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Riassunto libro Perlingeri
Parte seconda: Persone fisiche e persone giuridiche
A. Persone fisiche.
1. Persona umana e soggetto. La persona fisica è l’uomo considerato nella sua individualità e nel rapporto con gli altri. Ci sono due correnti di pensiero: la prima discorre indifferentemente di persona, soggetto, uomo, individuo; la conseguenza è che ogni essere umano vivente è persona e quindi soggetto di diritto.
Meno diffuso, invece, è l’orientamento che, ravvisando l’esistenza di differenti ambiti di incidenza per il soggetto e per la persona, propone di tenerli separati.
Il soggetto giuridico è il titolare di situazioni soggettive; possono essere soggetti giuridici non soltanto le persone fisiche, ma anche gli enti.
2. Capacità giuridica. Soggettività. Personalità. La capacità giuridica è l’idoneità di un individuo ad essere titolare di situazioni soggettive.
La soggettività è la qualità del soggetto giuridico e fa parte dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 cost.), riconosciuti e garantiti.
L’appartenenza al genere umano costituisce requisito necessario e al tempo stessosufficiente ai fini del conferimento della soggettività e non sono ammesse distinzioni di sorta tra individuo e individuo (art. 3¹ cost.).
La personalità è l’aspetto dinamico garantito nel suo pieno e libero svolgimento.
3. Nascita ed esistenza. La capacità giuridica si acquista con la nascita ed è richiesto non solo che il feto si stacchi dal grembo materno, ma che l’individuo nasca vivo.
La legge dichiara capace di succedere per causa di morte anche i concepiti al tempo dell’apertura della successione (art. 462¹ c.c.) e li considera capaci di ricevere per donazione (art. 784¹ c.c.). Anche il pasciuto non concepito può ricevere per testamento o per donazione, purché si tratti di figlio di persona vivente al momento dell’apertura della successione o del compimento della liberalità.
Non poche discussioni sono state avanzate nei riguardi del problema dei nascituri e proprio con riferimento ai nascituri, l’esistenza di situazioni giuridiche soggettive ovvero di un centro di interessi più o meno complesso, che riceve tutela senza che esista attualmente un soggetto, induce a non considerare il soggetto di norma come elemento essenziale della situazione giuridica.
4. Residenza, domicilio e dimora. L’art. 43 c.c. definisce il domicilio, la residenza e la dimora.
Il domicilio (quid iuris) è costituito da un elemento intenzionale, ossia la volontà di costituire e mantenere in un luogo la sede dei propri affari, e da un elemento materiale, ossia che è proprio in quel luogo che il soggetto ha costruito la sede dei propri affari.
La residenza è la permanenza sufficientemente stabile in un luogo.
Quando parliamo di affari ed interessi, l’ordinamento non intende solo quelli di natura patrimoniale, ma anche quelli di natura personale, familiare e sociale.
La dimora è il luogo dove la persona si trova temporaneamente e occasionalmente.
Il soggiorno è la permanenza breve, ma non momentanea in un determinato luogo.
La scelta del domicilio e della residenza è libera, salvo specifiche disposizioni penali o di polizia. Il domicilio legale o necessario riguarda il minore e l’interdetto (art. 45 c.c.).
In particolare, il domicilio del minore va individuato nel luogo di residenza della famiglia; se non esiste residenza familiare, il minore ha il domicilio del genitore con il quale convive.
5. Scomparsa, assenza e morte presunta. La scomparsa è l’allontanamento della persona dal suo ultimo domicilio o residenza con la mancanza di notizie.
Con tale dichiarazione viene nominato un curatore per tutelare i beni dello scomparso da parte del tribunale (art. 48 c.c.).
Dopo due anni dalla scomparsa, per domanda degli eredi o di chi vanta dei diritti sui beni dello scomparso, il tribunale dichiara lo stato di assenza (art. 49 c.c.).
A questo punto viene eseguita la ripartizione dei beni agli eredi, i quali però, non possono disporne liberamente, e quindi alienarli, ipotecarli, darli in pegno, ecc… (art. 52 e 54 c.c.).
Il coniuge dello scomparso non può impugnare il matrimonio finché dura l’assenza (art. 117³ c.c.).
Nel caso che lo scomparso ritorni, oppure ne sia provata l’esistenza in vita, gli è dovuta la restituzione dei beni da parte dei possessori (art. 56 c.c.).
La dichiarazione di morte presunta presuppone la scomparsa di un soggetto di almeno 10 anni (art. 58 c.c.).
In caso di catastrofi o eventi naturali, questa dichiarazione è pronunciata dal tribunale, su istanza degli eredi e dei parenti, dopo tre anni dall’evento naturale (art. 60 c.c.).
Con questa dichiarazione gli eredi prendono possesso dei beni del presunto morto e il coniuge può contrarre nuovo matrimonio (art. 65 c.c.).
Nel caso il morto presunto ritorni o ne sia accertata l’esistenza in vita, gli eredi sono tenuti alla restituzione dei beni nello stato in cui si trovano e di pagargli i beni alienati, e può pretendere l’adempimento delle obbligazioni considerate estinte (art. 66 c.c.).
Il nuovo matrimonio è dichiarato, su richiesta di entrambe le parti, annullabile, ma i figli sono considerati legittimi (art. 68 c.c.).
6. Morte e commorienza.
La morte produce l’estinzione della persona fisica e determina la cessazione della sua capacità. L’accertamento della morte è stato definito dall’ordinamento come la “cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”.
La commorienza è la morte simultanea di due o più persone; è pronunciata quando non si può stabilire chi sia morto prima e chi sia sopravvissuto per ultimo (art. 4 c.c.).
7. Capacità di agire.
La capacità di agire è l’idoneità del soggetto a svolgere attività giuridica per il perseguimento dei propri interessi, per modificare la propria sfera giuridica e per esercitare diritti e doveri.
La capacità giuridica è il profilo statico dell’uomo come portatore di interessi; la capacità di agire è il profilo dinamico dell’uomo come operatore giuridico, protagonista attivo.
La capacità di agire si configura in due aspetti fondamentali:
la relatività, è l’esclusione o la limitazione della capacità di agire per presupposti al tipo di atto o corrispondenti a precisi scopi: l’incapacità del minore e degli interdetti giudiziali e legali (art. 1441 c.c.);
l’età; il legislatore ha diviso l’età in minore età e maggiore età, maggiore età che si raggiunge con il compimento del 18° anno e permette l’acquisto della capacità di agire. Numerose sono le capacità speciali che si acquistano prima della maggiore età: si pensi soprattutto alla capacità in materia di lavoro (art. 2² c.c.). Il problema, semmai, è di individuare il momento dal quale il minore può affermare le proprie esigenze, sviluppare liberamente la propria personalità, talvolta anche in contrasto con le vedute dei genitori (art.30 cost.; artt. 147, 315 ss c.c.). Si parla, quindi, della cosiddetta capacità di discernimento, intesa come capacità di scelta e di razionalizzazione.
L’interprete deve stabilire se il minore, con riferimento al singolo tipo di attività, abbia oppur no le facoltà di discernimento, al punto tale da assumere la decisione con adeguata consapevolezza. I criteri guida sono l’interesse oggettivo del minore, valutazione unitaria della sua condizione e l’eguaglianza agli adulti nel suo ruolo di persona.
8. Minore età e potestà dei genitori.
L’ordinamento attribuisce il potere – dovere di potestà al genitore sul minore.
È un potere-dovere perché il genitore può sì esercitare il potere sul minore riguardo i suoi beni, ma ha il dovere di operare per gli interessi dello stesso minore, senza abusarne (artt. 320, 330 e 333 c.c.); questa potestà influisce anche sulle scelte del minore.
Tale potestà, comunque, è elastica, cioè i genitori nei primi anni di vita la esercitano in pieno, poi si affievolisce con la crescita, fino a sparire con la maggiore età.
Quanto ai diritti di libertà, si individuano due profili, uno interno e l’altro esterno.
Sotto l’aspetto esterno, cioè quello dei rapporti che il minore ha con i terzi, non sussistono eccessive difficoltà per il riconoscimento allo stesso della titolarità e dell’esercizio dei diritti richiamati; nel rapporto interno, cioè tra genitori e figli (educazione), l’esercizio dei diritti di libertà da parte dei figli trova pesanti limiti nella potestà dei genitori (es: scelta del lavoro (art. 4 cost.), libertà di professare una fede religiosa (art. 19 cost.), ecc…).
La conseguenza è che esclusivamente ai genitori spetta la scelta dell’indirizzo educativo, professionale e culturale della prole.
All’orientamento descritto si contrappone una diversa visione che considera il minore come soggetto di diritto e come oggetto della potestà dei genitori.
Il minore è persona e merita la tutela dei suoi diritti fondamentali e inviolabili.
Considerarlo soggetto di diritto significa consentirgli di effettuare in piena autonomia le scelte che concernono la sua persona, beninteso quando si producano le condizioni per una consapevole decisione (capacità di discernimento).
9. Tutela e curatela. La tutela è ufficio di diritto civile surrogatorio alla potestà dei genitori, in quanto esercita questo potere in mancanza dei genitori e in modo più limitato.
Il tutore è nominato dal giudice tutelare del tribunale del circondariato del domicilio del minore. I presupposti sono che i genitori o manchino, o sono morti, o sono interdetti, o sono impedititi nell’esercitare la potestà.
I compiti del tutore sono di assicurare l’istruzione e l’educazione del minore, e di curare anche i suoi interessi patrimoniali (art. 357 c.c.); il tutore non tenuto, però, al suo mantenimento e, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, non può compiere taluni atti, come l’acquisto di beni, la riscossione di capitali, l’accettazione di eredità (art. 374 c.c.).
Il protutore, rispetto al tutore, è un organo ora complementare, ora sostitutivo e sussidiario.
L’unica forma di emancipazione è quella legale, riconosciuta dal tribunale all’ultrasedicenne che contragga matrimonio prima della maggiore età (art. 390 c.c.).
Il minore è affiancato da un curatore, il quale ha il compito di giudicare adeguate le scelte del minore che si limitano agli atti di ordinaria amministrazione (art. 394 c.c.).
La mancanza della dichiarazione del minore comporta la nullità dell’atto; la mancanza della dichiarazione del curatore comporta l’annullabilità.
Il compito del curatore è di valutare che l’atto scelto dal minore sia adeguato per i suoi interessi. Il minore non può rifiutare il consenso del curatore, ma può richiedergli una verifica o una modifica.
Ci sono casi in cui il tribunale ritenga il minore capace di fare le proprie scelte come amministrare un’impresa; in questo caso il tribunale, in accordo con il curatore, ritiene il minore emancipato capace di svolgere gli atti di straordinaria amministrazione (art. 397 c.c.).
Gli organi della curatela sono: il giudice tutelare, il tribunale e il curatore, il quale (curatore), a differenza del tutore, non ha poteri di amministrazione, di rappresentanza e di cura del minore; il suo compito è di prestare il suo assenso agli atti compiuti dal minore.
10. Infermità mentale. L’interdizione giudiziale è causa impeditiva dell’acquisto della capacità di agire, quando la pronunzia avviene nell’ultimo anno della minore età (art. 416 c.c.) ed è causa estintiva della capacità se pronunciata dopo il raggiungimento della maggiore età (art. 414 c.c.).
L’interdizione legale è la perdita della capacità di agire ed è vista come pena accessoria a carico del condannato all’ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni.
L’infermità mentale è un’alterazione delle facoltà mentali, tale da dar luogo ad un’incapacità totale di provvedere ai propri interessi.
Per l’esistenza dell’infermità di mente non è necessario che ricorre una definita malattia mentale, ma è sufficiente che sussista il decadimento e il turbamento etico-sentimentale che compromettono l’esistenza del soggetto.
Condizione importante è l’abitualità, intesa come durevole purché non si preveda quando la guarigione potrà avvenire; essa non deve essere confusa con la continuità: l’esistenza di lucidi intervalli non è di ostacolo alla pronunzia di interdizione.
L’inabilitazione è la perdita parziale della capacità di agire, pronunciata per evitare effetti pregiudizievoli dell’attività negoziale.
La richiesta è fondata su pregiudizio riguardante fatti non ancora verificatisi o su pericoli patrimoniali derivanti dalla prodigalità del soggetto.
L’importanza essenziale nella fase istruttoria riveste l’esame diretto dell’interdicendo o dell’inabilitando da parte del giudice, tanto che questo non può nominare il tutore o il curatore provvisorio senza prima aver esperito tale esame (art. 419 c.c.).
Gli atti dell’interdetto sono annullabili quando compiuti senza la rappresentanza dl tutore; gli atti dell’inabilitato sono annullabili senza la presenza del curatore (art. 427 c.c.).
11. Incapacità di intendere e di volere. L’incapacità naturale s’identifica nell’inadeguata capacità di intendere e di volere l’atto che si sta compiendo.
L’annullabilità dell’atto è prevista quando negli atti unilaterali si dimostra un grave pregiudizio dell’incapace; nei contratti è prevista quando si dimostra la malafede dell’altro contraente (art. 428 c.c.).
L’incapacità naturale provoca e giustifica le pronunzie giudiziarie di interdizione o di inabilitazione dalle quali deriva l’incapacità di agire totale o parziale.
Le cause dell’incapacità naturale sono non soltanto turbamenti della psiche, ma anche tutto ciò che può alterare la sfera affettiva ed emozionale dell’individuo, tanto da privarlo, transitoriamente, della capacità naturale.
La prova è rigorosa e specifica e deve ritenere fatti obiettivi; la valutazione di essa è svolta dal giudice.
Parte terza: Situazioni giuridiche
B. Persone giuridiche.
12. Enti.
Organizzazioni costituite da individui e beni alle quali l’ordinamento giuridico riconosce la qualità di soggetti di diritto con capacità giuridica ( possibilità di essere titolari di situazioni soggettive) e capacità di agire (possibilità di esercitare diritti e doveri attraverso le persone fisiche, organi, che ne fanno parte).
La soggettività degli enti non è equiparabile a quella delle persone fisiche, perché all’ente non sono applicabili le disposizioni normative che presuppongono una persona fisica, quali quelle relative ai rapporti familiari, alla scomparsa, all’assenza, alla morte presunta.
Natura (controversa, abbiamo 2 teorie):
Teoria della finzione → l’ordinamento crea soggetti artificiali, enti distinti dagli individui singoli, per esigenze di commercio giuridico.
Teoria della realtà → l’ordinamento prende atto dell’esistenza di taluni enti e/o organismi nella vita sociale ai quali attribuisce poi soggettività.
Classificazioni
Sul piano STRUTTURALE:
− enti a struttura associativa ( associazioni);
− enti a struttura istituzionale (fondazioni).
Sul piano degli INTERESSI PERSEGUITI:
− enti pubblici (interessi generali);
− enti privati (interessi particolari).
Sul piano della FINALITÀ:
− enti privati con finalità lucrative o miste (società);
− enti privati con finalità ideali (associazioni, fondazioni, comitati).
Sul piano dell’AUTONOMIA PATRIMONIALE:
− enti con autonomia patrimoniale ( separazione del patrimonio dell’ente da quello di coloro che ne fanno parte ). Se tale separazione dei patrimoni è netta e l’ente ottiene la personalità giuridica, si parla di autonomia patrimoniale perfetta e in tal caso per le obbligazioni assunte in nome dell’ente risponde esclusivamente il patrimonio dell’ente, non attaccabile dai creditori personali dei componenti dell’ente stesso;
− enti con autonomia patrimoniale imperfetta (separazione relativa dei patrimoni, mancanza del riconoscimento → c.d. enti non riconosciuti).
In tal caso è prevista una responsabilità dei componenti dell’ente anche per le obbligazioni assunte dall’ente stesso.
Sul piano dell’acquisto della PERSONALITÀ GIURIDICA e dell’AUTONOMIA PATRIMONIALE PERFETTA:
− acquisto automatico con iscrizione nel registro delle imprese (sistema normativo → società di capitali);
− acquisto con decreto di riconoscimento del Presidente del Consiglio dei Ministri o ministeriale, su domanda degli interessati e sulla base dell’atto costitutivo e dello statuto, previa valutazione dell’attualità sociale dello scopo dell’ente e della consistenza del patrimonio (sistema concessorio → associazioni e fondazioni).
Il sistema è detto concessorio perché l’autorità competente non è obbligata a concedere il riconoscimento, quindi si dice che ha una certa “discrezionalità politica”.
N.B: l’autonomia patrimoniale perfetta diventa opponibile ai terzi soltanto con l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche istituito presso il Tribunale in ogni Provincia.
13-A. Fenomeno associativo e costituzione. Il fenomeno associativo è uno dei fenomeni più importanti sul piano sociale in quanto esso è tutelato dalla Costituzione: difatti, è sancito il diritto di “associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”, proibendo soltanto “le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazione di carattere militare” (art.18 cost.).
Tuttavia alla libertà d’associazione si affianca la democraticità, principio d’ordine pubblico costituzionale, che opera su due livelli; sul piano esterno, l’associazione deve essere a struttura aperta, cioè accessibile a tutti; sul piano interno, deve garantire a tutti i componenti di poter partecipare con pari dignità alla vita dell’organizzazione.
13-B. Associazioni – caratteri generali.
Le associazioni hanno bisogno di 4 elementi, di cui i primi tre sono definiti essenziali, senza cui l’associazione non avrebbe vita.
1. elemento personale → ha bisogno di una pluralità di persone che agiscono in nome e per conto dell’ente, sia come soggetti che lo formano, sia come destinatari del suo scopo;
2. elemento reale → riguarda il patrimonio dell’ente che serve per raggiungere lo scopo prefissato;
3. elemento teleologico → è lo scopo dell’ente, che dovrà essere determinabile e lecito: esso deve essere necessariamente indicato nell’atto costitutivo.
Questi tre elementi costituiscono il c.d. elemento materiale dell’ente: accanto a questi tre elementi essenziali, ce n’è un quarto.
4. elemento formale → ossia il riconoscimento, grazie al quale l’ente ottiene la personalità giuridica e quindi l’autonomia patrimoniale perfetta.
Per questo l’associazione può essere definita come un’organizzazione stabile, formata da una pluralità di persone (1° elemento), che avvalendosi di un patrimonio (2° elemento) persegue uno scopo comune (3° elemento) lecito, non lucrativo e meritevole di tutela.
Esiste poi una distinzione fra associazioni non riconosciute e associazioni riconosciute.
14. Associazioni non riconosciute. L’associazione è un’organizzazione stabile formata da una - (o di enti) che avvalendosi di un patrimonio persegue uno scopo comune non lucrativo e meritevole di tutela.
L’associazione non riconosciuta è chiamata così perché non ha richiesto e ottenuto il riconoscimento.
Per costituirsi ha bisogno di un atto costitutivo in forma di negozio associativo aperto all’adesione di altre parti (art. 1332 c.c.); in esso si presentano la manifestazione di volontà di creare l’ente.
Allegato all’atto vi è lo statuto, un insieme di regole che individuano lo scopo, l’ordinamento interno e l’amministrazione dell’associazione (art. 36 c.c.), deciso e stilato con l’accordo degli associati.
L’associazione non riconosciuta è la forma di associazione più frequente, perché la mancanza di riconoscimento determina l’assenza di ingerenze e di controlli dell’autorità amministrativa sulla vita dell’associazione.
Gli organi sono l’Assemblea e gli amministratori.
L’Assemblea, costituita dai partecipanti all’organizzazione, è l’organo sovrano e ad essa spettano le decisioni più importanti sulla vita dell’ente, come la determinazione dell’indirizzo politico-programmatico o l’individuazione degli amministratori.
Questi ultimi provvedono alla gestione dell’associazione ed hanno il potere di agire all’esterno in nome e per conto dell’ente. Importante è la tutela del singolo associato riguardo alle possibili controversie tra l’ente e l’associato.
L’associazione non riconosciuta ha un proprio patrimonio, cioè un fondo comune, costituito dai contributi degli associati e dai beni con tali contributi acquistati, nonché da tutti i diritti patrimoniali dei quali l’ente è titolare. Prima dell’estinzione dell’ente, gli associati non possono chiedere la divisione del fondo comune, né ripetere i contributi versati.
L’associazione che non ottiene il riconoscimento è definita associazione non riconosciuta (es. partiti, sindacati): in tal caso si applicheranno le stesse norme dettate per le associazioni riconosciute con esclusione solo di quelle che presuppongono il riconoscimento.
L’associazione non riconosciuta ha un’autonomia patrimoniale imperfetta.
Ne deriva che:
− i creditori dell’ente possono rivalersi sul fondo comune, che costituisce la garanzia patrimoniale generica delle obbligazioni dell’associazione non riconosciuta.
− delle obbligazioni dell’ente rispondono anche personalmente e solidalmente coloro che hanno agito in nome e per conto dell’ente, a meno che il creditore non sia uno degli associati.
Con l’accordo tra gli associati si può decidere lo scioglimento, la liquidazione e la devoluzione dei beni residui dell’associazione non riconosciuta.
L’assemblea può anche deliberare la fusione fra più associazioni creando un nuovo ente, con relativa successione a titolo universale nei rapporti; può anche deliberare la scissione di un’organizzazione in diverse entità.
15. Comitati. Il comitato è un insieme di persone che si accorda per una raccolta di fondi con pubblica sottoscrizione per perseguire un fine di interesse generale e non egoistico.
È considerato come un’entità soggettiva distinta sia da coloro che prendono l’iniziativa (promotori), sia da coloro che diversi da questi assumono la gestione dei fondi raccolti (organizzatori), sia da coloro che promettono le oblazioni (sottoscrittori).
Per l’atto costitutivo è sufficiente un accordo verbale: rilevante è che l’esistenza dell’organizzazione e le finalità siano dichiarate all’esterno.
Importante è anche il vincolo di destinazione del fondo, sicché non può essere in alcun modo devoluto per uno scopo diverso da quello pattuito e manifestato agli oblatori.
Nel comitato si rilevano due fenomeni, quello associativo, nella fase iniziale della costituzione e della raccolta delle risorse; quello della fondazione, nella fase successiva della gestione.
Il comitato ha una propria soggettività e può stare in giudizio nella persona del Presidente (art. 41² c.c.), in mancanza la soggettività è individuata nella persona che occupa la più alta posizione gerarchica. Il comitato ha un proprio patrimonio e può acquistare anche beni immobili.
Quanto alla responsabilità per le obbligazioni assunte, qualora non sia stata richiesta la personalità giuridica, opera l’autonomia patrimoniale imperfetta, per cui:
− i creditori personali dei partecipanti all’organizzazione non hanno diritti sul patrimonio dell’ente;
− delle obbligazioni assunte dall’ente rispondono personalmente e solidalmente tutti i componenti del comitato (art.41¹ c.c.) e le persone che hanno agito in nome e per conto dell’ente (art.38 c.c.). Per le obbligazioni del comitato non rispondono i sottoscrittori, i quali sono tenuti soltanto ad effettuare le oblazioni promesse (art.41¹ c.c.).
16. Associazioni di volontariato. Fenomeno molto importante cui l’ordinamento riserva una certa considerazione sono le associazioni di volontariato.
Tali associazioni sono comunità che perseguono scopi reputati particolarmente rilevanti sul piano sociale e che hanno nobili modalità d’attuazione mediante il volontariato, ossia un’attività prestata in modo personale, spontaneo e gratuito tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà.
Un esempio sono le associazioni di protezione ambientale, le associazioni venatorie, organizzazioni che svolgono attività idonee a favorire l’inserimento e l’integrazione di persone handicappate.
Tali organizzazioni possono assumere la forma giuridica più adeguata per il perseguimento dei loro fini, con la possibilità dell’iscrizione in appositi registri, conservando anche l’autonomia patrimoniale imperfetta. Da tale iscrizione scaturiscono vantaggi di non secondaria importanza.
Per avere diritto all’iscrizione è necessario che nell’atto costitutivo e nello statuto, redatti in forma scritta con sottoscrizione autenticata dei fondatori, sia prevista l’assenza di fini di lucro, democraticità della struttura, l’obbligo di formazione del bilancio, l’elettività e la gratuità delle cariche, ecc…
Dall’iscrizione nel registro consegue una serie di obblighi, pena la cancellazione, come quello di conservare la documentazione relativa alle entrate, alla possibilità di accedere a conti pubblici, di stipulare convenzioni. Le organizzazioni di volontariato prive di personalità giuridica e iscritti nei registri possono acquistare beni mobili registrati e beni immobili occorrenti alla propria attività, accettare donazioni, lasciti testamentari.
In ipotesi di scioglimento esaurita la fase della liquidazione, tali beni sono devoluti ad altre organizzazioni di volontariato operanti in analogo o identico settore.
Se non chiedono e quindi ottengono l’autonomia patrimoniale perfetta, nelle associazioni di volontariato vige l’autonomia patrimoniale imperfetta.
17. Associazioni riconosciute. Le associazioni non riconosciute possono richiedere l’iscrizione nei registri della prefettura e quindi ottenere la personalità giuridica con consequenziale autonomia patrimoniale perfetta.
La legge per l’iscrizione richiede l’atto pubblico redatto dal notaio, l’atto costitutivo e lo statuto.
Questi ultimi due devono contenere: la denominazione dell’ente, lo scopo, il patrimonio, la sede, i diritti e gli obblighi degli associati, le indicazioni della loro ammissione.
Poiché la personalità giuridica è concessa sulla base dell’atto costitutivo e dello statuto, ogni modifica di essi deve essere approvata dalla stessa autorità competente a concedere il riconoscimento. IL RICONOSCIMENTO HA FUNZIONE MODIFICATIVA.
L’iscrizione dell’associazione riconosciuta nel registro delle persone giuridiche istituito presso il Tribunale di ciascuna Provincia, ha la funzione di pubblicità dichiarativa, cioè di opponibilità ai terzi di tutte le vicende che concernono l’ente, nonché di tutte le limitazioni del potere rappresentativo degli amministratori.
Gli organi dell’associazione sono l’Assemblea e gli amministratori.
Assemblea → convocata dagli amministratori almeno una volta all’anno per l’approvazione del bilancio o comunque se ne è fatta richiesta motivata da almeno un decimo degli associati, l’assemblea è l’organo che riunisce gli associati.
Ha le competenze individuate nell’atto costitutivo e nello statuto ed indicate negli artt. 20, 21 e 22 c.c.: le stesse norme individuano altresì le ipotesi in cui è necessaria una deliberazione con maggioranza qualificata (modifica dell’atto costitutivo o dello statuto; scioglimento dell’associazione e devoluzione del patrimonio).
Di norma, infatti, l’assemblea delibera a maggioranza di voti con la presenza di almeno la metà degli aventi diritto a partecipare (in prima convocazione) o qualunque sia il numero degli intervenuti (in seconda convocazione).
Amministratori → organo di gestione dell’ente, sono eletti dall’assemblea e operano secondo le competenze e le funzioni attribuite con lo statuto.
Sono responsabili verso i terzi per la violazione degli obblighi connessi alla loro funzione e verso l’ente secondo le disposizioni sul mandato.
Fanno parte dell’associazione anche gli Associati: costoro non possono trasmettere la loro qualità nemmeno mortis causa.
La possibilità di recedere dall’associazione è sempre ammessa tranne se l’associato abbia assunto l’obbligo di far parte dell’organizzazione per un tempo determinato.
Le deliberazioni contrarie alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto possono essere annullate dall’autorità giudiziaria su istanza degli organi dell’ente, di qualunque associato o del p.m. , ma senza pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi in buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione delle delibere stesse.
L’impugnazione della deliberazione non ne sospende l’esecutività, salvo che non venga disposta per gravi motivi dall’autorità giudiziaria.
Sono inesistenti le delibere adottate da un’assemblea inesistente o non regolarmente costituita.
L’invalidità del singolo voto non comporta l’invalidità della delibera salvo la prova di resistenza (se si tratta cioè di un voto decisivo per la formazione della maggioranza).
L’esclusione è richiesta dall’assemblea solo per giusta causa e può essere impugnata dall’escluso entro sei mesi dalla notifica.
Gli associati che per qualsiasi causa non fanno più parte dell’organizzazione non possono ripetere i contributi versati, né hanno alcun diritto sul patrimonio dell’ente.
Fasi dell’Estinzione
− Deliberazione di scioglimento dell’ente o dichiarazione di estinzione dello stesso da parte dell’autorità amministrativa per una delle cause previste dalla legge;
− Liquidazione: gli amministratori non possono compiere nuove operazioni, ma solo porre in essere atti di ordinaria gestione per la conservazione del patrimonio.
La fase è gestita dai commissari liquidatori sotto il controllo del presidente del tribunale;
− Cancellazione dal registro delle persone giuridiche;
− Devoluzione dei beni residui in conformità all’atto costitutivo e allo statuto o, in mancanza, secondo la delibera assembleare di scioglimento o, in mancanza, attribuzione ad enti che perseguono scopi analoghi.
I creditori che non hanno fatto valere i loro crediti nella fase della liquidazione, entro un anno dalla chiusura, possono pretendere il pagamento dai soggetti ai quali i beni sono stati devoluti.
La responsabilità di costoro è nei limiti di ciò che hanno ricevuto.
18. Fondazioni. La fondazione è un’organizzazione stabile creata per la gestione di un patrimonio; tale patrimonio è destinato al perseguimento di uno scopo di pubblica utilità, individuato dal fondatore.
Per la creazione essa necessita di un atto costitutivo denominato negozio di fondazione, che si configura come atto unilaterale.
Deve rivestire la forma dell’atto pubblico se inter vivos, oppure una forma testamentaria se mortis causa.
Ad esso è collegato lo statuto, che, fra l’altro, tratta dei criteri della gestione e di erogazione delle rendite; può contenere disposizioni sull’estinzione, trasformazione e devoluzione del patrimonio.
Nella fondazione si distinguono il negozio di fondazione, dove si manifesta la volontà di costituire l’ente, e il negozio di dotazione, accessorio al primo, con il quale si trasferiscono i beni.
L’atto di fondazione può essere revocato dal fondatore fino a quando non sia intervenuto il riconoscimento, cioè il fondatore non abbia fatto iniziare l’attività dell’opera da lui disposta; questa facoltà non si trasmette agli eredi.
La fondazione diviene autonomo soggetto di diritto con la concessione del riconoscimento; prima che il riconoscimento avvenga, per quanto riguarda le obbligazioni, ne rispondono esclusivamente il fondatore e gli amministratori.
Nella fondazione manca l’assemblea e il compito di gestione va agli amministratori.
Non esistendo un organo di controllo, il controllo della pubblica amministrazione è più penetrante.
Quando lo scopo è stato esaurito o è divenuto impossibile, o il patrimonio è diventato insufficiente, l’autorità amministrativa anziché dichiarare estinta la fondazione la trasforma mediante la fusione fra più enti, oppure devolve il patrimonio a fondazioni che si allontanino il meno possibile dalla volontà del fondatore.
Parte Terza
B. Situazioni reali di godimento.
18 I beni. I beni sono le cose che possono formare oggetto di diritto (art. 810 c.c.).
Per cose non s’intendono solo le cose materiali, ma anche quelle immateriali.
Il termine cosa quindi è usato in via generale. I beni sono oggetti di situazioni soggettive e quindi di un rapporto giuridico.
I beni si dividono in:
beni in commercio e fuori commercio, dove la differenza è che i beni fuori commercio non si possono acquistare la proprietà, nemmeno per usucapione;
beni pubblici e privati (art. 822 c.c.), dove i beni pubblici hanno come titolare di diritto lo Stato o un ente pubblico e appartengono al demanio pubblico; i beni sononecessariamente demaniali, quando non possono che non appartenere allo Stato (spiaggia), o accidentalmente demaniali, il bene diventa demaniale quando diventa di proprietà dello Stato (strade e ferrovie);
beni immobili e mobili (812 c.c.), dove i beni immobili sono quei beni non trasportabili perché naturalmente (un albero), o artificialmente (un edificio) sono incorporati al suolo; o beni mobili sono la restante parte dei beni. Questa distinzione non sempre è fattibile, perché alcuni beni mobili vengono iscritti nei registri come i beni immobili (art. 815 c.c.);
beni divisibili e indivisibili, dove la divisibilità è possibile solo quando le singole parti divise conservino un valore economico proporzionato al bene intero;
beni fungibili e infungibili, dove esistono beni che possono essere sostituiti e altri dove la quantità e la qualità è insostituibile;
beni generici e specifici, dove i beni generici appartengono ad un determinato genere e quelli specifici sono considerati per la loro indivisibilità;
beni produttivi e improduttivi, dove la differenza sta nel fatto che i beni produttiviproducono direttamente o indirettamente un frutto. I frutti possono essere naturali o civili (art. 820 c.c.): sono naturali quelli che derivano direttamente da un altro bene a prescindere dall’eventuale opera dell’uomo (il melo comunque produrrà i suoi frutti, e così gli animali i loro nati); sono civili i frutti che conseguono alla particolare utilizzazione economica del bene e che coincidono con i redditi che si traggono dal godimento del bene concesso ad altri (il canone di locazione di un appartamento o gli interessi su una somma di denaro.
Mentre i frutti naturali si acquistano con la separazione dal bene che li produce, i frutti civili si acquistano giorno per giorno in considerazione della durata del diritto (art. 821 c.c.);
beni consumabili e inconsumabili, i dove i beni consumabili si trasformano o si estinguono (cibo) e i beni inconsumabili hanno un’utilità ripetibile anche se il bene si deteriora (vestito).
Il bene può risultare anche dalla particolare connessione che può instaurarsi tra più cose: si discorre, in queste ipotesi di combinazioni di cose che possono essere cose composte o universalità di mobili.
Le universalità di mobili (art. 816 c.c.) sono costituite dalla relazione di più cose destinate alla funzione unitaria, appartenenti allo stesso proprietario (biblioteca). La disciplina è diversa da quella dei singoli beni; ad esempio il principio possesso vale titoloè applicabile ai singoli beni, ma non alle universalità.
Le cose composte sono costitute dalla connessione di più cose che, nella destinazione unitaria, perdono la loro funzione originaria per adempierne una diversa (automobile).
La cosa composta si distingue dall’universalità di mobili fondamentalmente perché nell’universalità non vi è coesione fisica fra i vari elementi, infatti la cosa composta viene considerata come un bene semplice.
Le pertinenze riguardano quei beni che hanno funzione durevole, di servizio o di ornamento, di un altro bene; esse hanno carattere accessorio.
19. La proprietà nel codice e nella Costituzione. La proprietà si pone come uno dei fenomeni centrali per il suo stretto collegamento con quasi tutti gli istituti di diritto civile; si presenta come il pilastro degli ordinamenti e, si è reputato, di poterla annoverare tra i diritti fondamentali ed inviolabili dell’uomo. La proprietà, storicamente concepita in senso “statico” come fonte di reddito e di godimento, si adegua al modello industriale della società moderna e s’inserisce nella complessità dei rapporti economici. Da centro del sistema, la proprietà diviene soprattutto uno degli strumenti mediante i quali si manifesta l’iniziativa economica.
La proprietà è il diritto pieno ed esclusivo di disporre delle cose, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento (art. 832 c.c.).
Il codice del 1865 prevede limiti negativi, quello del 1942, affianca a questi ultimi comportamenti positivi. L’espressione “osservanza degli obblighi stabilita dall’ordinamento” sottintende la realizzazione della funzione che la proprietà deve realizzare (utilità produttivistica) alla quale non ci si può sottrarre. Emblematica è la possibilità di espropriare i beni che interessano la produzione nazionale se il proprietario n’abbandona la conservazione, la coltivazione o l’esercizio (art. 838 c.c.). Contrariamente a quanto traspariva nello Statuto Albertino, la proprietà non è più un attributo della persona, ma ne diviene uno degli strumenti mediante i quali si realizza la sua personalità (profilo dinamico previsto dalla Costituzione).
Nella Costituzione, la proprietà è garantita non tra i principi fondamentali (art. 1-12 cost.), né tra i diritti di libertà (art. 13-28 cost.), ma tra i rapporti economici (art. 35-47 cost.). La proprietà è riconosciuta esclusivamente come situazione garantita dall’ordinamento che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti (art. 42 cost.).
La funzione sociale assegnata alla proprietà permette di individuare la giustificazione dell’attribuzione del diritto al soggetto e gli scopi da perseguire, sulla base dei principi di solidarietà e di promozione della persona.
20. Poteri di godimento e di disposizione. Il potere di godimento è la facoltà di usare o no la cosa, di deciderne le modalità d’uso, di trasformazione o addirittura la distruzione.
Il potere di disposizione è la possibilità di compiere atti giuridici o di scegliere la destinazione economica del bene o di disporre materialmente della cosa o, inoltre, di scegliere il tempo di utilizzazione e di godimento della stessa. Godimento e disponibilità sono pieni ed esclusivi; sono pieni (pienezza), nel senso che della cosa o sulla cosa il proprietario può fare ciò che vuole; sono esclusivi (esclusività) nel senso che è vietata qualsiasi intromissione altrui nelle scelte del proprietario. La pienezza e l’esclusività incontrano dei limiti quando i beni non sono ad uso strettamente personale.
21. Pluralità di statuti proprietari. Esistono moltissime tipologie di proprietà: case, appartamento, ecc…. Quindi la proprietà si caratterizza per i profili più diversi e dalle differenti caratterizzazioni. A ciò consegue una variegata disciplina, perché è impensabile applicare la stessa disciplina per due tipologie ben diverse di proprietà.
22. I limiti e gli obblighi. Accanto alla proprietà ci sono logicamente dei limiti e degli obblighi che si differenziano in vincoli pubblici, che riguardano la legislazione pubblicistica, e i vincoli privati, che riguardano i conflitti tra proprietari. Ulteriori limiti e obblighi emergono dalla legislazione speciale: si pensi, in particolare, alla materia edilizia ed urbanistica in genere, alla legislazione in tema di locazione e alla legislazione sull’edificabilità dei suoli.
Oltre all’urbanistica, altro limite molto importante riguarda l’ambiente e soprattutto la sua difesa dalla sua distruzione e dall’abusivismo. Collegate ai limiti ci sono le limitazioni delle proprietà conseguenti all’esercizio dell’espropriazione, riconosciuto dalla pubblica amministrazione. Con l’espropriazione si sottrae la proprietà ad un soggetto allo scopo di destinare il bene espropriato ad una finalità di interesse generale. Presupposto importante affinché avvenga l’espropriazione è la finalità per un interesse generale. All’espropriato andrà, come di logica, un indennizzo in moneta o in lotti edificabili.
23. Rapporti di vicinato. Il legislatore prevede una disciplina specifica per regolare i rapporti fra proprietari vicini, tendente a contemperare il diritto al libero esercizio, con il diritto altrui a non vedersi leso nella propria situazione di godimento.
I rapporti di vicinato sono disciplinati dall’ordinamento che vieta:
atti emulativi, ossia atti che presentano pregiudizi ad altri come la sopraelevazione di un muro che toglie aria e luce al fondo vicino (art. 833 c.c.);
immissioni, ossia immissioni di fumo o calore, esalazioni, rumori e tutto ciò che va oltre la tollerabilità (art. 834 c.c.).
Una specifica disciplina riguarda le distanze; essa si pone lo scopo di preservare il godimento del diritto altrui; riguardo a ciò abbiamo la comunione forzosa del muro di confine (art. 874 ss c.c.): il proprietario può richiedere la comunione del muro di un fondo contiguo e diventarne così contitolare. Egli, comunque, pagherà un indennizzo per la metà del valore della terra su cui fonda il muro e metà del valore del muro. Specifiche distanze, anche queste tendenti a garantire il godimento del bene da parte del proprietario confinante, sono previste per i pozzi, per i fossi, per i canali, per le fabbriche, per i depositi nocivi o pericolosi e per le piantagioni (art. 889 ss c.c.).
Quanto alle aperture di luce e vedute, queste sono sottoposte ad una disciplina che tende a contemperare l’esigenza di godere nei propri ambienti di luce naturale e vedute panoramiche con la necessità di garantire comunque la riservatezza del proprietario del fondo vicino.
La luce è l’apertura che senza possibilità di guardare sul fondo vicino consente l’entrata d’aria e luce naturale; la veduta è l’apertura che consente di vedere sul fondo vicino [art.901, 903, 905 c.c.].
24. Proprietà fondiaria: edilizia e rurale. Per proprietà fondiaria, il codice considera la proprietà edilizia (art. 869 ss c.c.), rurale (art. 846 ss c.c.) e i diritti sulle acque (art. 909 ss c.c.).
La proprietà fondiaria è, in linea di principio, illimitata in altezza e profondità.
L’illimitatezza trova il suo confine nell’interesse del proprietario; nel caso manchi tale interesse, il diritto del proprietario non è più tutelato e non può opporsi all’attività dei terzi (art. 840 c.c.).
Egli ha diritto di chiudere il fondo in qualunque tempo e modo nei limiti stabiliti dall’ordinamento (art. 841 c.c.). Egli non può impedire la caccia salvo che il passaggio dei cacciatori comprometta il fondo (art. 842 c.c.).
La proprietà edilizia è limitata dall’urbanistica dei comuni, che definiscono zone edificabili e non. Ai comuni si è riconosciuto il potere di classificare il territorio comunale in zone al fine di destinare ciascuna di esse alla realizzazione di specifiche opere: edilizia residenziale, viabilità e servizi pubblici in genere, verde pubblico, ecc….; gli strumenti utilizzati dai comuni per stabilire i vincoli di zonizzazione sono i piani regolatori. Alcune lacune presenti nella legislazione urbanistica sono state colmate definitivamente con la legge Bucalossi, dove si è sostituita la precedente licenza con una concessione edilizia rilasciata dai comuni nei limiti della conformità dell’opera agli strumenti di pianificazione urbanistica, e si è trasferito sul proprietario il costo del contributo per le opere di urbanizzazione. Con questo sistema non si è voluto eliminare la facoltà di costruire (ius aedificandi) dai poteri del proprietario, ma hanno il solo scopo di accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall’ordinamento per l’esercizio del diritto nei limiti nei quali il sistema normativo ne riconosce l’esistenza.
Un particolare limite della normativa urbanistica è costituito dal rapporto tra superficie e volumetria, perché ad ogni area corrisponde un preciso volume di quanto è possibile costruire. Questo rapporto è stabilito soltanto in via potenziale dai piani regolatori; il consenso dei proprietari si manifesta con il trasferimento di volumetria o di cubatura.
Diverso e grave problema, rimasto tuttora irrisolto, è quello della sperequazione (disuguaglianza) che si crea fra i proprietari a seguito dell’adozione del piano regolatore; attesi i diversi valori economici di mercato, non è indifferente se il proprio terreno è destinato a verde o a zona residenziale.
La proprietà rurale è quella dei terreni agricoli; da qui la sua denominazione di proprietà terriera o, meglio, di proprietà agraria. Essa è limitata dalle trasformazioni dei terreni per il miglioramento della produzione (art. 857 ss c.c.) e dai vincoli idrogeologici (art. 866 ss c.c.).
25. Modi di acquisto della proprietà a titolo originario. L’acquisto della proprietà può avvenire sia mediante atti di natura negoziale (contratti) sia con semplici fatti naturali. Contrariamente all’acquisto a titolo originario, che fa nascere il diritto pieno, l’acquisto a titolo derivativo è retto dal principio per il quale chi trasferisce (dante causa) non può cedere un diritto più ampio di quello del titolare. Il nuovo proprietario (avente causa) acquista un diritto identico per contenuto a quello di cui era titolare il dante causa. I modi di acquisto della proprietà sono indicati dall’art. 922 del c.c. e quelli a titolo originario sono (art. 923 ss. c.c.):
l’occupazione, materiale impossessamento della cosa, con la volontà di farla propria;
l’invenzione, ritrovamento di cose smarrite; il ritrovatore diventa possessore e ha l’obbligo di portare la cosa smarrita al comune che si occuperà di rendere noto il ritrovamento: se il proprietario reclama la cosa smarrita, al ritrovatore spetta un premio, altrimenti, dopo un anno dal ritrovamento, il ritrovatore ne diventa titolare di diritto;
il tesoro, ritrovamento di una cosa seppellita o nascosta; il ritrovatore ne diventa proprietario tranne nei casi in cui la cosa ritrovata sia di pubblico interesse (interesse artistico). In questo caso, al ritrovatore e al proprietario del fondo, dove la cosa è stata ritrovata, spetta un indennizzo;
l’accessione, può essere di tre tipi:
1. da cosa mobile a cosa immobile; es.: costruzione di opere su fondo altrui.
Il proprietario del fondo diventa proprietario dell’opera se è stata costruita a sua insaputa e può chiedere la sua demolizione; se l’opera è stata costruita a conoscenza del proprietario del fondo, quest’ultimo deve pagare un indennizzo al costruttore e non può chiederne la demolizione;
2. da cosa immobile a cosa immobile; es.: l’alluvione e l’avulsione.
Con l’alluvione, il proprietario del fondo dove si sono depositati i detriti, provenienti, in modo lento e progressivo da un altro fondo, diventa proprietario anche dell’incremento.
Con l’avulsione, il proprietario del fondo, dove si sono depositati parti considerevoli e riconoscibili di un altro fondo, diventa proprietario dell’incremento pagando però un indennizzo al proprietario dell’altro fondo.
3. da cosa mobile a cosa mobile; es.: l’unione e la commistione.
Con l’unione di due beni, il proprietario del bene principale diventa proprietario del secondario e lo stesso vale per la commistione dove però i beni sono mescolati. In entrambi i casi, il portatore dell’interesse più grande deve corrispondere un indennizzo all’altra parte.
Vi è anche l’accessione invertita; è il caso in cui il proprietario di un fondo contiguo ad un altro, costruisce nel fondo contiguo in una parte non utilizzata, un’opera per il suo interesse. Egli può chiedere di diventare proprietario della parte di fondo occupata entro tre mesi dalla costruzione dell’opera, pagando, come indennizzo, il doppio del valore della terra; l’altro proprietario può opporsi facendosi risarcire i danni.
La specificazione ha lo stesso principio dell’accessione invertita; è il caso dell’acquisto della proprietà di una cosa creata con materiale altrui: Ad esempio uno scultore che, utilizza il marmo di un’altra persona per creare la sua opera, deve pagare un indennizzo al proprietario del marmo per diventarne proprietario; delle volte può accadere che il valore della materia è maggiore di quello della manodopera, e in questi casi è il proprietario della materia che deve pagare un indennizzo a colui che creato l’opera per diventarne proprietario.
26. Superficie. Il diritto di superficie è l’acquisto della proprietà della costruzione esistente o il diritto di edificare, fermo restando il separato diritto di proprietà sul suolo (art. 952 c.c.).
Il diritto di superficie determina un particolare modello di proprietà, la cosiddetta proprietà superficiaria; essa è caratterizzata dal fatto che non si estende più verticalmente, ma orizzontalmente. Il contratto tra il proprietario del suolo e il superficiario sospende l’operatività del principio d’accessione. Il diritto di costruzione e il diritto di edificare pur avendo com’effetto lo stesso risultato, cioè l’acquisto della proprietà su un suolo altrui, configurano situazioni diverse. Se la costruzione già esiste, ciò che si costituisce è un diritto di proprietà sull’opera. Se il proprietario, invece, attribuisce la possibilità di costruire sul proprio suolo ad un terzo, questi acquista prima il diritto di edificare e, una volta eseguita l’opera, la proprietà sull’edificio.
La differenza sta nel fatto che, quando si acquista il diritto di proprietà sulla costruzione, l’acquisto sarebbe a titolo derivativo; mentre se si acquista il diritto ad edificare, la proprietà sulla costruzione si costituirebbe a titolo originario. Se si è acquistato un diritto di proprietà, il diritto è imprescrittibile; se si è acquistato un diritto di edificare, il diritto è sottoposto al regime della prescrizione, con la conseguenza che, se non si edifica nel termine di 20 anni, il diritto si prescrive (art. 954c.c.).
Il diritto si costituisce per contratto, testamento o usucapione e può essere previsto a tempo determinato o indeterminato. Se è a tempo determinato, alla scadenza del termine, vale il principio dell’accessione, cioè la costruzione accederà al suolo ed il proprietario di quest’ultimo diverrà proprietario anche dell’opera costruita (art. 953 c.c.).
Il diritto di superficie si estingue per decorrenza del termine, per rinunzia del superficiario, per riunificazione della figura del proprietario con quella del superficiario; non si estingue per il perimento della costruzione [art. 954 c.c.].
27. Enfiteusi. L’enfiteusi è un diritto di godimento su cosa altrui; il proprietario di un suolo dà in enfiteusi il suddetto diritto ad un terzo (enfiteuta), il quale esercita gli stessi diritti di godimento del proprietario. Gli obblighi dell’enfiteuta sono: migliorare il fondo e pagare un canone (art. 960 c.c.). All’enfiteuta sono riconosciuti tutti i diritti sul fondo e sulle accessioni (art. 959 c.c.), quindi la posizione dell’enfiteuta si configura come dominio utile, quella del proprietario come dominio diretto.
Oltre che su fondi rustici, l’enfiteusi può essere costituita anche su fondi urbani, dove è concessa o su un fondo al quale accede un edificio o su un fondo concesso allo scopo di costruirvi un edificio. Gli incrementi di valore che si determinano con l’enfiteusi urbana sono diversi da quelli dell’enfiteusi rustica ed hanno diversa disciplina.
L’enfiteusi si può costituire per contratto, in forma scritta, per testamento o usucapione e può essere a tempo determinato o perpetuo; se è stabilita a tempo determinato, non può avere una durata inferiore ai 20 anni (art. 958 c.c.).
L’enfiteuta può modificare la destinazione del fondo (art. 959 c.c.); può disporre per testamento del proprio diritto (art. 965 c.c.), ma non può cederlo in subenfiteusi (art. 968 c.c.).
L’estinzione si ha a seguito della scadenza del termine, rinunzia dell’enfiteuta, per perimento totale del fondo ed espropriazione, si estingue anche quando l’enfiteuta non ha migliorato il fondo o non ha pagato due annualità di canone (art. 972 c.c.). Il legislatore prevede due peculiari modi di estinzione del diritto: l’affrancazione e la devoluzione.
Con l’affrancazione si attribuisce all’enfiteuta un diritto all’acquisto (a titolo derivativo) della proprietà del fondo, pagando una somma di denaro che si ottiene moltiplicando per quindici volte il valore del canone annuo (capitalizzazione del fondo).
La devoluzione è sostanzialmente un’azione di risoluzione, tendente a tutelare il proprietario di fronte alle inadempienze degli obblighi dell’enfiteuta.
In virtù dell’estinzione, l’enfiteuta ha un diritto ad un rimborso, commisurato all’incremento di valore apportato sulla base dei miglioramenti e delle addizioni fatte; resta il diritto di togliere le addizioni fatte senza arrecare danno al fondo (art. 975 c.c.).
28. Diritti di godimento su cosa altrui. Accanto alla proprietà ci sono altre situazioni di godimento su cosa altrui; tali situazioni si configurano quando si vantano dei diritti o verso il proprietario o verso il bene. All’enfiteusi e alla superficie si aggiungono l’usufrutto, l’uso e l’abitazione, le servitù.
29. Segue. Usufrutto. L’usufrutto è il diritto di godere di un bene altrui e dei suoi frutti con l’obbligo di conservare la destinazione economica del bene e di restituirlo alla scadenza (art. 978 ss c.c.). Il bene dato in godimento deve essere un bene fruttifero e non consumabile, però esiste anche l’usufrutto dei beni consumabili (quasi usufrutto). I frutti sono acquistati dall’usufruttuario secondo le regole generali (art. 984 c.c.).Limite importante, cui è tenuto l’usufruttuario, è quello di non modificare l’indirizzo economico del bene, pena il pagamento di sanzione; è tenuto al risarcimento del danno qualora alteri l’originaria destinazione economica e può anche essere condannato al ripristino delle precedenti condizioni. Quanto al godimento, l’usufrutto non può durare oltre la vita dell’usufruttuario; se è costituito a favore di una persona giuridica, non può eccedere i trent’anni (art. 979 c.c.); esso non trasmissibile mortis causa.
L’usufrutto congiunto riguarda un usufrutto costituito nei confronti di più persone che si esaurisce o per scadenza del termine o per la morte dell’ultimo socio.
L’usufrutto successivo è il passaggio automatico dell’usufrutto da una persona ad un’altra per l’ipotesi di morte di una di esse; è costituito a titolo oneroso ed è espressamente escluso riguardo agli atti mortis causa. L’usufrutto si costituisce per legge (genitori sui beni dei figli), volontariamente (per contratto o testamento) e per usucapione. Il diritto è cedibile ma la cessione non può eccedere la durata originaria (art. 980 c.c.). L’obbligo dell’usufruttuario è quello di restituire alla scadenza il bene con l’osservanza della diligenza del buon padre di famiglia. L’usufruttuario è tenuto alle spese di mantenimento del bene dato in usufrutto ed i suoi diritti, oltre che sui frutti, si estendono ai miglioramenti e alle addizioni, ma non al tesoro. L’estinzione dell’usufrutto si ha per scadenza del termine, per rinunzia, per prescrizione determinata dal non uso protratto per 20 anni, per consolidazione, per il perimento totale e non quello parziale della cosa, per abuso dell’usufruttuario susseguente all’alienazione dei beni o al loro deterioramento. Non si estingue invece se la cosa è espropriata e se perisce per colpa o dolo di terzi.
30. Segue. Uso e abitazione. A differenza dell’usufrutto, l’uso e l’abitazione hanno limitata misura della facoltà di godimento che si attribuisce sulla cosa. L’uso è diritto personalissimo, che attribuisce al suo titolare il potere di servirsi della cosa e di raccoglierne gli eventuali frutti, limitatamente ai bisogni della sua famiglia (art. 1021 c.c.). Quando l’uso ha per oggetto un’abitazione, la situazione si qualifica diritto di abitazione (art. 1022 c.c.).
L’uso e l’abitazione si costituiscono per usucapione, volontariamente o per legge. Si estinguono con la morte del titolare e non possono essere dati in locazione o formare oggetto di testamento.
31. Segue. Servitù. La servitù è un diritto reale di godimento che consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario (art. 1027 c.c.). Da questa definizione si delineano il fondo servente, il quale ha delle limitazioni delle facoltà gravate dal peso, e il fondo dominante, che dal peso ne ricava un’utilità.
Il compito del proprietario del fondo servente è di sopportare, di tenere un comportamento negativo di non fare. Le spese per l’esercizio delle servitù sono a carico del fondo dominante, salvo diversa disposizione (art. 1030 c.c.).
Affinché vi sia una situazione di servitù sono richiesti tali presupposti: che tra di due fondi sussista una relazione di servizio e quindi anche di utilità e che vi siano due proprietari diversi riferiti non però a due persone distinte, ma a due situazioni distinte, ad esempio, un proprietario può essere titolare di uno dei due fondi e contitolare dell’altro fondo.
Le servitù si costituiscono per contratto o testamento; per le sole servitù apparenti sono previsti l’usucapione e la destinazione del buon padre di famiglia, che consiste in un modo di acquisto a titolo originario di due fondi ora divisi, ma primi uniti, dove sono state predisposte opere visibili di servizio per un fondo in modo tale da manifestare appunto l’esistenza di una relazione di servizio.
Le servitù si distinguono:
apparenti, caratterizzate dall’esistenza di opere visibili e permanenti, destinate all’esercizio della servitù; e non apparenti, dove manca un’opera visibile (es: servitù di non edificare);
affermative (o positive), costituite a favore della situazione soggettiva dominante del potere di svolgere un’attività nel fondo servente; e negative, ossia proibizione a carico della situazione servente di compiere atti o comportamenti;
continue, che per il loro esercizio presuppongono una precedente opera; e discontinue, prescindono da opere e l’esercizio coincide con il fatto stesso dell’uomo (es: servitù di passaggio); volontarie (art. 13504, 1058 c.c.), si costituiscono per volontà dei singoli (contratto o testamento) o per legge; e coattive (art. 1031 c.c.), soddisfano una necessità del fondo dominante in base al principio di un dovere di solidarietà per un pubblico interesse. Le servitù coattive sono costituite per accordo tra i titolari o per sentenza o per atto amministrativo (es: espropriazione per pubblica utilità).
Nell’esercizio delle servitù, al fondo dominante è richiesto di non aggravare oltre i limiti stabiliti la situazione servente, e al fondo servente è richiesto di non ostacolare o diminuire l’esercizio del fondo dominante.
La servitù si estingue per confusione (art. 1072 c.c.), decorrenza del termine, rinuncia (art. 13505 c.c.), abbandono del fondo servente (art. 1070 c.c.) e prescrizione determinata dal non uso ventennale (art. 1073 c.c.). Il decorso del termine per la prescrizione per le servitù continue avviene da quando non è più possibile esercitare il diritto; nelle discontinue, il decorso del termine per la prescrizione scatta dall’ultima volta che è stato esercitato il diritto (art. 1073² e ³).
32.Comunione. Quando la titolarità di una situazione di godimento è di più soggetti si parla di comunione (art. 1100 c.c.). La disciplina della comunione è costruita sulla base della comproprietà, alle situazioni di godimento su cosa altrui, e sulla base di valutazione di compatibilità, alle altre situazioni patrimoniali.
La comunione può essere volontaria (se nasce dall’accordo dei soggetti), legale (o forzosa; se nasce dalla legge) e incidentale (se nasce da un evento casuale; es: comunione fra più eredi).
Esistono tuttavia forme speciali di comunione come la comunione legale fra i coniugi. Nella comunione, il godimento di uno dei titolari si deve misurare con quello dell‘altro, e cioè, non può neanche modificare la destinazione della cosa comune (art. 1102 c.c.).
La comunione attribuisce ad ogni titolare una quota, sulla quale sono calcolati proporzionalmente i vantaggi del godimento e gli svantaggi riguardanti le spese di godimento e di mantenimento. Salvo diversa disposizione, le partecipazioni si presumono eguali fra i contitolari (art. 1101 c.c.).
Inoltre, ciascun partecipante, se si tratta di cose divisibili, può chiedere lo scioglimento della comunione, purché non sia forzosa o non si sia stabilito che la contitolarità debba rimanere per un certo tempo (art. 1111 c.c.). All’amministrazione concorrono tutti i partecipanti sulla base di deliberazioni prese dall’assemblea, impugnabili entro 30 giorni. Per gli atti di ordinaria amministrazione, può essere formato un regolamento e nominato un amministratore. La maggioranza è calcolata sulla quantità di valore rappresentata dalle rispettive quote di partecipazione e non sul numero dei partecipanti: per gli atti di ordinaria amministrazione, sono calcolate sulla base del valore delle quote; per gli atti di straordinaria amministrazione, occorrono i due terzi del valore complessivo della cosa comune. Si richiede l’unanimità dei consensi per gli atti di alienazione (vendita) o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a 9 anni (art. 1105-1109 c.c.).
Per i beni divisibili, lo scioglimento può essere richiesto con l’accordo delle parti e la ripartizione è fatta tenendo conto delle quote. Nel caso dei beni indivisibili, i titolari provvedono all’alienazione e alla ripartizione del ricavato in base alle quote.
33. Condominio negli edifici. Il condominio è un caso particolare di più diritti esclusivi; esso riunisce da una parte la proprietà privata dell’appartamento, dall’altra la comunione forzosa dell’edificio (art. 1117 c.c.). Ciò comporta quindi dei diritti sulle parti comuni, calcolati sul valore della proprietà esclusiva, e dei doveri, che sono calcolati in base alla destinazione del servizio; logicamente ci sono delle spese che sono ripartite o in quote o in base all’uso.
Le parti comuni sono indivisibili, salvo che la divisione possa farsi senza pregiudizio per gli altri.
Gli organi per l’amministrazione del condominio sono l’assemblea e l’amministratore (la nomina di quest’ultimo è obbligatoria nei condomini con più di quattro partecipanti; art. 1129 c.c.).
L’assemblea si riunisce per deliberare sui fatti dell’edificio; essa delibera con principio maggioritario ed è vincolante anche per i condomini assenti o dissenzienti. Le delibere sono impugnabili entro 30 giorni. È possibile la formazione di un regolamento che disciplini l’uso delle cose comuni, la ripartizione delle spese e l’amministrazione; il regolamento è obbligatorio negli edifici con più di dieci proprietari esclusivi (art. 1135-1138 c.c.).
L’amministratore è l’organo esecutivo e, nei limiti dell’attribuzione e dei poteri conferitigli dal regolamento, rappresenta i condomini sia in giudizio sia nei confronti dei terzi (art. 1130, 1131 c.c.).
Quando più edifici hanno tra loro in comunione una serie di opere staccate, ma destinate a servizio di ciascuna di esse, si ha il supercondominio, formato da edifici e da parti comuni ad essi: le strade di accesso, la centrale termica, i parcheggi, i prati, ecc….
34. Multiproprietà. La multiproprietà è il diritto con riferimento qualificante nel tempo; tale diritto, esercitato su un bene comune, consiste in un godimento turnario, cioè limitatamente ad un determinato periodo. La multiproprietà, pertanto, si caratterizza per l’esistenza di una comunione e per il godimento esclusivo della cosa comune, esercitabile, per ognuno, in periodi predeterminati.
Una funzione molto importante è ricoperta dal regolamento: esso, predisposto dal promotore e accettato con gli atti di acquisto delle singole quote della multiproprietà, disciplina l’uso delle parti e dei servizi comuni nonché la partecipazione alle relative spese.
Molto frequenti sono le multiproprietà alberghiere, dove si ha il diritto di godere a turno di un’imprecisata unità abitativa, e quelle azionarie, dove il complesso immobiliare cede ai multiproprietari una quota di azioni determinata sulla base dei periodi di godimento.
La multiproprietà è disciplinata dal legislatore, che tutela principalmente l’acquirente attribuendogli il diritto di recesso o la nullità dei patti che dovessero pregiudicarne la posizione.
35. Azioni a difesa dei diritti di godimento. Le azioni a tutela delle situazioni di godimento vanno distinte in: petitorie, concesse al solo proprietario; confessorie e di nunciazione, esperibili anche dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui; possessorie, previste per il possessore.
A difesa del suo diritto, il proprietario ha a disposizione:
l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), dove è presupposta la mancanza del possesso e colui che si reputa proprietario richiede la restituzione a colui che la possiede. Il proprietario deve dare prova dell’acquisto o a titolo originario, o a titolo derivativo; a titolo derivativo, bisogna risalire, mediante i precedenti danti causa, all’acquisto a titolo originario. Chi pretende di essere proprietario dovrebbe provare non soltanto di aver acquistato il diritto da un precedente titolare, ma anche che il diritto di questo trova un valido titolo in un precedente acquisto e così fino al primo originario proprietario (probatio diabolica).
l’azione negatoria (art. 949 c.c.) spetta al proprietario contro chi pretende di avere diritti reali di godimento sulla sua cosa, quando da questi si teme di subire un pregiudizio. Il proprietario mira ad ottenere dal giudice non solo l’accertamento dell’inesistenza del diritto altrui, ma anche l’ordine di far cessare le turbative e le molestie sulla sua proprietà. Al proprietario basta dimostrare il proprio diritto di proprietà, mentre il convenuto ha l’onere di provare l’esistenza del suo diritto che gli è stato negato dal proprietario.
l’azione di regolamento di confini (art. 950 c.c.), consiste nella demarcazione dei confini tra due fondi, quando mancano limiti certi; la prova del confine può essere data in qualsiasi modo e, in mancanza di prove, il giudice può procedere all’accertamento, anche mediante l’esame delle mappe catastali.
l’azione di opposizione di termini (art.951 c.c.), presuppone la mancanza di segni per individuare i confini; si richiede l’apposizione, a spese di entrambi i proprietari, dei segni di confine.
Per i titolari di un diritto di godimento su cosa altrui ci sono:
l’azione confessoria (art. 1079 c.c.), dove si tende a far riconoscere non solo l’esistenza del proprio diritto di godimento su cosa altrui contro chi ne contesti l’esercizio, ma si mira ad ottenere dal giudice la cessazione degli atti impeditivi e delle turbative al diritto stesso. In questo caso è l’attore (proprietario) che deve dimostrare l’esistenza della situazione di godimento.
l’azione di nunciazione, che sono: la denunzia di nuova opera (art. 1171 c.c.) e il danno temuto (art. 1172 c.c.); entrambe tendono all’eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo del vicino. La denunzia di nuova opera mira ad impedire i pericoli o le limitazioni al potere di godimento che possono derivare dalla costruzione di nuove opere, o da attività intraprese da altri sul fondo vicino. Il danno temuto tende a prevenire il pericolo di un danno grave ed imminente al godimento del proprio diritto, da parte di una qualsiasi cosa già esistente sul fondo del vicino (es: tetto pericolante).
C. Situazioni possessorie.
36. Fattispecie. Il legislatore definisce il possesso come il potere sulla cosa, che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di un altro diritto reale (art. 1140 c.c.).
Il possesso è qualificato: come situazione di fatto, in contrapposizione alla proprietà e agli altri diritti reali, che sono qualificati situazioni di diritto, e come un atto giuridico, perché fattispecie produttiva di conseguenze giuridiche.
Il possesso consiste essenzialmente in un comportamento diretto al godimento e all’utilizzazione, attuali e futuri, di un bene; esso si configura sia nell’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia nella condotta corrispondente all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui.
Il possessore è colui che gode e utilizza un bene, indipendentemente dalla circostanza che sia oppure no titolare di un diritto reale sul bene in suo potere; accanto a quest’elemento materiale vi è un elemento spirituale, ossia l’animus possidendi, l’intenzione del possessore di usare la cosa come il proprietario.
Da qui si può fare la differenza tra possessore e detentore; il detentore, a differenza del possessore ha una diversità di condotta, in quanto, non si comporta come il proprietario e riconosce l’altrui diritto sulla cosa.
Il possesso mediato consiste nel fatto che il possessore non possiede direttamente il bene, ma per mezzo di un’altra persona, il detentore.
Se il detentore volesse diventare possessore non basta la volontà di comportarsi come il proprietario, ma c’è bisogno di atti giuridici, come la vendita o una donazione di quel bene a suo favore, oppure un suo atto di opposizione nei confronti del proprietario (es: rifiuto di pagare i canoni o di restituire la cosa alla scadenza del contratto, ecc…).
Se, invece, il possessore volesse diventare proprietario, egli deve compiere atti di opposizione contro il diritto del proprietario: tale mutamento si chiama interversione del possesso (art. 1164 c.c.).
37. Rilevanza del possesso. Al possesso la legge collega tre ordini di conseguenze:
a) garantisce al possessore protezione del suo interesse al godimento e all’uso del bene contro turbative e molestie da parte di terzi;
b) attribuisce al possessore una posizione più vantaggiosa rispetto l’onere della prova; egli non deve provare nulla, piuttosto è il proprietario a dover provare la sua titolarità;
c) riconosce al possessore senza di titolo di poter acquistare il diritto corrispondente al comportamento tenuto.
La dottrina più recente tende invece a dare primaria importanza alla tutela giurisdizionale e a individuare il fondamento non tanto in un interesse particolare del possessore, quanto nell’interesse generale a mantenere la pacifica convivenza dei consociati, assicurando l’immediato ripristino dello stato di fatto esistente (comportamento possessorio) e rinviando a un momento successivo la questione relativa al diritto delle parti in conflitto (fase petitoria).
38. Inizio e durata del possesso. Il possesso si costituisce a titolo originario, tramite apprensione del possesso del bene, e a titolo derivativo, tramite consegna del bene da parte di un altro soggetto (il precedente possessore).
La consegna non è necessaria quando:
a) chi diviene possessore è già detentore;
b) chi cede il possesso conserva la detenzione.
Non possono invece costituire fondamento all’acquisto del possesso gli atti di tolleranza, cioè l’uso dell’altrui bene per ragioni di amicizia, cortesia o di buon vicinato (art.1144 c.c.).
Le regole circa la determinazione della durata del possesso sono (art. 1142 e 1143 c.c.):
a) il possesso attuale non fa presumere il possesso anteriore;
b) chi ha posseduto in tempo anteriore e ora possiede in tempo attuale, si presume abbia posseduto in tempo intermedio;
c) se il possessore ha un titolo (compravendita) si presuma che possieda dalla data del titolo, salvo prova contraria.
I periodi di possesso di persone diverse si possono cumulare e si configurano così la successione nel possesso e l‘accessione nel possesso.
La successione nel possesso si ha nell’ipotesi di successione a titolo universale, quando l’erede continui il possesso del defunto con effetto all’apertura della successione. Se il possesso del defunto era di buona fede, si considera tale anche quello dell’erede; se era, invece, di mala fede si considera tale anche quello dell’erede (art. 11461 c.c.).
L’accessione nel possesso si ha quando il successore a titolo particolare non continua automaticamente il possesso del suo dante causa, ma può, se gli giova, unire il proprio possesso a quello del suo autore (proprietario) al fine di goderne gli effetti (art.1146² c.c.).
39. Possesso di buona fede ed effetti del possesso. È possessore di buona fede, chi possiede nell’ignoranza di ledere l’altri diritto, cioè ignorando l’altruità della cosa (art. 1147¹ c.c.); è possessore di mala fede, chi sa di ledere l’altrui diritto.
La buona fede s’identifica nell’ignoranza, ossi della non conoscenza certa del proprietario; essa si presume, salvo prova contraria, essendo sufficiente la sua presenza al momento dell’acquisto. Questa ignoranza non va, però, generalizzata, in quanto l’ordinamento prevede che, anche con un minimo di diligenza, l’acquirente è capace di capire se il dante causa è il proprietario o non (es: ricettatore). Tuttavia la legislazione prevede e tutela il possessore di buona fede, riconoscendo diritti e obblighi. Fra gli obblighi, vi è la restituzione della cosa al proprietario.
Fra i diritti, abbiamo:
a) il possessore di buona fede ha il diritto di fra propri i frutti prodotti fino al giorno della domanda di rivendicazione; il possessore di mala fede, invece, deve restituire i frutti indebitamente percepiti, ma ha comunque diritto al rimborso delle spese (art. 1148 e 1149 c.c.);
b) il diritto ad un’indennità (superiore rispetto a quella spettante al possessore di mala fede) per le riparazioni, i miglioramenti, le addizioni portate alla cosa (art. 1150 c.c.);
c) un particolare strumento di autotutela: il diritto di ritenzione, cioè il diritto di non restituire la cosa finché non gli sia corrisposta l’indennità dovuta o non siano prestate idonee garanzie (art. 1152 c.c.).
Il legislatore ritiene proprietario il possessore in buona fede che abbia acquistato il bene mobile dal malfattore, a patto che vi siano due presupposti (art. 1153 c.c.):
a) la buona fede iniziale, ossia ignori che il dante causa non è il proprietario;
b) esista un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà (es: una vendita o una donazione, che sono contratti traslativi della proprietà, non invece un contratto di locazione).
Nella risoluzione dei casi tra possessori di buona fede si ricorre spesso al principio possesso vale titolo, ossia la supposizione che il possessore sia anche il proprietario, e si preferisce tutelare il primo possessore (art. 1155c.c.).
40. Usucapione. L’usucapione è un modo di a acquisto della proprietà a titolo originario, mediante il possesso continuato nel tempo, per il numero di anni previsti dalla legge, di beni immobili, universalità di mobili, mobili beni registrati e beni mobili non registrati (art. 1153 c.c.).
Si possono acquistare anche i diritti reali di godimento ad eccezione delle servitù non apparenti (art. 1061 c.c.). Il termine ordinario di usucapione è di 20 anni per i beni immobili e per le universalità di mobili; di 10 anni per i beni mobili registrati (art. 1158, 1160¹, 1162² c.c.). per i beni mobili non registrati, la proprietà si acquista mediante il possesso continuato per 10 anni, se il possessore è in buona fede; se è in mala fede, l’usucapione si compie con il decorso di 20 anni.
Chi acquista in buona fede un bene immobile da chi non è proprietario, in forza di un titolo che sia idoneo a trasferire la proprietà e che sia stato debitamente trascritto (la trascrizione è elemento costitutivo della fattispecie acquisitiva), ne compie l’usucapione con il decorso di 10 anni dalla data di trascrizione (art. 1159¹ c.c.).
Per i beni mobili registrati, l’usucapione abbreviata di 3 anni (art. 1162¹ c.c.). Nell’ipotesi di acquisto in buona fede di universalità di mobili da chi non è proprietario, in forza di un titolo idoneo a trasferire la proprietà, l’usucapione si compie in 10 anni (art. 1160¹ c.c.). Termini speciali e più brevi sono stati introdotti per l’usucapione della piccola proprietà rurale (art. 1159bis c.c.): il termine è di 15 anni per il possesso continuato, di 5 anni dalla data della trascrizione nel caso di chi acquisti in buona fede da chi non è proprietario, in forza di un titolo che sia idoneo al trasferimento della proprietà e che sia debitamente trascritto. Vengono usucapiti anche gli annessi fabbricati.
Il termine necessario per l’usucapione inizia a decorrere quando:
a) dopo la fine della violenza o clandestinità, se il possesso fu iniziato in modo violento (rapina) o clandestino (di nascosto);
b) dopo la conflittualità fra possessore e proprietario, se il possesso è mutato in forza di un’opposizione fatta dal possessore contro il diritto del proprietario o per la causa proveniente da un terzo (art. 1164 c.c.: interversione del possesso).
Il decorso del termine può essere sospeso o interrotto per le stesse cause che valgono per la prescrizione (art. 1165 c..c); è altresì interrotto quando il possessore è privato del possesso per oltre 1 anno.
Con l’usucapione si premia chi, pur senza averne diritto, utilizza i beni e li rende produttivi, a scapito del proprietario rimasto inerte per lungo tempo. L’usucapione semplifica altresì la prova del diritto di proprietà: colui che afferma di essere proprietario, è sufficiente che dimostri di aver posseduto il bene per il tempo necessario per usucapire, valendosi, eventualmente, delle regole dettate in tema di successione e accessione nel possesso.
41. Azioni possessorie e azioni di nunciazione. A difesa del possesso vi sono le azioni di reintegrazione e di manutenzione.
L’azione di reintegrazione (o di spoglio) (art. 1168 c.c.) spetta al possessore che sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del bene, ed è diretta ad ottenere la reintegrazione del possesso, ossia la restituzione della cosa. Deve essere esercitata entro 1 anno dallo spoglio o, se lo spoglio è clandestino, entro 1 anno dalla sua scoperta. Il giudice, sulla base della semplice notorietà dello spoglio ordina la reintegrazione.
L’azione di manutenzione (art. 1170 c.c.) spetta al possessore di beni immobili e di universalità di mobili che sia stato molestato nel suo possesso. Essa è diretta ad ottenere la cessazione delle turbative. Per la sua esperibilità occorre che:
1) il possesso duri continuamente ed ininterrottamente da oltre 1 anno;
2) il possesso sia stato acquistato in modo non violento né clandestino, altrimenti l’azione può essere esercitata soltanto se è decorso almeno 1 anno dalla fine della violenza o della clandestinità.
L‘azione può essere esperita anche da colui che ha subito uno spoglio non violento o clandestino, al fine di essere rimesso nel possesso del bene (art. 1170³ c.c.): l’azione di manutenzione cosiddetta recuperatoria.
Al possessore sono concesse anche le azioni di nunciazione (denuncia di nuova opera e denuncia di danno temuto: art. 1171 e 1172 c.c.).
A differenza delle azioni petitorie, che richiedono all’attore la difficile prova del suo diritto sul bene, le azioni possessorie richiedono esclusivamente la prova del possesso. I beni demaniali non possono essere usucapiti.
Nella risoluzione delle controversie, il legislatore, mediante le azioni possessorie, assolve esigenze di ordine pubblico e di salvaguardia della pace sociale, perché queste azioni sono semplici e spedite. Successivamente chi crede di vantare diritti sulla cosa, oggetto della controversia, può, mediante azioni petitorie, rivendicare il proprio diritto. Il nostro ordinamento separa il giudizio petitorio e quello possessorio.
D. Situazioni di credito e di debito.
a. Struttura e caratteri dell’obbligazione
42. Situazioni reali e di credito: per un diritto comune delle situazioni patrimoniali. La distinzione tra situazioni reali e di credito è improntata sulla presenza di alcune caratteristiche: le situazioni reali sono caratterizzate da assolutezza e immediatezza, mentre quelle di credito da relatività e mediatezza.
Le situazioni reali sono assolute, in quanto, il titolare del diritto può farlo valere erga omnes, cioè verso la generalità dei consociati; le situazioni di credito sono relative, perché esercitabile soltanto nei confronti di una persona ben determinata: il debitore.
Le situazioni reali sono immediate perché è il proprietario che esercita il potere di ricavare utilità dalla cosa; le situazioni di credito sono mediate, cioè hanno bisogno di un intermediario affinché il proprietario consegua i propri interessi.
Le situazioni reali presentano l‘inerenza, ossia lo stretto legame della situazione soggettiva con il bene che ne costituisce l’oggetto.
Questi criteri, oramai, sono superati.
Infatti, le situazioni reali possono anche non essere assolute; è il caso del diritto di proprietà: il primo acquirente, anche se ha acquistato il bene per primo, non può avvalersi del diritto di proprietà sul bene per opporlo a colui che ha acquistato lo stesso bene successivamente, ma lo ha trascritto per primo (art. 2644 c.c.).
Ancora, le situazioni di credito possono essere assolute; è l’esempio di una casa in locazione, la quale è venduta ad un altro soggetto, il contratto di locazione, anche se è cambiato il proprietario, si conserva; altro esempio riguarda la lesione delle situazioni di credito, la quale può essere provocata non solo dal debitore, ma anche da terzi.
È stata superata anche la mediatezza, cioè le situazioni di credito possono essere immediate; è il caso del proprietario il quale, da solo, dà in locazione la casa o l’appartamento.
Superata è anche l’immediatezza delle situazioni reali, le quali, per essere esercitate, hanno bisogno di un intermediario.
Neppure la preferenza riguarda soltanto le situazioni reali (es: garanzia), ma anche quelle di credito (es: crediti di lavoro, crediti alimentari).
La preferenza, a riguardo delle situazioni di credito, è il potere del creditore ipotecario o pignoratizio di soddisfarsi mediante la vendita forzata dei beni del debitore, con priorità e prevalenza rispetto ai cosiddetti creditori chirografi (cioè non muniti di garanzie reali).
43. Precisazioni terminologiche e di metodo. In materia di obbligazione esistono moltissime definizioni, le quali però sono incomplete; è il caso delle definizioni unilaterali.
Infatti, le obbligazioni sono viste da una parte, come diritto o pretesa del creditore verso il debitore, designando l’obbligazione quasi come un‘esecuzione forzata; dall’altra parte, l’obbligazione è vista come il dovere del debitore di eseguire la prestazione.
La giusta interpretazione, comunque, afferma che entrambe le parti (creditore e debitore) sono attivamente coinvolte nella vicenda attuativa dell’obbligazione, se pur in maniera diversa per realizzare gli interessi sottesi al rapporto (art. 1175 c.c.).
Tale cooperazione tra creditore e debitore si fonda anche sul principio della solidarietà (art. 2 cost.).
Le precisazioni terminologiche hanno rilievo pratico e ricostruttivo: esse forniscono utili indicazioni per individuare con maggiore puntualità e compiutezza il contenuto delle situazioni giuridiche soggettive, nonché per individuare l’oggetto dell’obbligazione.
44. Complessità delle situazioni creditorie e debitorie. La situazione creditoria è solitamente qualificata attiva, mentre quella debitoria è qualificata passiva. Situazione attiva in quanto è costituita da poteri, pretese, aspettative, ecc…; situazione passiva, in quanto è costituita da obblighi, doveri, oneri e soggezioni. Queste definizioni dottrinali sono superate perché sono limitative. Altra critica che viene fatta, riguarda il dovere di correttezza e il dovere di buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.):
il dovere di correttezza, riguarda la correttezza che il creditore deve avere nei confronti del debitore; il dovere di buona fede, si configura non solo nell’eseguire la prestazione, ma anche una onestà e correttezza da parte del debitore.
Questi due doveri in realtà, concettualmente, sono la stessa e non è possibile scinderli perché, in un rapporto obbligatorio è richiesta, non solo la correttezza del creditore, ma anche la buona fede del debitore; quindi entrambe le parti devono funzionare per raggiungere gli obiettivi stabiliti attuando il principio di solidarietà. Il legislatore, per tutelare i suddetti principi da coloro che non li rispettano, impone alle parti gli obblighi di avviso e i doveri di protezione:
gli obblighi di avviso, s’identificano, nel dovere reciproco, in una informazione tempestiva circa vicende o accadimenti la cui ignoranza possa pregiudicare l’esito del rapporto;
i doveri di protezione tendono a preservare la sfera giuridica delle parti da fatti lesivi connessi all’esecuzione delle prestazioni.
Le situazioni creditorie e debitorie, quindi, sono state non solo aggiornate ma, anche integrate.
45. Oggetto del rapporto obbligatorio. La prestazione è l’oggetto dell’obbligazione (art. 1174 c.c.) e in relazione ad esse esistono due contrapposti orientamenti: uno patrimoniale e uno personalistico.
La teoria patrimoniale si basa sulla mera considerazione del ruolo marginale del debitore; infatti il creditore al fine di raggiungere il suo scopo può ricorrere o ad un processo esecutivo o ad una vendita forzata dei beni ricavandone denaro. (Critica: Il debitore è visto come uno fra i possibili strumenti mediante i quali, il creditore potrebbe conseguire il medesimo risultato: infatti al creditore basta anche l’adempimento da parte di terzi).
La teoria personalistica afferma che, a differenza di quella patrimoniale, la prestazione può essere richiesta dal creditore, non dalla generalità dei terzi ma, solo dal soggetto obbligato. (Critica: Questa teoria pone la figura del debitore, a volte come marginale rispetto al bene, ossia come comportamento accessorio, e a volte, il debitore assume un ruolo fondamentale nell’attuazione dell’interesse del creditore).
46. Caratteri fisionomici del rapporto obbligatorio. Il rapporto obbligatorio è un vincolo giuridico in virtù del quale, il debitore è tenuto ad eseguire una prestazione patrimoniale o non per l’interesse del creditore, che ha il potere di pretendere l’esecuzione di tale prestazione e può essere chiamato a cooperare con il debitore per consentirgli di adempiere esattamente (art. 1174 e 1175 c.c.).
Il rapporto obbligatorio ha alcune caratteristiche: dualità delle situazioni soggettive, interesse del creditore e patrimonialità della prestazione.
Per quanto riguarda la dualità, il rapporto obbligatorio è una relazione tra situazioni giuridiche soggettive complesse che esistono anche senza l’attuale presenza o individuazione del soggetto titolare. Sufficiente ed essenziale, ai fini dell’esistenza del rapporto, è la presenza di due situazioni soggettive contrapposte o correlate, che si ascrivano a due centri di interessi distinti. La dualità va, dunque, riferita alle situazioni soggettive ed ai corrispondenti patrimoni di riferimento.
L’interesse del creditore è un principio fondamentale sul quale nasce e vive il rapporto obbligatorio; esso è necessario e deve permanere per tutta la durata del rapporto fino all’estinzione, altrimenti non si giustificherebbe l’imposizione al debitore di un vincolo.
Se l’interesse del creditore viene meno prima dell’adempimento, si realizza una vicenda estintiva dell’obbligazione per conseguimento dello scopo e ciò determina la liberazione del debitore, in quanto, l’esecuzione della prestazione non è più d’alcun interesse per il creditore (es: la pioggia che soddisfa l’interesse del creditore all’irrigazione, anziché ricorrere a quell’artificiale). Quest’interesse per essere vincolante deve essere meritevole di tutela (art. 1322, 1411 e 1379 c.c.).
Per quanto riguarda la patrimonialità della prestazione, non tutte le prestazioni che nascono dalla cooperazione tra creditore e debitore sono patrimoniali; infatti, esistono molte prestazioni, ad esempio chi ascolta un concerto o chi sottopone all’intervento chirurgico, che non sono patrimoniali ma, artistiche o mediche, che arricchiscono la cultura musicale o migliorano l’aspetto estetico.
Il creditore può richiedere l’adempimento della prestazione da parte di un soggetto determinato, rifiutando l’adempimento da parte dei soggetti diversi dal debitore; questa richiesta è legittima, quando l’adempimento del terzo possa essere pregiudizievole (art. 1180¹c.c.).
L’attuazione del rapporto obbligatorio, oltre all’interesse del creditore, può realizzare anche interessi giuridicamente rilevanti del debitore, ossia di adempiere la prestazione per svincolarsi da essa. In questa logica si collocano il potere del debitore di rifiutare la remissione del debito che gli venga proposta dal creditore (art. 1236 c.c.) e il potere di manifestare la propria opposizione all’adempimento del terzo, che ne legittima il rifiuto da parte del creditore (art. 1180² c.c.).
47. Segue. Natura patrimoniale della prestazione. La prestazione, per essere oggetto del rapporto obbligatorio, deve avere sempre e necessariamente natura patrimoniale, in quanto, se il debitore non adempie, deve corrispondere un’entità pecuniaria. A volte però l’inadempimento della prestazione da parte del debitore non può essere risarcita con un’entità pecuniaria perché, è difficile dimostrare da parte del creditore, l’esistenza di danni patrimoniali. Affinché ci sia un’autonomia contrattuale è necessaria la patrimonialità del bene, ossia che il bene sia suscettibile di valutazione economica. Il problema sorge quando le prestazioni riguardano beni non economicamente valutabili come le prestazione di puro fare (prestazioni indicative o di non fare). Esse possono essere patrimoniali: quando hanno un corrispettivo economico derivante dal loro esercizio e, quando il loro inadempimento è valutabile da un risarcimento economico. Il valore economico dei beni deve essere valutato oggettivamente e va determinato nell’ambito di un contesto giuridico-sociale altrimenti si cade nell’errore di valutarli erroneamente.
48. Classificazioni e statuti. I rapporti obbligatori sono classificati in base alla tipologia delle prestazioni, che ne costituiscono l’oggetto. Essi s’individuano in obbligazioni di fare, di dare e di non fare.
Le obbligazioni di dare sono: le prestazioni di consegna di una cosa certa e determinata (art. 1476¹ c.c.) oppure generica (art. 1178 e 1277 c.c.) e le prestazioni nel far acquistare ad altri il diritto di proprietà (art. 1476² e 1478 c.c.).
Nelle obbligazioni di fare troviamo comportamenti attivi del debitore, ossia le prestazioni che producono beni materiali (es: edifici, ecc…) e immateriali (es: una lezione, un concerto, ecc…).
Le obbligazioni di non fare sono quelle prestazioni che si attuano con l’astensione.
Non è possibile, in ogni modo, classificare in modo rigido le prestazioni perché, nella maggior parte dei casi, esse interagiscono tra loro.
Non esiste, quindi, uno statuto delle obbligazioni, ma una pluralità di statuti giustificati dalle tipologie delle funzioni in concreto perseguite.
49. I vincoli “non giuridici”: in particolare le obbligazioni naturali. La distinzione tra ordinamento giuridico e gli altri sistemi di regole è che: il primo è caratterizzato dalla coercitività, ossia dall’esistenza di un insieme di sanzioni che ne assicura l’osservanza.
Per qualificare se una situazione è coercibile o no, esistono tre criteri di qualificazione:
1) criterio soggettivo; consiste nel verificare se le parti abbiano assoggettato il rapporto alle regole del diritto, o se, al contrario, abbiano voluto mantenere il suddetto rapporto su un piano di amicizia o di mero rilievo sociale. Un indice di giuridicità è offerto dalla previsione di una clausola penale o di un corrispettivo. Un esempio è il pittore che promette un quadro all’amico: se la promessa è stipulata in un contratto assoggettato alle regole del diritto, il pittore chiederà un compenso monetario all’amico, oppure l’amico, in mancanza del quadro, può avvalersi degli strumenti messi a disposizione dal sistema per sanzionare l’inadempimento. Se il contratto tra il pittore e l’amico è basato invece sull’amicizia, il pittore non riceverà nessun compenso oppure in mancanza del quadro, l’amico potrà solo rimproverare il pittore.
2) criterio oggettivo; è il caso dell’ordinamento che valuta le finalità e gli interessi che si perseguono: se sono futili, la loro rilevanza giuridica è rimessa alla scelta delle parti; se, invece, il sistema attribuisce importanza alle finalità e agli interessi che alcune prestazioni sono in grado di realizzare, la valutazione soggettiva delle parti diviene irrilevante ai fini della qualificazione. La giuridicità, in queste ipotesi, è fuori discussione e prescinde del tutto dall’onerosità o dalla gratuità del rapporto.
3) obbligazioni naturali; sono quei rapporti dove è esclusa la coercibilità, perché fondati su doveri morali e sociali, che hanno giuridica rilevanza non solo nel momento della loro attuazione ma in funzione del loro adempimento. L’adempimento dell’obbligazione naturale va distinto dagli atti di liberalità; entrambi sono atti liberi, però, gli atti di liberalità sono sia socialmente sia giuridicamente liberi, mentre l’adempimento delle obbligazioni naturali è atto giuridicamente libero, ma moralmente e socialmente dovuto. Le obbligazioni naturali sono caratterizzate dall’irripetibilità, che ha due condizioni fondamentali:
a) l’adempimento deve avvenire spontaneamente senza costrizione;
b) la prestazione deve essere eseguita da persona capace, perché la prestazione non è atto dovuto, ma atto negoziale.mil requisito di capacità va identificato non nella capacità legale di agire, ma nella capacità naturale del solvens.
Ogni obbligazione naturale è assoggettata alla medesima disciplina (art. 2034 c.c.: irripetibilità di quanto prestato spontaneamente da un soggetto capace).
Un problema riguarda la forma scritta dell’adempimento dell’obbligazione naturale, quando si ha il trasferimento della proprietà immobiliare (art. 1350 c.c.; pagamento traslativo).
Secondo alcuni l’onere della forma dovrebbe essere rispettato, secondo altri basta, affinché si produca l’effetto traslativo, una sentenza di accertamento per la trascrizione (art.2645, 2657 c.c.) e per l’opponibilità ai terzi.
b. Le vicende delle obbligazioni
50. La costituzione: le fonti. Fonte di obbligazione è il fatto o l’atto giuridico che secondo l’ordinamento è idoneo a far sorgere il vincolo. Fatti e atti non sono da intendere come semplici accadimenti naturali o umani ma, invece, è decisiva la valutazione normativa offerta dall’ordinamento.
Il codice vigente (art. 1173 c.c.), comunque, non è così rigido, cioè definisce fonte anche un fatto che non sia idoneo alla nascita dell’obbligazione.
Normalmente fonte e titolo del vincolo coincidono. Tra le fonti troviamo i contratti, ossia tutti gli atti negoziali compresi gli atti unilaterali atipici, e l’illecito, fonte non volontaria consistente in ogni fatto che provoca un danno ingiusto ad altri con il conseguente pagamento di un risarcimento.
51. Pagamento dell’indebito. Il pagamento dell’indebito non è altro che l’esecuzione di una prestazione non dovuta che produce un’obbligazione di restituire. La ripetibilità dell’indebito non ha finalità sanzionatorie, ma tende al riequilibrio dei patrimoni.
L’indebito oggettivo si ha quando chi non è debitore adempie nei confronti di chi non è creditore. Esempio classico è quando un contratto sia stato adempiuto da entrambi le parti e in
seguito dichiarato nullo, o annullato, o risolto, o dichiarato inefficace. L’indebito oggettivo, quindi, ha come condizione il venir meno del titolo dell’obbligazione (per nullità, annullamento, inefficacia, rescissione, ecc…).
Chi ha pagato il debito ha il diritto alla ripetizione, ossia a riottenere ciò che si è indebitamente dato; l’indebito oggettivo provoca, oltre al diritto alla ripetizione, anche l’obbligazione di restituire ciò che si è indebitamente ricevuto. Colui che ha adempiuto (solvens) può richiedere la ripetizione (riottenere); se chi ha ricevuto era in mala fede, al solvens spettano anche i frutti maturati dal giorno dall’adempimento.
L’indebito soggettivo ex latere accipientis (art. 2033 c.c. in coordinazione con l’art. 1189 c.c.) si ha quando chi è debitore adempie ad un soggetto che o non è creditore, oppure non è legittimato a ricevere; colui che ha ricevuto la prestazione (accipiens) non ha titolo per trattenere quanto percepito ed, in questo caso, il solvens può richiedere la ripetizione.
L’indebito soggettivo ex latere solventis si ha quando chi non è debitore adempie nei confronti di chi è creditore di un terzo. Esso avviene quando per errore si paga un debito altrui credendolo proprio. La ripetizione, in questo caso, è disposta dall’art. 2036 c.c. Se il solvens ha adempiuto credendosi per errore scusabile debitore, può richiedere la ripetizione; se il solvens ha adempiuto credendosi per errore non scusabile debitore, non può richiedere la ripetizione, ma subentra nei diritti del creditore (accipiens) verso il vero debitore (surrogazione legale).
La ripetizione consiste nella restituzione della cosa data indebitamente: denaro, beni prestazione ecc…. Essa è un’azione a carattere personale ed è esperibile dal solvens (o da soggetto altrimenti legittimato per legge: art. 1189² c.c.) soltanto nei confronti di colui il quale ha ricevuto la prestazione non dovuta (accipiens). Il carattere personale non è escluso dalla possibilità di esperire l’azione nei confronti dei successori mortis causa.
Nel caso che il bene da ripetere è una somma di denaro o un bene materiale, la ripetizione provoca una prestazione di dare, ossia nella riconsegna del bene; nel caso in cui il bene è deteriorato o è alienato, l’accipiens deve restituire l’equivalente in denaro (art. 2037 e 2038c.c.).
Nel caso in cui il bene è una prestazione di fare (es: il lavoro), il solvens può richiedere la reintegrazione riconducibile ad una somma di denaro. La ripetibilità non è ammessa per le prestazioni finalizzate ad uno scopo contrario al buon costume (art. 2035 c.c.).
Il solvens, che abbia efficacemente esercitato l’azione di ripetizione, è tenuto a rimborsare il possessore delle spese e dei miglioramenti (art. 1149 ss. e 2040 c.c.).
L’art. 2039 c.c. dispone che: nel caso in cui l’accipiens fosse incapace al momento della consegna della prestazione, indifferentemente in buona o mala fede, egli (l’accipiens) è tenuto solo nei limiti dei vantaggi provocati dall’utilizzo del bene ricevuto.
L’azione di ripetizione si prescrive nell’ordinario termine decennale, che decorre, nell’ipotesi d’inesistenza o di nullità del vincolo, dall’esecuzione dalla prestazione; in altre ipotesi, decorre dall’accertamento della mancanza del vincolo stesso.
52. Segue. Ingiustificato arricchimento. L’art. 2041¹ c.c. dispone che chiunque, senza giusta causa,si è arricchito a danno di altri è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, ad indennizzare quest’ultimo della correlativa diminuzione patrimoniale. Quella di ingiustificato arricchimento è un’azione generale ed un rimedio sussidiario e residuale, in quanto non è possibile esercitare altra azione per ottenere l’indennizzo del pregiudizio subito (art. 2042 c.c.).
L’ingiustificato arricchimento consiste in uno spostamento patrimoniale senza alcuna giustificazione per cui uno subisca il danno e l’altro si arricchisca. Colui che si è arricchito deve indennizzare colui che ha avuto una diminuzione patrimoniale.
I presupposti sono:
a) fatto lecito naturale o umano;
b) ci deve essere un arricchimento con conseguente diminuzione del patrimonio;
c) mancanza di causa, l’assenza, cioè, di un idoneo titolo giuridico, legale o convenzionale, che giustifichi l’arricchimento e la correlativa diminuzione patrimoniale.
L’ingiustificato arricchimento è fonte di obbligazione indennitaria, che tende a reintegrare la diminuzione patrimoniale; l’indennizzo è calcolato nei limiti dell’arricchimento e secondo i valori di mercato.
Un esempio di ingiustificato arricchimento è l’avulsione, ossia staccamento di terreno da un fondo a monte verso un fondo a valle; il proprietario del fondo a valle si è arricchito per uno staccamento naturale e quindi non giustificato. Al proprietario del fondo a monte spetta un indennizzo dal proprietario dell’altro fondo.
Qualora l’arricchimento abbia ad oggetto una cosa determinata, colui che l’ha ricevuta è tenuta a restituirla in natura se sussiste al tempo della domanda (art. 2041² c.c.).
L’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito (art. 2042 c.c.).
53. Attuazione del rapporto: l’adempimento. L’adempimento è l’esatta esecuzione della prestazione dovuta, indirizzato alla piena soddisfazione di tutti gli interessi sottesi al vincolo. Esso è eseguito esattamente quando rispetta le modalità i tempi e i luoghi.
Nell’esecuzione dell’obbligo debitorio è necessario non solo l’adempimento del debitore, ma anche una cooperazione del creditore.
A differenza dell’adempimento, il pagamento è l’adempimento di obbligazioni pecuniarie.
Nell’adempimento coesistono la realizzazione del diritto del creditore e l’attuazione dell’obbligo del debitore; fondamentalmente, però, è oggetto di un obbligo del debitore.
L’adempimento non si configura con la piena soddisfazione di tutti gli interessi, ma con la mera realizzazione dei soli interessi del creditore (art. 1174, 1175 e 1176 c.c.).
Al debitore è lasciato un certo margine di discrezionalità. Altro punto importante riguardante l’adempimento è la diligenza, ossia un criterio di responsabilità ed un’esatta e corretta modalità di esecuzione di un comportamento (diligenza del buon padre di famiglia). La diligenza e la buona fede sono strettamente collegate.
L’adempimento è fattispecie estintiva del rapporto: esso produce la realizzazione del diritto di credito e la liberazione dall’obbligo di prestazione. All’adempimento sono tenuti il debitore e i suoi eredi a titolo universale.
L’adempimento è atto dovuto e non negoziale; in esso si qualificano la causa solvendi, ossia l’esistenza di un valido vincolo obbligatorio e l’animus solvendi, ossia l’intenzione di adempiere un debito proprio. Ai fini della causa solvendi, l’animus solvendi è irrilevante, perché l’intenzione del solvens non è determinante per l’adempimento del debito.
Irrilevante è l’incapacità del solvens (art. 1191 c.c.); l’incapacità (sia di agire, sia naturale) non compromette la validità dell’adempimento e non dà diritto alla ripetizione (art. 2033 ss c.c.).
54. Segue. Adempimento del terzo e soggetti legittimati a ricevere la prestazione. Mentre obbligato è il solo debitore, qualsiasi terzo può adempiere anche contro la volontà del creditore; tuttavia il creditore può opporsi all’adempimento di terzi in due casi:
1) se manifesta un interesse apprezzabile all’esecuzione personale del debitore (prestazione intuitu personae);
2) se il debitore gli ha manifestato la sua opposizione (art. 1180 c.c.). La sola volontà del debitore, manifestata mediante l’opposizione, non è sufficiente; essa non vincola il creditore, il quale ha la facoltà (può) e non l’obbligo di rifiutare l’adempimento del terzo. Tale rifiuto può essere arbitrario senza il rischio d’incorrere in mora credendi (art. 1206 ss.). Il rifiuto ingiustificato invece, impedisce al creditore di pretendere successivamente la prestazione dal proprio debitore.
L’intervento del terzo è atto libero e non dovuto; infatti il terzo, anche non conoscendo il creditore e il debitore, dimostra intenzione (animus solvendi) ad adempiere il debito. Se manca l’animus, o il debito è inesistente, il terzo può chiedere la ripetizione dell’indebito (art. 2033-2036 c.c.).
Il terzo può anche agire nei confronti del debitore solo se il creditore, con atto surrogatorio, surroghi il credito nei suoi diritti verso il debitore (art. 1201 c.c.): questo avviene quando il terzo ha adempiuto al creditore; se non avviene la surrogazione il terzo può chiedere l’ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.).
L’art 1188 dispone che il creditore può anche legittimare un terzo ad espletare i suoi diritti (rappresentante, indicatario); l’adempimento fatto nei confronti di un soggetto non legittimato, libera il debitore solo se il creditore effettivo l’abbia ratificato o che l’oggetto della prestazione si sia riversato nel patrimonio dell’effettivo creditore.
L’adempimento a creditore incapace è inefficace perché, l’unico legittimato a ricevere, è il tutore o il curatore (rappresentante legale).
Ci sono dei casi in cui un soggetto per circostanze univoche appare legittimato a ricevere: è il caso del creditore apparente; il debitore è liberato dall’obbligazione se prova la sua buona fede, ossia d’ignorare il difetto di legittimazione. Il reale creditore può richiedere la ripetizione dell’indebito nei confronti di chi ha ricevuto la prestazione.
55. Esattezza nell’adempimento. L’esattezza è lo sforzo richiesto al debitore al fine di soddisfare l’interesse creditorio (art. 1175 e 1176 c.c.). Uno dei caratteri importanti dell’esattezza è la buona fede: ad essa sono assorbiti gli obblighi di custodia e di protezione.
L’obbligo di custodia riguarda le obbligazioni di consegna di una cosa certa e determinata; consiste nell’obbligo del debitore di custodire la cosa fino al momento della consegna al creditore (art. 1177 c.c.). La custodia è assorbita nella consegna e soltanto l’impossibilità sopravvenuta dell’oggetto (perimento) non imputabile al debitore produce l’effetto liberatorio.
L’obbligo di protezione consiste nel fatto che il debitore è obbligato, nell’esecuzione della prestazione, alla salvaguardia dei beni e della vita del creditore; difatti, si considera inadempiente il debitore che, pur avendo adempiuto la prestazione, ha leso altri interessi del creditore, estranei e diversi dall’interesse di prestazione in senso stretto.
L’obbligazione generica è quando l’obbligazione ha ad oggetto cose determinate solo nel genere e il debitore deve prestare cose qualità non inferiori alla media (art. 1178 c.c.).
Il debitore è tenuto all’esecuzione integrale della prestazione; il creditore, quindi, può rifiutare un adempimento parziale anche quando la prestazione è divisibile (salvo disposizioni normative o usi). Il consenso è arbitrario da parte del creditore; egli può anche acconsentire e libera così il debitore dall’obbligo di prestazione per la parte adempiuta. Il creditore non può rifiutare l’adempimento parziale, quando la prestazione è divenuta parzialmente impossibile per causa non imputabile al debitore (art. 1258 e 1464 c.c.).
Il debitore può adempiere con cose altrui (art. 1192 c.c.), purché il creditore ne abbia avuto conoscenza. Nel caso in cui il debitore chiede la restituzione della cosa altrui, per offrire una nuova prestazione con cose di cui dispone, il creditore può pretendere, oltre alla nuova prestazione, anche il risarcimento del danno.
Il creditore ha l’onere di rifiutare l’adempimento inesatto (art. 1218 c.c.) denunciando l’inesattezza entro un termine di decadenza; se il debitore abbia occultato i vizi in mala fede non è previsto alcun termine di decadenza.
56. Prestazione in luogo dell’adempimento. La prestazione in luogo dell’adempimento, detta anche datio in solutum o dazione in pagamento, è una prestazione diversa da quella dovuta, anche se di valore eguale o maggiore (art. 1197¹ c.c.); condizioni necessarie sono l’accordo e l’assenso del creditore e del debitore. Senza l’assenso del creditore, la prestazione non produce né l’effetto liberatorio né l’effetto estintivo; senza l’assenso del debitore, la prestazione non sarebbe ripetibile (art. 2033 ss c.c.) perché senza causa.
La datio in solutum è diversa dalla novazione, perché quest’ultima sostituisce l’obbligazione originaria con una nuova con oggetto o titolo diverso (art. 1230 c.c.).
Quando la prestazione diversa consiste nel trasferimento di proprietà o altro diritto, il contratto solutorio è consensuale; vigono le discipline sulla vendita, ma in caso di vizi ed evizione (quando, dopo la vendita, un terzo rivendica con successo la proprietà della cosa e il compratore ne perde la proprietà), il creditore può esigere la prestazione originaria oltre al risarcimento del danno (art. 1197² e ³ c.c.).
La dazione in adempimento è un contratto oneroso con funzione solutoria direttamente estintivo dell’obbligazione originaria. Tuttavia anche un terzo può concludere con il creditore una dazione
in adempimento, ma il rapporto non si estingue né il debitore si libera; il debito esiste, perché il terzo si surroga nei diritti del creditore (art. 1201 c.c.).
Il debitore, in luogo dell’adempimento, può anche cedere un suo credito (art. 1198c.c.): l’obbligazione si estingue con l’effettiva riscossione (cessio pro solvendo); tuttavia si estingue con mero consenso (cessio pro soluto).
Pertanto, la datio in solutum non è un contratto necessariamente reale. Valido ed efficace è anche un accordo che semplicemente autorizzi il debitore a compiere una diversa prestazione in luogo di quell’originaria. L’effetto prodotto dalla datio è la modificazione della disciplina del rapporto obbligatorio: la costituzione di una facoltà alternativa in favore del debitore. In ciò mantiene i tratti distintivi dalla novazione.
57. Luogo (art. 1182 c.c.) e tempo (art. 1183-1186 c.c.) dell’adempimento. La prestazione deve essere eseguita nel luogo convenuto dalle parti. Tale luogo è definito secondo gli usi negoziali-individuali, che sono un valido criterio di determinazione del luogo della prestazione.
In secondo piano, si può ricorrere agli usi normativi (differenti da quelli negoziali-individuali), alla natura della prestazione (es: operazione nella sala chirurgica) o ad altre circostanze.
Convenzione, usi normativi, natura della prestazione o altre circostanze sono criteri di determinazione ordinati secondo un grado gerarchico. Se tuttavia il ricorso ad essi non consente di determinare il luogo dell’adempimento, soccorre una serie di disposizioni suppletive:
a) la consegna di una cosa certa e determinata deve essere eseguita nel luogo dove la cosa si trovava al tempo nel qual è sorta l’obbligazione;
b) le obbligazioni pecuniarie devono essere adempiute al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza; se tale domicilio è diverso da quello che il creditore aveva quando è sorta l’obbligazione e ciò rende più gravoso l’adempimento, il debitore, previa dichiarazione al debitore, ha diritto di eseguire il pagamento al proprio domicilio;
c) negli altri casi l’obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza.
Il tempo dell’adempimento è esenziale alla configurazione dell’obbligo giuridico di prestazione: un vincolo senza scadenza cronologica è negazione della stessa doverosità della condotta.
Il termine di adempimento configura la scadenza cronologica dell’obbligazione, rinviata ad un momento successivo alla nascita del vincolo. Sotto questo profilo, un termine per l’adempimento è sempre essenziale. I criteri indicati per la determinazione del tempo sono gli stessi di quelli indicati per la determinazione del luogo dell’adempimento.
Il decorso del termine indica il momento a partire dal quale (termine iniziale) o entro il quale (termine finale) il debitore deve o può adempiere. Tale è il termine di adempimento, il quale si atteggia a semplice modalità esecutiva di un vincolo obbligatorio, già validamente sorto.
Il termine di efficacia, invece, attiene al negozio giuridico e indica il momento nel quale (o fino al quale) si produce l’effetto giuridico.
Se non è fissato alcun termine, il creditore può esigere immediatamente la prestazione. La determinazione del tempo dell’esecuzione è nella libera disponibilità delle parti.
Importanti sono le nozioni di esigibilità ed eseguibilità.
Se il termine è stabilito a favore del debitore, il creditore non può esigere la prestazione prima della scadenza, ma il debitore può eseguirla immediatamente; e se il creditore ne rifiuta la ricezione senza giusto motivo incorre in mora credendi. Se il termine è stabilito a favore del debitore, il debitore non può eseguire prima della scadenza, ma il creditore può rinunciare al benefico ed eseguire quanto gli spetta. Quando il termine è stabilito a favore di entrambi, si ha inesigibilità da parte del creditore ed ineseguibilità da parte del debitore.
Credito inesigibile e debito ineseguibile sono pur sempre situazioni giuridiche esistenti ed attuali. Il credito inesigibile è pur sempre un credito esistente, in quanto il creditore è legittimato a trattenere quanto eventualmente ricevuto dal debitore prima della scadenza. Il debitore, che ha adempiuto anticipatamente, non può ripetere quanto prestato, anche se ignorava l’esistenza del termine.
Quando il temine manca o è rimesso alla volontà del debitore o del creditore, il termine è fissato dal giudice.
Pur in presenza di termine a favore del debitore, il creditore può esigere immediatamente la prestazione, qualora il debitore sia divenuto insolvente o abbia diminuito per fatto proprio le garanzie che aveva dato o non abbia offerto le garanzie che aveva promesso (decadenza dal beneficio del termine).
Un termine di adempimento è sempre necessario: esso è definito come requisito causale del vincolo o come presupposto per l’inadempimento: come requisito causale, in quanto la mancanza del termine di adempimento produce nullità; come presupposto per l’inadempimento, il ritardo di esecuzione della prestazione equivale ad inadempimento e comporta risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive (art. 1457 c.c.).
58. Imputazione dell’adempimento e diritto alla quietanza. Una facoltà molto importante del debitore consiste nell’imputazione dell’adempimento, cioè, quando il debitore ha più debiti della medesima specie verso uno stesso creditore, egli può scegliere, senza opposizione del creditore, quale debito adempiere per primo (art. 1193 c.c.). L’unico limite è che il debitore, solo con il consenso del creditore, può imputare il pagamento al capitale piuttosto che agli interessi e alle spese (art. 1194 c.c.).
Qualora il debitore non esercita la facoltà di imputazione, il creditore può esercitarla all’atto del rilascio della quietanza, purché sia accettata dal debitore (art. 1195 c.c.). L’imputazione per iniziativa del creditore si produce soltanto se la dichiarazione sia contenuta in una quietanza accettata dal debitore, e non vi sia stato dolo o sorpresa da parte del creditore. Il debitore, comunque, può sempre rifiutare la quietanza e richiederne altra con una diversa imputazione.
La quietanza è la dichiarazione con la quale il creditore attesta l’avvenuto pagamento. Per il rilascio della quietanza non è necessaria la richiesta del debitore, perché ne vanta un vero e proprio diritto. Egli può richiederla anche prima del pagamento, subordinando quest’ultimo al rilascio; l’eventuale rifiuto del creditore, senza giusto motivo, fa scattare la mora credendi, che comporta una più efficace tutela dell’interesse del debitore.
La richiesta di quietanza è, quindi, un esercizio di un diritto del debitore; è oggetto di un obbligo strumentale alla soddisfazione di un interesse di protezione del debitore.
59. Mora del creditore e liberazione coattiva del debitore. La mora è il ritardo qualificato, e si verifica quando per fatto del creditore o del debitore c’è un impedimento temporaneo all’attuazione del rapporto.
La mora presuppone che l’esecuzione della prestazione sia ancora possibile: l’impossibilità sopravvenuta della prestazione esclude la mora nonché le specifiche conseguenze che l’ordinamento vi riconnette. La mora va distinta per il debitore e per il creditore.
Il creditore è in mora quando, senza motivo legittimo rifiuta la prestazione offertagli in forma solenne o non compie l’attività necessaria affinché il debitore possa adempiere (art. 1206 c.c.). Per la costituzione in mora è necessario che il debitore faccia offerta formale o solenne della prestazione mediante un pubblico ufficiale a ciò autorizzato; tale offerta formale o solenne deve avere questi requisiti:
deve essere congruente con l’offerta dovuta;
deve rispettare il tempo, il luogo e la legittimazione attiva e passiva.
Il relativo giudizio è svolto dall’autorità giudiziaria.
Il creditore può rifiutare legittimamente l’offerta se manca uno dei requisiti di validità; non si costituisce la mora credendi quando la prestazione è divenuta impossibile e il debitore non può fare una valida offerta della prestazione.
Motivo legittimo è sinonimo di non colpevolezza. Il motivo legittimo che esclude la mora è la giustificazione apprezzabile secondo un giudizio di buona fede. Il creditore che rifiuti l’offerta in presenza di un’inesattezza tollerabile compie un atto emulativo non conforme ai principi di buona fede e correttezza (art. 1175 c.c.). È invece legittimo il rifiuto dell’offerta effettuata con modalità di tempo o di luogo tali da rendere particolarmente gravosa, se non addirittura impossibile, la ricezione della prestazione o quando sussista il rischio che il pagamento possa poi essere revocato.
Se la prestazione ha per oggetto denaro, titoli di credito, o cose mobili da consegnare al domicilio del creditore, l’offerta deve essere reale, cioè nella consegna materiale della res debita al pubblico ufficiale che dovrà esibirla al creditore. Quando la prestazione ha per oggetto immobili o cose mobili da consegnare in luogo diverso dal domicilio del creditore, l’offerta consiste nell’intimazione a ricevere, mediante atto notificato. Anche per le prestazioni di fare è richiesta l’offerta per intimazione.
L’art. 1207 c.c. dispone degli effetti della mora del creditore: quando il creditore è in mora, a suo è carico l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, impossibilità sopravvenuta che si è verificata per cause non imputabili al debitore. Al creditore non sono più dovuti gli interessi e i frutti della cosa non percepiti dal debitore. Il creditore è pure tenuto a risarcire i danni derivati dalla sua mora e a sostenere le spese per la custodia e la conservazione della cosa dovuta.
Gli effetti della mora si verificano nel giorno dell’offerta, se questa è successivamente dichiarata valida con sentenza passata in giudicato o se accettata dal creditore.
Al continuo rifiuto della prestazione da parte del creditore, il debitore può liberarsi dal debito con il deposito della somma dovuta in un banca o con la consegna dei beni mobili nel luogo indicato dal giudice (liberazione coattiva del debitore). Gli effetti dell’offerta e del deposito sono esecutivi nel momento in cui sarà passata in giudicato la sentenza che avrà accertato che il rifiuto del creditore era effettivamente ingiustificato; non si produrranno, ovviamente, se il giudice avrà accertato che il rifiuto del creditore era stato legittimo, perché la prestazione offerta dal debitore non era un adempimento esatto.
60. Modi di estinzione diversi dall’adempimento. L’adempimento non è l’unico modo di estinzione dell’obbligazione, ma n’esistono degli altri.
Queste fattispecie estintive si differenziano in satisfattorie e non satisfattorie; una differenza sta nel fatto che le fattispecie estintive non satisfattorie sono assoggettabili all’azione revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c.), mentre quelle satisfattorie non sono revocabili, perché entrambe le parti ricevono un beneficio consistente nella liberazione dal proprio debito reciproco.
Satisfattorie sono: la confusione, la novazione e la compensazione
Non satisfattorie sono: la remissione del debito, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione.
61. Segue. Compensazione. La compensazione (art. 1241-1252 c.c.) è fattispecie estintiva che richiede come presupposto necessario, ma non sufficiente, l’esistenza di crediti e debiti reciproci, facenti capo a due autonomi o separati centri di interessi, giuridicamente rilevanti.
Due presupposti necessari della compensazione sono la dualità e la reciprocità; la dualità, intesa come dualità dei patrimoni e non dei soggetti; la reciprocità, intesa come esistenza di due situazioni o di credito o di debito.
Affinché possano operare la compensazione legale e quella giudiziale, requisito importante è che le obbligazioni da estinguere, e quindi da compensare, non devono avere una relazione sinallagmatici, ossia che non abbiano l’una la propria regione giustificativa nell’altra e viceversa.
Non è invece necessario che le fonti costitutive dei rapporti obbligatori da estinguere siano omogenee (cioè che le obbligazioni reciproche scaturiscano entrambe da contratto, o da fatto illecito, o dalla legge), né si richiede l’identità dei titoli giustificativi.
La funzione della compensazione non è solo di realizzare l’economia degli atti, evitando che si eseguano due adempimenti, quando mediante la compensazione si raggiunge lo stesso risultato pratico; essa ha anche una funzione di autotutela, neutralizzando gli effetti negativi che deriverebbero dall’eventuale adempimento della controparte.
Il codice disciplina tre tipi di compensazione: legale, giudiziale e volontaria.
La compensazione legale si verifica soltanto se le obbligazioni reciproche abbiano i requisiti della liquidità e dell’esigibilità, e se i beni oggetto delle corrispondenti prestazioni siano caratterizzati dall’omogeneità e dalla fungibilità. Un credito è liquido, quando è esistente e determinato esattamente nel suo ammontare; è esigibile quando il creditore può pretendere che il debitore esegua la prestazione dovuta. Il credito esigibile è di regola anche azionabile (sia in via preventiva con misure conservative, sia in via repressiva, con la condanna del debitore inadempiente); tuttavia l’azionabilità non presuppone necessariamente l’esigibilità.
L’omogeneità indica l’appartenenza dei beni allo stesso genus (genere); la fungibilità esprime un’equivalenza qualitativa fra due o più beni, oggetto di prestazioni reciproche.
Affinché la compensazione possa essere richiesta, non è necessario che i crediti reciproci si equivalgono quantitativamente: là dove tal eguaglianza non vi siano, i debiti o i crediti si estinguono per le quantità corrispondenti.
La compensazione legale opera automaticamente, ossia i due debiti o crediti si estinguono dal giorno della loro coesistenza; essa non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, in quanto, è necessario che la parte interessata manifesti la volontà di avvalersene (eccezione di compensazione). Esiste una teoria minoritaria, la quale afferma che la coesistenza non ha un ruolo essenziale, il quale è ricoperto dall’eccezione.
La compensazione giudiziale, decisa dal giudice, si attua quando vi è la mancanza di liquidità in uno dei due crediti reciproci; questa mancanza è, però, accompagnata dall’accertamento della sua pronta e facile liquidazione decisa dal giudice.
La pronuncia non assume un ruolo meramente dichiarativo come nella compensazione legale e volontaria; in quella giudiziale, essa è elemento essenziale e finale del procedimento e produce l’effetto estintivo. La compensazione giudiziale è fattispecie autonoma, perché può operare o sulla base di un regolamento compensativo legale, o su uno volontario.
La compensazione volontaria, stabilita per accordo delle parti, opera alla compensazione dei debiti o crediti reciproci quando mancano i presupposti per una compensazione legale o giudiziale. L’autonomia privata può anche prevedere un regolamento compensativo preventivo, nel quale sia previsto che l’effetto estintivo si produca automaticamente, cioè senza la necessità dell’eccezione, al verificarsi delle condizioni previste.
La compensazione volontaria, a differenza di quella giudiziale, non richiede il requisito dell’esigibilità.
62. Segue. Confusione. L’obbligazione si può estinguere anche per confusione, quando nella stessa persona confluiscono la situazione debitoria e creditoria (art. 1253 c.c.).
Presupposto fondamentale ai fini dell’estinzione dell’obbligazione per confusione, è la mancanza non della dualità di soggetti, ma di quella dei patrimoni o dei centri d’interesse.
La confusione non ha sempre un effetto estintivo; è il caso del mantenimento della fideiussione anche quando vi sia stata la riunione in una stessa persona della qualità di fideiussore e di debitore principale (art. 1255 c.c.). La confusione opera anche rispetto all’obbligazione naturale, qualora si riconosca possibile la successione nel credito o nel debito naturale.
63. Segue. Novazione (art. 1230 c.c.). La novazione è estinzione della vecchia obbligazione per volontà delle parti mediante la nascita di una nuova: essa può essere oggettiva, quando si modifica l’oggetto o il titolo e produce effetto estintivo della vecchia obbligazione; soggettiva, quando produce una vicenda modificativa della situazione debitoria. Tuttavia la novazione soggettiva è da intendersi non come una mera estinzione del rapporto, ma come modificazione della disciplina.
La novazione oggettiva è l’estinzione di un rapporto obbligatorio, per costituirne uno nuovo diverso per oggetto o per titolo.
Affinché si realizzi tale funzione è necessario il concorso di due elementi: uno soggettivo e uno oggettivo.
L’elemento soggettivo è l’animus novandi, ossia la volontà delle parti di estinguere il rapporto precedente. Il legislatore richiede la presenza di questa volontà; essa, però, non è da intendersi come causa efficiente dell’effetto estintivo, ma come consapevolezza che l’effetto estintivo-costitutivo produce anche effetti negativi come, per esempio, il venir meno delle garanzie presenti nella vecchia obbligazione e non estese alla nuova.
Il profilo oggettivo determina come oggetto, ai fini della novazione, la prestazione, il bene o l’interesse dedotti in obbligazione. Una mera modificazione quantitativa della prestazione o dell’oggetto o una modificazione delle modalità accessorie, non producono novazione. Soltanto una modificazione della prestazione o del suo oggetto comporta novazione.
La novazione oggettiva, a differenza della prestazione in luogo dell’adempimento (datio in solutum), non solo crea un nuovo rapporto obbligatorio, ma libera il debitore da quello precedente. Nella datio in solutum, all’inadempimento della prestazione sostitutiva, sopravvive sempre l’obbligo di eseguire quella originariamente pattuita, perché l’obbligo di eseguire l’originaria prestazione viene meno soltanto con l’adempimento della nuova, e cioè con l’estinzione dell’obbligazione; nella novazione, invece, l’inadempimento della nuova obbligazione non determina mai la reviviscenza di quell’originaria.
Anche il cambiamento del titolo comporta novazione oggettiva. Tuttavia, ai fini della novazione ciò che deve cambiare è il titolo e non la fonte; esempio è un’obbligazione pecuniaria modificata in risarcimento del danno (titolo) e come fonte il fatto illecito.
La nuova obbligazione, sorta in seguito alla novazione, ha la sua ragione giustificativa nell’estinzione in quell’originaria; per ciò la novazione è inefficace (rectius nulla) qualora l’obbligazione originaria si riveli inesistente. Per concetto d’inesistenza, il legislatore intendeva la nullità o annullabilità. Ovviamente nel caso dell’annullabilità, la sentenza costitutiva dell’annullamento deve essere intervenuta prima della conclusione del negozio novativo, in quanto, la novazione è, comunque, valida qualora il debitore abbia assunto la nuova obbligazione, conoscendo il vizio del titolo originario.
La novazione non può essere considerata invalida, qualora il titolo originario sia sottoposto ad azione revocatoria che determina soltanto un’inefficacia relativa o un’inopponibilità dell’obbligazione originaria; non determina l’annullamento dell’atto pregiudizievole.
64. Segue. Remissione del debito e rinunzia al credito. La remissione del debito è la dichiarazione di estinzione dell’obbligazione da parte del creditore (art. 1236 c.c.); essa non va, però, confusa con la rinunzia al credito. Vi sono, difatti, delle distinzioni: la remissione estingue direttamente l’intero rapporto obbligatorio, la rinunzia è una dismissione della situazione che può collegarsi anche con l’estinzione; poi, la rinunzia incide direttamente soltanto sulla sfera del rinunziante ed ha natura di negozio unilaterale che non è assolutamente subordinato, nel suo perfezionamento e nella sua efficacia, ad una manifestazione di volontà, favorevole o contraria, del debitore; la remissione, invece, incide sull’intero rapporto, perché può richiedere anche una partecipazione del debitore che può attenere o al momento perfezionativo della fattispecie (se si accolga la tesi della natura contrattuale della remissione) o a quello dell’efficacia (se si acceda alla ricostruzione della remissione quale negozio unilaterale recettizio).
La ratio dell’istituto della remissione ha una duplice finalità: consentire al creditore di disporre liberamente del suo diritto e tutelare l’interesse, patrimoniale o morale, del debitore a non subire una liberazione non desiderata.
Per quanto riguarda la struttura, vi sono due dottrine contrastanti: una qualifica la remissione come atto negoziale contrattuale, l’altra come atto unilaterale recettizio rifiutabile. Il problema è definire se fondamentale o non la partecipazione del debitore al perfezionamento del fatto estintivo. La dottrina prevalente è quella che qualifica la remissione come atto unilaterale recettizio, in quanto, è fondato sulla natura favorevole dei suoi effetti (incrementi del patrimonio del debitore) tanto da rendere superflua la partecipazione del debitore ala formazione della fattispecie estintiva. La remissione si realizza mediante la dichiarazione di volontà del solo creditore e produce l’effetto estintivo nel momento della comunicazione al debitore. Quest’ultimo ha, tuttavia, il potere di porre nel nulla tale effetto mediante un distinto negozio che, operando come condizione risolutiva della remissione, ripristina l’originale rapporto.
Per quanto riguarda la natura, si fonda sull’esigenza di rispettare l’assetto degli interessi sotteso ai singoli concreti rapporti. In quest’ottica, la remissione assume concezione di rapporto obbligatorio, visto più come cooperazione che come contrapposizione.
La remissione è necessariamente negozio a titolo gratuito, che si può realizzare anche mediante comportamenti concludenti; un’ipotesi di remissione per comportamento concludente è la restituzione volontaria del titolo originario del credito.
L’estinzione dell’obbligazione per remissione implica il venir meno delle garanzie personali e reali, mentre la rinunzia alle garanzie non fa presumere la remissione del debito.
65. Segue. Impossibilità sopravvenuta. L’impossibilità sopravvenuta della prestazione può essere imputabile o meno al debitore: se è imputabile al debitore, egli ne risponde personalmente; se non è imputabile, determina l’estinzione del rapporto e la liberazione del debitore (art. 1256 c.c.). Affinché l’impossibilità sopravvenuta sia estintiva deve essere oggettiva, cioè non legata alla situazione del debitore, ed assoluta, cioè tale da non consentire l’esatto adempimento a nessuno.
Nelle prestazioni che hanno ad oggetto la consegna di cose generiche e nelle prestazioni pecuniarie non si può verificare una liberazione per impossibilità sopravvenuta perché, essendo le cose appartenenti ad un genus e il denaro sempre reperibile, la prestazione è sempre possibile.
L’estinzione del rapporto obbligatorio, quindi, si verifica solo quando sopraggiunge un’impossibilità totale o definitiva.
Se l’impossibilità è parziale o temporanea, si applica una diversa disciplina.
Per quanto riguarda l’impossibilità parziale, il creditore può rifiutare l’adempimento parziale, ma nel caso di un’impossibilità parziale sopravvenuta e di un bene divisibile, il debitore si libera, anche contro la volontà del creditore, eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile (art. 1258 c.c.).
L’impossibilità temporanea non estingue il rapporto obbligatorio, perché il debitore è tenuto a adempiere non appena viene meno l’impossibilità. Il debitore non subisce le conseguenze negative della mora debendi, in quanto il ritardo non gli è imputabile; se l’impossibilità temporanea sopravvenuta si protrae entro un termine molto elevato, l’obbligazione si estingue in quanto il creditore non ha più interessi.
66. Segue. Subingresso legale del creditore. Se la prestazione che ha per oggetto una cosa determinata è divenuta impossibile, del tutto o in parte, il creditore subentra nei diritti spettanti al debitore, in dipendenza del fatto che sia stato il debitore a causare l’impossibilità; il debitore non ha più le garanzie dell’obbligazione estinta e pertanto egli ha l’obbligo di prestare anche ciò che si è conseguito a titolo di risarcimento (art. 1259 c.c.).
Per cosa determinata, la dottrina più moderna non limita la norma alle sole obbligazioni di dare, ma la estende anche alle obbligazioni di fare o di non fare e a quelle aventi ad oggetto il godimento di un bene. Il subingresso del creditore nei diritti del debitore non è da considerarsi come il classico schema surrogatorio.
67. Modificazioni soggettive dal lato creditorio: cessione del credito (art. 1260 – 1267 c.c.). Le modificazioni soggettive interessano il mutamento della titolarità delle situazioni dei rapporti obbligatori. Il credito può essere, quindi, ceduto a titolo oneroso o gratuito. Il creditore originario (cedente) trasferisce ad un altro soggetto (cessionario) il diritto di pretendere la prestazione del debitore (ceduto). Qualora il credito sia assistito da privilegi, garanzie personali o reali o da altri accessori, il cessionario subentra anche in questi; il credito, tuttavia, può essere ceduto con l’esclusione della garanzia. Il debitore non può opporsi (incedibilità legale), ma la legge prevede che alcuni crediti non possono essere ceduti; essi sono quelli legati al titolo o all’oggetto, i crediti che vantano creditori con particolare qualità, o crediti con natura speciale (es: crediti alimentari, stipendi del pubblico impiego). La modificazione o non della titolarità del credito può essere anche decisa da un accordo delle parti (patto di incedibilità convenzionale).
Nel conflitto tra l’interesse del debitore a non mutare il creditore, emerso nel patto di incedibilità, e quello del cessionario che ha acquistato il credito, facendo affidamento sul principio generale della libera trasferibilità e reputando il credito non vincolato, la legge tende a tutelare il cessionario. Nel caso in cui è avvenuto il trasferimento del credito e il debitore intende efficacemente tutelarsi rispetto ad un successivo trasferimento, il debitore deve rendere conoscibile il patto di incedibilità ai terzi, annotandolo, per esempio, sui documenti probatori del credito che devono necessariamente consegnati al cessionario.
Il trasferimento trova la sua giustificazione nella negoziazione dei diritti e nella funzione da svolgere.
Un credito può essere ceduto per estinguere una prestazione che il cedente ha verso il cessionario; infatti, se il cessionario è creditore verso il cedente, quest’ultimo cede il suo credito
che vanta nei confronti del ceduto (debitore) (cessione il luogo dell’adempimento). L’obbligo del cedente nei confronti del cessionario non si estingue con l’attribuzione della titolarità, ma con l’adempimento del debitore nei confronti del cessionario.
Il credito può essere ceduto anche a scopo di garanzia appunto per garantire l’adempimento di un’obbligazione del cedente verso il cessionario; quando il cedente adempie, il cessionario deve restituire il credito datogli in garanzia (cessione a scopo di garanzia).
La cessione può avere due strutture: una struttura trilaterale, che richiede il consenso del debitore ad autorizzare o ad accettare la cessione; un’altra è la struttura unilaterale, dove basta la volontà o del cedente o del cessionario.
Una volta stabilita la funzione del negozio traslativo, si è vincolati alla disciplina del contratto e alla prescrizione sulla forma del negozio a cui si fa riferimento.
Il debitore, di regola, non può opporsi alla cessione; tuttavia ha sicuramente un interesse giuridicamente rilevante a conoscere la persona destinataria del suo adempimento. Infatti, l’esecuzione della prestazione è liberatoria solo se è ricevuta dall’effettivo creditore. Il debitore ha l’obbligo di adempiere nei confronti del cessionario solo se è a conoscenza del mutamento della titolarità. Quest’informazione è fornita con la notifica dal cedente o dal cessionario con qualsiasi forma: atto giudiziale, invio postale, ecc…; il cessionario ha l’onere di fornire una prova sufficiente sull’intervenuto atto di trasferimento. Con l’accettazione, il debitore dichiara implicitamente al cessionario di conoscere l’esistenza della cessione.
Il debitore ha il diritto di promuovere un’azione di accertamento, con la quale egli verifica la certezza della titolarità del credito; con quest’azione, il debitore si tutela dal rischio di adempiere a un falso creditore e quindi di adempiere nuovamente, affrontando, poi, la difficile fase del recupero nei confronti del non legittimato, che indebitamente ha ricevuto l’adempimento.
La cessione del credito è efficace nei confronti del debitore ceduto, solo dal momento in cui è stata notificata a questo, o è stata da questo accettata. Fino a quando il debitore non ha ricevuto la notifica, egli si libera adempiendo nei confronti del cedente, salvo che il cessionario non provi che il debitore era comunque a conoscenza della cessione anche non avendo ricevuto la notifica.
Se, invece, dopo aver ricevuto la notifica, il debitore adempie nei confronti del cedente, egli non si libera dall’obbligo perché può essere costretto dal cessionario a adempiere una seconda volta.
Un problema complicato sorge quando il debitore ha la certezza della cessione, ma, dopo l’adempimento, tale cessione risulta invalida. Il debitore ha l’onere di verificare la validità ed efficacia della cessione e quindi, nel caso sia stato poco diligente, egli deve di nuovo adempiere.
Nel caso in cui il debitore ha adempiuto in buona fede ad un soggetto che, sulla base di circostanze univoche, gli è apparso come creditore, viene applicata la disciplina dell’adempimento al creditore apparente e il debitore è liberato.
Al debitore, tuttavia, è riconosciuta una tutela della situazione preesistente, ossia il cessionario non può peggiorare la situazione debitoria.
La cessione trasmette il credito a titolo derivativo; il cessionario, quindi, non può acquistare diritti maggiori di quelli spettanti al cedente.
[(Il debitore, affinché avvenga la compensazione con il cedente, può opporsi alla cessione solo per i crediti esistenti prima della notifica; in caso contrario, non può opporre l’eccezione al cessionario.)]
Nei conflitti tra più cessionari, ne esce vincitore colui che ha compiuto l’atto anteriormente, ossia abbia utilizzato prima gli strumenti di pubblicità (notifica o accettazione); ad esempio, tra il cessionario che acquista il 1 maggio e notifica il 6 e il cessionario che compra il 2 e notifica il 3, prevarrà il secondo. Il cedente che ha effettuato il duplice trasferimento è tenuto al risarcimento dei danni; vi è tenuto anche il secondo cessionario se, quando ha acquistato il credito, era a conoscenza della precedente cessione e in mala fede ha notificato tempestivamente.
Se il credito è ceduto a titolo oneroso, il cedente deve garantire l’esistenza del credito al tempo della cessione e la mancanza assoluta di vizi che possono compromettere il credito; se il credito è ceduto a titolo gratuito, si applica la normativa stabilita per la garanzia per l’evizione del donante e il cedente deve garantire se esistono particolari oneri per il cessionario.
In virtù della garanzia, il cessionario deve ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti: rimborso delle spese sostenute, restituzione della prestazione eseguita al cedente, e i danni derivanti dalla perdita e dal mancato guadagno.
Di norma, il cedente non garantisce la solvibilità del debitore ceduto, perché il rischio dell’inadempimento del debitore è ad esclusivo carico del cessionario. Tuttavia, il cessionario può ottenere che il cedente assuma la garanzia della solvenza (clausola salvo buon fine).
La garanzia non scatta al momento dell’inadempimento, ma quando il cessionario non riesce ad escutere il patrimonio del debitore in modo equivalente al credito vantato. Il cedente deve corrispondere al cessionario non quanto sarebbe stato adempiuto dal debitore ceduto, ma quanto ha ricevuto come corrispettivo, oltre agli interessi, alle spese e ai danni. Ogni clausola diretta alla responsabilità del cedente. Il cedente non risponde se la mancata soddisfazione del cessionario dipende da una sua negligenza nell’iniziare o nel proseguire le istanze contro il debitore ceduto. Quando non c’è la garanzia di solvenza, si parla di cessione del credito pro-soluta; quando, invece, vi è la garanzia di solvenza, si parla di cessione del credito pro-solvendo.
68. Segue. Surrogazione per pagamento. La surrogazione per pagamento non è altro che una cessione dei diritti di credito; essa può essere per volontà del creditore, per volontà del debitore, per legge.
È per volontà del creditore (art. 1201 c.c.), quando il creditore è adempiuto da un terzo e surroga il terzo, ossia lo sostituisce, nei suoi diritti di credito verso il debitore; questo tipo di surrogazione deve essere fatto in modo espresso e contemporaneamente all’adempimento.
È per volontà del debitore (art. 1202 c.c.), quando il debitore, ad esempio, presa a mutuo una somma di denaro o un bene fungibile per adempiere il creditore, surroga il mutuante nei diritti del creditore soddisfatto.
È per legge (art. 1203 c.c.), quando il terzo che adempie subentra nei diritti del creditore indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo o del debitore. Questo tipo di surrogazione è utilizzato per far sopravvivere il rapporto obbligatorio anche successivamente ad un fatto estintivo dello stesso.
La surrogazione per pagamento si concreta in una successione (a titolo particolare) nel credito: colui che si surroga può utilizzare le azioni spettanti al creditore cui si sostituisce e può godere anche delle eventuali garanzie delle quali è dotato il credito nel quale subentra, secondo i principi dell’acquisto derivativo.
69. Modificazioni soggettive dal lato debitorio: delegazione. Le modificazioni del soggetto passivo del rapporto prevedono sempre la partecipazione contrattuale del creditore (delegazione ed espromissione); per quanto riguarda l’accollo, invece, non è prevista la partecipazione del creditore.
La delegazione di debito si ha quando il debitore è nello stesso momento creditore verso un altro debitore; il debitore (delegante) delega il terzo soggetto (delegato) a adempiere al creditore originario (delegatario).
Tra il delegante e il delegato vi è un rapporto di provvista, tra il delegatario e il delegante vi è un rapporto di valuta.
La delegazione può essere titolata o pura. È titolata, quando il delegato, obbligandosi verso il delegatario menziona il rapporto di provvista che lo lega al delegante (es: su invito del delegante, il delegato si obbliga a pagare al delegatario la somma che il delegato deve al delegante), oppure menziona il rapporto di valuta fra delegante e delegatario (es: su invito del delegante, il delegato si obbliga a pagare al delegatario la somma che il delegante deve al delegatario), oppure menziona entrambi i rapporti.
È pura quando, invece, nessuno dei due rapporti, o di valuta o di provvista, è menzionato.
Se la delegazione è titolata, il delegato può rifiutarsi di pagare opponendo al delegatario le eccezioni basate o sul rapporto di provvista o su quello di valuta (es: dichiarazione di nullità del rapporto). Se la delegazione è pura, le eccezioni basate sulla mancanza del rapporto di provvista o di valuta non possono essere opposte dal delegato, il quale deve comunque pagare, salvo il
caso che manchino entrambi i rapporti. Nel caso in cui il delegante non è debitore del delegatario né è creditore del delegato, la delegazione risulta priva di ogni funzione.
La delegazione di pagamento, a differenza della delegazione del debito, non costituisce una nuova obbligazione fra il delegato e il delegatario, ma il delegato è semplicemente invitato a pagare il debito del delegante estinguendo il rapporto. Il delegato, comunque, può anche non accettare.
La delegazione di debito è, di norma, cumulativa, in quanto il delegato, assumendo il debito del delegante, diventa condebitore solidale del delegatario.
La delegazione liberatoria (o privativa) si ha quando il creditore, prima o all’atto della conclusione del contratto delegatorio, decide di liberare il debitore originario e quindi il delegato diventa il nuovo debitore. Con la liberazione del debitore originario si possono realizzare due casi:
a) la sostituzione del nuovo debitore nel rapporto obbligatorio originario (effetto privativo) con la possibilità per il delegato di utilizzare le eccezioni che il delegante avrebbe potuto esercitare verso il delegatario;
oppure
b) la costituzione di un nuovo rapporto che prende il posto del precedente che si estingue (effetto novativo), cosicché le eccezioni, che il delegante avrebbe potuto esercitare verso il delegatario, non possono essere utilizzate dal nuovo debitore e inizia a decorrere un nuovo termine di prescrizione.
70. Segue. Espromissione. L’espromissione si ha ogni qual volta un terzo (espromittente), estraneo al rapporto obbligatorio, assuma spontaneamente verso il creditore (espromissario) l’obbligazione del debitore (espromesso) (art. 1272 c.c.); è prevista la partecipazione contrattuale del creditore.
La causale dell’operazione è la spontaneità, ossia l’irrilevanza esterna della giustificazione causale dell’intervento dell’espromittente.
Quindi, a differenza della delega, non c’è il rapporto di provvista tra delegante (espromesso) e il delegato (espromittente), ma vi è quello di valuta tra l’espromesso e l’espromissario.
L’espromissione può essere cumulativa, in quanto l’espromittente, assumendo il debito dell’espromesso, diventa condebitore solidale dell’espromissario; o liberatoria, in quanto l’espromissario decide di liberare il debitore originario (espromesso) e quindi l’espromittente diventa il nuovo debitore.
L’espromittente può sempre rifiutarsi di pagare opponendo la mancanza del rapporto di valuta tra espromesso e l’espromissario.
71. Segue. Accollo. L’accollo (art. 1273 c.c.) si produce qualora un terzo (accollante) pattuisca con il debitore originario (accollato), l’assunzione del debito che questi ha nei confronti del creditore (accollatario).
L’accollo, a differenza dell’espromissione e della delegazione, non richiede il consenso del creditore, il quale non partecipa alla convenzione di accollo. L’eventuale adesione del creditore, accollo esterno, ha la funzione di rendere irrevocabile la dichiarazione di accollo. Se il creditore non aderisce all’accollo o non ne ha conoscenza, l’accollo produce effetti soltanto tra le parti (accollo interno), facendo sorgere in capo all’accollante l’obbligo verso l’accollato di tenerlo indenne dal peso economico del debito, fornendogli, ad esempio, i mezzi per eseguire il pagamento.
Anche l’accollo può essere cumulativo, in quanto l’accollante, assumendo il debito dell’accollato, diventa condebitore solidale dell’accollatario; o liberatorio, quando la liberazione è condizione espressa della stipulazione o se il creditore dichiara espressamente di liberare il debitore originario (accollato).
La legge prevede che il debitore originario (accollato) non è liberato nel caso di inadempimento dell’accollante; la dichiarazione di nullità o l’annullamento del negozio di accollo reintegra il rapporto obbligatorio tra il debitore originario (accollato) e il creditore (accollatario), senza le garanzie dell’accollante.
Quando il creditore libera il debitore originario, il rischio d’insolvenza dell’accollante grava sul creditore.
[(Diversamente dal delegato, l’accollante assume il debito originario; la sua obbligazione ha il contenuto di quella accollata ed egli può opporre al creditore le eccezioni fondate sul negozio di assunzione del debito.)]
L’accollo può essere fatto non solo per volontà delle parti, ma anche per legge.
72. Mora del debitore. La soddisfazione dell’interesse creditorio, la congruenza tra oggetto della prestazione dovuta e oggetto della condotta esecutiva, e il rispetto delle modalità di tempo e di luogo sono presupposti immancabili per qualificare il comportamento esecutivo come adempimento. La mancanza o il difetto di uno di essi determina l’inadempimento, l’inesatto adempimento, l’adempimento tardivo o adempimento in luogo diverso.
Si ha ritardo quando, scaduto il termine di adempimento, la prestazione è ancora possibile e il creditore ha ancora interesse a riceverla.
L’inadempimento, al contrario, è il mancato adempimento definitivo, che si verifica quando la prestazione è divenuta impossibile, o è ancora possibile adempierla e il creditore non ha più interesse a riceverla, o quando il debitore non può o non vuole adempiere.
Il semplice ritardo si configura alla mera scadenza del termine e non produce, di regola, conseguenze giuridiche. Questa situazione, che può anche protrarsi nel tempo, è necessariamente interlocutoria: essa può avere come conseguenza l’estinzione per decorso del termine di prescrizione o l’estinzione per impossibilità sopravvenuta non imputabile; il ritardo, però, può anche evolversi nella situazione di ritardo qualificato (mora del debitore) o evolversi nella situazione di inadempimento definitivo.
Il ritardo diventa mora, ossia fonte costitutiva di responsabilità, quando al mancato adempimento si aggiunge un atto formale di costituzione in mora; quest’atto formale si configura nell’intimazione o richiesta di adempimento fatta al debitore per iscritto (art. 1219¹ c.c.).
Tale atto è volontario di formale esercizio della pretesa creditoria, recettizio, interruttivo della prescrizione, e produttivo di effetti legalmente predeterminati (effetti della mora).
L’atto formale non è necessario quando: il debito deriva da fatto illecito, il debitore ha dichiarato per iscritto di non voler adempiere, la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore. Tuttavia, se il termine scade dopo la morte del debitore, per la costituzione in mora degli eredi è necessaria l’intimazione o richiesta per iscritto e gli effetti della mora si producono a partire dal 9° giorno dall’intimazione o dalla richiesta (art. 1219² c.c.).
La mora è stata definita ritardo qualificato; essa, tuttavia, indica un ritardo meramente legale, in quanto, non sempre coincide con il ritardo materiale nell’adempimento, nel senso che può seguire il ritardo, ma può anche prescinderne.
La mora produce inoltre effetti autonomi rispetto a quelli che conseguono all’inadempimento definitivo: il debitore deve risarcire i danni derivanti dal ritardo o, più correttamente, dalla mora; inoltre, sostiene il rischio dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Secondo autorevole dottrina, già il ritardo semplice produrrebbe alcune conseguenze giuridiche: potrebbe giustificare la domanda della risoluzione del contratto e legittimerebbe al risarcibilità del danno. Del resto i danni dovrebbero essere liquidati con riferimento al giorno della richiesta informale di adempimento e non dalla scadenza. Il prevalente orientamento giurisprudenziale reputa necessaria la preventiva costituzione in mora anche ai fini della richiesta di risoluzione e per l’eccezione di inadempimento. I criteri di liquidazione del danno da mora sono analoghi a quelli utilizzati per il risarcimento del danno da inadempimento.
Se, dopo la mora, la prestazione diviene impossibile anche per causa non imputabile al debitore, egli non è liberato ed è tenuto a risarcire a anche il danno da inadempimento. L’effetto liberatorio si può produrre soltanto per le prestazioni aventi ad oggetto una cosa determinata, qualora il debitore provi che la cosa sarebbe egualmente perita presso il creditore. Tuttavia, se l’obbligazione consiste nel restituire una cosa illecitamente sottratta, il debitore non è mai liberato (art. 1221 c.c.).
Non si ha mora qualora il debitore, tempestivamente, abbia fatto offerta non formale della prestazione, salvo che il creditore l’abbia rifiutata per un motivo legittimo (art. 1220 c.c.), costituendo in mora il debitore.
L’offerta deve essere seria, completa ed effettiva: un mero impegno a adempiere non è sufficiente.
Un’offerta non formale, che intervenga dopo la costituzione in mora del debitore, ne interrompe gli effetti (interruzione della mora).
L’adempimento tardivo li elimina ex nunc, provocando la purgazione della mora.
In entrambe le ipotesi, il debitore risponde dei danni provocati dal ritardo, fino al verificarsi dell’evento interruttivo o purgativo.
Nelle obbligazioni di non fare (negative), di regola, non è concepibile il ritardo nell’adempimento. Ogni violazione costituisce di per sé inadempimento definitivo (art. 1222 c.c.), rendendo superflua una preventiva costituzione in mora, in quanto, quest’ultima si configura come situazione interlocutoria che deve lasciare aperta la possibilità di adempiere, seppur tardivamente. Tuttavia, è possibile un adempimento tardivo qualora l’inerzia del debitore, per il tempo successivo, sia ancora idonea a soddisfare l’interesse del creditore.
73. Inadempimento. L’inadempimento è l’inattuazione definitiva del rapporto obbligatorio; esso è fonte di responsabilità e si verifica quando la prestazione è divenuta impossibile, cioè il debitore non può o non vuole adempiere oppure quando il creditore non ha più interesse a ricevere un adempimento tardivo. L’inadempimento e il criterio dell’impossibilità sono specificati nell’art. 1218 c.c.: esso afferma che il debitore è sempre responsabile finché permane l’oggettiva possibilità della prestazione; egli, solo dopo l’impossibilità sopravvenuta, è ammesso alla prova liberatoria consistente nella non imputabilità dell’evento che ha causato l’impossibilità sopravvenuta.
Affinché il creditore provi la sua non responsabilità all’inadempimento, deve dimostrare l’esistenza di un valido titolo e provare l’inesatta esecuzione della prestazione, in quanto non si può provare un fatto negativo o un comportamento omissivo.
Il debitore, invece, deve provare che l’impossibilità sopravvenuta sia causa a lui esterna, inevitabile secondo il metro della diligenza, assoluta, oggettiva e insuperabile, ossia ineseguibile da parte di qualsiasi debitore. Il debitore sopporta il rischio delle cause ignote in quanto non possa comprovarne l’accadimento.
L’art. 1218 non funziona da solo, ma con la cooperazione dell’art. 1175, che impone il reciproco dovere di correttezza.
La buona fede, come criterio di valutazione della condotta delle parti nell’esecuzione del rapporto, concorre a determinare ciò che il creditore può pretendere e ciò che il debitore deve fare; essa opera anche come criterio di esclusione della doverosità del comportamento oggetto dell’obbligazione e dell’esigibilità della pretesa creditoria. Un esempio di comportamento escluso dalla doverosità dell’obbligazione è il caso in cui il debitore è impedito per lutto in famiglia.
Per quanto riguarda le prestazioni di dare, l’impossibilità segna i limiti della doverosità della condotta, nel senso che quest’ultima non è più dovuta quando la prestazione è divenuta impossibile. Sotto questo profilo l’art. 1218 ha come finalità la disciplina dei criteri di imputabilità del fatto che ha causato l’impossibilità. L’esigibilità della condotta, pretesa dal creditore al debitore, non ha più motivo di esistere una volta che è scomparso definitivamente l’interesse del creditore.
Per quanto riguarda le obbligazioni di fare, l’art. 1218 va coordinato con l’art. 1176, ove si parla di diligenza. La diligenza è regola generale e non criterio generale di esonero dalla responsabilità per inadempimento, nel senso che il debitore non è liberato semplicemente provando di aver tenuto una condotta diligente. L’ordinamento non accoglie la distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato; tale distinzione è utilizzata per separare l’ambito di operatività del criterio di diligenza, per le obbligazioni di mezzi e del criterio dell’impossibilità, per le obbligazioni di risultato. In conclusione, l’ordinamento non opera tale distinzione, perché in ogni prestazione convivono mezzo (il comportamento del debitore) e
risultato (soddisfazione dell’interesse creditorio); tuttavia, ai fini della responsabilità, è la diversa incidenza quantitativa che distingue le varie obbligazioni.
Esistono anche clausole nel contratto che convengono un nuovo criterio di ripartizione del rischio di inadempimento, ma queste clausole (di esonero) non possono escludere o limitare preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave: il relativo patto è nullo (art. 1229 c.c.).
Salva diversa pattuizione, il debitore che nell’esecuzione della prestazione si avvale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di questi (art. 1228 c.c.). Il debitore risponde per il semplice fatto di aver dato incarico al terzo. Presupposti essenziali per l’applicabilità dell’art. 1128 sono: l’iniziativa del debitore e l’assenza di un rapporto contrattuale tra creditore e terzo.
Nell’ipotesi di inadempimento provocato dal fatto del creditore, il debitore è esonerato da responsabilità. Quando il creditore è in mora, il debitore mantiene sempre il diritto al corrispettivo. Se non sussistono i presupposti della mora del creditore, sono applicati i criteri di ripartizione del rischio dell’impossibilità sopravvenuta, e il creditore è obbligato al corrispettivo soltanto se l’impossibilità si è verificata per il fatto a lui imputabile.
74. Risarcimento del danno. L’obbligazione gode di una tutela reale e una risarcitoria; quella reale assicura al creditore il conseguimento dell’oggetto della prestazione, e quella risarcitoria un equivalente pecuniario. Il risarcimento del danno si effettua quando vi è inadempimento o un ritardo e consiste in una nuova obbligazione pecuniaria che comprende sia l’effettiva perdita (danno emergente) che il mancato guadagno (lucro cessante), purché l’una e l’altro siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento o del ritardo (art. 1223 c.c.). Quando l’inadempimento e il ritardo sono dolosi, il risarcimento comprende anche i danni imprevedibili (art. 1225 c.c.). Non è risarcibile il danno che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza (art. 1227 c.c.).
I danni da risarcire non comprendono solo quelli che provengono da inadempimento o ritardo (effettiva perdita e mancato guadagno), ma anche quelli mediati e diretti, purché rientrino nelle conseguenze normali e ordinarie del fatto.
Il creditore deve provare non solo il nesso di causalità e l’esistenza del danno, ma a ciò deve allegare la componente economica dell’evento lesivo (perdita effettiva e mancato guadagno); la non imputabilità deve essere provata dal debitore.
Al creditore spetta l’onere della prova anche per l’ammontare del danno; nel caso in cui è impossibile o notevolmente difficile determinare l’ammontare del danno, esso è liquidato equitativamente dal giudice anche d’ufficio (art. 1226 c.c.).
Il risarcimento è un debito di valore, cioè, successivamente alla liquidazione, diventa un debito di valuta come una comune obbligazione pecuniaria.
75. Clausola penale e caparra. Il danno può essere liquidato convenzionalmente evitando l’intervento giudiziale, o mediante un accordo transattivo, o, in via preventiva, con l’istituzione di una clausola penale. Le parti quindi possono convenire che in caso di inadempimento o ritardo ci sia una risarcibilità del danno prevista e predeterminata; il risarcimento preaccordato è limitato alla prestazione promessa e può aumentare in caso di danno ulteriore effettivamente subito.
La clausola penale è idonea ad assolvere una duplice funzione: di liquidazione preventiva del danno, e di sanzione per l’inadempimento o il ritardo. Logicamente non esiste un diritto cumulativo, cioè, il creditore non può pretendere congiuntamente la prestazione principale e la penale, salvo che quest’ultima sia stata stipulata per il semplice ritardo. L’ammontare della penale può essere diminuita dal giudice se la prestazione principale è stata eseguita in parte oppure se la clausola stessa è eccessiva.
Il debitore comunque non può scegliere tra l’adempimento dell’obbligazione oppure il pagamento della penale: il creditore conserva il diritto a pretendere l’esecuzione in forma specifica. La penale è utilizzata anche nella liquidazione del recesso (multa penitenziaria).
La caparra confirmatoria è l’effettiva dazione di una somma di denaro o di una quantità di cose fungibili riguardanti prestazioni corrispettive, e può essere data solo per l’inadempimento e non
anche per il ritardo; essa ha una funzione di garanzia. Infatti, non è un acconto perché deve essere restituita, oppure può essere imputata all’adempimento della prestazione principale.
Se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra parte può recedere dal contratto trattenendo la caparra; se inadempiente è la parte che ha ricevuto, l’altra parte che ha dato la caparra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra. La parte non inadempiente può chiedere l’esecuzione in forma specifica o la risoluzione del contratto, e il risarcimento è regolato dalle norme generali: la caparra versata è usata per il pagamento di danni liquidati o per eccedenza alla prestazione principale.
A differenza della caparra confirmatoria vi è la caparra penitenziale che è data sempre al momento della conclusione del contratto, come corrispettivo del recesso: il recedente perde la caparra o deve il doppio di quella data.
c. Specie tipiche di obbligazioni
76. Obbligazioni pecuniarie. Le obbligazioni pecuniarie costituiscono la più diffusa tipologia di obbligazioni: esse hanno come carattere fondamentale il denaro. Il pagamento in contanti per importi superiori ai 20 milioni può essere effettuato solo mediante intermediari abilitati, i quali, previa consegna della somma, accettano per iscritto l’incarico. Il creditore, una volta venuto a conoscenza dell’operazione, libera il debitore e può esigere il pagamento solo dopo 3 giorni dall’accettazione dell’intermediario.
Oggetto fondamentale delle obbligazioni pecuniarie è il denaro; esso è il mezzo legale per pagare, acquistare, scambiare, determinare i valori economici dei beni, risarcire, ecc….
Il termine tecnico-valutario per indicare il denaro è la moneta; essa può essere contante (banconote) e scritturale (contabile, bancaria e elettronica). La differenza sta nel fatto che la moneta scritturale è disponibile presso un ente creditizio.
Il principio nominalistico afferma che: il debito pecuniario si estingue con moneta avente corso legale nello stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale (art. 1277 c.c.); con questo principio, ogni svalutazione o rivalutazione della moneta è ininfluente nel pagamento.
Quando il debito è in moneta non avente corso legale, il debitore può pagare in moneta legale secondo il cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento (art. 1278 c.c.). Con la stipulazione della clausola effettivo, il debitore deve pagare solo con la moneta indicata anche se non avente corso legale, salvo che alla scadenza sia impossibile procurarsela (art. 1279 c.c.).
Il principio nominalistico presuppone un debito di valuta, ossia quel debito che al momento del suo sorgere ha ad oggetto una somma di denaro predeterminata e senza altri parametri di indicazione numerica (es: 1000 £).
I debiti di valore sono obbligazioni pecuniarie che hanno ad oggetto una prestazione nel suo valore economico e che, al momento del pagamento, si traduce in una somma di denaro.
In concreto, è difficile stabilire se un debito è o di valuta o di valore; per esempio, il debitore non sarebbe mai in grado di conoscere con esattezza l’ammontare della prestazione dovuta, in quanto tale prestazione è soggetta a costante rivalutazione, causate, ad esempio, da una galoppante inflazione.
Tale problema mette in discussione l’inderogabilità del principio nominalistico, perché tale principio è adatto solo in periodi di bassa inflazione.
Quindi, le parti possono decidere che una somma di denaro sia suscettibile a una rivalutazione fatta in riferimento a parametri esterni. Tali parametri possono essere: un criterio di aggiornamento automatico (clausola Istat) o una rivalutazione effettuata in riferimento all’indice dei prezzi alla produzione o all’ingrosso (clausola merci). Con questi parametri, sostanzialmente, un debito di valuta si converte in debito di valore: si parla di obbligazioni indicizzate.
Le clausole di rivalutazione, tuttavia, mitigano solo in parte gli effetti della perdita di potere di acquisto della moneta, in quanto la variazione dei prezzi di ciascun bene non è omogenea.
Comunque, le clausole monetarie sono particolarmente efficaci giacché consentono di personalizzare gli effetti della svalutazione.
Il denaro è un bene produttivo e i suoi prodotti o frutti civili sono gli interessi. Gli interessi sono dovuti al creditore e sono di pieno diritto, salvo che diversamente risulti dalla legge o dal titolo. Infatti con l’obbligazione pecuniaria che sia liquida (determinata nel suo ammontare) ed esigibile (non sottoposta a termine di scadenza) è sempre accompagnata, salvo che le parti non l’abbiano espressamente esclusa, da un’obbligazione accessoria. Essa è un’obbligazione pecuniaria autonoma rispetto a quella principale e quindi soggetta ad un proprio termine di prescrizione: la sua funzione è quella di corrispondere gli interessi secondo il tasso legale (4%, salvo diversa disposizione del Ministro del Tesoro) o secondo il tasso più levato che le parti abbiano convenuto (art. 1282 e 1284 c.c.). Se, però, sono convenuti interessi usurari, il patto è nullo e non sono dovuti interessi. Tuttavia, gli interessi scaduti producono al loro volta interessi soltanto dal giorno della domanda giudiziale o per accordo successivo alla scadenza, riguardante un periodo superiore a 6 mesi (anatocismo; art. 1283 c.c.).
Gli interessi moratori, dovuti nella misura legale, hanno una funzione risarcitoria dovuti per il ritardato pagamento a seguito della costituzione in mora del debitore; se prima della mora erano dovuti interessi ad un tasso maggiore di quello legale, anche quelli moratori saranno dovuti nella stessa misura.
Il maggior danno da ritardo, provocato da inflazione o eccessiva svalutazione monetaria, è risarcibile soltanto se provato dal creditore. Tuttavia, se è stata convenuta la misura degli interessi moratori, l’eventuale maggior danno non è risarcibile (art. 1224 c.c.).
Il risarcimento del danno costituisce debito di valore; la mera inflazione non è un danno risarcibile, il creditore deve provare che la somma dovuta sarebbe stata reimpiegata, producendo dei frutti civili.
77. Obbligazioni alternative e facoltative. L’obbligazione cumulativa si ha quando un unico rapporto obbligatorio ha per oggetto più prestazioni e il debitore si libera eseguendole tutte cumulativamente. Le obbligazioni alternative (art. 1285 c.c.) si hanno quando un unico rapporto obbligatorio ha per oggetto due o più prestazioni e il debitore deve eseguire obbligatoriamente una delle prestazioni dedotte. La scelta (art. 1286 c.c.) spetta di regola al debitore, salvo nei casi in cui la facoltà di scelta spetta o al creditore o a terzi. Una volta fatta la scelta, essa diviene irrevocabile e si ha la concentrazione dell’obbligazione (art. 1288 c.c.), cioè l’obbligazione da alternativa diventa semplice.
L’impossibilità sopravvenuta di una o di entrambe le prestazioni, dovuta a causa imputabile ad una delle parti, produce effetti differenti secondo che la facoltà di scelta spetti al debitore o al creditore (art. 1289 e 1290 c.c.):
caso in cui una delle prestazioni è divenuta impossibile per causa imputabile al debitore: se la facoltà di scelta spetta al debitore, l’obbligazione si concentra sulla prestazione che permane possibile; se la facoltà di scelta spetta al creditore, egli può esigere l’altra prestazione o chiedere il risarcimento dei danni;
caso in cui una delle prestazioni è divenuta impossibile per causa imputabile al creditore: se la facoltà di scelta spetta al debitore, egli è liberato salvo che non preferisca adempiere l’altra obbligazione e chiedere il risarcimento del danno; se la facoltà di scelta spetta al creditore, il debitore è sempre liberato salvo che il creditore preferisca esigere l’altra prestazione e risarcire il danno;
caso in cui entrambe le prestazioni sono divenute impossibili, ma soltanto una per causa imputabile al debitore: se la facoltà di scelta spetta al debitore, egli deve pagare l’equivalente della prestazione divenuta impossibile per ultima; se la facoltà di scelta spetta al creditore, egli può richiedere l’equivalente dell’una o dell’altra;
caso in cui entrambe le prestazioni sono divenute impossibili a causa di un unico evento imputabile al debitore: se la facoltà di scelta spetta al debitore, egli può pagare l’equivalente dell’una o dell’altra; se la facoltà di scelta spetta al creditore, egli può richiedere l’equivalente dell’una o dell’altra.
Le obbligazioni facoltative hanno ad oggetto una sola prestazione, ma al debitore è riconosciuta la facoltà di liberarsi eseguendo una diversa prestazione. Il creditore può esigere soltanto la
prestazione principale, ma non può rifiutare l’esecuzione della prestazione facoltativa: se la prestazione principale diviene impossibile, l’obbligazione si estingue.
78. Obbligazioni solidali. La solidarietà è un vincolo che lega più debitori all’esecuzione di una medesima prestazione: si parla di solidarietà passiva. Ciascuno dei debitori può essere costretto dall’unico creditore all’adempimento della prestazione, ma l’adempimento di uno libera anche gli altri coobbligati (art. 1292 c.c.). Il creditore può pretendere l’adempimento ad uno qualsiasi dei coobbligati, anche se l’obbligazione è stata assunta nell’interesse esclusivo di uno di essi.
Diversa dall’obbligazione solidale è quella parziaria, dove la prestazione è frazionata tra i diversi debitori i quali sono obbligati soltanto pro-quota (art. 1299 c.c.). Nell’obbligazione parziaria, l’insolvenza di uno dei debitori è sopportata dal creditore; in quella solidale, l’insolvenza si ripartisce fra i debitori.
N.B.: Per la situazione passiva, la solidarietà è la regola, la parziarietà è l’eccezione.
I presupposti della solidarietà sono: unicità della fonte e del titolo, e anche l’unicità e l’identità della prestazione; comunque in difetto dei presupposti, il vincolo può nascere anche per legge o per natura dell’obbligazione.
La solidarietà è un vincolo obbligatorio anche se vi è una pluralità dei soggetti, perché unico è l’oggetto, la fonte e il titolo. La solidarietà è esclusa dalla previsione, legale o convenzionale, del beneficium excussionis, in base al quale il creditore deve preventivamente escutere il patrimonio di uno dei coobbligati. Però, secondo l’orientamento prevalente, la solidarietà manca anche quando è previsto il beneficium ordinis, in base al quale il creditore deve preventivamente chiedere l’adempimento ad uno dei coobbligati (art. 1268 c.c.).
La solidarietà forma dei rapporti interni fra i debitori: l’obbligazione si divide tra i diversi debitori in parti eguali se non risulta diversamente; il debitore che ha adempiuto l’intera prestazione ha azione di regresso verso gli altri, cioè può ripetere da ciascun coobbligato la quota-parte di sua spettanza (art. 1298 e 1299 c.c.).
Vi sono anche i rapporti esterni tra i debitori e il creditore, ed è prevista una specifica disciplina (art. 1300 e ss c.c.).
La solidarietà non deve essere confusa con la contitolarità, perché la solidarietà presenta un unico vincolo, mentre, la contitolarità presenta più vincoli.
La solidarietà (attiva) nel credito si ha quando ciascuno dei creditori può pretendere l’esecuzione dell’intera prestazione e l’adempimento conseguito da uno di essi libera il debitore verso gli altri creditori (art. 1292 c.c.).
N.B.: Per la situazione attiva, la solidarietà è l’eccezione, la parziarietà è la regola, perché la solidarietà deve essere espressamente prevista.
Il debitore può indifferentemente adempiere nei confronti di uno qualsiasi dei creditori, salvo che non sia stato prevenuto da uno di essi con domanda giudiziale (art. 1296 c.c.). Per il resto e a ruoli invertiti vigono regole analoghe a quelle della solidarietà passiva per quanto riguarda i rapporti interni ed esterni.
79. Obbligazioni divisibili e indivisibili. L’obbligazione è indivisibile, quando il fatto o la cosa, oggetto della prestazione, in sé o nella considerazione delle parti è indivisibile (art. 1316 c.c.). L’obbligazione è divisibile, quando la cosa, o fatto, o prestazione è divisibile pro quota e l’adempimento pro quota soddisfa proporzionalmente l’interesse del creditore.
Poiché l’interesse del creditore è soddisfatto non dalla prestazione, ma dal suo oggetto, l’indivisibilità dell’obbligazione coincide con l’indivisibilità della cosa o del fatto oggetto della prestazione. Per questa ragione, sia l’indivisibilità oggettiva sia quella soggettiva sono sottoposte ad identica disciplina. La divisibilità dell’obbligazione presuppone una pluralità di creditori o di debitori. Se l’obbligazione è divisibile e non vi è vincolo di solidarietà, pretesa creditoria od obbligo debitorio si ripartiscono fra i vari soggetti: ciascun creditore può domandare l’adempimento per la parte di sua spettanza e ciascun debitore è tenuto a adempiere soltanto per la sua parte (art. 1314 c.c.).
Alle obbligazioni indivisibili si applicano le disposizioni sulle obbligazioni solidali, in quanto compatibili (art. 1317 c.c.).
80. Obbligazioni fungibili e infungibili. L’obbligazione si dice fungibile, quando l’oggetto della prestazione, in relazione all’interesse del creditore, può essere sostituito con un altro oggetto identico o di equivalente valore. La fungibilità esprime equivalenza qualitativa fra due cose ed è il frutto di una valutazione comparativa; è utilizzata come presupposto della compensazione legale, del mutuo e del deposito irregolare. Discorso inverso vale per le obbligazioni infungibili.
E. Situazioni di garanzia.
a. Situazioni di garanzia patrimoniali
81. Caratteri e funzioni della responsabilità patrimoniale. L’art. 2740 c.c., disponendo che il debitore risponde all’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, delinea l’istituto della responsabilità patrimoniale, mediante il quale il creditore insoddisfatto, a causa dell’inadempimento, può realizzare il suo interesse aggredendo in via esclusiva i beni del debitore. Quindi, con la responsabilità patrimoniale, il debitore, se non adempie, si vede aggredito nel suo patrimonio dal creditore.
La responsabilità patrimoniale risponde esclusivamente dell’inadempimento, anche se l’art. 2740 a volte è stato interpretato in modo da far diventare il punto di riferimento oggettivo del diritto del creditore non la prestazione, ma il patrimonio del debitore.
Questa prospettiva non è da condividere. La responsabilità patrimoniale, pur potendosi manifestare anche durante la fase fisiologica di esistenza del rapporto obbligatorio, è destinata ad operare, per altro non sempre e non necessariamente, a seguito dell’inadempimento; attenendo pertanto al momento patologico del rapporto obbligatorio, non costituisce aspetto caratterizzante ed essenziale della sua struttura. Difatti, la responsabilità patrimoniale non è strumento sostitutivo o alternativo dell’adempimento, perché il potere attribuito al creditore sul patrimonio del debitore ha natura prettamente processuale.
La responsabilità patrimoniale non può essere considerata satisfattoria dell’interesse del creditore: ad esempio, l’esecuzione generica o per espropriazioni sono soddisfacenti quando l’oggetto della prestazione è una somma di denaro; in caso contrario sono viste come l’equivalente pecuniario del danno, causato al creditore dall’inadempimento.
82. Responsabilità patrimoniale, responsabilità personale ed esecuzione forzata.
La responsabilità patrimoniale e personale operano entrambe in caso di inadempimento, ma sono diverse tra di loro: la responsabilità personale determina l’obbligo di risarcire il danno causato al creditore dall’inadempimento; la responsabilità patrimoniale comporta la soggezione, attuale o potenziale, dei beni presenti o futuri del debitore all’azione esecutiva del creditore insoddisfatto.
La responsabilità personale ha una funzione preparatoria a quella patrimoniale, perché quella patrimoniale, che si ricava dall’espropriazione forzata dei beni del debitore, esige che l’obbligazione abbia ad oggetto una somma di denaro. Tale presupposto è realizzato dalla responsabilità personale che o sostituisce l’obbligazione inadempiuta con quella risarcitoria, o aggiunge all’obbligazione inadempiuta quella risarcitoria.
La responsabilità patrimoniale presuppone oltre all’inadempimento dell’obbligazione originaria, anche quella risarcitoria. Infatti, l’adempimento dell’obbligazione risarcitoria fa venir meno la responsabilità patrimoniale. Tale responsabilità è diversa dall’esecuzione forzata perché ha un’operatività più ristretta. L’esecuzione forzata in forma generica si ha quando la situazione creditoria ha per oggetto la consegna di una somma di denaro;l’esecuzione forzata in forma specifica è invocata in caso di inadempimento di crediti aventi oggetto diverso dal denaro.
Con l’esecuzione forzata per consegna o rilascio, il creditore ottiene lo stesso bene che il debitore avrebbe dovuto fargli conseguire. Con l’esecuzione forzata degli obblighi di faree di non fare, il creditore ottiene che un terzo incaricato dal giudice faccia o distrugga a spese del debitore ciò che il debitore si era impegnato a fare (e non ha fatto) e a non fare (e invece ha fatto).
L’esecuzione forzata in forma specifica degli obblighi di fare presuppongono, comunque, una fungibilità, ossia una sostituibilità in sede esecutiva del soggetto obbligato con un altro soggetto nominato dal giudice. Suscettibile all’esecuzione forzata in forma specifica è l’obbligo di contrarre: di fronte all’inadempimento il creditore può ottenere una sentenza che produce gli stessi effetti del contratto non concluso. L’esecuzione in forma specifica è sempre satisfattoria ed è strumento di realizzazione coattiva del debito.
83. Par condicio creditorum e divieto del patto commissorio. La regola della par condicio creditorum comporta che se un soggetto ha più creditori questi hanno egual diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore (art. 2741 c.c.); una volta promossa l’espropriazione forzata, il ricavato è ripartito in proporzione all’ammontare dei rispettivi crediti.
Il principio della parità di trattamento subisce alcune limitazioni derivanti dal divieto di promuovere azioni esecutive individuali.
L’ordinamento per tutelare la par condicio creditorum, dichiara nullo il patto commissorio (art. 2744 c.c.), con il quale si accoda che, in mancanza del pagamento nel termine stabilito, la proprietà della cosa dato in pegno passa al creditore. Tale patto poneva in una posizione sfavorevole sia il debitore, perché la cosa ipotecata o data in pegno aveva un valore superiore alla prestazione, sia gli altri creditori, perché si vedono sottrarre un bene del comune creditore sul quale essi avrebbero potuto soddisfarsi.
La giurisprudenza ha dichiarato la nullità della vendita con patto di riscatto.
Tuttavia l’ordinamento ritiene lecito il patto marciano, con il quale il creditore, nelle ipotesi di inadempimento, diventa proprietario della cosa ricevuta in garanzia previa corresponsione al debitore della differenza tra l’ammontare del credito e l’eventuale maggior valore del bene.
84. Cause di prelazione e privilegi. La legge prevede delle eccezioni alla regola della par condicio; è l’ipotesi del cause di prelazione, che comportano posizioni privilegiate caratterizzate da un ordine di preferenza da seguire in sede di riparto delle somme ricavate dalla vendita forzata. Le cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.) sono: i privilegi, il pegno e l’ipoteca. I presupposti di tali cause sono: una pluralità dei creditori e la presenza di un patrimonio adeguato a soddisfare le esigenze degli stessi.
Esistono anche altre norme che rafforzano la tutela di un creditore rispetto a quella riconosciuta agli altri: un esempio è il diritto di ritenzione, che consente ad un determinato creditore di trattenere la cosa data fino a che il debitore-proprietario non abbia estinto il proprio debito. Esso ha natura eccezionale ed è opponibile erga omnes.
I privilegi sono una delle cause di prelazione ed hanno alcune caratteristiche comuni fra loro: la fonte è rappresentata da una previsione legale, l’elemento giustificativo è nella causa del credito, l’attribuzione del diritto di prelazione favorisce un determinato creditore.
L’art. 2745 prevede che nel rispetto della legalità il privilegio è subordinato ad una convenzione tra le parti o ad una particolare pubblicità. Per la validità dei privilegi è necessaria la forma scritta. I privilegi sono generali e speciali: quelli generali (art. 2751 ss c.c.) gravano su tutti i beni mobili del debitore; quelli speciali (art. 2755 ss c.c.) gravano su determinati beni mobili e immobili che hanno una particolare relazione con il credito del quale si intende rafforzare la tutela.
I crediti assistiti da privilegio generale sono accomunati da un’esigenza di assicurare il soddisfacimento prioritario di categorie professionali che dalla realizzazione del credito traggono i mezzi di sostentamento, oppure dall’esigenza di prelievo fiscale dello stato.
I crediti assistiti da privilegio speciale hanno una posizione di preferenza rispetto a quelli generali, ma questa relazione non è sempre valida.
I privilegi sono inerenti ad un rapporto di credito e lo seguono in tutti i suoi trasferimenti. Per i privilegi speciali, la situazione è particolare, perché essi presuppongono che la cosa si trovi in un determinato luogo o in una particolare relazione con il creditore; se mancano tali presupposti, il privilegio viene meno.
Essendoci una specifica connessione tra il credito e la cosa, nel caso si ha un perimento totale del bene, il privilegio si estingue; nel caso di un perimento parziale, il privilegio diminuisce proporzionalmente al perimento. Il privilegio speciale può essere accostato alla categoria delle garanzie reali dove troviamo il pegno e l’ipoteca. Il privilegio speciale dà al creditore anche il diritto di seguito, consistente nel potere di aggredire il bene anche nei confronti dei terzi acquirenti.
85. Mezzi di conservazione delle garanzie patrimoniali: generalità. La posizione del creditore è tutelata con i mezzi di conservazione delle garanzie patrimoniali:
• il creditore può esperire l’azione revocatoria (art. 2901 c.c.), nel caso in cui il debitore aliena i suoi beni a terzi;
• il creditore può esercitare l’azione surrogatoria (art. 2900 c.c.), nel caso in cui il debitore, non esercitando il proprio diritto di credito nei confronti di terzi, impedisce l’accrescimento del proprio (del debitore) patrimonio;
• il creditore può chiedere il sequestro conservativo (art. 2905 c.c.), nel caso in cui il debitore dà atto al creditore di farlo dubitare sui suoi (del debitore) beni potendoli dissipare.
Il creditore può anche evitare le diminuzioni fittizie del patrimonio del debitore come nel caso della simulazione assoluta di vendita effettuata dal debitore per sottrarre alcuni suoi beni all’azione esecutiva del creditore; l’azione di simulazione non è idonea per la simulazione relativa di vendita (es: donazione).
Un altro strumento posto a disposizione del creditore, affinché conservi le garanzie patrimoniali, è la decadenza del beneficio del termine (art. 1186 c.c.), con il quale il creditore può esigere immediatamente la prestazione qualora il debitore abbia diminuito le garanzie prestate o non abbia dato le garanzie in precedenza promesse.
F. Prescrizione e decadenza.
93. Influenza del tempo sull’acquisto o sull’estinzione dei diritti. Il decorso di un dato periodo di tempo, combinato con altri elementi, può dar vita o all’acquisto (prescrizione acquisitiva o usucapione) o all’estinzione (prescrizione estintiva e decadenza) di una situazione soggettiva. Con il codice civile del 1865, le due discipline erano unite, poi con il codice vigente le due discipline sono state separate: la prescrizione acquisitiva (usucapione) si trova nel libro delle proprietà, in quanto modo di acquisto dei diritti reali; la prescrizione e la decadenza si trovano del libro della tutela dei diritti.
94. Prescrizione: nozione e fondamento. La prescrizione produce l’estinzione della situazione soggettiva per l’effetto dell’inerzia del suo titolare, che non la esercita o non ne usa per il tempo determinato dalla legge (art. 2934 c.c.).
La prescrizione ha la sua funzione nell’esigenza dei rapporti giuridici, perché quando il titolare non esercita quel diritto, egli lascia presumere che non ne sia più interessato e nella collettività si fonda la convinzione dell’inesistenza.
95. Inderogabilità della disciplina e operatività della prescrizione. Carattere importante della prescrizione è l’inderogabilità, infatti, anche nell’autonomia negoziale, le parti non possono modificare i termini della prescrizione, o escluderla, o rinunziarvi (art. 2936 c.c.).
Nel caso di un credito andato in prescrizione, il soggetto avvantaggiato è il debitore e il soggetto svantaggiato è il creditore.
Tuttavia il soggetto passivo (debitore) può rinunziare alla prescrizione già compiuta, e questa rinunzia (successiva alla prescrizione) può essere espressa ma anche tacita (art 2937 c.c.).
La prescrizione però non opera automaticamente; il soggetto avvantaggiato deve farla valere di fronte al giudice (che non può rilevarla d’ufficio, cioè di sua iniziativa, art. 2938 c.c.), oppure in via d’azione o d’eccezione.
Qualora il debitore non faccia valere la prescrizione, il giudice lo condannerà al pagamento di quanto dovuto, prima ancora che la prescrizione sia compiuta.
La prescrizione tuttavia può essere opposta anche dai creditori del soggetto avvantaggiato e da ogni altro interessato, qualora il soggetto a favore del quale si è maturata non la faccia valere o vi abbia rinunziato.
Se il soggetto avvantaggiato paga il debito, anziché opporre la prescrizione, estingue una normale obbligazione civile; se, invece, il soggetto avvantaggiato paga il debito dopo aver fatto valere la prescrizione, con conseguente estinzione dell’obbligazione, si realizza l’adempimento di un’obbligazione naturale con conseguente irripetibilità di quanto pagato (art. 2940 c.c.).
96. Efficacia estintiva della prescrizione. Si è sempre attribuita alla prescrizione un’efficacia estintiva del diritto, ma il problema dell’efficacia va attentamente considerato.
Se alla prescrizione conseguisse la pura e semplice estinzione del diritto, al debitore spetterebbe l’azione di ripetizione di quanto dovuto, trovandosi in una situazione di un pagamento non dovuto (indebito oggettivo). Quindi la prescrizione è da intendersi non come estinzione del diritto, ma come una modificazione, che estinguerebbe l’azione.
La prescrizione sarebbe anche preclusiva perché comporterebbe il rigetto della domanda di prescrizione sia nelle ipotesi che si è accertato la sussistenza del diritto, sia nelle ipotesi di insussistenza.
97. Oggetto della prescrizione. La prescrizione è istituto di valenza generale: ogni diritto si estingue per prescrizione; tuttavia, la regola della prescrittibilità dei diritti conosce alcune eccezioni (art. 2934 c.c.).
Non si prescrivono:
• i diritti indisponibili;
• i diritti della personalità;
• i diritti attinenti ai rapporti di famiglia;
• le azioni di contestazione e di reclamo della legittimità, di impugnazione e di dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità;
• la qualità di erede e l’azione di petizione ereditaria;
• le azioni di nullità del contratto;
• le facoltà che formano il contenuto della situazioni giuridica, perché si prescrive l’azione e non l’eccezione;
• i diritti di proprietà, perché è un diritto assoluto, cioè da far valere erga omnes. Esso non si prescrive perché non esiste un controinteressato che si avvantaggia della prescrizione, in quanto, con l’estinzione del diritto di proprietà per prescrizione, la cosa diverrebbe una res nullius; qualora vi sia un controinteressato, non opera più la prescrizione, ma l’usucapione.
Si prescrivono i diritti di credito e i diritti reali su cosa altrui: per effetto della prescrizione, il debitore è liberato dall’obbligazione e il proprietario si libera dell’altrui diritto reale sulla propria cosa (usufrutto, servitù, ecc…).
La prescrizione sarebbe come una moneta a due facce: da un lato vi è l’estinzione del diritto, dall’altro la corrispondente liberazione del soggetto passivo; un soggetto perde il diritto per prescrizione solo se vi è un corrispondente acquisto della liberazione da parte dell’altro.
98. Decorrenza della prescrizione: computo dei termini e termini di prescrizione. Il termine di prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.).
Se il diritto è sottoposto a condizione, la prescrizione inizia a decorrere dal giorno nel quale essa si verifica; se il diritto è sottoposto a termine, la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui scade il termine.
La prescrizione decorre anche se il titolare della situazione, non per sua colpa, ignori di essere titolare della situazione, oppure che ignori l’identità del soggetto passivo. Se però il soggetto passivo abbia occultato il debito, la prescrizione rimane sospesa fino a che il dolo non sia stato scoperto (art 2941 c.c.).
La prescrizione del diritto di annullabilità del contratto decorre dal giorno della sua conclusione e, se l’annullabilità dipende da vizio del consenso (errore o dolo) e dà incapacità legale (interdizione, inabilitazione e minore età (art. 1442 c.c.)), il termine decorre dal giorno nel quale è cessata la violenza.
La prescrizione del diritto al risarcimento del prodotto difettoso decorre dal giorno di scoperta del difetto, del danno e dell’identità del responsabile.
La prescrizione inizia con la scadenza dell’ultimo istante dell’ultimo giorno. Se il giorno finale è festivo, essa è prorogata al giorno successivo non festivo; se è a mesi, il termine scade nel giorno corrispondente a quello del mese iniziale (es: 2 febbraio – 2 marzo); se nel mese di scadenza manca il giorno corrispondente, il termine si compie con l’ultimo giorno del mese (art. 2963 c.c.).
Il termine ordinario (art. 2946 c.c.) di prescrizione è di 10 anni; per l’usucapione, per i diritti reali di godimento (superficie, enfiteusi, usufrutto, servitù) e per l’ipoteca il termine è di 20 anni.
Per il risarcimento da atto illecito, il termine è di 5 anni; invece, è di 2 anni, se l’atto illecito è causato dalla circolazione di veicoli (prescrizione breve).
Sempre in 5 anni si prescrivono i diritti che derivano da rapporti sociali. Termini ancora più brevi sono fissati per i diritti derivanti da alcuni contratti (mediazione, spedizione, trasporto e assicurazione).
Peraltro, i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di 10 anni, se riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di 10 anni. L’azione diretta all’esecuzione del giudicato si prescrive in 10 anni.
Infine, l’azione di annullamento e l’azione revocatoria si prescrivono in 5 anni; l’azione di rescissione si prescrive in 1 anno o, se riguarda il contratto di divisione, in 2 anni.
99. Sospensione ed interruzione. Se l’inerzia è presupposto fondamentale della prescrizione, la cessazione dell’inerzia (fatta dal creditore) è presupposto fondamentale della sospensione e dell’interruzione.
La sospensione è dovuta alla condizione del titolare del diritto (art. 2942 c.c.), cioè quando il titolare del diritto non può esercitarlo per condizione propria della titolarità: esempio, il minore non emancipato, l’interdetto per infermità di mente privo di rappresentanza legale, militari in servizio in tempo di guerra. La sospensione ha luogo solo nelle ipotesi tassative previste dalla legge.
L’interruzione si ha quando il titolare esercita il diritto (art. 2943 c.c.) mediante notifica dell’atto con il quale si inizia il giudizio: esempio, mediante atto di costituzione in mora del debitore. L’interruzione si realizza anche quando il soggetto passivo riconosce l’esercizio del diritto espressamente o tacitamente (art. 2944 c.c.). Dal momento dell’interruzione, inizia a decorrere un nuovo periodo di prescrizione (art. 2945 c.c.).
100. Prescrizioni presuntive. Le prescrizioni presuntive sono una categoria particolare; esse postulano che alcuni crediti si presumono estinti salvo prova contraria.
Un esempio è il caso dell’albergatore: trascorsi 6 mesi dall’alloggio, il conto si presume pagato. Il debitore è esonerato dalla prova (art. 2697 c.c.) anche perché nella vita quotidiana il debitore no conserva prove dell’effettivo pagamento.
Il creditore può dimostrare la prova contraria, ossia che il debitore non abbia pagato, ma la prova è rilevante solo se il debitore giura di non aver pagato.
Questa prova è comunque di ardua dimostrazione perché il debitore, anche conoscendo l’esistenza delle sanzioni sul falso giuramento, può giurare il falso.
101. Decadenza: nozione e fondamento. Distinzione tra prescrizione e decadenza. La decadenza comporta l’estinzione di un diritto che non sia stato esercitato entro un dato termine: l’inerzia del titolare e il decorso del tempo fanno sì che il diritto si estingue.
Il fondamento della decadenza è l’esigenza di certezza.
Tra prescrizione e decadenza vi sono delle differenze sia in relazione al fondamento, sia in relazione alla disciplina.
Per quanto riguarda le differenze riguardo al fondamento, la decadenza interessa termini brevi e brevissimi, e non tiene in considerazione le circostanze soggettive che hanno giustificato l’inerzia; soltanto nella decadenza l’esigenza di certezza è assoluta, mentre nella prescrizione tale esigenza si combina con le ragioni dell’inerzia.
Per quanto riguarda le differenze riguardo alla disciplina, la decadenza non ammette interruzione e sospensione, salvo che per la sospensione sia disposto diversamente (art. 2964 c.c.); è il caso della sospensione dei termini nei periodi feriali.
La decadenza può essere impedita solo dal compimento dell’atto previsto (art. 2966 c.c.); nei casi in cui la decadenza è impedita, il diritto rimane soggetto alle disposizioni che regolano la prescrizione (art. 2967 c.c.).
Compito difficile del legislatore è quello di verificare se un caso si tratti di decadenza o di prescrizione; in generale, egli si rifà alla brevità del termine.
Non tutti i diritti sono soggetti a decadenza, ma solo quelli individuati dal legislatore.
102. Decadenza in materia disponibile e no: decadenza legale, giudiziale e convenzionale. La decadenza si differisce in ordine pubblico e ordine privato.
La decadenza di ordine privato ha questi caratteri:
• è consentita la rinunzia;
• non può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 2969 c.c.);
• le parti possono modificare la sua disciplina legale; essi possono stabilire termini di decadenza, ma il patto è nullo quando questi termini rendono difficile ad una delle parti l’esercizio del diritto (art. 2965 c.c.);
• il riconoscimento del diritto è causa impeditivi della decadenza.
La decadenza di ordine pubblico (interesse pubblico) ha questi caratteri:
• non è consentita la rinunzia;
• può essere rilevata d’ufficio dal giudice;
• le parti non ne possono modificare la disciplina legale e nemmeno i termini;
• il riconoscimento del diritto non è causa impeditiva della decadenza.
La decadenza è:
• legale, quando il termine è stabilito dalla legge;
• giudiziale, quando su richiesta di una delle parti la fissazione del termine è fatta dal giudice;
• convenzionale, quando il termine è stabilito contrattualmente.
103. Immemorabile. Un altro istituto che comporta la perdita del diritto a seguito dell’inerzia del titolare protratta nel tempo è la Verwirkung dell’ordinamento tedesco.
Tale istituto, basandosi sulla buona fede, afferma che il titolare di un diritto, non esercitato per un tempo immemorabile, non può più esercitare tale diritto in quanto compie un abuso, un comportamento scorretto e sleale, perché la sua immemorabile inerzia induce il soggetto passivo a ritenere tale diritto non più attivo.
Questo istituto non è presente nel nostro ordinamento, ma la giurisprudenza ritiene che gli stessi risultati si raggiungano con la rinunzia tacita del titolare del diritto a seguito dell’inerzia prolungata nel tempo. .
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