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Costituzionalismi antichi e moderni
tra strutture invarianti e specificità storiche
Sommario: 1. ‒ Costituzionalismo e costituzionalismi. Piano dell’esposizione e considerazioni introduttive. 2. ‒ Idealtipi del costituzionalismo occidentale. 3. ‒ “Governo misto”: le vicende di una formula. 4. ‒ Il ruolo fondativo del “patto giurato” e la sua trasformazione. 5 ‒ Difficoltà e sviluppi odierni della democrazia costituzionale. 6 ‒ Conclusioni: le sfide future del costituzionalismo.
1. ‒ La parola “costituzionalismo”, com’è noto, può essere - ed è stata - usata in almeno due diverse estensioni di significato.
Al primo, più largo, si riferisce chi ad esempio scrive di “costituzionalismo dei Greci” o “dei Romani”, ovvero ancora “medievale”, o comunque si esprime in modo analogo. Charles Howard Mc Ilwain ha così trattato, in un’opera fondamentale per tutte le riflessioni successive, di “costituzionalismo degli antichi e dei moderni” e in un’ottica non dissimile, quanto a possibilità di comparare contesti storici differenti, si era - com’è noto - mosso Benjamin Constant a proposito della libertà.
È peraltro anche evidente che - in tale impiego del termine - è implicito (e talora ed anzi in genere esplicitato) un secondo e più ristretto piano di definizione: posto cioè che si ritenga di accostare esperienze diverse, ci si accinge al confronto sempre a partire dalla consapevolezza critica della rispettiva distanza, tant’è che essa viene fin dall’inizio circoscritta e il territorio concettuale dell’indagine ne è pertanto perimetrato.
In senso proprio, infatti, “costituzionalismo” è da quasi due secoli e mezzo il denotato semantico di una specifica filosofia istituzionale, tipica della stagione politico-giuridica radicata nell’età dell’Illuminismo, ai cui caratteri si fa quindi (per somiglianza o differenza, in modo sottinteso o apertamente) rinvio .
La relazione che segue proverà, ciò posto, a compiere un rapido inventario delle ragioni seminali del costituzionalismo, riguardato in questo suo secondo e ormai consolidato senso, rinvenendole (salvo errore) in epoche anche molto lontane, benché - per delimitare un campo di osservazione altrimenti troppo vasto e sfuggente - limitandosi comunque alla storia della cultura occidentale .
Una ricerca del genere ha un suo significato e non è certo prima d’ora mancata , trovando giustificazione nella circostanza per cui ogni generazione di teorici ha letto le opere di quelle che l’hanno preceduta, venendone quindi influenzata e filtrando idee più antiche attraverso sensibilità rinnovate e adattate di volta in volta ai differenti contesti geopolitici e sociologici.
Si può insomma legittimamente cercare le radici del “moderno” e interrogarsi infine su quanto di esse possa essere proficuamente consegnato al futuro, purché al tempo stesso si abbia cura di sfuggire - per quanto possibile - a tentazioni di anacronismo, foriere di errori metodologici e non si attribuiscano quindi ai nostri antenati ordini di idee che essi non avrebbero potuto in merito avere.
Si procederà non per “fotografie” (a tacere d’altro, nel passato in cui si ha intenzione di gettare lo sguardo le apposite macchine non erano state ancora inventate, mentre - per fermare un soggetto in movimento, come per “l’attimo fuggente”- occorrono strumentazioni e abilità molto sofisticate e per indovinare l’avvenire, infine, non resta che affidarsi alla sfera di cristallo), bensì per idealtipi, cioè per macro-quadri concettuali non tanto astratti, quanto estratti, dalla Storia, utili a segnare le tappe del cammino, benché si debba avere chiara la coscienza che si tratta di schemi di sintesi senza assurde pretese normative.
Se questa suggestione weberiana guiderà le riflessioni che seguono, non altrettanto chi scrive confessa di poter dire a proposito dell’altra raccomandazione metodologica del maestro della sociologia tedesca: al netto cioè della sempre necessaria onestà intellettuale, è impossibile pretendere un’avalutatività assoluta nell’osservatore di fenomeni del genere .
Come notoriamente sosteneva infatti Benedetto Croce , “ogni storia è storia contemporanea”, quantomeno nel senso che chi investiga il passato lo fa mosso da preoccupazioni riconducibili alla sua individualità.
Quanto al tempo in cui stiamo vivendo, tale assunto equivale a porsi dunque qualche domanda di non poco peso.
Noi lavoriamo, per esempio, con un vocabolario e una tavola di valori (nonché talora riandando al dibattito politico-istituzionale, o almeno presupponendolo) di origine greco-classica. È tuttavia inquietante che, mentre così facciamo, i discendenti attuali degli antichi abitanti delle póleis si trovino nella situazione drammatica che conosciamo.
Del resto è legittimo chiedersi se la democrazia, nata - con tutte le puntualizzazioni e le ovvie cautele che un assunto così impegnativo come questo che ora si avanza impone, più che semplicemente richiedere - in una dimensione spaziale contenuta e cinta da mura possa sopravvivere alla sua generalizzazione globale e alla deteritorializzazione dei suoi confini
È in fondo questa l’inquietudine sottostante anche ad uno stimolante libro di world history, del quale è appena uscita la traduzione italiana, che è appunto un’indagine sulla pólis: quella del modello originario e quelle (per l’Autore Andorra, San Marino, Amburgo, Singapore) che di esso sopravvivono, con tutte le metamorfosi del caso, ancora oggi .
Sembra insomma proprio inevitabile affermare che chi fosse, in ipotesi, giunto alla fine della lettura di questo scritto non ne saprà forse del costituzionalismo più di quanto già in partenza non conoscesse, ma certo saprà qualcosa almeno delle inclinazioni intellettuali e delle valutazioni in proposito di chi lo firma .
2. ‒‒ Dovendosi giocoforza procedere per sintesi larghissime e dando quindi anche per noti eventi storici puntuali, può forse essere utile, a fini di schematizzazione (e pur continuando a ribadire il precedente caveat di non perdere mai il senso della complessità del reale e di non ritenere quanto segue prescrittivo), distinguere - nell’ambito della nozione generale del “costituzionalismo”, intesa come specifica filosofia politica sulla costituzione (relativa alla necessaria esistenza di un determinato assetto istituzionale, che comprende diritti fondamentali e divisione dei poteri, come è appunto scritto nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, altrimenti in tesi una costituzione non si dà affatto) - tradizioni storiche rivoluzionarie e altre “evoluzionistiche”.
Quanto alle prime - e seguendo il loro manifestarsi cronologicamente successivo e immediatamente connesso - vengono innanzitutto in evidenza gli Stati Uniti e la Francia.
In un libro giustamente celebre, ancorché discusso (il che è segno della sua importanza: solo gli elenchi telefonici - nell’asetticità dell’ordine alfabetico dei nomi che contengono - sono indiscutibili), Hannah Arendt ha tra l’altro e con acutezza notato che ciascuno dei due assetti che risultano dalla dinamica rivoluzionaria del tardo Settecento è condizionato, nei suoi caratteri, dalla qualità del contesto ambientale contro cui è attuata la ribellione, che insomma in qualche modo - naturalmente in forma trasposta in chiave repubblicana - lo riproduce.
Questo condurrà la rivoluzione francese al fallimento totalitario e poi alla transmutazione imperiale, mentre federalismo, comunità autogovernantesi, presenza di un ceto diffuso di piccoli proprietarî salvarono per il futuro l’assetto democratico statunitense .
Tanto premesso, nel primo caso troviamo una Costituzione rigida, garantita da una Corte Suprema che dal 1803 - sentenza Marbury versus Madison - assume anche ruolo di Corte Costituzionale; il federalismo come ulteriore (e precisamente verticale) divisione dei poteri a base territoriale, rispetto a quella operante tra i poteri centrali in senso “orizzontale”; il Bill of Rights costituito da dieci emendamenti non contemporanei alla Convenzione di Filadelfia che approvò la Costituzione, ma ad essa e seppur di poco successivi, laddove dichiarazioni dei diritti erano peraltro presenti nelle Costituzione dei tredici Stati americani che poi si unirono tra loro.
Nel secondo campeggia innanzitutto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che in fondo fa premio anche sulla Costituzione, che talora è innanzitutto formalmente mancata e comunque è tanto poco stabile da determinare un esercizio permanente e ripetuto del potere costituente. La sovranità nazionale è interpretata dall’Assemblea, che positivizza i diritti naturali e poi li protegge. Si osserva la correlativa assenza - quantomeno originaria, ma ancor oggi vissuta in una marcia di molto cauto e progressivo avvicinamento al modello “medio” europeo, per così dire - di un controllo di costituzionalità, proprio per non contrastare la sovranità parlamentare. L’accentramento dei poteri e non certo il federalismo costituisce l’esito del processo politico-istituzionale.
Tra le esperienze del costituzionalismo che invece si sono sopra definite “evoluzionistiche” è giocoforza elencare per prima la Gran Bretagna - madre e modello di ogni differente sviluppo in tema, seppur così particolare ed irripetibile a tavolino (ancorché tale operazione sia stata più volte ed in differenti contesti tentata). Essa è caratterizzata dal common law come equilibrio dialettico tra potere politico del re - gubernaculum - e diritti fondamentali di singoli e comunità, non solo territoriali. I diritti sono garantiti dai giudici, che “dicunt jus” (questa è appunto la iurisdictio: le fonti primarie del diritto sono i precedenti giurisprudenziali, che gli statutes - da interpretare in loro conformità - servono a stabilizzare), ma in funzione del pragmatismo e del tono non “filosofico” in senso illuminista degli assunti di principio, come è invece proprio dei due casi in precedenza richiamati. Si registra la supremazia del Parlamento in assenza di controllo di costituzionalità, per il carattere consuetudinario e flessibile della Costituzione.
Qui la divisione dei poteri consiste in un loro concreto equilibrio di fatto e secondo molti nemmeno è una preoccupazione di fondo del sistema affermarla, o comunque non lo è farne oggetto di attenzione teorica, ma semmai assumerla quale esito complessivo della vicenda evolutiva.
Altra e diversa storia ordinamentale ancora è quella tedesca, alla quale possiamo non illegittimamente assimilare la variante italiana, influenzatane soprattutto attraverso la supremazia ottocentesca della scuola orlandiana nel nostro Paese. Questo avvicinamento derivava del resto anche da certe assonanze dei rispettivi sviluppi di unificazione nazionale, com’è noto più tardi rispetto a quelli dei grandi Stati europei, a loro volta risalenti alla definizione post westfaliana degli equilibri macro-territoriali del Vecchio continente.
Lo Stato è qui persona giuridica sovrana. L’amministrazione - sottoposta al principio di supremazia della legge - vi gioca un ruolo decisivo. I diritti soggettivi non risultano da un riconoscimento della loro essenza pre-statuale e “naturale”, ma dallo Stato medesimo - che dunque, come li “allarga”, li può restringere - sono appunto prima “concessi” in via di autolimitazione (e dunque sono in funzione di questa “effetti riflessi” e indiretti), quindi - in una fase più matura, quella jellinekiana - collegati in modo irretrattabile a diverse graduazioni di status di quelli che prima erano i sudditi e anche in questo senso dono dunque “pubblici”. La magistratura conquista nel tempo indipendenza per un’esigenza logica di garanzia dell’assetto dell’ordinamento giuridico, ma procede da un’origine funzionariale.
3. ‒ È dato rinvenire in un passato assai più lontano archetipi altrettanto forti di quelli sintetizzabili nella formula generale del costituzionalismo appena ricordata e come questa ricchi di una carica simbolica egualmente intensa, sicché attraverso i secoli (seppur con un andamento “carsico”, cioè fatto di sommersioni e ricomparse lungo il fluire della Storia) possono dirsi di essa ispiratrici? Chi scrive ritiene - non da solo - di sì.
In principio era il lógos. Non si allude qui al celeberrimo e grandioso incipit del Vangelo secondo Giovanni, ma al lógos tripolitikós: quello che il greco Erodoto mette in bocca (in verità con la sua lingua e concetti dunque non proprî della loro cultura) a tre dignitarî della Corte persiana dopo la vittoria sui Magi.
Otane, Megàbizo e Dario difendono ciascuno le ragioni - nell’ordine - del governo dei più, dei pochi e dell’uno e contrastano quelle altrui, finché l’ultimo riporta la vittoria dialettica nella disputa e diviene appunto re.
Si è notato da uno studioso che questa logica tripartita è in realtà una sorta di “numero magico” ricorrente nella storia della cultura occidentale .
La grande speculazione filosofica greca si interroga - praticamente in ogni suo esponente di rilievo del quale ci sia stata tramandata la memoria scritta - su questo problema, pervenendo perlopiù all’idea che un mixtum tra le forme “pure” di governo sia in grado di scongiurarne la rispettiva degenerazione. Si è recentemente parlato di un “modello rifiutato” (re e, in via degenerata, tiranni), di uno in genere accolto, la pólis aristocratica, di uno anomalo rispetto ai precedenti, costituito da Atene nella fase del suo splendore .
Certo hanno fondativa importanza innanzitutto le riflessioni filosofiche sulle mixtè politéia di Platone e Aristotele . La più chiara esposizione del tema è tuttavia quella che si rinviene in uno storico più tardo, un greco forzatamente romanizzato come Polibio, vissuto a lungo nella famiglia degli Scipioni, la cui domanda di fondo (come consegnataci dal libro VI delle sue Storie) attiene al tentativo di spiegare perché e come Roma sia divenuta dominatrice del mondo allora conosciuto, nell’arco di un periodo assai ristretto di poco più di cinquant’anni.
La risposta - vicinissima, come si può vedere, alla nostra sensibilità contemporanea - è nella supremazia e nella fattura della Costituzione, ancorché l’autore non ne avesse una nozione normativa, ma descrivesse l’assetto che osservava e nutrisse in generale una versione “ciclica” - come tale bene inscritta nell’andamento dell’orizzonte categoriale del pensiero greco - della dinamica del processo storico (in lui ανακύκλοσις).
Essa era in lui vista come alternarsi, corrompersi e finale ricondursi, quindi, all’inizio monarchico dei regimi, con una ripresa teoricamente indeterminata del ciclo medesimo: “Nessuno, nemmeno tra i Romani, avrebbe potuto dire con sicurezza se il sistema politico nel suo insieme fosse aristocratico, democratico, o monarchico. Ed era naturale che la pensassero così. A considerare l’autorità dei consoli, infatti, esso sarebbe apparso senz’altro monarchico e regale; a considerare quella del Senato, aristocratico; se invece si fosse considerata l’autorità del popolo, sarebbe sembrato chiaramente democratico” .
Accenti analoghi e che derivano apertamente da questa ricostruzione sono quelli di Cicerone, ancorché nell’Arpinate - costantemente pronto a vedere nel Senato il corpo collettivo moderatore - sia assente il motivo anaciclico e presente invece l’esaltazione della Repubblica “luminosa” e istituzionalmente perfetta nella sua aequabilitas, in astratto capace perciò di promuovere la concordia ordinum . Le sue concrete carenze nell’età contemporanea allo scrittore sono piuttosto ricondotte alla mancanza ormai rilevabile di uomini capaci, come quelli antichi, di civilis prudentia .
Se la riflessione ciceroniana si muove in definitiva lungo la classica nostalgia del mos maiorum, la cui corruzione sembra del resto anche a Livio causa ultima delle delusioni del proprio tempo, un altro storico greco, Dionigi di Alicarnasso valorizza invece realisticamente anche lo studio delle leges, cioè delle istituzioni e non solo quello dei caratteri, individuali e collettivi, virtuosi ed eccellenti.
Torna dunque ancora una volta con lui (e con chi ne lesse e ne trasportò nella propria epoca, secoli dopo, il metodo e i temi) la questione del governo misto, ma in termini che, nel momento in cui egli scrive, lo collocano all’interno di una dialettica (da lui appunto ritrovata nel più antico assetto costituzionale) tra monarchia e aristocrazia senatoria .
Dopo la fine della Repubblica, col Principato e quindi nell’età del Dominato, il tema perde tuttavia i caratteri di una ricerca dell’equilibrio nella costruzione del buon governo e in concreto di costante favore per l’aristocrazia senatoria, tra elemento monarchico e spinte popolari, che gli erano stati conferiti da Cicerone, per divenire progressivamente la proposta di un’istanza programmatica attraverso la quale i ceti dirigenti di Roma e delle province (anche delle colte póleis) propongono al princeps un’idea di condivisione - e quindi anche di condizionamento del suo potere, di temperatio imperii - onde contenere le masse popolari.
C’è insomma in Dionigi di Alicarnasso e ci sarà in Elio Aristide e Cassio Dione - anche loro storici greci romanizzati e che di queste élites sono appunto espressione - la ripresa del motivo “sociologico”, di derivazione aristotelica, che fondava le buone sorti di tale regime appunto sulla fioritura di un ceto di mesoi: .
Del resto, come riprova a contrario dell’assunto, anche Tacito, interprete proprio dei malumori di un Senato centrato sull’egemonia romano-italica e dunque ormai come tale ridimensionato, mostra - più che perplessità - addirittura scetticismo sull’idea stessa del governo misto e della sua “tenuta”. Anche per questo, secoli dopo, gli interpreti favorevoli all’assolutismo monarchico ne riporteranno in onore la figura .
Sommerso nell’orizzonte teorico durante la lunga età della decadenza imperiale e delle invasioni di popoli dal Nord - vergini di simili interrogativi e di soverchie sofisticazioni istituzionali, ma semmai propensi all’acclamazione dei capi al suono dei tamburi di guerra - il tema torna ad essere oggetto di speculazione nella rilettura aristotelica di Tommaso d’Aquino, complicata da riferimenti teologici e trinitarî nel perseguimento del bonum commune .
Questa è peraltro solo la vigilia della sua ripresa in grande stile da parte del Rinascimento: Niccolò Machiavelli e Donato Giannotti a Firenze, Gasparo Contarini a Venezia sono in Italia i suoi grandi fautori, per le rispettive signorie, mentre anche altrove (cioè nell’Inghilterra del common law e della complessa storia di sviluppo - tra conflitti e compromessi - dei rapporti tra Sovrano, Lords e Comuni e nella teorizzazione dei suoi interpreti) essa conosce intanto nuova, ampia fortuna e attenzione critica .
Come si accennava in nota, sarà la costruzione dell’assolutismo a spegnerla. Sotto gli attacchi di Bodin e di Hobbes, il “governo misto” recede, come teoria politica e quale modello ammirato e perseguito .
Lo trarranno nuovamente dal discredito Locke e il barone de la Brède, com’è noto, ma la “divisione dei poteri” che con loro incomincia ne è in effetti anche una diversa reincarnazione: il vecchio vino viene versato in nuove botti e acquista un gusto ben diverso, cioè quello delle rivoluzioni tardo-settecentesche e della “scoperta” della sovranità popolare, che la complessità del “governare” rende peraltro necessariamente rappresentativa.
Tanto vale quanto dire, secondo la nota critica radicale di Rousseau, che la sovranità del cittadino è negata in pratica, proprio mentre la si afferma in teoria, almeno quanto al giorno in cui si effettuano le elezioni.
Forse può dirsi così: il governo misto era una “filosofia” (più che davvero una modalità organizzativa) dei poteri pubblici teorizzata per attenuare e controllare la spinta popolare e perciò, al fondo, aristocratica.
La teoria della divisione dei poteri prende atto di una progressiva dequotazione sociale dell’elemento aristocratico.-monarchico (in alcune società del tutto assente, in quelle in cui invece continua a persistere presente nell’evoluzione dei tempi con un ruolo progressivamente e nell’essenza simbolico) e canonizza sul piano istituzionale, nella società ottocentesca dell’Occidente, l’egemonia borghese e l’esprit laïque, mentre nello Stato pluriclasse essa diviene schema sistematico e fattore di stabilizzazione del pluralismo sociale e politico, entro l’unico orizzonte politico possibile, quello della sovranità popolare, da cui la frammentazione emerge e si ricompone in un equilibrio ontologicamente sempre instabile non al modo antico, bensì mediante la articolazione dei partiti e del dibattito pubblico, nonché di essi con poteri tecnici .
Sarebbe ultroneo, per il modesto spazio concesso ad una relazione, ripercorrerne in modo approfondito i passi. E sarebbe perdipiù presuntuoso, rispetto ai monumenti di scienza giuridica che lungo questo cammino si incontrano.
Meglio, ritengo, azzardare a questo punto un pensiero di sintesi: c’è Montesquieu dietro la Costituzione statunitense e qui davvero incomincia la nuova storia del costituzionalismo, di cui si diceva all’inizio. E c’è ancora questa ispirazione nella dialettica tra pretese della politica e argini apprestati dalle successive razionalizzazioni della forma di governo e dalla giustizia costituzionale, presidî in entrambi i casi dell’impossibilità di superare e risolvere in unità àmbiti che devono rimanere distinti (non si dice - o non lo si dice necessariamente, anzi in via ordinaria è vero il contrario - ostili e incomunicabili, insomma non cooperanti), come l’organizzazione dell’autorità e la rete delle libertà private, singole o collettive.
Anche l’idea della divisione dei poteri, come quella del governo misto, ha di sicuro una funzione politicamente e socialmente moderatrice e l’assunto che il potere politico (con la sua forza uniformante e omologante, se incontrollata) debba essere “impedito” e conoscere inceppi infastidisce perciò da sempre i giacobini di ogni epoca, comunque si siano chiamati in passato, o si chiamassero nel futuro .
Il punto è peraltro ineludibile: le forme di governo che funzionano (anche solo in un’ottica efficientistica) sono quelle che incorporano formule organizzative potestative che mirano all’equilibrio fra le parti di una collettività. La vagheggiata unità originaria del corpo sociale - una volta che ondate rivoluzionarie siano state metabolizzate (è sintomatico che la metafora astronomica rimandi a un “recupero dell’inizio”: l’utopista coerente è in realtà nell’essenza un passatista, che tende a ritrovare e a ricostruire il “Paradiso perduto” ) - rinvia ad una realtà che nell’esperienza vivente è sempre insuperabilmente (verrebbe da scrivere: ontologicamente) frammentata.
La forza del mixtum (e in seguito delle architetture effettive dei poteri costituzionali divisi) è cioè il suo radicare la teoria - e in contesti storici diversi la messa in pratica - nel realismo, l’omogeneità sociale e politica è all’opposto l’orizzonte dell’utopia.
Sia chiaro: qui non si vuole tessere l’apologia del quieta non movere. Non è certo negativo per una società e per il suo ceto politico dirigente o per i cittadini che ne sono rappresentati nutrire l’utopia, come non fa male, anzi, bere in giusta dose del buon vino. Quello che sicuramente non fa bene è ubriacarsene .
Nel senso appena indicato, ha dunque ragione un nostro storico della filosofia politica a trarre dall’esame delle vicende dell’antica e poi rinascimentale ed ancora ulteriore medietas una lezione che ancora (pur dopo tante successive stagioni e in contesti del tutto diversi) ci riguarda.
Egli la riassume in diversi assiomi: innanzitutto come necessità di perseguire l’equilibrio in luogo dell’eccesso nella gestione del potere pubblico, poi come istanza di equilibrio e controllo reciproco tra i poteri, piuttosto che come loro concentrazione strutturale e operativa, nonché ancora quale esigenza di un’articolazione dialettica delle concezioni sul “bene comune”, in luogo della ricerca del medesimo in quanto esito di quello che oggi si direbbe un “pensiero unico”, imposto nella e attraverso la formazione e l’informazione, infine come necessità di stabilità di governo, di contro alla fragilità intrinseca che presenterebbero assetti fondati sulla pura forza.
Tale esito deprecato si declinava in antico come timore del “despota”, nozione che - come noto - non si identificava con quella del “dittatore”, nel senso della sovrapposizione che i due termini sono venuti assumendo in seguito .
4. ‒ Un altro tema (e un termine) di “lunga durata” nella storia costituzionale è quello del “patto giurato”, come fondamento del moderno costituzionalismo, fin dalla Magna Charta Libertatum e passando ad esempio attraverso il “giuramento della Pallacorda” .
Il giuramento è invero quanto resta dell’antica derivazione sacrale del potere politico e richiamarlo come pietra d’angolo è utile a ricordare che la pretesa dell’ordine costituzionale moderno e postmoderno occidentale è di legittimarsi etsi Deus non daretur.
La divisione dei poteri è (anche) quella che corre tra spazio della coscienza individuale e ruolo dei poteri pubblici, nell’ottica della fondazione laica della politica oltre il magico e poi il “numinoso”, insomma senza richiamarsi al Trascendente sovrumano.
Questa traiettoria ha come noto essa pure una lunga storia, sia sul versante del “patto”, sia quanto alla percezione del trasformarsi di esso in un “contratto” tutto mondano tra consociati (prima individui espressione della “classe generale” di marxiana memoria, omogenea nel carattere borghese degli interessi rappresentati, poi classi disomogenee al cui conflitto garantire una cornice di regole condivise), dopo avere per secoli costituito la cifra di un’alleanza secundum naturam tra il divino e l’umano, sacralizzata e in concreto mediata dagli agenti sacerdotali che del primo si pretendevano interpreti .
Al tempo stesso, il peso della componente islamica nella odierna tassonomia delle “famiglie giuridiche” e nella geopolitica mondiale e il ritorno al protagonismo pubblico di motivi identitarî a base religiosa nelle società originariamente cristiane, ma ormai post-secolari, dell’Occidente spingono a riflettere sui limiti di una visione di autosufficienza assiologica del costituzionalismo attuale .
Come ricorda il noto dictum di Böckenförde, le democrazie liberali vivono in effetti di promesse che da sole non riescono a garantire e questo ha portato chi scrive a considerare - in altro luogo - che i valori di cooperazione solidale che concorrono a costituire l’humus coesivo - in sostanza appunto il cemento assiologico - delle società, si giovano di apporti etici e di sensibilità religiose, dunque non solo degli strumenti giuridici (il che vale quanto dire: di un’adesione e di una pratica intime e non solo esteriori, nel quale tratto è da molti individuato uno dei caratteri essenziali del diritto), naturalmente a condizione che il pluralismo di visioni che si radica in questo terreno mobile e scivoloso sia orientato all’intesa piuttosto che alla rispettiva dissociazione, in due parole alla ricerca di un overlapping consensus, di un denominatore comune che è volontà di dialogo .
5. ‒ Il risultato della complessa dinamica storica che oggi si osserva, dopo le ultime transizioni costituzionali che hanno investito i Paesi latino-americani e quelli del “socialismo reale” (un giudizio più articolato - e soprattutto da riservare al momento in cu il ridisegno istituzionale in corso fosse consolidato - andrebbe dato invece sulle “Primavere Arabe”, allo stato aperte a molte possibilità) , mostra un intervenuto, generale allargamento del modello liberaldemocratico, seppure con adattamenti più o meno incisivi alle singole situazioni nazionali .
Trarne auspicî o constatazioni ottimistiche di “fine della storia” sarebbe peraltro - se è consentita l’ironia - alquanto prematuro. Innanzitutto perché è illusorio che la storia abbia un termine, poi perché (anche se lo avesse) non è detto che esso sarebbe un happy end.
Sull’asse dell’orizzonte interno agli Stati, in effetti, la democrazia rappresentativa fondata sulla divisione dei poteri mostra arricchimenti - per esempio in direzione di robusti inserimenti di fasi e oggetti di decisione aperti all’esercizio della democrazia diretta, il che sarebbe poi un ritorno alla matrice greca - ma altresì “affaticamenti”, per così dire: è ad esempio ricorrente in molti contesti il confronto/conflitto tra politica e giurisdizione e inoltre la democrazia diretta nelle forme consuete (e in fondo metabolizzate dal sistema) è superata da forme di intervento ancora più immediato e dunque “direttissimo”, proseguendo sulla stessa direzione di immagine, che sono oggi possibili a singoli e a gruppi organizzati attraverso l’impiego degli strumenti elettronici .
A tacere d’altro, si pensi al loro ruolo proprio nelle rivolte mahgrebine che si ricordavano, o per favorire la formazione di nuove forze organizzate anche nei Paesi di democrazia consolidata .
Le stesse sedi rappresentative delle decisioni politiche sono sovente a tal punto paralizzate o comunque rallentate, quanto a prontezza di risposta alle questioni che il velocissimo mutamento dell’agenda invece pone, da avere determinato un’apertura di riflessione verso la loro integrazione da parte di forme di cosiddetta “democrazia deliberativa”, che sarebbe realizzata attraverso focus groups di cittadini opportunamente informati, assunti a “campione” dell’universo sociale, per sbloccare decisioni altrimenti controverse, o per evitare (anticipandone la consultazione partecipativa) che lo scontro degli interessi relativo ad esse si trasferisca nelle piazze o nella sede giudiziaria.
Il fenomeno più interessante e che assieme inquieta (perché più nuovo) è peraltro la costruzione di assetti istituzionali sovranazionali. Il tentativo (finora non sempre riuscito, o meglio non riuscito all’altezza delle ambizioni coltivate dagli ingegni più visionarî) è quello di costruire Costituzioni, governi, assemblee rappresentative e Corti sovrastatuali.
Dalla globalizzazione, alla quale questa esigenza risponde, certo non si torna indietro , ma è anche vero che per il momento si va avanti per tentativi ed approssimazioni, il che non autorizza tuttavia pessimismi aprioristici sull’esito del processo: il futuro è sempre stato prima immaginato e poi concretamente creato in questo modo.
Si è peraltro osservato realisticamente - in un contesto di riflessione che ribadisce l’attuale pertinenza della sovranità ancora agli Stati e peraltro anche il dato che “una società politica … è venuta a costituirsi inseguendo una dimensione dei mercati più ampia di quella degli Stati che la compongono…la Comunità Europea/Unione Europea” - che tuttavia sono oggi all’opera “Poteri che sembrano non avere luoghi, né regole (o, per lo meno, regole certe ed universalmente efficaci) … quelli inerenti all’organizzazione dei rapporti economico-sociali ‘globali’, caratterizzati dalla deterritorializzazione e dalla depoliticizzazione…nonché dall’esistenza di meccanismi sovranazionali di dominio nei quali si consuma l’odierna dissociazione fra sovranità statale e mercato”.
L’Autore prosegue, specificando che “I poteri sovranazionali materiali (finanza e imprese transnazionali) e istituzionali (Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio, ecc…), aventi ad oggetto le relazioni economiche globali, letteralmente sorvolano gli Stati, mentre sempre più incisivamente concorrono a determinare la distribuzione delle risorse materiali, il valore della moneta, la gerarchia delle libertà individuali, influendo direttamente sull’esercizio dei diritti di cittadinanza attiva”
Quale dunque il compito di una politica del diritto costituzionale che voglia attrezzare una risposta che adatti le ragioni originarie del costituzionalismo alle sfide che le sono attualmente di fronte?
Precisamente quello, ad avviso di chi scrive e che condivide l’analisi appena riportata (una fotografia della situazione del presente che contiene un’immagine “aerea” molto forte, tant’è che si è preferito riportarla per intero, piuttosto che sintetizzarla con altre parole), di costituire presidî proprio di “cittadinanza attiva”.
Ancora una volta converrà dunque ricorrere agli strumenti del passato e rispolverare per brandirlo, dalla soffitta dov’è ora riposto, l’antico diritto di resistenza , che del contrattualismo sopra ricordato è l’altra faccia della medaglia.
È noto che molte controversie divisero nei secoli i suoi teorici intorno al carattere retrattabile o meno della delegazione dei poteri al monarca, nonché sul se e quando la condizione di risoluzione del patto si desse per verificata, allorché il secondo avesse abusato dei suoi poteri .
Riproporre l’attenzione verso “momenti di resistenza” critica in tempi e forme attuali non implica certo, nell’intenzione di chi scrive qui, sorreggere la proposta con appelli alla violenza e alla sovversione: la storia ci ha già ammonito sull’imbarbarimento delle buone intenzioni iniziali, via via che un’assunta rivoluzione egualitaria si veniva svolgendo dalle sue premesse (e promesse, sempre tradite).
Non è questo il tempo dei maiali che, nella orwelliana Fattoria degli animali, capeggiano la rivolta al bieco sovintendente del padrone, finché non si scopre che sono diventati uguali a lui. Si tratta semmai di dare corso a pratiche (e di assecondare contesti e strumenti istituzionali) che riscoprano il valore della sussidiarietà e della solidarietà e coesione orizzontali, per così dire, ad integrazione e correzione della tradizionale verticalità del potere politico e della insufficiente - come prima si diceva - mera vincolatività giuridica.
La solidarietà ha del resto essa pure una radice lunghissima e risalente . Essa si rinviene prima nell’ambito delle comunità parziali ed inoltre non è solo “positiva” (anche il pactum sceleris essendo infatti una possibile variante - benché deviata - del “patto” e vincoli di coesione intercorrendo altresì tra gli associati a delinquere), poi si innalza via via a contrassegnare assetti costituzionali che la pongono infine a base della comunità politica generale e addirittura, infine, forma l’essenza della consapevolezza di una condivisa humanitas, propria degli esseri viventi che si scoprono tutti egualmente fragili di fronte al dolore , alla sofferenza e alla morte e in questo tratto ritrovano allora la radice della loro fraternità.
6. ‒ Qui però la relazione deve chiudersi, avendo il suo autore abusato anche troppo dello spazio che gli era stato generosamente accordato: la storia affascinante e complessa di come si costruisca un valore di doverosità unificante e di portata generale, a partire da vincoli segmentati e frammentarî e di come perciò possa ambirsi anche attraverso di esso all’utopica idea di una cittadinanza universale (nondimeno resistente, contro ogni realismo: come sopra si diceva, collocata all’orizzonte e dunque irraggiungibile, il che non è peraltro una buona ragione per non incamminarsi verso di essa) è troppo grande per essere costretta in poche righe finali e la sua ricostruzione va riservata ad altra sede.
Il neocostituzionalismo moderno, per dirla in sintesi e conclusivamente, ripropone oggi in Occidente (e prova a farlo globalmente) l’istanza originaria di controllo del potere, ma è proprio perciò - anche ed ulteriormente - limite allo strapotere dell’ “economico” ed assieme ethos che non è più possibile ricondurre a un “giuridico”autoreferenziale .
In questo secondo “verso” se ne riscopre la facies antica (che fondava questo ethos nella φύσις, vale a dire nella natura organica del κόσμος), mentre l’aspetto di novità è costituito dalla conquista dell’odierna, ineludibile necessità di coesistenza della pluralità delle opzioni etico-culturali - non essendo più le società idealmente e per fedi religiose omogenee - e nell’avvenuto “disincanto del mondo”, oltreché nell’artificialità del riferimento al βίος, attestata dagli sviluppi della tecnica e indagata dalla bioetica.
Si sono sviluppate in tal modo le costituzioni non statali e piuttosto “civili” , di cui scrive taluno e in generale si può chiudere questa riflessione, ricordando con un Maestro che il costituzionalismo ha dovuto confrontarsi vittoriosamente con l’onere di battere prima l’assolutismo religioso e politico ed oggi deve contrastare le pretese all’autoreferenzialità dell’ “economico” e dello sviluppo tecnologico e delle sue applicazioni, talora in grado di aiutare l’uomo, ma talatra disumanizzanti, almeno rispetto alla dimensione dell’essere che finora abbiamo conosciuto.
La sfida resta quella di mantenere la bussola orientata vero i diritti della persona, nell’integrale comprensione dei suoi profili fisici e morali, ad esempio nella promozione della salute, ma sfuggendo a tentazioni eugenetiche, coniugando la libertà individuale e la solidarietà verso i deboli, lo sviluppo del benessere materiale e la sua diffusione col rispetto dell’ambiente e quindi anche con l’apertura all’accoglienza delle generazioni future .
Imprescindibili, in termini, i contributi raccolti in Le basi filosofiche del costituzionalismo, a cura di A. Barbera, XII ed., Roma . Bari, 2012.
Nel testo si fa cioè impiego di categorie giuridico-politiche per noi classiche e consuete, senza che peraltro chi scrive ignori che esse hanno costituito la trama teorica che ha storicamente legittimato l’età dell’eurocentrismo e del colonialismo. Ampliare l’orizzonte di riferimento sarebbe tuttavia impossibile nel presente testo, che va contenuto in un numero limitato di pagine, benché possa osservarsi che anche la considerazione dell’esito delle osservazioni compiute sull’esperienza canadese (che è il più avanzato degli esperimenti multiculturali oggi in atto nell’Occidente) convince che l’istanza di mediazione e di equilibrio, alla cui valorizzazione il lavoro che si sta leggendo è dedicato, innerva le possibilità di vincere la sfida della coesistenza lì operante tra discendenti dei popoli immigrati e colonizzatori e di quelli autoctoni stanziati nel Paese dei Grandi Laghi. Si vedano riassuntivamente, per tale prospettiva pluri e multiculturale, la monumentale opera di P. H. Green, Tradizioni giuridiche nel mondo, trad. it. e cura di S. Ferlito, Bologna, 2011, il cui sottotitolo è emblematicamente “la sostenibilità delle differenze” e in precedenza già J. Tully, Strange multiplicity. Constitutionalism in an age of diversity, Cambridge, 1995, che - in esplicita polemica proprio con McIlwain - legge la modern constitution come una forzatura, in nome di un ideale astratto e calato dall’esterno, rispetto al “modo in cui i cittadini sono già organizzati mediante l’assemblaggio delle loro leggi, istituzioni e consuetudini fondamentali” ed in cui si concreta la ancient constitution dei popoli ctonî (ivi, 60), per approdare alla proposta di un costituzionalismo del dialogo, fatto di continui bilanciamenti e aggiustamenti, in nome del rispetto delle diversità culturali. Sull’ultimo A. si veda F. Belvisi, Società multiculturale e Costituzione, in La filosofia del diritto costituzionale, cit., spec. 86 ss.
È impossibile anche solo ipotizzare in proposito una citazione esaustiva di tali studî. Ci limitiamo, tra i tanti testi notevoli, a rinviare a pochi contributi recenti imprescindibili, come i due volumi collettanei, entrambi a cura di A. D’Atena ed E. Lanzillotta, rispettivamente intitolati Alle radici della democrazia. Dalla polis al dibattito costituzionale contemporaneo, Roma, 1998 e Da Omero alla Costituzione europea. Costituzionalismo antico e moderno, cit., nonché a P. Ridola, Preistoria, origini e vicende del costituzionalismo, in Diritto costituzionale comparato, a cura di P. Carrozza, A. Di Giovine, G. Ferrari, Roma - Bari, 2011, 21 ss.
Sul concetto di “tipo ideale” in sociologia, si veda M. Weber, Economia e Società, Milano, 1999, I, 18 ss.; sull’elaborazione correlata della nozione di “avalutatività” nel suo metodo e sul suo significato si legga la scheda di H. Baier su Il senso della “avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche” (1917), in Dizionario delle opere filosofiche, diretto da F. Volpi, Milano, 2000, 1111.
Il passo, molto significativo e - com’è consueto per l’A - elegante, merita la citazione integrale: “Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di “storia contemporanea”, perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni... La condizione presente della mia anima, essendo la materia, è per ciò stesso il documento del giudizio storico, il vivente documento che porto in me stesso. Quelli che si chiamano, nell’uso storiografico, documenti, scritti o scolpiti o figurati o imprigionati nei fonografi o magari esistenti in oggetti naturali, scheletri o fossili, non operano come tali, e tali non sono, se non in quanto stimolano e raffermano in me ricordi di stati d’animo che sono in me”, in (tra le molte edizioni) La storia come pensiero e come azione, Bari, 1967, 11. Si veda, per un commento in tema, G. Cantillo, La storia e il presente. Brevi note in margine a “La storia come pensiero e come azione”, in Croce Filosofo, a cura di G. Cacciatore, G. Cotroneo, R. Viti Cavaliere, Soveria Mannelli, 2003, I, 145 ss.
M. H. Hansen, Polis. Introduzione alla città-stato dell’antica Grecia, traduzione e cura di A. Mc Clintock, con prefazione di E. Cantarella e postfazione di G. Martinotti, Milano, 2012 Ringrazio la curatrice per avermi dato la possibilità di leggere il testo prima della sua uscita a stampa, nonché - più in generale - per la lettura di una versione non definitiva di questa relazione e per i consigli che ne ho ricevuti in merito. Per la medesima ragione sono altresì grato a Lucio De Giovanni. Com’è ovvio, l’unico responsabile delle affermazioni qui contenute a proposito del diritto antico - e in senso più ampio “storico” - resta peraltro chi scrive.
Come osserva, muovendosi in fondo nello stesso ordine di idee di Croce citato in precedenza, B. Schneidmüller, Dalla storia costituzionale tedesca alla storia degli ordinamenti e delle identità politiche europee nel medioevo tedesco, in Stato della ricerca e prospettive della medievuistica tedesca, trad. it.,in Nuovi studî storici, 71/2007, 61 (ove la citazione) ss.: “La costituzione ordina un futuro incerto. Viceversa, la storia costituzionale organizza un passato sicuro e certo…La nostra storia solo in parte è autorizzata dal passato: la sua funzione è di legittimare il presente”.
“Furono gli uomini della rivoluzione francese che, sbigottiti dallo spettacolo della moltitudine, esclamarono con Robespierre: ‘La République? La Monarchie? Je ne connais que la question sociale’; e così perdettero, insieme alle istituzioni e alle costituzioni che sono ‘l’anima della repubblica’ (Saint Just), la rivoluzione stessa”: si veda - per la citazione - H. Arendt, Sulla Rivoluzione, delle cui edizioni si cita quella che reca un’illuminante Nota su H. A. di R. Zorzi, tr. it, Milano, 1983 57. Del saggio introduttivo riportiamo in particolare la chiara sintesi del pensiero dell’Autrice in merito: “La stessa rivoluzione in tanto è legittima e appartiene alla politica, anzi intanto si può chiamar tale, in quanto la sua azione sia volta alla fondazione della libertà, cioè alla produzione di corpi politici ‘che garantiscano lo spazio entro cui la libertà può manifestarsi’, e in tanto fallisce in quanto per scelta o costrizione sia portata a deviare da questa strada. Di qui il fallimento delle due rivoluzioni francese e russa: premute entrambe ‘dalla presenza immediata della sofferenza e del bisogno’, furono entrambe costrette, quasi nello stesso modo, a interrompere il loro corso e a deviare verso l’assolutismo, mettendo in moto una macchina di autodistruzione, per sua stessa natura incontrollabile. Di qui l’iniziale riuscita della rivoluzione americana” (ivi, XXX; quelle tra virgolette sono espressioni dell’Autrice medesima, della quale è altresì notevole - ai fini del nostro lavoro - il seguente giudizio: “Quella che gli uomini della rivoluzione americana consideravano una delle più grandi innovazioni del nuovo governo repubblicano, ossia l’applicazione e l’elaborazione della teoria di Montesquieu sulla divisione dei poteri all’interno dello Stato, ebbe un ruolo assolutamente secondario nel pensiero dei rivoluzionari europei di tutti i tempi”). Sul testo si veda anche la recensione di G. Parietti, Hannah Arendt, attraverso la rivoluzione, in www.Suzetesis.it, al nome dell’autore. Tenendo ben distinti nell’ispirazione il saggio appena ricordato e quelli che si rammentano di seguito, va peraltro detto che la distinzione tra le due rivoluzioni, con un giudizio favorevole alla prima (in quanto riafferma diritti naturali conculcati), piuttosto che alla seconda, che invece infrange la tradizione, è un tópos anche del pensiero conservatore, o addirittura reazionario, in argomento. Si vedano ad esempio il classico E. Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione Francese, con una prefazione di D. Fisichella, Roma, 1984 e la recente traduzione italiana di F. von Gentz, L’origine e i principî della rivoluzione americana a confronto con l’origine e i principî della rivoluzione francese, a cura di O. Ebrahime, Milano 2011. L’autore fu segretario generale del Congresso di Vienna.
M. Bovero, La “tripartizione” nella storia della cultura. Sette modelli, in La divisione dei poteri, Brescia, 3/4 dicembre 1999, in www.arifs.it. L’A. nota che “La suddivisione del potere politico nelle tre branche del legislativo, dell’esecutivo e del giudiziario non è che un modello generale dell’articolazione delle istituzioni statali, bisognoso di precisazioni per poter essere usato come un efficace strumento analitico”. Aggiunge quindi che, in realtà, “questa suddivisione è soltanto una delle molte tripartizioni, che lungo la storia della cultura occidentale si sono affermate, in tempi diversi, come immagini egemoni dell’architettura del mondo politico sociale”, per elencare e analizzare infine sette applicazioni di questa logica costruttivo-esplicativa triadica: la concezione trifunzionale della società indoeuropea, studiata da Dumézil e che influenzò le ricostruzioni successive; la concezione classicadel mondo naturale e politico come Kósmos, ossia come ordine; la concezione classica delle tre societates, paterna, padronale e politica; la concezione classica del governo misto come modello di costituzione complessa; la concezione medievale dell’ordine sociale trinitario; la concezione moderna della divisione o separazione dei poteri costituzionali; la concezione contemporaneadelle tre forme di potere sociale: il potere politico, il potere economico e il potere ideologico” (i corsivi sono testuali).
M. Bettalli et alii, in La Grande Storia - Grecia, a cura di U. Eco, vol. 3, Milano, 2011, 101 ss.
In Platone, il tema è introdotto con una torsione realistica, rispetto al “governo dei saggi” della Repubblica (che gli ha procurato nei secoli - per l’accentuato dirigismo che questo schema comporta, anche nelle vite private dei cittadini - la storica accusa di autoritarismo e di padre delle “società chiuse” (si veda ad esempio la classica critica di K. R- Popper), nel Politico e nelle Leggi. Si vedano G. Maglio, op. cit., 4 ss.; nonché G. Cambiano, Platone e il governo misto, in www.Montesquieu.it, 2011, 5 ss. e in precedenza M. Bontempi, Il misto della “politeia” in Platone, in Filosofia politica, 1/2005, Materiali per un lessico politico europeo: “costituzione mista”, 9 ss., mentre in Aristotele l’assunto realistico è già dato in partenza (benché valga sempre il caveat di cui si è già detto, di ragionamenti cioè di natura comunque etico-filosofica, in cui non è ancora precisato un orizzonte giuridico autonomo, come sarà invece per i Romani). Si leggano in termini C. Pacchiani, La “politeia” come “mixis” in Aristotele, ivi, 25 ss. e S. Vida, La politia di Aristotele e l’elogio della medietà, in www.Montesquieu.it, 2010, 5 ss. Su questa prima stagione delle idee costituzionali, complessivamente, F. Rimoli, L’idea di costituzione. Una storia critica, Roma, 2011, 15 ss.. per il quale “l’ideale della costituzione mista resta una…aspirazione, più che una realizzazione duratura, giacché, salva restando la peculiare esperienza inglese, in cui un vero assolutismo non saprà mai affermarsi” (si veda infatti ultra, nel nostro testo) “esso finirà con l’infrangersi sullo scoglio della modernità”, 63. Sulla nozione generale di governo misto e sulla sua evoluzione storica si leggano ulteriormente D. Taranto, La mixtè politéia tra antico e moderno. Dal “quartum genus” alla monarchia limitata, Milano, 2006; con appendice antologica; D. Felice, a cura di, Governo misto. Ricostruzione di un’idea, Napoli, 2011 (che comprende in realtà una premessa del curatore e i già richiamati contributi di Cambiano, Vida, Thornton; nonché quelli di Roberto e Simonetta citati in seguito), L. Cedroni, Democrazia in nuce. Il governo misto da Platone a Bobbio, Milano, 2011, F. Rimoli, op. cit., 59 ss.
Polibio, Storie, a cura di D. Musti, Milano, 2001. Il passo - notissimo - è in VI, 11., 11/12. Tralascio del tutto l’annosa questione, che periodicamente ritorna, sul se a Roma sia in particolare esistita la democrazia e quali caratteri essa abbia presentato. Dando per scontata la profonda diversità dei contesti storici e i contrasti interpretativi tra gli studiosi (giacché non è questo il punto - del resto ovvio - che mi interessa ora sottolineare, preferendo qui evidenziare piuttosto la forza plurisecolare di tale impostazione archetipca di ragionamento sul “politico”), rinvio sul punto alla discussione che ne fa L. Polverini, Democrazia a Roma? La Costituzione repubblicana secondo Polibio, in Popolo e potere nel mondo antico. Atti del convegno internazionale di Cividale del Friuli 23 - 25 settembre 2004, a cura di P. Urso, Pisa, 2005, 85 ss. e inoltre a D. Mantovani, Il profilo greco della costituzione romana, in Athenaeum, 1998, (86), 497 ss. e a P. Scollo, Sulle politeiai. Una lettura del VI libro delle Storie di Polibio, in InStoria, Ottobre 2011 (46), sul web al nome dell’Autrice.
Sul punto, si veda ora spec. F. Pagnotta, Cicerone e l’«equabilitas». L’eredità di un antico concetto filosofico, Cesena, 2008
Si veda M. T. Cicerone, La repubblica luminosa, a cura di F. d’Ippolito (che è la traduzione del secondo libro del De Republica), con una nota introduttiva di L. Canfora, Ciceronis princeps, Palermo, 1986. Sul rapporto - negli autori greci e latini - tra pedissequo ricalco dei modelli e loro ripercorrimento però creativo, che per scelta del potere significò in Roma anche l’esaltazione degli archetipi greci, a fronte della consapevole svalorizzazione della letteratura autoctona prodottasi in precedenza, si veda l’ampia esemplificazione antologica dell’assunto in M. Elefante, Infedeltà creativa. Imitatio aemulatio, Genova, 2004. Si legga invece - per la sottolineatura delle differenze tra il pensiero dell’Arpinate e quello polibiano (dal quale il primo era stato peraltro dichiaratamente influenzato) e per l’eredità teorica di età romana al primo successiva - U. Roberto, Aspetti della riflessione sul governo misto nel pensiero politico romano da Cicerone a Giustiniano, in www.Montesquieu.it, 2010, 43 ss. e F. Rimoli, La Costituzione..., cit., 32 ss. In effetti, il governo misto, dopo la trasformazione della Repubblica in principato, perde i caratteri di costante favore per l’aristocrazia senatoria che gli erano stati conferiti dall’autore che si sta in questo punto discutendo, per divenire progressivamente istanza programmatica attraverso la quale i ceti dirigenti di Roma e delle province propongono al princeps un’idea di condivisione e quindi anche di condizionamento del suo potere, onde contenere le masse popolari (da cui la ripresa del motivo “sociologico” di derivazione aristotelica, che fondava le fortune di tale regime appunto sulla fioritura di un ceto di mesoi: ivi, 62 ss.). Sulla figura del politico e intellettuale romano, si vedano di recente anche i contributi raccolti in Cicerone e la politica. Atti del Convegno di Arpino, 29 gennaio 2004 (e ivi spec. G. Valditara, Attualità del pensiero politico di Cicerone, 83 ss. e A. De Vivo, Cicerone tra storia e politica, 119 ss.), a cura di F. Salerno, Napoli, 2004. Il volume viene qui richiamato da parte di chi scrive anche per rinnovare il perdurante ricordo e il rimpianto per la prematura scomparsa del suo curatore, già preside - nel periodo 2001/2007- della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università che ha organizzato il Convegno in cui la presente relazione è stata svolta.
La fortuna di questo A., in effetti, raggiunse e superò il Rinascimento, attraverso la lettura fattane da Machiavelli - benché i Discorsi di quest’ultimo si intitolino, com’è noto, espressamente a Livio - fino al rifiuto di Bodin, in nome dell’assolutezza della sovranità che non tollera frammentazioni e al recupero settecentesco, nella reinterpretazione di Montesquieu; che teorizza dal suo canto la divisone dei poteri. Si vedano U. Roberto, op. cit., 64 ss. e G. Pedullà, Dionigi di Alicarnasso, la costituzione mista e Montesquieu, in www.montesquieu,it, 4/2012 e già in Id., Giro d’Europa. Le mille vite di Dionigi di Alicarnasso, introduzione a Dionigi di Alicarnasso, Le antichità romane, Torino, 2010, LCXXXIII ss.
Per un quadro sintetico e specifico in tema, si veda F. Rimoli, op. cit., 37 ss.
Per il motivo propriamente aristotelico, S. Vida, op. cit.; per gli sviluppi di cui al testo, C. Carsana, La teoria della «Costituzione Mista» nell’età imperiale romana, Como, 1990 (in particolare, su Dionigi di Alicarnasso, 27 ss.; su Elio Aristide, per il quale - in un’epoca in cui il potere di Roma si è molto esteso e la Constitutio Antoniniana del 212 s. C. riconoscerà per conseguenza la cittadinanza in via amplissima - il mixtum assume caratteri di potere mondiale e l’Autore magnifica la capacità integratrice delle diversità da parte dell’Inpero, 63 ss; su Cassio Dione, che ripropone le ragioni del ceto senatorio, 85 ss.). Si veda poi anche U. Roberto, op. e loc cit., anche per la documentazione del medesimo periodo e dell’ulteriore dibattito, fino all’età giustinianea (il dialogo intorno al 529 d.C., attribuito a Menodoro e intitolato Περί πολιτικής ’επιστήμς e in latino De scientia politica, riprende ancora, ntorno al 529 d.C., motivi polibiani e ciceroniani in tema). Sulle dinamiche complessive e di lunga durata di questo periodo di progressivo accentramento dei poteri, si rinvia - tra le trattazioni manualistiche più recenti - a F. Amarelli, L’età del Principato, e a L. De Giovanni, L’età tardo-antica, 115 ss., entrambi in Storia del diritto romano e linee di diritto privato, Torino, 2005, a cura di A. Schiavone, rispettivamente 75 ss. e 115 ss., nonché a P. Cerami, Il Principato e ad A. Metro, Il Dominato, entrambi in Ordinamento costituzionale e produzione del diritto in Roma antica. I fondamenti dell’esperienza giuridica occidentale, II ed., Napoli, 2006, rispettivamente 119 ss. e 137 ss.
Sulle posizioni tacitiane C. Carsana, op. cit., 41 ss.; D. Taranto, op. cit., 41 ss.; L. Cedroni, op. cit., 44 ss.
M. Merlo, La sintassi del “regimen bene commixtum” e del “regimen politicum" fra Tommaso d’Aquino e Tolomeo da Lucca, in Materiali per un lessico politico, cit., 33ss.; S. Simonetta, Rimescolare le carte. Il tema del governo misto in Tommaso d’Aquino e nella riflessione politica tardomedievale, in www.Montesquieu.it., 2009, 1 ss.; G. Maglio, op. cit.,… , F. Rimoli, op. cit., 41 ss.
F. Raimondi, Machiavelli e il problema della costituzione mista di Roma, in Materiali per un lessico politico…, cit., 49 ss.; M Gaille-Nikodimov, L’ideale del governo misto tra Venezia e Firenze. Un aristotelismo politico a doppia faccia, ivi, 63 ss. Sull’esperienza di common law, invece,G. G. Floridia, Fortuna e crisi del governo misto nella Costituzione inglese, in Da Omero alla Costituzione europea, cit., 181 ss. e A. Torre, Estado misto y División del Poder. Anàlisis histórico-politico de un itinerario doctrinal, in Fundamentos, n. 5/2009, 1 ss. (e spec. 3 ss.). In effetti, manca nel common law britannico una consapevole teorizzazione, tanto (e prima) del governo misto, quanto ( e in seguito) della divisione dei poteri, ma la particolare congiuntura ed evoluzione storca di quell’ordinamento, che fin dal tempo feudale non conobbe tendenze del sovrano all’accentramento che non fossero corrette dal pluriformismo istituzionale, sin dalla Magna Charta Libertatum del 1215 e dal primo Parlamento convocato da Simone di Monfort, nonché per effetto dell’azione delle Corti, ha indotto a ritenere che sin da Bracton quello schema sia stato in pratica accolto.
Un sintetico riepilogo di questa svolta nella storia delle idee può ritrovarsi nella voce di C. Margiotta, Costituzionalismo, in Enciclopedia del pensiero politico…, cit., 154 s. e approfondimenti - ex plurimis - in F. Rimoli, op. cit., 77 ss.
“Nelle dottrine qui esaminate” - si è scritto nella pagina introduttiva del numero della rivista che le passa in rassegna, curato da C. Galli - “è significativa l’idea di una presenza attiva del popolo…, possibile proprio in quanto esso non si esprime attraverso chi governa, ma è concepito come realtà di fronte al governo”: così (i corsivi sono testuali) nel volume di Filosofia politica, 1/2005, cit., 8. In sostanza, la divisione dei poteri si comprende (è precisato nel medesimo luogo) in quanto suppone la sovranità rappresentata e non direttamente esercitata, pur se la radice unificante di tali poteri rappresentativi è la sovranità popolare (questi corsivi sono invece nostri) . E si aggiunge infine che, pur non costituendo un modello a adattare alla realtà contemporanea il governo misto può fare meglio spiegare la realtà politica dell’Unione Europea, “nei termini (già emersi nella figura della costituzione mista) dell’unità dell’azione di governo e della pluralità delle aggregazioni politiche”. In termini, si veda altresì G. Duso, La costituzione mista e il principio del governo: il caso Althusius, ivi, 77 ss., attento perciò a distinguere la discontinuità nell’uso del termine “democrazie” tra i classici antichi e la storia che incomincia invece con le rivoluzioni settecentesche. Sulla divisione dei poteri come tecnica struttural-funzionale degli assetti costituzionali democratici, idonea a incanalare l’unità e l’informalità del “politico” nella frammentazione delle procedure e perciò stesso a controllarne la forza, tanto in senso “orizzontale”, quanto nella “verticalità” dei contesti territorialmente articolati, come ad esempio sono quelli federali, si vedano tra i più recenti contributi, anche per i richiami di bibliografia nelle note, A. Vignudelli, La separazione dei poteri nel diritto vigente, in Diritto & Questioni Pubbliche, 7/2007, 201 ss. e G. Grasso - R. Manfrellotti, Poteri e funzioni dello Stato: una voce per un dizionario di storia costituzionale, in Historia Constitucional, 8 (2007), 143 ss.. Il primo degli Aa. appena citati richiama dal suo canto i Maestri italiani della generazione precedente e la cui lezione sul tema è imprescindibile, da G. Bognetti, La divisione dei poteri, Milano, 2001, a F. Modugno, Poteri (divisione dei), in Nss.D.It., Torino, XIII, 1966, 472 ss. e a G. Silvestri, del quale si veda riassuntivamente la voce Poteri dello Stato (divisione dei),in Enc. Dir., XXXIV, Milano,1985, 670ss.. Ad essi va inoltre quantomeno aggiunto - tra i tanti Aa. italiani - F. Bassi, Il principio della separazione dei poteri (evoluzione problematica), in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1965, 17 ss.
Si veda B. Casalini, L’Esprit di Montesquieu negli Stati Uniti d’America nella seconda metà del XVIII secolo, in Montesquieu e i suoi interpreti, a cura di D. Felice, Pisa, 2005, I, 325 ss. Si legga altresì su questo volume anche l’ampia recensione - che è in realtà uno studio critico sulla fortuna filosofica e sull’eredità intellettuale del pensatore bordolese - di P. Venturelli, Due secoli e mezzo di letture montesqueiane. Annotazioni su una recente opera collettiva, in Diritto & Questioni Pubbliche, 7/2007, 181 ss.
Emblematici e coerenti, in tal senso, gli svolgimenti critici sul “modello borghese” del diritto pubblico moderno e di esaltazione del giacobinismo e di Rousseau, secondo una linea anch’essa tratto da una lettura tuttavia diversa dell’esperienza romanistica, di P. Catalano, Divisione del potere e potere popolare, nella rivista russa Ius Antiquum, 1/1996, 19 ss.
Riflessioni in tale direzione sono nel contributo di A. Argenio, La disobbedienza civile come pratica partecipativa, 1 ss., distinguendola appunto dalla rivoluzione, ne Il diritto come prassi. I diritti fondamentali nello Stato costituzionale, a cura di U. Pomarici, Napoli, 2010, 1 ss.
L’utopia va dunque coltivata, ma conservando al tempo stesso senso della storia, cioè del dove si è e da dove si parte. Non si tratta di ritenere che quello che non è in nessun luogo - questo il senso etimologico della parola - debba non essere mai: forse, più semplicemente, esso non è ancora, o meglio è una delle potenzialità dello sviluppo storico. Se dunque essa va tenuta lungo l’orizzonte (tale che si allontana ad ogni passo che muoviamo per avvicinarlo), questa non è una buona ragione per non andarle incontro. Si tratta di scandire modi, tempi e forme dell’innovazione, non di negarne in toto la possibilità. Definisco chi faccia proprio questo atteggiamento come portatore di scetticismo verso la rivoluzione tout court, ma assieme non come conservatore, piuttosto quale persona con abito mentale da riformatore. Come ha messo in luce K. Mannheim, Ideologia e utopia, trad. it., Bologna, 1957, 217 la funzione dell’utopia sta “nel fatto che, in opposizione all’idea conservatrice di un ordine stabilito, essa impedisce alla realtà esistente di tramutarsi in assoluta, concependola invece come una delle possibili ‘topíe’, da cui scaturiranno quegli elementi utopici che a loro volta porranno in crisi lo stato attuale” (i corsivi sono dell’autore del presente contributo).
D. Felice, Premessa a Governo misto. Ricostruzione di un’idea, cit., 1. Sulla nozione romana di dictator, l’opera classica a cui rinviare resta ovviamente ai nostri fini - pur nella consapevolezza che l’analisi del giurista di Plettenberg ne operava un’intensa decontestualizzazione e rilettura adattata ai suoi tempi - C. Schmitt, La Dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, per cui si rinvia alla trad. it. introdotta da F. Valentini, Carl Schmitt o dell’iperpoliticismo, Bari, 1975
Si vedano in termini gli svolgimenti di P. Prodi, Il patto politico come fondamento del costituzionalismo europeo, in Scienza&Politica, 32/ 2005, 5 ss. e amplius - in precedenza - Id., Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, Bologna, 1992. Sui patti costituzionali particolari costituiti dai “contratti di governo” dell’ Ancien Régime, “soltanto…assestamenti (per lo più transitori, perché sottoposti a continue nuove negoziazioni, anche se talora di grande significato e portata storico-politica)” si vedano ora G. Zagrebelsky – V. Marcenò, op. cit., 24 ss.
Sul piano della storia delle idee, ex plurimis, P. Casini, Il patto sociale, Firenze, 1975; J. W. Gough, Il contratto sociale: storia critica di una teoria, trad. it., Bologna, 1986; J. Dunn, Contrattualismo, in Enc. Scienze Sociali, II, Roma, 1992, 404 ss.; Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, a cura di G. Duso, Milano, 1998; C. Margiotta, Contratto/contrattualismo, in Enciclopedia del pensiero politico, cit., 143 ss.; O. Bucci, L’eredità giudaico-cristiana nella formazione della dottrina contrattualistica europea, Milano, 2007. Quanto all’eredità religiosa nella costruzione della storia del costituzionalismo, un notevole contributo recente è quello di F. Alicino, Religione e costituzionalismo occidentale. Osmosi e reciproche influenze, in www.statoechiese.it, 33/2012 e sia altresì consentito il rinvio a S. Prisco, Le radici religiose dei diritti umani, in Scritti in onore di Franco Modugno, III, 2683 ss., Napoli, 2011. Per svolgimenti recenti sul tema del patto costituzionale da parte di scrittori ascrivibili a discipline in linea di principio tecnico-giuridiche - M. Pedrazza Gorlero, Il patto costituzionale…, cit.; A. Andreani, Sistemi costituzionali comparati, Padova, 8 ss. Dei due Aa. da ultimo richiamati, peraltro, il primo si mostra consapevole del carattere di fictio juris della figura del contratto, se applicata al diritto pubblico, secondo una teoria da lui e da lui esaminata in alcuni archetipi moderni, vale a dire in Hobbes e in Locke (ma potrebbero ricordarsi almeno Rousseau e Kant, fino agli svolgimenti attuali di Rawls; un’utile e chiara, benché sintetica, rassegna è nella voce di Dunn appena richiamata). Nondimeno egli giustifica la costruzione concettuale in nome della necessità di legittimare il potere del sovrano come “forza ordinante” consentita. Il paradigma del consenso è appunto il contratto, che pertanto “non rappresenta il vero fondamento della società, bensì la cifra razionale del suo fondamento effettivo”, che consiste nell’eguale e bilanciata rinunzia all’uso della forza da parte dei contraenti nel sottomettersi al pactum societatis (96 ss., primo corsivo testuale) Il contratto è insomma assunto a figura fondativa del moderno, perché suppone costitutivamente l’eguaglianza formale dei contraenti ed è adatto (aggiunge chi scrive) alla caratterizzazione degli attuali assetti pluralistici più delle - una volta solide e oggi in evidente crisi - ricostruzioni dei poteri pubblici in termini di statualità sovrana.. È infine significativo che il termine e il relativo concetto siano stati scelti ad intitolare e sottendere come filo unificante una raccolta dei discorsi tenuti fino a metà mandato dal nostro Capo dello Stato in carica: si veda G. Napolitano, Il patto che ci lega. Per una coscienza repubblicana, Bologna, 2009. Per una recente riproposizione, invece, di motivi anticontrattualistici e antiegualitarî, in nome della condanna del cosiddetto “nuovo legislatore”, che l’A. assume (peraltro correttamente, in punto di rilevazione di una tendenza) ispirarsi appunto all’eguaglianza tra gli uomini e pertanto all’astrattezza uniformatrice, laddove il cosiddetto “vecchio legislatore” - tradizionale e pre-giacobino - si limitava al più e nemmeno dovunque a trascrivere in disposizioni formalizzate usi e consuetudini, senza forzare in nome della sua correzione razionalistica la natura delle cose, ma anzi aderendovi, può leggersi la recensione di M. Gaslini, Costituzione e secolarizzazione: l’originaria funzione del diritto in Pietro G. Grasso, in Riv. Int. Fil. Dir., …, 323 ss.
Una discussione sul rapporto tra principî (ascrivibili all’universo deontologico) e valori (da riportare a quello assiologico) e sul carattere di giuspositivizzazione dei differenti orizzonti morali individuali proprio del neocostituzionalismo pluralista, che ne costituisce quindi la reductio ad unum sul piano sistematico e metodologico, si rinviene in G. Gozzi, op. cit., 26 ss., che riepiloga il fondativo dibattito in merito dell’età weimariana e discute altresì le posizioni argomentate in proposito da G. Zagrebelsky, Storia e Costituzione, ne Il futuro della Costituzione, Torino, 1996, 77 s.
Su questi aspetti, sia appunto consentito il rinvio a S. Prisco, Laicità e convivenza, Un ponte per un incontro, in Paura dell’Altro. Identità occidentale e democrazia, a cura di F. Bilancia, F. M. Di Sciullo, F. Rimoli, Roma, 2007, 253 ss., ora in Id., Laicità. Un percorso di riflessione, II ed., Torino, 2009, 139 ss.
Per tutti, il rinvio esemplare è ovviamente a G. de Vergottini, Le transizioni costituzionali.. Sviluppi e crisi del costituzionalismo alla fine del XX secolo, Bologna, 1998
Per la parte che immediatamente segue nel testo sono imprescindibili le letture dei saggi (tutti compresi in Alle radici della democrazia, cit.) di A. D’Atena, Il principio democratico nel sistema dei principî costituzionali, 83 ss.; P. Grossi, Principio democratico e giurisdizione, 101 ss.; P. Ridola, Partiti politici e democrazia rappresentativa, 117 ss; M. Oliviero, Islam e democrazia, 135 ss.; L. Paladin, La sovranità popolare nella democrazia degli antichi ed in quella dei moderni, 147 ss.
Il riferimento è ovviamente alla fortunata formula di F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo. La democrazia liberale è il culmine dell’esperienza politica?, trad.it., Milano, 1992.
Se, dopo le riforme di Clistene, in Atene vigesse o meno una democrazia come “governo del popolo” e quindi diretta, com’è tralatiziamente assunto, o piuttosto un “governo dell’assemblea del popolo”, convocata dalla Bulé, che farebbe propendere per l’avvio di uno schema di decisioni comunque istituzionalmente mediate, è discusso ora da E. Lanzillotta, Sulla formazione del concetto di democrazia, in Alle radici…, cit., 17 ss.
Si aprirebbe qui un ampio discorso, cui non è però possibile fare altro che un cenno, quello cioè del rapporto tra democrazia e populismo, anch’esso noto all’antichità, sia pure ovviamente in forme storiche e fenomeniche diverse. Sul tema, di particolare attualità, si può leggere, anche per la ricca esemplificazione, il contributo di Y. Mény e Y Surel, Populismo e democrazia, trad. it., Bologna, 2001, a partire dal quale si veda il contributo critico di V. Pazé, Populismo e Democrazia, in Nuvole. Per la ragionevolezza dell’utopia, n. 40, in www.nuvole.it, che opportunamente ricorda fra gli archetipi la figura e le argomentazioni di Demo, nei Cavalieri di Aristofane, nonché l’omonima corrente di pensiero nella Russia ottocentesca ed ancora fenomeni moderni, come il poijadusmo, il peronismo, il qualunquismo, il leghismo e simili. Sul volume dei due Aa. francesi si vedano anche le recensioni di A. Costa e di C. Scognamiglio, ad vocem, rispettivamente in www.recemsionifilodofiche.ite in www.filosofia.it. e - in prospettiva costituzionalistica - A. Spadaro,Costituzionalismo versus populismo (Sulla c. d. deriva populistico-plebiscitaria delle democrazie costituzionali contemporanee), in Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, Napoli, V, 2009, 2007 ss. . Ancora prima, ex plurimis, un’ampia indagine storica - circoscritta all’area occidentale - dello sfuggente fenomeno (che comunque si caratterizza per l’appello ad una “verginità popolare” contrapposta alla “corruzione” delle élites dirigenti) è quella di J. Lukacs, Democrazia e populismo, trad. it., Milano, 2005. Tali sviluppi si intrecciano comunque con le discussioni contemporanee sul “patto politico” di cui si è detto in precedenza e sulle sue condizioni di vitalità/accettazione, che sono concentrate - più che sull’aspetto del fondamento dell’obbligo di obbedienza politica, come in passato - sull’efficienza nella distribuzione delle risorse; (si veda amplius, sul punto, J. Dunn, op. cit., 414 ss.). In particolare ed in concreto, esse appaiono quindi caratterizzate dal favore verso un rapido e radicale sovvertimento degli assetti politici consolidati, concepiti come inefficienti e corrotti, dall’appello a “governi tecnici” o “di competenti” (dei quali viene tuttavia per altri versi contestata proprio la mancanza di investitura popolare e la permeabilità a cosiddetti “poteri forti e irresponsabili””) e si traducono nella nascita di nuove formazioni politiche, generalmente non denominate “partiti”, mentre - rispetto a quelle tradizionali - si esprimono comportamenti di disaffezione politica, protesta, elevate soglie di astensionismo dalla partecipazione elettorale: qui il rifiuto del “patto politico” diventa cioè rifiuto della “delega in bianco” ai rappresentanti eletti in precedenza e in genere al personale politico già in campo.
Sul primo scenario, essendo superfluo ai nostri fini ogni riferimento all’ulteriore ed amplissima letteratura che viene producendosi, ci limitiamo a rinviare alle attente cronache di R. Fattibene, Le risoluzioni dell’Onu sul caso libico tra intervento umanitario e ripidio della guerra in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2/2011 e Le manifestazioni di Mīdān al -Tahrīr: è stata vera primavera?, nonché a quella di M. R. Magnotta, La crisi siriana e gli equilibrî geopolitici del mondo arabo, le ultime due ivi, 3/2012. Adde, poi e senza pretese di essere esaurienti, La Primavera Araba. Origini ed effetti delle rivolte che stanno cambiando il Medio Oriente, a cura di M. Mercuri e S. M. Torelli, con introduzione di V. E. Parsi, Milano, 2012 e Le rivoluzioni della dignità. Diciotto mesi di proteste, di repressione e di rivoluzioni che hanno cambiato il mondo arabo, a cura di S. Rizzo, Roma, 2012.
A Costituzionalismo è globalizzazione è stato in particolare dedicato l’ultimo (e cioè il XXVII) convegno dell’Associazione italiana dei Costituzionalisti, Salerno, 22 - 24 novembre 2012, le cui relazioni (di G. Amato, P. Caretti, P. Costanzo) sono pubblicate sul relativo sito Internet, cioè in www.associazionedeicostituzionalisti.it
M. Pedrazza Gorlero, op. cit., 106 s. (il corsivo è di chi firma il presente lavoro)
Per una recente ricostruzione puntuale, ancorché sintetica, del percorso storico in termini si veda ancora lo stesso M. Pedrazza Gorlero, op. cit., 171 s. e amplius la bella monografia - di poco precedente - diA. Buratti, Dal diritto di resistenza al metodo democratico. Per una genealogia del principio di opposizione nello Stato costituzionale, Milano, 2006.
Si rinvia ancora una volta, per una sintesi di tale “verso” della vicenda, a J. Dunn, voce cit., passim.
Per un primo inventario di piste possibili, può riassuntivamente rinviarsi a Ma. Salvati, Solidarietà. Una scheda storica, in Parole Chiave, 2/1993, 11 ss., alla voce di R. Zoll, Solidarietà, in Enc. Scienze Sociali, VIII, Roma, 1998, 230 ss.. e ora a F. Pizzolato, Il principio costituzionale di fraternità. Itinerario di ricerca a partire dalla Costituzione italiana, Roma, 2012. e S. Rodotà, Quella virtù dimenticata. Perché in tempi difficili va ritrovata la solidarietà, in Repubblica, 25 settembre 2012.
Di “illusione universalistica”, a proposito del ruolo dei diritti nell’attualità dei dibattiti sulla Costituzione, parla infatti F. Rimoli, op. cit, 217 ss. Eppure, come ha significativamente osservato -presentando in Cina le proprie teoriead un pubblico colto, ma certo di sensibilità e contesto assai lontani dal nostro - R. Dworkin, I diritti presi sul serio, a Pechino (trad. it. dall’originale, apparso in The New York Review of Books, 26 settembre 2002, a cura di G. Gerotto e G. Di Plinio, in Università “G. D’Annunzio” - Dipartimento di Scienze Giuridiche, working papers, n. 11/2010, che si legge in www.unich.it/scigiur/index), pur nell’ovvia - ma secondo l’A. statunitense in fondo “presunta” - differenza tra “valori asiatici” e “valori occidentali”, “I diritti umani comunemente riconosciuti nelle democrazie occidentali poggiano su due principî fondamentali: in primo luogo che il destino di ogni essere umano vivente è ugualmente importante, e, in secondo luogo che, nonostante ciò, c’è una persona che ha una responsabilità particolare per la riuscita di ogni vita , ed è la persona a cui tale vita appartiene… Dopo tutto, condividiamo, nonostante le grandi differenze storiche e culturali, la stessa, fondamentale, condizione umana. Dobbiamo condurre la vita e affrontare la morte. Desideriamo ardentemente una congrua divisione di tutte le risorse disponibili e un’equa opportunità di rendere la nostra vita una nostra creazione, piuttosto che quella di qualcun altro” (ivi, 4 s., corsivo nostro). In un contributo ulteriore, L’espansione della Western Legal Tradition nella Cina del Terzo Millennio, in Iura Orientalia, VII (2011), 176 ss., il medesimo A. qui citato come co-traduttore sviluppa una serrata critica alle censure di Dworkin a proposito del diritto cinese, fondate in larga misura sull’osservazione di una discrasia tra teoria e prassi, oltreché investire proprio il piano sistematico dell’ordinamento giuridico. In effetti, considerando che anche il Maestro statunitense basa la sua teoria della Costituzione su assunti in definitiva etici e non strettamente positivistici, può sembrare contraddittorio che egli riprovi i legami tra diritto ed etica confuciana (ricerca dell’armonia al di là della legge, spirito collettivistico prevalente sull’individualismo) presenti in quell’esperienza. Lo stesso Di Plinio dà peraltro atto che l’art. 5 della vigente Costituzione cinese afferma oggi il principio della “legalità socialista” e in tal modo avvia la recezione di una sorta di rule of law, in luogo della tradizionale rule by law (governo dunque non della legge, ma attraverso la legge, che del primo è docile strumento) lì operante. Per quanto le critiche disincantate, contenute nel suo saggio, verso analoghi abusi circa i diritti fondamentali nei Paesi occidentali e che mirano a relativizzare l’insoddisfazione per l’assetto ordinamentale cinese non possano dirsi infondate, resta il fatto che la pubblicità e dialogicità dei processi di governo e il controllo del Giudiziario appaiono nei nostri ordinamenti quantitativamente e qualitativamente ben maggiori che nella Cina odierna. È tuttavia realistico attendersi che le dinamiche della globalizzazione (che implicano una dose elevata di trasparenza e di certezza del diritto, nello scambio industriale e commerciale con operatori stranieri) finiranno tendenzialmente per costringere quel Paese ad aprirsi a un più accettabile grado - secondo i nostri standard - di protezione legale dei diritti fondamentali. Che tale processo sia incominciato da quelli economici è plausibile afferrnarlo, ma - a ben vedere - anche la lenta e faticosa costruzione dell’Unione Europea, nella quale siamo da tempo impegnati, ha del resto percorso, in linea di fatto, una strada analoga. Si esprimono in sostanza allo stesso modo Li Zhenghui e Wang Zhenmin, Diritti dell’uomo e Stato di diritto nella teoria e nella pratica della Cina contemporanea, in Lo Stato di diritto. Storia, teoria e critica, a cura di P. Costa e D. Zolo, Milano 2002, 791 ss. Da un lato gli Aa. insistono infatti sul diritto alla sussistenza e allo sviluppo come precondizione di ogni ulteriore aperture ai diritti dell’uomo più “classici” (la stessa recezione ufficiale dell’espressione è del resto in Cina molto recente) e - citando un discorso ufficiale di Liu Huaqiu al World Congress on Human Rights, pubblicato sul Guangming Daily del 17 giugno 1993 - sostengono che “il criterio per giudicare la situazione dei diritti umani nei Pesi in via di sviluppo debba essere il beneficio che le politiche e le prassi adottate recano allo sviluppo economico e sociale, per far sì che la gente abbia da mangiare e da vestire a sufficienza, e per migliorare il benessere del popolo”. Al tempo stesso, essi riconoscono con esemplificazioni che la situazione dei diritti nel loro Paese (pur essendo gli stessi affermati a livello costituzionale, nel quadro della “legalità socialista” e per effetto dell’adesione - che attende però gli sviluppi attuativi - ai Patti internazionali sui diritti economici, sociali e culturali e sui diritti civili e politici, tra il 1997 e il 1998) resta insoddisfacente. Ribadiscono certo con forza che nemmeno i Paesi occidentali sono privi di pecche su tale piano, ma fanno peraltro egualmente affidamento sulla circostanza che “con il procedere delle riforme e delle aperture lo sviluppo dell’economia di mercato, le attività economiche e i rapporti fra gruppi di interesse diversi diventano sempre più complessi e ciò costringe oggettivamente le autorità cinesi a muoversi in direzione del ‘governo della legge”.
Un chiaro programma di politica del diritto costituzionale in termini è tracciato da G. Ferrara, op. cit., 252 s., dopo avere preso atto della crisi del progetto costituzionale del XX secolo, approdato allo Stato sociale (perché “la mondializzazione dell’economia ha spostato fuori da quest’ambito la titolarità sostanziale e l’esercizio effettivo del potere”), l’A. conclude, con una sorta di manifesto ed appello ideale al cui fascino e alla cui nobiltà è difficile sottrarsi: “Si pone quindi il problema di come ricostruire il costituzionalismo elevandolo alla stessa altezza nella quale gli Stati hanno condensato il potere fuori dei loro confini storici, il problema del costituzionalismo nell’età della globalizzazione… Per non arrestare o frenare il processo di civilizzazione, la libertà e l’eguaglianza si imporranno come esigenze sempre più ineludibili e dovranno essere ambedue soddisfatte, in tutta la loro estensione, nel loro significato profondo. Questo solo sappiamo. Tutto questo vorremmo”. L’A. ha ripreso ulteriormente questi motivi nei saggi ora compresi in La crisi della democrazia costituzionale agli inizi del XXI secolo, Roma, 2011. Un esauriente panorama delle maggiori posizioni teoriche neocostituzionalistiche oggi espresse in dottrina è in G. Bongiovanni, Costituzionalismo e teoria del diritto. Sistemi normativi contemporanei e modelli della razionalità giuridica, Roma - Bari, 2005; ulteriori indicazioni si reperiscono nei diversi e ricchi contributi de Lo Stato di diritto. Storia, teoria e critica, cit.
G. Teubner, La struttura del diritto nell'epoca della globalizzazione. L'emergere delle costituzioni civili, trad. it. e postfazione di R. Prandini, La “costituzione” del diritto nell’epoca della globalizzazione. Struttura della società-mondo e cultura del diritto nell’opera di G. T., 191 ss., Roma, 2005.
N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, 1967, 263.
Giustamente sospese in ordine all’impossibilità stessa di dare una conclusione ad un processo in realtà inconcludibile, dove nessuna descrizione e/o prescrizione particolare sembra contenere una sicura ricetta per la migliore prosecuzione possibile della convivenza che non sia l’impegno a contrastare il sempre camgiante e riproposto - nelle diverse evenienze storiche - “volto demoniaco del potere”, che va quindi anzitutto riconosciuto come tale e oppugnato e piegato alle esigenze dell’ “umano”, le belle pagine finali di F. Rimoli, op. cit., 273 ss.
Fonte: https://www.docenti.unina.it/downloadPub.do?tipoFile=md&id=483635
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