri colorati che, a seconda appunto del colore, rafforzano l’assorbimento di determinate lunghezze d’onda e quindi di colori e sono: giallo (cielo), arancione (toni gialli e bruni), rosso (aumentare i contrasti), verde (vegetazione).
CAP 8. Gli scopi della compensazione
La scala dei diaframmi: la profondità di campo
Si pensi di usare il meccanismo di compensazione e di scattare un’immagine per ogni coppia di valori, mantenendo a fuoco sempre il medesimo soggetto e senza variare l’inquadratura.
I risultati saranno immagini apparentemente uguali, stessa luce, stessa inquadratura, stesso soggetto. Però c’è una differenza si va da una messa fuoco selettiva (solo il soggetto a fuoco) ad una messa fuoco che va’ dall’osservatore all’infinito.
Questo è il risultato della variazione del diaframma. Più questo viene chiuso più aumenta la porzione di immagine a fuoco. La chiusura massima del diaframma porta alla messa a fuoco dall’occhio all’infinito.
È possibile capire a priori quanta porzione di immagine resterà a fuoco prima e oltre il soggetto durante la composizione della fotografia. È sufficiente guardare la ghiera di messa a fuoco di un obiettivo meccanico (non in tutte le marche): tra la scala dei metri e la scala dei diaframmi, in alcune ottiche è segnata un’altra scala; alla linea centrale corrisponde il valore in metri, alle linee laterali disposte simmetricamente a quella centrale sono segnati i valori dei diaframmi; andando al leggere il diaframma scelto si può vedere in metri fino a dove corrisponde la messa a fuoco.
La variazione dei tempi di posa.
È determinante per alcuni “effetti” speciali. Come le striature di un’auto veloce, i fari di un veicolo nella notte, l’immagine ferma di una goccia d’acqua, l’acqua di una cascata come il cotone, un’azione congelata.
Essa determina il mosso volontario (da non confondere con il mosso accidentale di alcune immagini) e la scelta di fermare un’azione.
Più i tempi sono lunghi più il movimento di un corpo avrà un’immagine lunga (scia) sul fotogramma, più i tempi sono brevi più un’azione veloce potrà essere bloccata.
CAP 9. L’uso del flash.
Il flash o lampeggiatore è utile in condizioni di luce sfavorevole, per la macrofotografia e per creare effetti un po’ particolari. In linea di massima, fatta eccezione per la macro, il flash non deve essere la fonte di luce principale. Per quanto potente esso sia (la potenza è determinata dal numero guida), può risultare inefficace negli spazi ampi, perché ha un raggio di illuminazione di pochi metri.
Il fill-in.
Contrariamente a quello che pensa un fotografo alle prime armi, il flash non viene usato solamente per illuminare stanze buie o di notte.
Il fill-in è l’uso di un lampeggiatore per schiarire zone d’ombra in un soggetto; viene utilizzato soprattutto nel ritratto. Molte volte, infatti, un soggetto, per quanto illuminato dalla luce naturale, può risultare buio sullo sfondo (è il caso di una fonte luminosa alle spalle di esso, come per esempio un tramonto o l’acqua), perché l’esposimetro misura la luce globalmente. Si effettua così una lettura dell’esposizione sullo sfondo e poi si posiziona il flash in maniera tale che illumini il soggetto in maniera apparentemente naturale.
Dipingere con il flash.
Il flash può essere utilizzato per illuminare ambienti completamente bui. Poggiando la macchina su di un cavalletto si apre l’otturatore sul tempo “B”, poi con il flash si procede illuminando le zone che interessano.
La sincronizzazione del flash sulla seconda tendina.
Innanzi tutto non è possibile su tutte le apparecchiature. Il flash in condizioni normali lampeggia sull’apertura della prima tendina.
Sincronizzarlo sulla secondo permette, con l’uso di tempi lunghi, di fermare un soggetto in movimento alla fine del suo percorso.
Immaginiamo di fotografare un’auto in corsa. Se il flash parte sulla prima tendina, l’auto percorrerà ancora un pezzo di fotogramma fino alla successiva chiusura della seconda. Così sembrerà che invece di andare avanti essa vada in retromarcia. Sincronizzando il lampeggiatore sulla seconda tendina, l’auto verrà praticamente congelata alla fine della scia che ha lasciato sul fotogramma.
Parte Seconda
Alcuni aspetti della Reflex
Introduzione.
In questa parte del manuale viene spiegato l’uso medio degli automatismi delle macchine fotografiche analogiche.
CAP 1. Lavorare con priorità e automatismi.
Esistono macchine meccaniche o a esposizione manuale, automatiche e semiautomatiche.
Le macchine meccaniche sono le più semplici e lavorano solo in manuale. Le automatiche hanno programmi di autofocus, priorità di tempi e diaframmi, programmi automatici e la possibilità di lavorare in manuale. Le semiautomatiche lavorano o in priorità di diaframmi o manualmente.
Sarebbe inutile tentare di spiegare il funzionamento di ogni tipo di macchina fotografica. A seconda della marca e del modello cambiano funzioni, leve e pulsanti. Per capire bene il funzionamento della propria macchina è necessario sapere l’uso di ogni sua singola parte e quindi leggere il libretto di istruzioni.
Priorità di tempi.
È segnata con “Tv” sui display delle macchine fotografiche, sulle leve operative o sulle rotelle delle funzioni.
Lavora semplicemente dando la possibilità di scegliere un tempo di esposizione e lasciare che la macchina fotografica scelga il diaframma relativo al tempo scelto, anche se la luce varia in continuazione.
In alcune macchine la scelta del tempo avviene tramite un “consiglio” sul display, bisognerà poi chiudere o aprire il diaframma a seconda del valore consigliato o tramite pulsanti e levette, o direttamente sulla ghiera dell’obiettivo; altre macchine automatiche cambiano automaticamente il valore.
Questa priorità viene utilizzata raramente e solo se non interessa la profondità di campo.
Priorità di diaframmi.
È segnalata con “Av” sui display delle macchine fotografiche, sulle leve operative o sulle rotelle delle funzioni.
Lavoro sull’impostazione del fotografo di un del diaframma desiderato, la macchina in questo caso sceglie automaticamente il tempo necessario per la correttezza dell’esposizione.
È utile soprattutto per la sua praticità e la rapidità di applicazione. È spesso usato quando non si ha il tempo materiale di osservare le variazioni dell’esposimetro.
Gli automatismi.
Le reflex automatiche hanno i programmi divisi in simboli (il fiore per la macro, l’omino per il ritratto, la montagna per il paesaggio, ecc.). Queste sono semplici agevolazioni per la scelta da parte della macchina fotografica della coppia tempo diaframma. Ad esempio per la macrofotografia la macchina sceglierà un coppia di valori tale da dare meno importanza allo sfondo (diaframmi aperti).
Con il semplice automatismo la macchina tenderà a scegliere tempi e diaframmi medi.
Parte Terza
Appunti di composizione e condizioni frequenti di ripresa
Introduzione.
Per una bella fotografia non basta una giusta esposizione. Un’immagine va’ costruita a tutti gli effetti.
La cosa fondamentale è guardare bene nel mirino se ci sono elementi di disturbo (es. un ramo) e se questi sono eliminabili e se il soggetto scelto è inquadrato dalla posizione migliore (nel caso del paesaggio).
In questa parte i temi della composizione sono appena accennati per conoscenza.
CAP 1. L’inquadratura.
L’occhio umano ha delle priorità di lettura.
Un’immagine viene letta da sinistra a destra e dall’alto in basso.
Su un’immagine l’occhio concentra dei punti d’attenzione. (fig. 1)
Contrariamente a ciò che si può pensare il punto focale dell’occhio umano non è al centro dell’immagine, ma all’incrocio delle sezioni auree del rettangolo.
La sezione aurea, definita da Vitruvio, è la linea che divide un’immagine in 1/3 e 2/3. Fu utilizzata anche nelle composizioni di quadri (Piero della Francesca).
Per questo è consigliabile evitare di porre l’orizzonte, in una veduta, al centro. Un’immagine tale è poco leggibile. Se l’orizzonte è posto in alto si fa risaltare il terreno, se posto in basso risalterà il cielo.
Il soggetto al centro è accettabile se esso occupa quasi completamente il fotogramma (macrofotografia e ritratto), o se lo sfondo non fornisce fonte di disturbo.
CAP 2. Diagonali, prospettiva e regolarità.
Col rinascimento viene riscoperta la prospettiva.
In fotografia la prospettiva centrale, angolare, aerea o dal basso è sempre interessante da affrontare; essa può diventare il soggetto principale dell’immagine (una strada) oppure guidare l’occhio verso uno dei punti d’attenzione.
La prospettiva aerea è data dal risultato del cambiamento di temperatura tra terra e aria e risulta come l’affievolirsi dell’immagine all’orizzonte; fu usata la prima volta da Leonardo. In fotografia la prospettiva aerea può essere sfruttata per dare profondità di campo.
Costruire una fotografia sulle diagonali del fotogramma è senza dubbio un modo per dare dinamismo ad un’immagine, può essere un modo anche questo per guidare l’attenzione verso il soggetto.
Il modulo.
La fotografia modulare è interessante. Un modulo che si ripete può diventare texture, la natura e l’architettura ne sono piene.
L’essenzialità.
Le immagini essenziali sono le più chiare, ma non sempre quelle con molte cose sono da escludere (vedi le texture). L’importante è imperare a scegliere la situazione in cui applicarla.
CAP 3. Luce diurna, luce ambiente e luce artificiale.
La temperatura della fonte di luce influisce molto sulla dominanza cromatica dell’immagine.
Luci come le lampade o le candele donano all’immagine una dominante rossastra. Le luci al neon o le lampade al tungsteno, invece, donano dominanza verdastra.
Esistono apparecchi chiama termocolorimetri, per altro molto costosi, che analizzano la temperatura esatta della luce, misurandola in gradi Kelvin.
Conoscendo la temperatura della luce è possibile applicare filtri di correzione adeguati.
In caso contrario si tenga presente comunque il tipo di sorgente luminosa e la sua entità. Una dominante rossa non troppo intensa in alcuni casi non è poi così fastidiosa.
CAP 4. Fotografare in condizioni di luce sfavorevole: controluce e scarsa luminosità.
Purtroppo fatta eccezione per la foto di studio e per lo still-life, in cui è il fotografo a decidere la luce con lampade e flash, quando si fotografa all’aperto, bisogna adattarsi alle condizioni di luce.
Si sappia comunque che per dare rilievo alle forme del paesaggio è sconsigliabile fotografare a mezzogiorno, quando il sole è allo zenit e le ombre scarseggiano. Sono invece più adatte le ore del mattino e del tardo pomeriggio.
Molte volte però ci si trova a dover fotografare dove luce in realtà ce n’è poca. In questo caso bisogna procurasi un appoggio stabile e leggere l’esposizione normalmente, sapendo che però è facile muovere. Il movimento meccanico dell’otturatore crea un movimento alla mano impercettibile, ma percettibile poi sulla fotografia.
Se si è in possesso di un appoggio stabile, con l’uso di tempi lunghi, è consigliabile l’uso di uno scatto flessibile o dell’autoscatto, al fine di scongiurare ogni tipo di movimento non intenzionale.
Controluce…con il sole.
Se si vuole includere il sole deve, all’alba o al tramonto, è necessario leggere l’esposizione in una zona di cielo vicina, ma escludendolo dall’immagine; impostata la coppia tempi-diaframmi scelta, si può poi includere nuovamente il sole nell’immagine: così si avrà l’esposizione corretta.
CAP 5. Il Bracketing
Il Bracketing è un modo per ottenere in un controluce (per esempio) l’immagine migliore. Si pratica, infatti, variando l’esposizione (nel caso del paesaggio è meglio variare il tempo, piuttosto che il diaframma).
Si ottiene scattano più di una foto sullo stesso soggetto (numero dispari) in modo che risultino fotografie con la differenza di uno stop d’esposizione l’una dall’altra.
Per esempio, con cinque scatti di Bracketing, si leggerà l’esposizione e poi si scatterà una foto sottoesposta di due stop, una di uno stop, quella corretta, una sovraesposta di uno stop e una sovraesposta di due stop.
Alcune macchine hanno la possibilità del Bracketing nei programmi.
Glossario di alcuni dei termini più usati in fotografia.
ASA: sigla di American Standard Association, misura la sensibilità delle pellicole. Corrisponde al valore ISO.
Autofocus: messa a fuoco automatica da parte dell’obiettivo.
“B”: simbolo di un valore di otturazione in corrispondenza del quale l’otturatore rimane aperto finche si mantiene premuto il pulsante di scatto.
Bracketing: tecnica consistente nel riprendere più immagini con esposizioni maggiori o minori per aumentare la probabilità di ottenere un risultato accettabile.
Carta grigia: carta che riflette al 18% la luce che la colpisce, usata come riferimento per la misurazione della luce riflessa con un esposimetro manuale.
Clip test: metodo utilizzato per controllare l’esposizione corretta del film. Si sviluppa un pezzo della pellicola per vedere se il film va o no tirato.
Cross-screen: tipo di filtro che provoca ad ogni punto luce una stellina.
Contrasto: differenza di intensità luminosa tra parti chiare e scura di negativi, diapositive o stampe.
Controluce: illuminazione con fonte di luce di fronte alla fotocamera.
Definizione: misura della finezza dei dettagli.
Densità: misura dell’intensità di un’immagine su una pellicola.
Diaframma: cerchio di lamine scorrevoli contenuto all’interno dell’obiettivo che permette di controllare la quantità di luce durante l’esposizione della pellicola.
Difetto di reciprocità: perdita di sensibilità del film che causa sottoesposizione se il film è esposto per più di un secondo.
DIN: sigla di Detusche Industrie Norm. misura la sensibilità delle pellicole. Corrisponde al valore ISO.
Diottria: misura il potere di ingrandimento di una lente (addizionale).
Distanza iperfocale: distanza minima a cui risulta a fuoco un soggetto quando questo è a fuoco sull’infinito.
Dominante cromatica: tonalità di colore innaturale causata dall’uso di pellicole in condizioni non adatte.
Emulsione: strato della pellicola sensibile alla luce.
Errore di parallasse: inquadratura erronea causata dal fatto che nelle fotocamere non SRL il mirino si trova ad una certa distanza dall’obiettivo.
Esposimetro a luce incidente: viene posto in prossimità del soggetto e rivolto verso la fotocamera, misura la luce incidente.
Esposimetro a luce riflessa: si basa sul valore medio tra la misurazione delle alte luci e delle zone d’ombra, cioè la luce riflessa dal soggetto.
Esposizione: quantità di luce che colpisce il film.
“f”: misurazione dell’apertura del diaframma.
Fattore di un filtro: quantità di luce assorbita.
Field camera: apparecchio fotografico di grande formato.
Filtro UV: trattiene i raggi ultravioletti.
Flash a bulbo: flash che utilizza dei bulbi contenenti un sottile filo metallico che brucia.
Fill-in (flash di riempimento): uso del flash per schiarire zone d’ombra o diminuire i contrasti.
Fotomontaggio: insieme di più fotografie combinate in una sola.
Grana: granulosità delle particella d’argento o di colore che compare in ingrandimenti spinti.
High-key: immagine dominata da tonalità chiare
Highlight: parti chiare o alte luci.
Immagine latente: l’immagine che si imprime sul film e che compare con lo sviluppo.
Internegativo: negativo intermedio ottenuto da una diapositiva per la realizzazione di una stampa.
IR: infrarosso
Iride: tipo di diaframma celle fotocamere reflex che permette di mettere a fuoco.
ISO: sigla di International Standard Association. misura la sensibilità dei film.
Kelvin: unità di misura per la temperatura dei colori
Key-reading: lettura esposimetrica ottenuta sulla parte più importante del soggetto.
Latitudine di posa tolleranza del film ad essere esposto a valori diversi dalla sensibilità per cui è concepito.
Lente di correzione: correzione applicata al mirino per i difetti di vista.
Lettura sostitutiva: lettura della luce su un soggetto con la stessa luminosità del soggetto scelto, se questo è inaccessibile.
Low-key: tipo di immagine in cui prevalgono tono scuri
Lunghezza focale: campo focale del campo focale dell’obiettivo.
Messa a fuoco selettiva: uso delle caratteristiche sfocature dell’immagine dovuta a diaframmi aperti per dare risalto a un soggetto.
Mired: unità di misura dell’equilibrio cromatico di un film.
Numero guida: potenza del flash (permette di ottenere l’esposizione).
Obiettivo catadiottrico: obiettivo che accompagna l’uso di specchi all’uso di lenti tradizionali.
Ombra: parte più scura di un’immagine
Otturatore: disposizione di protezione del film che permette però anche l’esposizione.
Otturatore centrale: otturatore dell’obiettivo, simultaneo al diaframma.
Otturatore piano (a tendina): è composto da due lamine opache o due tendine in tessuto. Permette l’esposizione ma non si muovono simultaneamente.
Prova a contatto: provino effettuato in camera oscura, ponendo il negativo a contatto con il foglio e esposto alla luce.
Pulling: sottosviluppo di un film.
Pushing: sovrasviluppo o tiraggio di un film.
Riflessi interni: riflessi chiari nell’immagine dovuti ai componenti ottici (esagoni chiari)
Schiarente: bagno per ridurre densità di negativi e stampe.
Servoflash: collega diversi flash senza cavo
Sincronizzatore di flash: il lampeggiatore funziona nel preciso attimo di apertura dell’otturatore.
Still-life: ripresa di nature morte o oggetti.
Stop: unità di misura dell’esposizione.
Teleconverter: è il duplicatore di focale, serve per aumentare la focale dell’obiettivo.
Temperatura cromatica esprime il colore della luce che colpisce il film.
Tiraggio: vedi pushing
TTL: “Through-the-lens”, è il nome proprio degli esposimetri incorporati delle reflex
Velocità di sincronizzazione del flash: velocità massima di compatibilità tra flash e otturatore.
“X”: indica il tempo di sincronizzazione del flash.
Riferimenti bibliografici
J. Hedgecoe, Fotografare il paesaggi: teoria e tecnica della fotografia all’aperto. Milano, 1990.
M. Langford, Basic Photography. London, 1986,Milano, 2001.
P. Sorlin, I figli di Nadar. Torino, 2001.
Fonte: http://www.fotobycryss.it/Principale/manuale%20pratico%20di%20fotografia.doc
sito web: http://www.fotobycryss.it/
Autrice: Cristina Falla
Prima edizione: 1999
Seconda edizione: 2004
Per “immagine analogica” si intende la seconda fase di sviluppo del concetto di “immagine”.
Il primo tipo di immagine conosciuta dall’uomo è quella “simbolica” o “sintetica”, in cui è il disegno a rappresentare la realtà in modo convenzionale e simbolico (si pensi alle incisioni vedutiste del Settecento).
Il secondo tipo di immagine nasce con il cinema e la fotografia ed è appunto quella definita “analogica”, cioè che rappresenta analogicamente la realtà, riportandola dalle tre alle due dimensioni dell’immagine piana. Essa non è (relativamente) un’interpretazione della realtà, ma la sua pura rappresentazione attraverso il meccanico (secondo il concetto originale della nascita della fotografia come rappresentazione oggettiva del reale).
Il terzo tipo è quello costituito dall’immagine digitale, l’era in cui viviamo, in cui le rappresentazioni grafiche e fotografiche possono alludere alla tridimensionalità.
DALL’IMMAGINE ANALOGICA A QUELLA DIGITALE:
1. I media tradizionali e no: dall’immagine analogica a quella digitale:
La nascita della fotografia (con Daguerre e Talbot) segna a metà del 1800 il sorgere di un nuovo tipo di immagine, quella “analogica” che si sostituisce a quella sintetica delle arti precedenti. L’analogon significa che l’immagine è, in qualche modo, collegata meccanicamente alla realtà che rappresenta: il fotografo non può fotografare la mela dopo averla mangiata, il pittore sì, e la fotografia è formata dalla luce che colpisce la pellicola e reagisce ad una soluzione chimica, ma ha sempre bisogno di un contatto con la realtà esterna, e così sarà per il cinema e la televisione. Alla fine del ‘900 avremo invece l’immagine digitale che, in un certo senso, significa il ritorno ad un’immagine mentale, che può prescindere dal contatto diretto con la realtà esterna: il cinema e la fotografia digitale possono essere costruiti totalmente ‘a tavolino’ senza avere un contatto immediato con la realà esterna.
2. La fotografia.fra realismo e creazione fantastica:
Già fin dai primordi la stessa fotografia si colloca in due grandi filoni espressivi: quello della fotografia realistica, che esprime al massimo livello il carattere analogico dell’immagine fotografica (ritratti, paesaggi, gruppi sociali particolari) e quello della creazione fantastica, come quando si utilizza la fotografia per creare dei fantasmi o dei “tableaux vivants” del tutto illusori ed ingannevoli. E’ la stessa dicotomia che troveremo nel cinema, per cui gli old media possono darci un’immagine più vicina alla realtà, ma anche dare spazio alla creazione fantastica della nuova tecnologia.
3. Il pittorialismo e la nascita della fotografia sociale:
Alla fine dell’800 si sviluppa il movimento della fotografia “pittorialista” che, secondo i principi già accennati della “remediation”, cerca in qualche modo di copiare la pittura, con delle immagini sfumate e poco realistiche, ispirate alla contemporanea pittura impressionista e decadente (Julia Cameron).
7. La straight photography:
Nel frattempo, verso il 1910-20, la fotografia acquisisce finalmente una propria autonomia, è il momento della straight photography, e la fotografia trova nella nitidezza e nella perspicuità la ragion d’essere della sua arte. Con la nascita delle avanguardie poi arte diventa praticamente qualsiasi materiale, e quindi la fotografia acquisice dignità artistica al pari di tutte le altre forme artistico-espressive.
8. Il movimento della FSA (1936).
Agli inizi del secolo negli Stati Uniti si era sviluppata la fotografia sociale di Hine, che documentava il lavoro minorile per cercare di cambiare la legge: pertanto la fotografia viene usata come uno strumento sociologico di intervento politico.
Negli USA abbiamo un grande movimento di svolta della storia della fotografia: il movimento della Farm Security Administration che, con la Lange e Evans, produce una mole incredibile di fotografie sociali sulla crisi della grande depressione americana. E’ lo stato che investe sui fotografi per avere una documentazione attendibile sulle condizioni di vita dei migranti da una costa all’altra.
9. La nascita del fotogiornalismo di Life e Capa.
La nascita delle grandi riviste (“Life”) e la contemporanea nascita della Laica, che permette l’istantanea, favorisce la nascita del fotogiornalismo, di cui il più grande rappresentante è Robert Capa, testimone delle tragedie di gran parte del ‘900. Nel secondo dopoguerra Capa, con Cartier-Bresson ed altri, fonderà la Magnum, l’agenzia in cui i fotografi sono proprietari delle loro fotografie e non dipendono dall’art director della rivista. “Life” segnerà gran parte della storia del ‘900, fino addirittura alla guerra del Vietnam.
12. Il rinnovamento della fotografia: la Arbus ed altri.
Anche nella fotografia, che ha una corrente neorealista influenzata dal grande successo, del cinema neorealista, comincia invece una corrente critica che deforma l’immagine e cerca nuovi soggetti iconologici capaci di presentarsi come una critica della società. E’ quindi in contemporanea al nuovo cinema americano che si sviluppa la fotografia di Diane Arbus, che dà un valore simbolico e pessimista ai ritratti dei suoi diversi, i “freaks”.
16. Fotografia e cinema digitale:
Mentre la fotografia, con il passaggio al digitale sembra sempre di più allontanarsi da una riproduzione mimetica della realtà, rivelandosi sempre di più un’opera costruita come in laboratorio, il cinema ha davanti a sé due strade, quella del digitale leggero, cioè il fatto che ognuno possa fare cinema da sé, e quella dei blockbuster, le grandi produzioni americane dove gli effetti speciali del digitale distruggono la stessa realtà narrativa del cinema tradizionale. C’è quindi la fondata speranza che con il digitale leggero, si possano avere nuovi registi creativi, anche se privi di fondi. Per quando riguarda invece la fotografia digitale, chiamata anche post-fotografia, le sue possibilità creative sono infinite, a patto che si abbia chiaro che nel campo del fotogiornalismo il ritocco non è ammissibile, perché si va ad ingannare il pubblico. Ma su questo piano è difficile mettere dei paletti, perché la tendenza al ritocco digitale è ormai inarrestabile, perciò la presunzione di verità della fotografia, a poco a poco, verrà a scomparire.
Fonte: http://www.unifi.it/clscfp/upload/sub/corsi_abilitanti/Archi_terzalezione.doc
Autore del testo: PROF.PAOLO ARCHI, SINTESI PER L’ESAME DI ABILITAZIONE DI PISA E PRATO.
Fonte: http://www.larapedia.com/corso_di_fotografia/corso_di_fotografia.html
Sito web da visitare: http://www.larapedia.com/
Autore del testo: indicati nel documento di origine
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