Costituzione europea

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Costituzione europea

 

Verso la Costituzione europea
1. “Costituzione europea”: significati di una locuzione
Di una “Costituzione europea” si ragiona in verità non da poco. Nel complesso ordinamento giuridico rappresentato dapprima dalle Comunità europee create negli anni cinquanta e poi, dopo l’unificazione di queste ultime nella “Comunità europea” e l’inserimento di questa come uno dei tre “pilastri” dell’Unione europea creata dal Trattato di Maastricht è sempre esistito un complesso di norme che ha svolto una funzione simile a quella svolta negli ordinamenti statali dalle Costituzioni ( ). Tale complesso di norme era quello contenuto nei trattati istitutivi e in quelli che avevano progressivamente provveduto a modificarli ( ). Su questo sistema di norme scritte si era poi innestato da un lato un diritto giurisprudenziale prodotto dalla Corte di giustizia nell’interpretazione dei trattati (in questa sede aveva avuto origine, fra l’altro, il principio della supremazia del diritto comunitario sul diritto interno e, soprattutto, la tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario) e dall’altro una rete di convenzioni e consuetudini “costituzionali” che avevano integrato le norme scritte, ad es. definendo il ruolo di un organo di importanza strategica quale il Consiglio europeo.
Dunque quella di “Costituzione europea” non è una nozione nuova, almeno nel senso descrittivo ora evocato, vale a dire di complesso di principi e regole che definiscono le attribuzioni dei diversi organi “politici” dell’ordinamento comunitario e che individuano criteri e limiti per l’esercizio dei poteri ad essi attribuiti. Problematico era, invece, ragionare di Costituzione europea pretendendo di trasferire automaticamente all’ordinamento comunitario il complesso di valori che la nozione di Costituzione evoca con riferimento agli ordinamenti statali, soprattutto quelli caratterizzati dal principio della sovranità popolare. In questo senso si è sottolineata l’improprietà del concetto di Costituzione europea: due dei concetti chiave della filosofia politica e della teoria dello Stato degli ultimi due secoli (quello di sovranità dello Stato e quello di sovranità del popolo) si ponevano come pietre di scandalo del nascente diritto costituzionale europeo ( ). Ai giuristi formati nella tradizione del diritto pubblico continentale appariva paradossale una “Costituzione senza Stato” ( ) o una “Costituzione senza popolo” ( ). Con la conseguenza che la possibilità di immaginare una Costituzione europea veniva subordinata da un lato al passaggio ad un assetto federale e dall’altro ad un salto di qualità nel processo di democratizzazione dell’ordinamento comunitario.
Tuttavia le cause che spiegano il passaggio al “momento della scrittura” di una Costituzione europea sono solo in parte connesse alle questioni teoriche or ora evocate. La Comunità e l’Unione europea, del resto, hanno tradizionalmente rappresentato una sfida alle dottrine tradizionali del diritto pubblico e ciò non ha smesso di essere vero negli ultimi anni.

2. La Carta dei diritti
Dapprima, le sempre più ampie competenze acquisite dalla Comunità-Unione Europea nell’ultimo quindicennio hanno posto il problema della legittimazione del suo ordinamento giuridico. La risposta è stata individuata dai Consigli europei di Colonia e di Tampere del 1999 nell’esigenza di avvicinare ai cittadini il sistema giuridico europeo, rendendo più visibili i diritti in esso garantiti e codificandoli in una apposita Carta dei Diritti, intesa come ultima tappa della ormai plurisecolare tradizione di codificazione dei diritti del costituzionalismo occidentale. A tale compito ha lavorato nel 1999-2000 una “Convenzione” composta di sessantadue rappresentanti del Parlamento europeo, dei Parlamenti e dei governi nazionali e della Commissione europea e presieduta dal costituzionalista ed ex presidente tedesco Roman Herzog. La Carta dei diritti dell’Unione europea ( ) – solennemente proclamata dal Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000, ma non inserita nel trattato di Nizza ( ), che ha modificato i trattati istitutivi – si è appunto assunta il compito di riaffermare “i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull’Unione europea e dai trattati comunitari, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo” ( ). Centrata sul valore della dignità dell’uomo, solennemente proclamata dall’art. 1 ( ), la Carta dei diritti dell’Unione europea raccoglie i diritti da essa codificati in sei capitoli (dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia), con un linguaggio comprensibile dal normale cittadino alfabetizzato.
Tuttavia, rispetto ad una Costituzione, la Carta conteneva solo uno dei requisiti fondamentali (appunto la dichiarazione dei diritti), mentre le regole relative ai poteri degli organi di governo della Comunità e dell’Unione e quelle che stabiliscono il riparto delle competenze fra l’Unione e gli Stati membri continuavano ad essere disciplinate dai trattati istitutivi. Non solo: la stessa fonte di disciplina dei diritti nello spazio giuridico comunitario non era tanto la Carta medesima – non inclusa, come si è detto, nei trattati – quanto il diritto giurisprudenziale della Corte di giustizia sulla base degli spunti contenuti nei trattati.

3. L’allargamento e il Consiglio europeo di Laeken
L’esigenza di una codificazione costituzionale completa, estesa all’organizzazione e alle competenze, e dotata di efficacia giuridica, rimaneva dunque aperta dopo Nizza. Ma a imprimere una accelerazione al processo di costituzionalizzazione dell’Unione è stato in realtà un fenomeno di natura diversa: il grande allargamento deciso dal vertice di Atene dell’aprile 2003 e operativo dal 1° maggio 2004. Si tratta di un allargamento ben diverso ( ) dai quattro ( ) precedenti che avevano aperto le porte della Comunità a Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca (1973), Grecia (1981), Spagna e Portogallo (1986), Austria, Finlandia e Svezia (1995). In questa occasione stanno infatti entrando a far parte dell’Unione ben 10 nuovi Stati (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta e Cipro), per un totale di quasi 80 milioni di abitanti: e ben otto di questi Paesi sono usciti da pochi anni dalla quarantennale tirannia comunista e sono quindi estranei alla storia comune dell’occidente di gran parte dell’ultimo mezzo secolo ( ).
Quando il grande allargamento era ormai all’orizzonte, il Consiglio europeo di Laeken ha convocato, nel dicembre 2001, una Convenzione sul futuro dell’Europa, incaricata di “esaminare le questioni essenziali che il futuro sviluppo dell’Unione comporta e di ricercare le diverse soluzioni possibili”. Ciò alla luce di “tre sfide fondamentali: come avvicinare i cittadini – in primo luogo i giovani – al progetto europeo e alle istituzioni europee? Come strutturare la vita politica e lo spazio politico europeo in un’Unione allargata? Come trasformare l’Unione in un fattore di stabilità e in un punto di riferimento in un nuovo mondo multipolare?”. Secondo il Consiglio europeo di Laeken, la Convenzione avrebbe dovuto studiare le varie questioni: “Essa redigerà un documento finale che potrà comprendere opzioni diverse, precisando il sostegno sul quale ciascuna di esse può contare, o raccomandazioni in caso di consenso. Unitamente al risultato dei dibattiti nazionali sul futuro dell’Unione, il documento finale costituirà il punto di partenza per i lavori della Conferenza intergovernativa che prenderà le decisioni finali” ( ).
La Convenzione ha lavorato dal 1° marzo 2002 al 10 luglio 2003 sotto la guida dell’ex Presidente francese Valery Giscard d’Estaing ed ha redatto un progetto di Trattato che istituisce una Costituzione dell’Unione europea. La scelta, quindi, è stata di approvare non soltanto un “documento finale” in forma di manifesto sui problemi di cui la Convenzione era investita. Come già la Convenzione Herzog che redasse la Carta dei diritti, anche la Convenzione Giscard ha optato per un testo strutturato come idoneo ad essere tradotto in documento normativo. Il progetto di Costituzione – adottato per consenso dalla Convenzione nelle sedute del 13 giugno e del 10 luglio 2003 – è stato presentato da Giscard e dai suoi due vice (Giuliano Amato e Jean-Luc Dehaene) al Consiglio europeo di Salonicco del 20 giugno 2003. Il 3 ottobre successivo si è aperta a Roma la Conferenza intergovernativa per l’approvazione del progetto di Costituzione come nuovo trattato-base dell’Unione europea, ma tale progetto non è stato per ora approvato dai governi degli Stati membri nel Consiglio europeo di Bruxelles del 13 dicembre e l’approvazione è stata rinviata a data da destinarsi, anche se l’uscita di scena dei due leaders che in dicembre recitarono la parte dei “cattivi” (il Presidente del Governo spagnolo, Josè Maria Aznar e il Primo Ministro polacco Lezsek Miller) ha improvvisamente riaperto – anche dopo i drammatici fatti di Madrid dell’11 marzo 2004 – la prospettiva di un’approvazione del progetto di Costituzione in tempi brevi. Rimane fermo che, dovendo il Progetto assumere la forma di un Trattato internazionale, la sua entrata in vigore sarà subordinata alla ratifica da parte degli Stati membri, secondo le procedure previste nelle rispettive Costituzioni (alcune delle quali includono dei referendum ( ), il cui esito è stato in passato provvisoriamente sfavorevole ai trattati europei). Il Consiglio europeo ha di recente delineato l’obiettivo dell’approvazione della nuova Costituzione entro il 30 giugno 2004, ma nel momento in cui si licenziano queste note (10 aprile 2004) una serie di ostacoli continuano a rendere incerto tale risultato ed i “costi” di esso in termini di eventuali annacquamenti della soluzione costituzionale delineata dalla Convenzione.

4. Il fallimento del vertice di Bruxelles
Il fallimento del vertice di Bruxelles del dicembre 2003, nel quale i capi di Stato e di governo dell’Unione non sono riusciti a trovare un accordo sul progetto di Costituzione, ha rappresentato una brusca battuta d’arresto per le speranze legate ad una maturazione della struttura costituzionale dell’Unione. Ma l’episodio va in parte sdrammatizzato: la storia di quello strano “unidentified political object” che sinora è stato prima la Comunità e poi l’Unione europea è infatti segnata proprio da una continua dinamica di “stop and go”, nella quale le sconfitte subite dal progetto europeista non hanno impedito di proseguire la marcia: basta ricordare la mancata ratifica della Comunità Europea di Difesa da parte del Parlamento francese nel 1954, la politica francese della “sedia vuota” durante la presidenza De Gaulle, gli ostacoli e le resistenze poste in essere a più riprese dalla signora Thatcher negli undici anni in cui ha guidato il governo britannico, il rifiuto del progetto di Costituzione redatto dal Parlamento europeo negli anni ottanta… . Nulla di ciò ha impedito che, dopo una pausa, il cammino verso una “unione sempre più stretta” (art. 1, 2° comma, del Trattato di Maastricht) fra gli Stati membri proseguisse, finendo per trasformare quella che era – nel 1957 – una piccola organizzazione sopranazionale di settore (la Comunità economica europea), con appena sei membri, in una organizzazione politica, cioè a fini generali, che si estende ormai dall’Atlantico al Mar Baltico e dalla Lapponia a Malta e Cipro . Si ricordi che la stessa parola-chiave che ha dominato il dibattito costituzionale europeo dell’ultimo decennio (sussidiarietà) emerge come conseguenza di un rifiuto, quello opposto dal governo conservatore britannico guidato da John Major ad un altro slogan, quello dell’Europa federale.
D’altro canto, però, il 2003 non è stato solo l’anno in cui il Progetto di Costituzione ha visto la luce (e in cui i governi degli Stati membri non sono riusciti ad accordarsi per approvarlo). Il 2003 europeo era sembrato un vero e proprio annus horribilis nella storia dell’integrazione continentale anzitutto per la grave frattura che si è delineata all’inizio dello scorso anno fra i principali Paesi europei sull’appoggio all’intervento americano in Iraq. Nel gennaio 2003, infatti, il Primo Ministro spagnolo Josè M. Aznar sottoscrisse, assieme ad altri sette governi europei (Gran Bretagna, Italia, Polonia, Repubblica Ceca, Bulgaria,Ungheria e Danimarca) un documento di sostegno alla prospettiva di una invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti e di critica alla posizione di dissenso assunta da Germania, Francia e Belgio. Ha avuto così inizio una devastante divisione tra “vecchia” e “nuova” Europa, cinicamente propagandata dalla presidenza americana: una divisione che non ha solo evidenziato la principale contraddizione – già nota ahinoi da tempo – dell’Unione europea (la mancanza di una effettiva politica estera e di difesa comune), ma che ha anzi consentito agli Stati Uniti di insinuarsi nel processo di costruzione europea, al quale la presidenza Bush guarda con malcelata ostilità ( ). Inoltre, ciò ha evidenziato che taluni Paesi dell’Europa centro-orientale che stanno per diventare (ma non sono ancora) membri a pieno titolo dell’Unione, guardano in realtà con più fiducia a Washington che a Bruxelles, malgrado abbiano chiesto (ed ottenuto) di divenire membri non degli Stati Uniti, ma dell’Unione europea. Se a ciò si aggiunge la “special relationship” che il governo Blair ha valorizzato anche dopo il cambio alla guida dell’amministrazione americana all’inizio del 2001 e l’iperatlantismo dei governi di Berlusconi e Aznar, si ha il quadro di uno “stato dell’Unione” oltremodo preoccupante su questioni di portata politica fondamentale, come il modo di intendere l’alleanza con gli Stati Uniti. E non è un caso che proprio i premier spagnolo e polacco (l’ex franchista Josè Maria Aznar e l’ex comunista Leszek Miller) siano i principali indiziati nella ricerca del colpevole del fallimento del Consiglio europeo di Bruxelles di fine anno, assieme alla fantasiosa conduzione della Conferenza intergovernativa da parte del Presidente del Consiglio italiano ( ).

5. Il progetto di Costituzione: la struttura
Il progetto di Costituzione predisposto dalla Convenzione sul futuro dell’Europa è composto di un Preambolo e di quattro parti: la prima, dedicata alle competenze dell’Unione, alla sua struttura e ai suoi organi; la seconda, che include la Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza; la terza, molto dettagliata, dedicata alle politiche e al funzionamento dell’Unione; la quarta, che contiene una serie di disposizioni generali e finali (fra cui una serie di protocolli allegati alla Costituzione) ( ).

6. Il Preambolo
Seguendo una tradizione consolidatasi in alcune fra le più importanti Costituzioni europee degli ultimi due secoli e seguita anche dai trattati comunitari e dalla Carta di Nizza, il Progetto di Trattato costituzionale premette all’articolato un Preambolo, composto da una frase di Tucidide in greco antico e da sei paragrafi.
Come ogni Preambolo, anche quello del Progetto richiama i valori sui quali l’Unione europea si fonda. L’Europa viene descritta come “un continente portatore di civiltà” (par. 1) e come “spazio privilegiato per la speranza umana” (par. 5). I valori di riferimento sono quelli dell’umanesimo: “uguaglianza degli esseri umani, libertà, rispetto della ragione” (par. 1). Le identità dei popoli dell’Europa sono viste come un retaggio di cui i cittadini europei vanno fieri, ma che non impediscono loro di impegnarsi a “forgiare il loro comune destino” (par. 4), nel quale l’Europa intende essere “unita nella diversità” (par. 5).
Grande attenzione da parte dell’opinione pubblica europea ha ricevuto la questione della menzione nella Costituzione dell’Unione delle “radici cristiane” (o giudaico-cristiane) dell’Europa. Da questo punto di vista il dibattito ha avuto un tono effettivamente costituente, in quanto ha costretto le opinioni pubbliche europee ad interrogarsi sull’identità dell’Unione. Una identità messa certo ulteriormente in crisi dalla vicenda della guerra irakena evocata in precedenza, ma la cui definizione (per quanto sempre in forma provvisoria) rimane un compito aperto, anche per definire eventuali allargamenti futuri (e in particolare la rilevantissima questione dell’adesione della Turchia).
La menzione nel Preambolo del progetto di Costituzione dei “retaggi spirituali, religiosi e umanistici dell’Europa” (par. 2) ha certo rotto un tabù dopo la esclusione di una locuzione analoga dal Preambolo della Carta dei diritti proclamata a Nizza, determinata da una impuntatura del governo francese. Ma la esplicita menzione delle radici cristiane non è stata possibile ( ), ed anzi la prima versione del Preambolo aveva tratti quasi offensivi, laddove si spingeva ad evocare l’eredità della tradizione greca e romana, tacendo al tempo stesso su quella cristiana. Traspare comunque nel Preambolo una concezione illuministica della storia europea, nella quale il filo rosso decisivo non incorpora le tradizioni religiose del continente, ma si rifà piuttosto al mito della Grecia classica, ben evocato dalla citazione di Tucidide con cui si apre il Preambolo e riemergente qua e la nel corso di esso ( ).
Secondo alcuni osservatori, il Preambolo mira a dire non solo “chi siamo”, ma anche “chi non siamo”. Da esso – e da alcuni passaggi ulteriori del Progetto – emergerebbe l’aspirazione a differenziare l’identità europea dall’unica superpotenza dei nostri giorni. Ciò sarebbe desumibile dalla sottolineatura della dimensione “sociale” dell’Unione (evidenziata dal par. 3 del Preambolo laddove si sottolinea l’obiettivo della “prosperità per il bene di tutti i suoi abitanti, compresi quelli più fragili e bisognosi” e di “restare un continente aperto alla cultura, al sapere e al progresso sociale”) e dal richiamo al rispetto del diritto internazionale (l’art. 3, 4° comma, afferma fra l’altro che l’Unione “contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti dei minori, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite” ( )): in questi passaggi del Progetto sarebbe possibile vedere malcelati riferimenti agli Stati Uniti, con il pericolo che il Progetto stesso prefiguri un’Europa concorrenziale agli USA, che potrebbe aprire fratture nell’Occidente ( ). Al riguardo occorre però dire che i citati accenti del Preambolo non fanno che dare rilievo formale alla concezione di sé che appare oggi più diffusa fra i cittadini europei, i quali proprio sulla questione sociale e sulla politica estera sembrano orientati con accenti diversi dalla concezione americana del rapporto Stato-economia e della pace (anche se sarebbe forse meglio dire che tale differenza sussiste più con la tradizione repubblicana di derivazione reaganiana che con gli Stati Uniti in quanto tali).
E’ invece condivisibile l’altro rilievo ( ) secondo cui rimangono in ombra nel Preambolo i drammatici eventi del XX secolo che hanno dato origine all’Unione europea, ovvero alla tragedia delle due guerre mondiali, ed in particolare della Seconda, che traspaiono solo nel pudico accenno all’impegno a “superare le antiche divisioni” contenuto nel par. 4 del Preambolo. In effetti, mettendo insieme il silenzio sulle tragedie della storia europea e quello sulle radici cristiane si ha il senso del limite principale del Preambolo giscardiano, che appare un po’ astorico, collocato in un empireo umanistico e massonico, timoroso di immergersi nel crogiolo della complessa storia del continente, cui esso guarda da una prospettiva astratta ed intellettualistica.

7. Competenze e istituzioni dell’Unione
La parte più innovativa del Progetto di Trattato costituzionale è la prima, la quale, nei 59 articoli che la compongono, definisce il quadro istituzionale dell’Unione, il riparto di competenza fra Unione e Stati membri e le condizioni di appartenenza e di uscita dall’Unione.
Dal punto di vista organizzativo va sottolineata subito la grande novità del Progetto di Trattato costituzionale, ben sintetizzata dall’art. 18, 1° comma, secondo il quale “l’Unione ha un quadro istituzionale unico” ( ). Viene così meno la complessa architettura dell’Unione risultante dalla sovrapposizione – prodotta dal Trattato di Maastricht e mantenuta dai trattati di Amsterdam e Nizza – fra la Comunità e l’Unione, con la prima configurata come uno dei tre “pilastri” di cui si compone la seconda, assieme alla Politica estera e di sicurezza comune e alla Giustizia ed agli affari interni. Ciò è confermato dagli art. IV-2 e IV-3 del Progetto, che prevede la fusione nella nuova Unione della Comunità europea e dell’Unione creata dal trattato di Maastricht. L’opzione per la fusione di questo complesso marchingegno istituzionale in un unico quadro istituzionale costituisce il contesto nel quale si collocava la questione delle  norme sulle competenze e sulle istituzioni dell’Unione, le quali costituivano il cuore delle scelte che la Convenzione sul futuro dell’Europa era chiamata a compiere, al fine di adeguare l’organizzazione costituzionale europea al “grande allargamento”.
“Il quadro istituzionale dell’Unione comprende: il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, il Consiglio dei Ministri, la Commissione europea, la Corte di Giustizia” recita l’art. 18, 2° comma. Ognuno di questi organi “costituzionali” dell’Unione (cui si affiancano poi le “altre istituzioni ed organi” previste dagli art. 29-31: la Banca centrale europea e il sistema di banche centrali, la Corte dei Conti, il Comitato delle Regioni, il Comitato economico e sociale; e il mediatore europeo di cui all’art. 48) agisce nell’ambito delle attribuzioni che la Costituzione gli conferisce ed opera nel rispetto del principio di leale cooperazione.
Le funzioni politiche di maggior rilievo sono attribuite al Consiglio europeo, “composto dai Capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo Presidente e dal Presidente della Commissione” (art. 20.2): è infatti tale organo che “dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e definisce i suoi orientamenti e le sue priorità politiche generali”. Si tratta pertanto di un organo di indirizzo politico quasi allo stato “puro”, poiché le funzioni ora citate si esauriscono nell’impulso politico all’attività di produzione ed applicazione del diritto svolta dagli altri organi dell’Unione. L’art. 20.1 si chiude infatti con l’espressa affermazione per cui il Consiglio “non esercita funzioni legislative”. Il Consiglio europeo delineato nel Progetto sviluppa le prassi sulle riunioni dei capi di Stato e di governo dell’Unione sviluppatesi dagli anni settanta in poi, che avevano trovato una formalizzazione solo parziale nel Trattato di Maastricht. Si tratta di uno degli organi espressione dell’anima intergovernativa dell’Unione, assieme al Consiglio dei Ministri, nel quale sono egualmente rappresentati gli Stati membri, a livello di ministri competenti per le deliberazioni di volta in volta da adottare.
E il rafforzamento dell’anima intergovernativa dell’Unione (rappresentata dal Consiglio dei Ministri e dal Consiglio europeo ( )) a scapito dell’anima propriamente comunitaria (rappresentata dalla Commissione) è stata una delle scelte di fondo compiute dalla Convenzione, peraltro più per una opzione del suo Presidente (sulla base di contatti informali con i principali governi europei, soprattutto quelli inglese, francese e tedesco) che in virtù di scelte compiute dai 102 membri che la componevano ( ): su questo problema, fra l’altro, non erano mancati, nella prima metà del 2003, i dissensi fra Giscard e il Presidente della Commissione Romano Prodi ( ). Il rafforzamento dell’anima intergovernativa avrebbe fra l’altro come conseguenza l’istituzione di un Presidente stabile del Consiglio europeo (con un mandato di due anni e mezzo rinnovabile una sola volta: art. 21), con superamento dell’attuale presidenza a rotazione semestrale, ma senza approdare alla più coraggiosa soluzione di creare un vertice unico dell’Unione fondendo il Presidente della Commissione e il Presidente del Consiglio europeo in un’unica figura istituzionale.
La pluralità delle figure di vertice è confermata dalla creazione della figura del Ministro degli esteri dell’Unione (art. 27), che sarebbe al tempo stesso membro del Consiglio europeo, Presidente del Consiglio dei Ministri nella formazione “Affari Esteri” e Vicepresidente della Commissione: in tal modo si supererebbe certo l’attuale dualismo tra il responsabile della Politica Estera e di Sicurezza Comune (oggi lo spagnolo Javier Solana), dipendente dal Consiglio, e il membro della Commissione responsabile per gli affari esterni (attualmente il britannico Chris Patten) e questo sarebbe comunque un passo in avanti. Tuttavia – soprattutto nel delicato settore della politica estera – l’Unione continuerebbe ad avere più voci, in quanto la sua rappresentanza esterna sarebbe ripartita fra le tre figure del Presidente della Commissione, del Presidente del Consiglio europeo e del Ministro degli Esteri, senza dimenticare che tali voci si intrecceranno anche con quelle dei singoli Stati membri, soprattutto di quelli di maggior peso. La polifonia che ne risulterà rischierà di essere pertanto una cacofonia confusa, anche se un esito armonico non è escluso a priori.
Il rafforzamento del Consiglio europeo poneva il problema del modo di deliberare, sinora retto da una ponderazione del peso dei vari Paesi stabilito dal Trattato di Nizza e palesemente iniquo a danno degli Stati più popolosi e a vantaggio di taluni Paesi minori o intermedi: in particolare Spagna e Polonia (con circa 38 milioni di abitanti ciascuna) dispongono attualmente di 27 voti, contro i 29 della Germania, che ha una popolazione doppia a quella di ciascuno di esse (78 milioni). La scelta della Convenzione – tenacemente sostenuta sul punto dai governi francese e tedesco – è stata di attribuire a ciascun Paese un peso proporzionale alla sua popolazione, in virtù del quale, pertanto, la Germania avrebbe pesato come Spagna e Polonia messe assieme. Il secondo punto controverso era rappresentato dalla maggioranza ordinaria per le deliberazioni europee: fissata nella maggioranza degli Stati, che rappresentino almeno il 60 per cento della popolazione dell’Unione (art. 24). Ed è stato proprio questo assetto che i governi di Madrid e Varsavia hanno ostinatamente rifiutato per tutta l’estate ed hanno infine respinto a Bruxelles il 13 dicembre, arroccandosi sulla difesa di un privilegio privo di giustificazione.
Una serie di materie non marginali, quali, anzitutto, la politica estera e di sicurezza comune: art. 39, 7° comma, rimane assoggettata alla decisione unanime, segno della perdurante presenza di elementi internazionalistici nella struttura dell’Unione.
In questo scenario il ruolo degli organi propriamente “comunitari” è affidato al Parlamento europeo e alla Commissione. Del primo viene fissato un numero massimo di componenti (736), anche se la distribuzione dei membri fra i Paesi membri, sulla base del principio della proporzionalità regressiva, sarà definita in vista delle elezioni per il Parlamento europeo del 2009 (art. 18). Il Parlamento è chiamato ad esercitare – in posizione, di norma, paritaria con il Consiglio dei Ministri – la funzione legislativa, che assume la forma della “legge europea” (atto legislativo di portata generale, obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri, quindi con forza ed efficacia pari a quelle sinora attribuite ai regolamenti) o della “legge quadro europea” (atto legislativo che vincola gli Stati membri – che ne sono i destinatari – per quanto riguarda i risultati da raggiungere, mentre i mezzi da utilizzare restano nella disponibilità degli Stati medesimi).
La Commissione, che “promuove l’interesse generale europeo” è invece il vertice del sistema esecutivo della Commissione: le compete infatti assicurare “l’applicazione delle disposizioni della Costituzione e delle disposizioni adottate dalle istituzioni in virtù della Costituzione” e vigilare “sull’applicazione del diritto dell’Unione”. Essa conserva inoltre il monopolio dell’iniziativa legislativa (art. 25). Ma l’innovazione più importante – e molto discussa – riguarda la composizione della Commissione. Mentre in essa sono oggi rappresentati tutti gli Stati membri (ciascuno con un Commissario, tranne i 5 Stati più popolosi, che ne hanno due), la Costituzione prevede una Commissione ristretta, composta da 13 Commissari, più il Presidente ed il Vicepresidente/Ministro degli esteri, con un commissario al massimo per ogni Paese con la conseguenza che gli Stati membri avranno un rappresentante nella Commissione solo per periodi alterni. Nei cinque anni in cui non avranno un commissario, gli Stati membri saranno “rappresentati” (le virgolette sono d’obbligo, in quanto i membri della Commissione non rappresentano i Paesi membri da cui provengono) da commissari senza diritto di voto.
La procedura per la nomina della Commissione è sensibilmente modificata rispetto alla situazione risultante dai Trattati. Secondo l’art. 18.1, il Presidente della Commissione sarà ora eletto dal Parlamento europeo (a maggioranza assoluta), su proposta del Consiglio europeo (formulata a maggioranza qualificata). In caso di mancata elezione del candidato nominato dal Consiglio, la procedura dovrà essere ripetuta entro trenta giorni. Si delinea così un sistema di “doppia fiducia” simile a quello praticato nei regimi parlamentari dualisti per la scelta del Primo Ministro (ad es. in Francia durante la “monarchia di Luglio” dal 1830 al 1848 e in Gran Bretagna nel settecento). Se prevarrà la fiducia consiliare (come è accaduto sinora) o l’elezione parlamentare non è per ora possibile dire: sarà decisivo verificare cosa accadrà nella prassi qualora il Parlamento dovesse rifiutarsi di eleggere il Presidente della Commissione designato dal Consiglio europeo. D’altro canto resterà da vedere se la Commissione continuerà ad essere un organo nonpartisan, come oggi, o se diventerà espressione della maggioranza del Parlamento europeo: questa seconda evoluzione sarà possibile solo se finirà per prevalere la legittimazione parlamentare su quella consiliare. La circostanza che i singoli Commissari, secondo il Progetto di Costituzione, siano nominati dal Presidente eletto della Commissione all’interno di rose di tre candidati selezionati da ciascuno Stato membro e che l’equipe della Commissione sia poi soggetta ad un voto di approvazione/fiducia del Parlamento (art. 18.2) apre interessanti prospettive all’emersione di un vero e proprio rapporto fiduciario fra Parlamento e Commissione, pur corretto da un ruolo non necessariamente marginale del Consiglio europeo, organo destinato a svolgere, da questo punto di vista, una funzione simile a quella di un Capo di Stato (anche se collegiale).

8. L’incorporazione della Carta dei diritti nella Costituzione europea
La seconda parte del Progetto di Costituzione è composta dalla Carta dei diritti approvata a Nizza ( ). La Carta è stata recepita testualmente, senza modificazioni, se non per quanto riguarda le c.d. “clausole orizzontali” (art. 51-54), destinate a delimitare l’ambito di efficacia della Carta.
In particolare, all’art. 52 (art. II-52 del Progetto di Costituzione) sono aggiunti tre commi, il secondo dei quali (art. II.52.5) delimita in maniera molto incisiva l’efficacia della Carta stabilendo che “le disposizioni della presente Carta che contengono dei principi possono essere attuate da atti legislativi e esecutivi adottati da istituzioni e organi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell’Unione, nell’esercizio delle loro rispettive competenze. Esse possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo della legalità di detti atti”. Si introduce così una distinzione di regime giuridico fra i diritti e le norme di principio contenuti nella Carta, precisando che solo i primi sono vincolanti per gli organi legislativi ed esecutivi dell’Unione e degli Stati membri. Ne risulta una possibile compressione dell’efficacia delle disposizioni della Carta che garantiscono i diritti sociali. D’altro canto le disposizioni di principio recuperano una loro efficacia come criterio di interpretazione da parte dei giudici.
Vi è qui un tentativo di circoscrivere l’efficacia della Carta dei diritti proprio nel momento in cui essa, venendo inserita nella Costituzione, diventerebbe un documento giuridico vincolante, sia pure nei modi e alle condizioni da essa stessa (e più in generale da tutta la Costituzione) previste.
La materia dei diritti nello spazio giuridico dell’Unione è poi oggetto di altre disposizioni. L’art. 7 del Progetto prevede la possibilità per l’Unione di aderire alla Convenzione europea per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, tema oggetto in passato di varie discussioni. L’art. 51, poi, riconosce espressamente lo status delle Chiese e delle associazioni o comunità religiose – rimaste singolarmente fuori dalla Carta dei diritti – anche se esse sono soprendentemente accomunate alle “organizzazioni filosofiche e non confessionali” (formula di neppur troppo vago sapore massonico), obliterando del tutto il ben diverso rilievo che le Chiese hanno nella vita e nella coscienza collettiva rispetto a tali sedicenti organizzazioni filosofiche, le quali non si capisce per quale motivo debbano godere di una tutela ulteriore rispetto a quella offerta dalla generale libertà di associazione e dalla libertà di manifestazione del pensiero.

9. La terza e la quarta parte del Progetto di Costituzione
La terza parte del Progetto di Costituzione contiene da un lato una serie di norme volte a precisare le modalità di funzionamento delle istituzioni comunitarie, delineate solo in generale negli art. 1-59 (ad es. la Corte di Giustizia e il Comitato delle Regioni); e dall’altro una articolata serie di disposizioni di principio sull’esercizio delle competenze dell’Unione. In gran parte dei casi si tratta delle disposizioni già incluse nei trattati regolanti l’Unione e la Comunità, che vengono trasfuse nel testo costituzionale e adeguate al nuovo assetto normativo complessivo.
La quarta parte disciplina i simboli dell’Unione (bandiera, inno, motto ( ), moneta e festa europea), l’abrogazione dei trattati, la continuità rispetto all’Unione e alla Comunità europea, il campo di applicazione territoriale della Costituzione, la compatibilità delle Unioni regionali con l’appartenenza all’Unione, la parificazione dell’efficacia dei protocolli all’efficacia della Costituzione, le procedure di revisione del trattato-Costituzione, le norme sull’adozione e sulla ratifica del trattato-Costituzione, la durata (perpetua) del trattato e le lingue in cui esso è redatto. Seguono cinque protocolli (relativi ai parlamenti nazionali, ai principi di proporzionalità e sussidiarietà, alla rappresentanza dei cittadini europei nel Parlamento europeo e alla ponderazione dei voti nel Consiglio, al gruppo euro e alla modificazione del trattato Euratom) e tre dichiarazioni.

10. Conclusioni
Il Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa è – come si desume dalla sua denominazione – un oggetto molto contraddittorio, quasi un ossimoro. La storia conosce infatti casi di trattati che diventano Costituzioni, poiché, pur basati sul principio pattizio nella loro formazione, sono poi assoggettati a regole maggioritarie e non al principio unanimistico per quanto riguarda le norme sulla loro successiva revisione. Le norme sulla revisione contenute nell’art. IV-7 del progetto di revisione rimettono le modificazioni ad un trattato, pur prevedendo una disciplina “costituzionale” della fase dell’iniziativa e dell’elaborazione delle proposte di revisione. Pendant di tali norme sulla revisione sono quelle che disciplinano nelle modalità di esercizio, ma con ciò espressamente riconoscono, il diritto degli Stati membri alla secessione dall’Unione (art. 59).
Questi dati sono decisivi per esprimere una valutazione sulla natura giuridica del documento per ora denominato “progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa”. Esso si rivela più un Trattato che una Costituzione, almeno se quest’ultima è intesa in senso forte, ovvero come l’opera di un popolo, titolare del potere costituente, mediante suoi rappresentanti, con cui sono stabilite le regole fondamentali sull’organizzazione politica, sulla produzione del diritto e i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico. Anche se il Progetto di Costituzione presenta formalmente tali contenuti, la loro regolazione conferma che oggi come in passato i “signori” della Costituzione europea sono gli Stati membri e che quindi l’ordinamento così regolato ha natura più internazionalistica che costituzionale.
Ma il testo arenatosi a Bruxelles e ora nelle mani delle presidenze irlandese, lussemburghese e olandese – che si succederanno sino alla metà del 2005 – segnerebbe comunque un ulteriore passo avanti nel cammino dell’integrazione. Un passo avanti che consisterebbe quantomeno nel non compiere passi indietro e nell’esorcizzare una non impossibile paralisi dell’Unione, che dal 1° maggio 2004 sarà la casa comune di 25 Paesi profondamente diversi fra loro (ancora più diversi di quanto non lo siano – non da oggi – i quindici “vecchi” Stati membri, sino al punto da far dubitare che il motto “unità nella diversità” ( ) indichi un obiettivo realistico). Per questo, malgrado i suoi limiti, è auspicabile che il documento costituzionale sia rapidamente approvato e ratificato, con le minori modificazioni possibili.

Marco Olivetti


Così ad es. S. Cassese, La costituzione europea, in Quaderni costituzionali, 1991, p. 487.

In questo senso si è espressamente pronunciata la Corte di Giustizia nel caso 294/93 Les Verts, in E.C.R., 1986, p. 1365.

Si v. ad es. J.C. Piris, Does the European Union have a Constitution? Does it need one?, in European Law Review, 1999, p. 557 ss.; A. Anzon, La Costituzione europea come problema, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2000, p. 629 ss.; M. Luciani, Diritti sociali e integrazione europea, in Politica del diritto, 2000.

V. L. Torchia, Una Costituzione senza Stato, in Diritto pubblico, 2001, p. 405 ss.

Cfr. E. Scoditti, La Costituzione senza popolo, De Donato, Bari, 2001.

Per un commento v. R. Bifulco, M. Cartabia, A. Celotto (a cura di), L’Europa dei diritti, Il Mulino, 2001.

Cfr. P. Cavaleri, Il trattato di Nizza a prima lettura, in Quaderni costituzionali, 2001, n. 1, p. 213 ss.

Così il Preambolo della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea.

Rinvio a M. Olivetti, Art. 1, in R. Bifulco, M. Cartabia, A. Celotto (a cura di), L’Europa dei diritti, cit., p. 38 ss.

Al riguardo v. il rapporto del Comitato Dehaene, Implicazioni istituzionali dell’allargamento. Un rapporto alla Commissione europea, in Queste Istituzioni, n. 117-120 (1999), p. 201 ss. Su questi problemi si v. anche T. Boeri, F. Coricelli, Europa: più grande o più unita?, Laterza, Bari, 2003, spec. p. 88.

Si ricordi poi che un allargamento “occulto” aveva avuto luogo nel 1990, con l’annessione alla Germania dell’ex Repubblica Democratica Tedesca.

Alcuni osservatori parlavano di Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria nell’epoca comunista come di un “occidente sequestrato”. Si può accogliere questa opinione, che guarda alla storia di lungo periodo di questi Paesi, ma resta il fatto che dal 1945 al 1989 essi furono separati da gran parte dell’evoluzione culturale, e soprattutto politica, dell’Occidente.

Cfr. A. Pace, La dichiarazione di Laeken e il processo costituente europeo, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2002, p. 613 ss.

Ciò accade obbligatoriamente per Danimarca e Irlanda. L’approvazione referendaria è invece una delle vie possibili ai sensi della Costituzione francese. Si ricorda che un referendum danese bocciò il Trattato di Maastricht, mentre un referendum irlandese bocciò quello di Nizza (poi entrambi i Paesi mutarono posizione in successivi referendums).

Riprendo l’ironica definizione proposta da P.C. Schmitter, Come democratizzare l’Unione europea e perché, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 10.

Sulla storia delle Comunità europee e poi dell’Unione v. per tutti B. Olivi, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea 1948-2000, II edizione, Il Mulino, Bologna, 2001

Si v. ora gli obiettivi dell’Unione formulati nell’art. 3 del progetto di Costituzione.

Su questa vicenda v. J. Derrida, J. Habermas, L’Europa alla ricerca dell’identità perduta, in La Repubblica, 31 marzo 2003, p. 1 e 38-39.

Rinvio, per la ricostruzione degli eventi, ai quotidiani di quei giorni, ad es. La stampa, 14 dicembre 2003 (in particolare l’editoriale di Barbara Spinelli).

Il testo della Costituzione  si può leggere in http://europa.eu.int/futurum/constitution/index_it.htm e (ad eccezione della parte III) in appendice a F. Bassanini, G. Tiberi (a cura di), Una Costituzione per l’Europa, Il Mulino, Bologna, 2003.

Alcuni (la relazione di A. von Bogdandy al Convegno Stato di diritto e principio di legalità nell’evoluzione della “forma di Stato europea”, svoltosi a Napoli il 6 aprile 2004) obiettano che l’evocazione delle radici cristiane sarebbe evidentissima nella Bandiera, raffigurante una corona di dodici stelle su sfondo blu, che richiamerebbe un passo dell’Apocalisse (12,1: “poi apparve un gran segno nel cielo: una donna rivestita del sole, con la luna sotto i piedi e sul capo una corona di dodici stelle”); ma questo è solo il segno che non è possibile espungere riferimenti anche impliciti alla tradizione cristiana, mentre non lascia affatto trasparire una voluta evocazione di quella tradizione da parte dei convenzionali.

Su questi problemi cfr. da ultimo G. Leziroli, La cristianità obliata della Costituzione europea, in Il diritto ecclesiastico, 2003, n. 3, p. 1087 ss.

I corsivi sono miei.

Per queste osservazioni si v. la relazione di A. von Bogdandy al Convegno Stato di diritto e principio di legalità nell’evoluzione della “forma di Stato europea”, cit.. Su questo problema v. anche A. Cantaro, Costituzione europea e “partito americano”, in Democrazia e diritto, 2003, n. 2, p. 61 ss.

…anch’esso formulato da A. von Bogdandy nella relazione al Convegno Stato di diritto e principio di legalità nell’evoluzione della “forma di Stato europea”, cit.

L’art. 3 (ex art. C) del Trattato di Maastricht aveva un testo analogo, ma esso non estendeva la sua efficacia alla Comunità.

Il Consiglio europeo è composto dai Capi di Stato e di governo dell’Unione e fissa gli orientamenti politici generali dell’Unione medesima (art. 20). Il Consiglio dei Ministri è contitolare – assieme al Parlamento europeo – del potere legislativo (fermo restando che l’iniziativa è di norma monopolio della Commissione) ed assume formazioni diverse a seconda dei settori politici di cui si occupa (art. 22 e 23).

Ciò è stato possibile grazie alla procedura decisionale utilizzata, che si basava non sul voto, ma sul c.d. consensus, che ha consentito al Presidente di dichiarare adottate o respinte per consensus certe proposte senza una votazione formale, ma in base ad una sua discrezionale interpretazione degli orientamenti della Convenzione e dei governi europei.

Per questi contrasti v. ad es. La Stampa, 31 maggio 2003, p. 9. Sulla proposta del Presidente della Commissione v. G. Tognon, La tela di Prodi. Una Costituzione per un’Europa più democratica, Baldini & Castoldi, Milano, 2003.

Cfr. F. Turpin, L’integration de la Charte des droits fondamentaux dans la Constitution européenne. Projet de Traité établissant une Constitution pour l’Europe, in Revue Trimestrelle de Droit Européen, 2003, n. 4, p. 615 ss.

Sul motto “unità nella diversità”, evocato già nel Preambolo, si v. J.-M. Favret, L’Union européenne: “l’unité dans la diversité”, in Revue trimestrelle de droit européenne, 2003, n. 4, p. 657 ss.

Si tratta del motto dell’Unione secondo l’art. IV-1 del Progetto di Costituzione

Fonte: http://giur.unifg.it/FILE/doc/pubblicazioni_docenti/Pubblicazioni_Olivetti/cost%20europea%20per%20prop%20edu.doc

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