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Il tema dei diritti di libertà è quello dei rapporti tra autorità pubblica (stato) e interessi individuali e collettivi che si muovono nella società civile. Esso riguarda le garanzie che spettano ai singoli e ai gruppi nei confronti dell’agire dello stato e degli altri soggetti titolari di poteri pubblici, ma, come vedremo, anche nei riguardi degli altri consociati, ovverosia degli altri soggetti privati.
Nella nostra Costituzione, la disciplina dei diritti di libertà, oltre che nei principi fondamentali (art. 1-12) è collocata nella prima parte della Costituzione, che è intitolata Diritti e doveri dei cittadini (art.13-54) e si sviluppa nei titoli dedicati ai “rapporti civili”, ai “rapporti etico-sociali”, ai “rapporti economici” e ai “rapporti politici”.
Le figure di libertà e di diritti che sono accolte nella nostra Costituzione si pongono alla confluenza di una lunghissima esperienza costituzionale, che compone la tradizione costituzionale europea: alcune figure di libertà sono antichissime, altre sono più recenti; tutte sono nate in contesti storici determinati, e sono state prodotte da un certo incontro tra costruzione culturale, economica, politica della società e costruzione e finalità dell’apparato pubblico. E si tratta di una storia, anche qui, in continuo divenire, perché le trasformazioni culturali, scientifiche ed economiche e le correlative trasformazioni del potere pubblico pongono sempre nuove esigenze di libertà e nuovi problemi di tutela.
E’ un discorso che affronteremo un poco alla volta, seguendo questo ordine:
- descriveremo le diverse tipologie di diritti di libertà e le singole figure di libertà e diritti per come sono disciplinati dalla nostra Costituzione; (I: Diritti civili (di libertà); diritti politici; diritti sociali);
- individueremo le diverse possibili figure dei titolari di diritti costituzionali (II: I soggetti dei diritti costituzionali);
- ci porremo il problema della efficacia dei diritti di libertà, il che significherà chiedersi quali prerogative essi conferiscono, sul piano giuridico, al loro titolare (III: L’efficacia giuridica dei diritti e delle libertà costituzionali);
- ci soffermeremo a riepilogare e approfondire le forme di garanzia che la Costituzione appresta per i diversi tipi di libertà e di diritti (IV: Le garanzie dei diritti costituzionali);
- discuteremo le modalità in cui il catalogo costituzionale dei diritti può essere modificato o il contenuto di una singola figura di diritto inciso o trasformato e ci porremo il problema di se e come nuovi diritti (o nuovi limiti a diritti antichi) possono nascere (V: “Nuovi” diritti, nuovi limiti);
- infine, passeremo a considerare gli ulteriori livelli di riconoscimento di diritti e di libertà che si pongono accanto o oltre la Costituzione, come i Trattati europei o la Carta europea dei diritti dell’uomo e cercheremo anche di dire qualcosa circa il modo in cui questi documenti convivono con il disegno costituzionale (VI: Altri livelli di riconoscimento di diritti e i loro interscambi con la Costituzione repubblicana: la tutela internazionale dei diritti di libertà).
La storicità dei diritti costituzionali è rivelata già dalla esistenza di una loro categorizzazione, ovverosia di una differenziazione di figure al loro interno, che distingue tra diritti civili (o diritti di libertà in senso stretto), diritti politici e diritti economico sociali, o, come anche si usa dire, tra “generazioni” di diritti (diritti della prima, della seconda, della terza generazione).
Sotto ciascuna di queste definizioni sono raggruppate figure di diritti e di libertà che sono nate in periodi storici diversi e riflettono il portato di diverse forme di stato.
I diritti civili, o diritti di libertà, sono i diritti di più antica origine: alcuni di essi, come vedremo, affondano addirittura la loro radice nel mondo medievale. Il loro contenuto consiste in una pretesa negativa, cioè nella pretesa a una astensione, a un non fare da parte delle autorità pubbliche; un altro modo di designarli è “libertà da” (liberty from: si pensi tipicamente alla libertà personale, o libertà da arresti arbitrari). Poiché essi consistono nella pretesa a che il potere statale si astenga dal fare qualcosa (pretesa negativa) sono anche spesso designati come libertà “negative”.
I diritti politici sono i diritti che implicano un potere di influenza sulle determinazioni degli enti e degli organi pubblici (es., diritto di voto; diritto di associazione in partiti politici); poiché essi rappresentano un potere di incidere su ciò che i pubblici poteri decideranno o faranno, li si può indicare anche come libertà positive, una liberty to. Questi diritti si sviluppano nell’epoca liberale e, soprattutto, democratica.
I diritti economico-sociali sono i diritti il cui contenuto consiste in una pretesa a ottenere una prestazione da parte dei soggetti pubblici (es., diritto alla salute, come diritto a ricevere prestazioni sanitarie), ma anche i diritti che realizzano tutele all’interno dei rapporti di lavoro e nelle relazioni economiche (diritto a una retribuzione equa e sufficiente). Essi sono tipici dell’esperienza dello stato sociale, e anch’essi, concretandosi nell’aspettativa a ottenere una prestazione da parte di altri, possono essere definiti diritti positivi.
In questo paragrafo ci soffermeremo su queste tipologie di diritti:
Diritti civili individuali (esercitati dal singolo nella sfera privata)
Diritti civili collettivi (esercitati dal singolo o da una pluralità di persone insieme, ma comunque rilevanti anche nella sfera pubblica)
I diritti civili trovano il proprio perno intorno alla figura della libertà personale, o libertà da arresti arbitrari. Nella nostra Costituzione la libertà personale è riconosciuta e garantita dall’art. 13, il quale recita “La libertà personale è inviolabile./ Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge./ In casi eccezionali di necessità e di urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro 48 ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida entro le successive 48 ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto./ E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà./ La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”.
Il tenore della disposizione ci aiuta intanto a comprendere il senso dell’aggettivo “inviolabile”, che viene riferito dalla Costituzione a questa e ad altre figure di libertà. La disposizione inizia dicendo che la libertà personale è inviolabile, poi prosegue stabilendo le condizioni che ne rendono legittima la limitazione. L’inviolabilità della libertà personale, pertanto, non significa che essa non possa mai essere limitata, ma che per limitarla legittimamente occorre rispettare le condizioni, che la Costituzione pone. Come si è espressa la nostra Corte costituzionale nella sent. n. 11 del 1956 (una delle sentenze con cui si aprì la sua giurisprudenza, che inizia appunto nel 1956): “il diritto di libertà personale non si presenta affatto come illimitato potere di disposizione della persona fisica, bensì come diritto a che l’opposto potere di coazione personale, di cui lo Stato è titolare, non sia esercitato se non in determinate circostanze e nel rispetto di talune forme”.
Le circostanze e le forme che rendono legittima la limitazione della libertà personale sono date dalla riserva di legge, dalla riserva di giurisdizione e dall’ obbligo di motivazione che sono fissati nel primo comma dell’art. 13. Una persona può essere legittimamente privata della sua libertà personale solo se, nella specie, si danno queste tre condizioni: primo, ricorre una ipotesi per la quale una norma di legge rende possibile una misura di privazione della libertà personale (riserva di legge, che, in questo caso, è una riserva assoluta; su questa nozione, v. di seguito il paragrafo V); secondo, il ricorrere di questa circostanza è stato accertato con atto dell’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione) e, terzo, questo atto è motivato,ossia espone le ragioni giuridiche e di fatto che hanno condotto l’autorità giudiziaria ad autorizzare la misura limitativa (obbligo di motivazione, la cui fondamentale importanza si coglie se si pensa che, primo, questo obbligo rende più difficile un esercizio arbitrario del potere, in quanto impone di dichiarare in base a quale norma, e per il ricorrere di quali circostanze di fatto, la misura è adottata; secondo, consente all’interessato di conoscere la propria posizione e di forgiare, rispetto ad esse, una prima difesa). Le tre garanzie valgono soprattutto a privare l’autorità di pubblica sicurezza – che materialmente compie gli atti limitativi della libertà personale – del potere di procedere ad arresti o altre limitazioni della libertà personale sulla base di una propria decisione, ovverosia di una valutazione soggettiva e contingente, foriera di possibili arbitri e insindacabile, o molto difficilmente sindacabile.
La limitazione della libertà personale sulla base della riserva di legge, della riserva di giurisdizione e dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione costituiscono il regime ordinario, ovverosia la modalità normale di garanzia della libertà personale; il terzo comma dell’art. 13 contempla però anche l’ ipotesi straordinaria. Si tratta delle ipotesi in cui, per circostanze eccezionali di necessità ed urgenza, non sia possibile un intervento tempestivo dell’autorità giudiziaria, ma si renda comunque assolutamente necessario procedere a una limitazione della libertà personale. In questi casi rimane la riserva di legge ma viene meno, provvisoriamente, la riserva di giurisdizione. Il regime straordinario delineato dall’art. 13 consiste infatti in questo: la legge deve prevedere, in modo tassativo, cioè non suscettibile di applicazione estensiva o analogica, quali sono i reati per i quali, quando una straordinaria urgenza lo imponga, è possibile procedere alla limitazione della libertà personale (che in questi casi si chiama fermo di polizia giudiziaria) anche in mancanza dell’atto dell’autorità giudiziaria (si pensi all’ipotesi della persona colta nell’atto di commettere un reato). La limitazione della libertà personale ha però, in questi casi, portata provvisoria, perché viene meno ed è senza effetto se non viene convalidata entro un certo termine: l’autorità di pubblica sicurezza deve informare l’autorità giudiziaria, che entro 48 ore deciderà se convalidare o meno l’arresto.
Con la libertà personale si tocca senza dubbio il nucleo più antico delle libertà costituzionali del mondo occidentale. Questa libertà è anche conosciuta come “habeas corpus” o “libertà di avere il proprio corpo (libero)”. Una delle più antiche formulazioni di questa libertà è rappresentata da una disposizione che compariva all’interno della Magna Charta Libertatum inglese, risalente al 1215. La Magna Charta è una tra le più famose tra quelle Carte o contratti di dominazione che accompagnano l’esperienza giuridica medievale. La concezione medievale del potere si imperniava sull’idea che tra un sovrano e i suoi sudditi intercorressero vincoli reciproci di obbligo. Il potere era considerato legittimo fintantoché si manteneva nel rispetto di quegli obblighi, in vista e nell’accettazione dei quali gli altri gruppi sociali avevano giurato la propria fedeltà al sovrano. I patti contratti o accordi di dominazione intercorrevano tra imperatori e sovrani, e tra sovrani e feudatari e pertanto erano concepiti non per garantire libertà dell’individuo, del singolo, quanto per garantire le libertà e i privilegi di un gruppo sociale (e del singolo in quanto appartenente a quel gruppo sociale) nei confronti di un altro. In altri termini, i diritti dell’epoca medievale, non erano formulati né concepiti nell’ottica universalistica che è propria dell’età contemporanea ( e cioè come spettanti a tutti gli uomini, a tutti i cittadini), e che viene dal riconoscimento del principio di uguaglianza, principale rivendicazione della rivoluzione francese.
La garanzia dell’ habeas corpus era formulata dalla disposizione 39 della Magna Charta in questi termini: “Gli uomini liberi non possono essere catturati o imprigionati, privati dei loro averi, messi fuori legge, esiliati o danneggiati se non da un tribunale dei loro pari e secondo le leggi del paese”. Questa formulazione ci fa capire che la garanzia riguardava solo “gli uomini liberi” (ossia i proprietari fondiari, i feudatari, non i servi) e che essa presupponeva una società ordinata in ceti (tribunale “di suoi pari”: l’uomo libero, il feudatario, ha diritto di essere giudicato da uomini nel suo stesso status sociale, del suo stesso ceto).
Nonostante queste differenze, vi sono indubbie affinità che, attraverso i secoli, continuano a legare l’art. 13 della nostra Costituzione (e i diversi articoli di altre costituzioni contemporanee che riconoscono la libertà personale) con l’antica formulazione della Magna Charta e di questa affinità noi possiamo servirci per apprezzare la lunga storia che i diritti di libertà hanno dietro di sé. Il nostro articolo 13 è formulato in termini universalistici, la libertà personale spetta a ognuno, e questo, come abbiamo appena detto, è il frutto del portato del principio di uguaglianza che si è affermato nell’esperienza giuridica europea e occidentale a partire dalla rivoluzione francese (recitava l’art. 7 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, oggi incorporata nel testo della vigente costituzione francese: “Nessuno può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla legge e secondo le forme da essa prescritte”). Nonostante questa fondamentale differenza, si può cogliere anche come la garanzia si imperni ancora, come allora, su due punti principali: la riserva di giurisdizione ( è necessario un atto motivato dell’autorità giudiziaria per limitare la libertà personale, secondo l’art. 13; era necessario un giudizio di un tribunale di pari, per la Magna Charta) e la riserva di legge (la libertà personale, secondo la Magna Charta, poteva essere limitata per effetto di un giudizio emesso “sulla base delle leggi del paese”, nel nostro art. 13, “nei soli casi e modi previsti dalla legge”. La “legge” cui fa riferimento l’art. 13 è quella particolare fonte del diritto, frutto del procedimento legislativo, e gli atti ad essa equiparati (vedremo più avanti come mai questo tipo di atti sono considerati i soli idonei a prevedere i casi di limitazione delle libertà e dei diritti), mentre con l’espressione “le leggi del paese” la Magna Charta designava l’insieme delle consuetudini allora riconosciute come diritto. Dietro le due disposizioni sta un modo di concepire la produzione del diritto che, dal Medio evo ad oggi, si è interamente modificata, ma resta una grande affinità, che ha attraversato i secoli: quella di pensare che la garanzia della libertà consiste nel fatto che l’arresto o la privazione della libertà personale non possano avere legittimamente luogo, se non si incorre in casi che una qualche previa norma, accertata in un giudizio, preveda come capaci di determinare la conseguenza della privazione della libertà personale. Per questa forma della sua garanzia la libertà personale porta con sé altri capisaldi del diritto costituzionale contemporaneo, come il principio per cui “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” (art. 25 comma 2 Cost.) che è il principio di irretroattività della legge penale (non si può prevedere oggi come reato un fatto che ieri, quando fu commesso, non era previsto come reato dalla legge).
Le lunghe radici storiche della garanzia della libertà personale si comprendono se si pensa la libertà personale, intesa come signoria sulla libertà del proprio corpo, si erge a tutela di una esigenza di autonomia e indipendenza della persona umana rispetto alle potenziali invadenze del potere; in altri termini, nella libertà personale e nella sua tutela davanti al potere pubblico prende forma quella continua dialettica tra prerogative di libertà della persona e pretese della autorità pubblica, che ha sempre accompagnato l’esistenza della convivenza politica, e, in particolare, dell’esperienza politica statale.
L’altro oggetto di signoria, di dominio dell’individuo, per eccellenza accanto al proprio corpo libero è la proprietà privata (si noti che la disposizione 39 della Magna Charta menziona anche “gli averi” della persona); in effetti, nel binomio liberty and property sono state riassunte le esigenze considerate irrinunciabili affinché una comunità politica possa esistere, ma rimanere rispettosa dell’individuo e delle sue prerogative. Naturalmente, a riconoscersi nel binomio liberty and property e a valorizzarlo nel modo più intenso sono le dottrine liberali, che pongono al centro l’individuo proprietario, padrone di se stesso, artefice della propria fortuna e nei confronti dei cui interessi uno spazio di intervento pubblico non limitato è avvertito come sempre potenzialmente nemico; non casualmente, “vita, libertà e beni” sono tutelati tutti insieme nel V emendamento del Bill of Rights americano (1791) (nessuno “potrà essere privato della vita, della libertà o dei beni, se non in seguito a procedura legale nella forma dovuta” o, come si esprime il testo, in seguito a un “due process of law”), nel quale ci rimane una delle formulazioni più stringenti della concezione individidualistica liberale che accomuna persona e beni come oggetto della signoria dell’individuo, e una delle riformulazioni della garanzia dell’habeas corpus più vicine a quella originaria.
La concezione liberale dell’individuo incorpora alcune delle immagini più eloquenti, appassionanti e vigorose che parlino di “libertà”: è la figura dell’uomo che costruisce la propria fortuna, che fa fruttare la propria terra, che non dipende da nessuno; una figura che diviene anche quella, familiare e divertente, della nonnina col fucile nel Far West, che spara contro gli emissari delle ferrovie, che minacciano la sua proprietà in nome del progetto di costruire una strada ferrata, progetto dal quale può conseguire una utilità per tutti ma che per intanto richiede il sacrificio della proprietà, dell’interesse privato. E’ una concezione che è stata discussa e criticata da molti punti di vista, il primo dei quali è che l’indipendenza e l’autonomia, se rappresentano fini e aspirazioni considerati alti e nobili dalla nostra cultura, sono anche condizioni che, a ben vedere, caratterizzano l’essere umano solo fino a un certo punto. La persona umana sperimenta spesso condizioni ben diverse, condizioni di vera e propria dipendenza, le quali non sono affatto sempre e comunque negative ma attraverso le quali, al contrario, la persona si trova inserita in un tessuto relazionale che risponde a esigenze di socializzazione, mutua responsabilità e solidarietà (l’archetipo di questi legami di dipendenza è quello madre-figlio). Oltre che nella psicologia, nella condizione umana interiore, la dipendenza è un tratto che ha rilevanza sociale (persone bisognose; ma anche: lavoro dipendente) e che pone questioni che non possono essere escluse dall’agenda delle finalità di una società politica solo perché provengono da soggetti che non corrispondono a un “modello”, che vorrebbe far coincidere sempre e comunque l’essere umano ad una idea di individualità autonoma, indipendente, autosufficiente.
In altri termini, la persona (l’individuo) autonomo e indipendente non è l’unica figura che si può avere in mente quando si vuole modellare una idea di persona; è, semmai, una delle figure di un mosaico ben più complesso.
Anche la ricezione della garanzia della libertà personale nella nostra Costituzione tiene conto di questa complessità.
A dimostrazione dell’altissimo livello di consapevolezza culturale della quale è frutto, anche la nostra Costituzione, che risulta, come abbiamo già avuto occasione di dire, dall’incontro, dal dialogo e dall’intreccio di culture politiche diverse, mentre accoglie l’esigenza inviolabile di tutela della libertà personale, non recepisce però puramente e semplicemente una concezione individualistico-liberale della persona umana. Una Costituzione attenta solo all’individuo proprietario, indipendente e autonomo, non potrebbe portare la sua attenzione, come invece fa la nostra, alle esigenze di tutela di chi non ha tutte queste prerogative (persone in condizioni socialmente disagiate; in generale, persone in condizioni di dipendenza); e non deve stupire che, del binomio liberty and property, ad essere recepita a tutto tondo è la tutela della libertà personale, mentre la proprietà privata, pur riconosciuta e garantita, non riceve, in Costituzione, lo status di un diritto assoluto ed inviolabile (sulle libertà economiche v.la sezione C di questo paragrafo). Ad essere posta al centro dell’attenzione, in Costituzione, è la dignità della persona umana, una qualifica che non coincide con l’essere proprietari e tanto meno con l’essere autonomi e indipendenti, perché la dignità spetta a tutti gli esseri umani, anche a chi è malato,anziano, disabile, o povero.
A segnalare che l’attenzione della Costituzione va alla dignità della persona oltre e prima che alla “libertà” dell’individuo sono le disposizioni del comma 3 dell’art.13 (“ E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione della libertà personale”) che sposta l’accento della garanzia: l’attenzione non è portata solo alle condizioni che rendono legittimo un arresto, e non è nemmeno sufficiente, agli occhi della Costituzione, che un arresto sia legittimo, per soddisfare tutte le diverse e ulteriori esigenze di tutela che sono collegate a questo delicato momento: anche in un arresto legittimo, deve essere sempre rispettata la dignità della persona, che in alcun modo deve essere sottoposta a violenze, né fisiche (percosse) né morali (offese, denigrazione, minacce). Inoltre, bisogna fare attenzione al fatto che le garanzie dell’art.13 sono rivolte a “qualsiasi” restrizione della libertà personale, e, pertanto, per quanto tradizionalmente coincidano con le limitazioni susseguenti ad arresto, fermo di polizia, incarceramento, esse coprono, in verità, anche misure quali l’internamento coattivo in manicomio, ovverosia anche costrizioni della libertà personale il cui presupposto non è l’avere violato una legge penale.
La tutela offerta dall’art. 13 deve essere quindi intesa come garanzia nei confronti di coercizioni fisiche e psichiche della persona,o,meglio ancora, come ha fatto la nostra Corte costituzionale, quale garanzia nei confronti di ogni ingerenza autoritativa che ponga la persona in uno stato di degradazione giuridica tale da incidere sulla sua dignità sociale: come si è espressa sin da epoche molto risalenti la Corte, “la libertà personale è incisa ogni volta che si verifichi una degradazione giuridica delle persona nel senso dell’avverarsi di una menomazione o mortificazione della dignità dell’individuo tale da poter essere equiparata a quell’ assoggettamento all’altrui potere in cui si concreta la violazione dell’habeas corpus” (Corte cost., sent. n. 30/1962).
Altre figure di diritti civili: dimensione individuale e dimensione collettiva della protezione della “sfera privata”
Intorno al ceppo della libertà da arresti arbitrari, o libertà personale, si sono sviluppate una gamma di figure di libertà che proteggono la sfera privata. Quella di sfera privata è nozione che indica sia l’ambito di vita dell’individuo come singolo che si dedica alle proprie attività ed interessi, sia l’ambito della società civile, come contesto sociale distinto e contrapposto alla sfera dei pubblici poteri, contesto che, per rimanere vitale e per non essere schiacciato, spento o sopraffatto, e per essere in grado, al contrario, di controllare, criticare, discutere, di dare vita a propri indirizzi, progetti, desideri ha anch’esso bisogno – come ne hanno le libertà del singolo - di protezione e di garanzie, nei confronti delle invadenze dei pubblici poteri, così come nei confronti dello eventuale strapotere di alcuni privati ai danni dei diritti degli altri.
Nelle libertà civili confluiscono perciò sia libertà individuali, di cui è titolare il singolo e che vengono esercitate in maniera individuale, come la libertà di domicilio, di corrispondenza, di circolazione e soggiorno, sia libertà collettive o di gruppo, che si esercitano insieme ad altri, come la libertà di riunione, di associazione, o che si rivolgono agli altri, come la libertà di manifestazione del pensiero; sia libertà che occupano entrambi i versanti, come la libertà di fede e professione religiosa
Dopo la libertà personale, la più classica figura di libertà negativa o civile, di carattere individuale, è la libertà di domicilio, riconosciuta nell’art. 14 della nostra Costituzione e assistita dalle medesime garanzie della libertà personale e che, come quella, risponde all’esigenza di garantire una sfera di signoria della persona, questa volta non sul proprio corpo ma su un luogo, davanti alle ingerenze del pubblico potere, che pure possono rendersi necessarie ad esempio per la repressione di reati, nonché alle invadenze illegittime di terzi.
Recita l’art. 14: “Il domicilio è inviolabile./ Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la libertà personale./ Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali”.
Il domicilio, ai fini del ricorrere della garanzia costituzionale, è il luogo nel quale una persona possa separarsi dagli altri, ammettendovi solo persone di propria scelta (“sede riservata della vita privata dell’individuo” è la definizione che ne ha dato la Corte costituzionale). A costituire domicilio non occorre che il luogo sia di proprietà della persona, o che questa vi abbia un titolo legittimo di godimento (es., locazione); e nemmeno che si tratti di un bene immobile; anche l’auto, chiusa con tendine e parcheggiata, può costituire un domicilio (rientra nella nozione, dunque, sempre secondo la Corte, “qualunque luogo di privata dimora sia pure esposto al pubblico, dal quale il titolare ha il diritto di escludere ogni altro”).
Per questa ampiezza della nozione di domicilio, l’art. 14 protegge non solo la signoria della persona su un luogo,ma, più ampiamente, una esigenza di riservatezza e di intimità.
La libertà di domicilio gode delle stesse garanzie della libertà personale. Dunque, per penetrare nel domicilio di una persona ed eseguirvi una perquisizione è necessario che si versi in una ipotesi in cui queste attività sono contemplate dalla legge, che vi sia una autorizzazione motivata della autorità giudiziaria, o che si versi in una ipotesi, tassativamente prevista dalla legge, in cui una ispezione può essere, per motivi di urgenza, effettuata dalla autorità di pubblica sicurezza, salvo convalida da parte dell’autorità giudiziaria (in mancanza di convalida la perquisizione o ispezione o sequestro sarà senza effetto, es., le informazioni raccolte per effetto di essa non potranno essere validamente impiegate in un processo).
A questo regime fanno eccezione gli accertamenti e le ispezioni dovute a motivi di sanità o incolumità pubblica o a fini economici e fiscali, per i quali è richiesta solo la garanzia della riserva di legge, mentre non è necessario l’atto motivato dell’autorità giudiziaria. Il significato di questa eccezione è stato chiarito dalla Corte costituzionale, allorché essa ha riconosciuto la legittimità, per esempio, delle disposizioni che consentono agli ispettori del lavoro di visitare laboratori,opifici, cantieri e locali annessi e connessi con l’esercizio dell’azienda,o che autorizzano gli ufficiali della polizia giudiziaria a procedere a perquisizioni domiciliari, senza provvedimento dell’autorità giudiziaria, in caso di fondato sospetto di violazione di leggi finanziarie. Queste e consimili norme sono giustificate, secondo la Corte, “dall’esigenza di porre gli organi della polizia giudiziaria in grado di provvedere con prontezza ed efficacia a situazioni idonee, per loro stessa natura, a esporre a grave pericolo la sicurezza e l’ordine sociale,e, dunque, in quanto collegate col fine della tutela della pubblica incolumità, espressamente contemplato nel comma 3 dell’art. 14”.
Altra classica espressione delle esigenze di libertà negativa è la libertà di corrispondenza, garantita dall’art. 15 in questi termini: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili./ La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge”.
Con “corrispondenza” si indicano le comunicazioni private, ovverosia le comunicazioni che una persona indirizza a uno o più destinatari determinati: comunicazioni scritte ma anche telefoniche e, si ritiene, telematiche, delle quali questa libertà tutela la segretezza e la riservatezza.
Anche per questa libertà si applicano le garanzie della libertà personale (riserva di legge, di giurisdizione, di atto motivato), quanto all’espressione “e con le garanzie stabilite dalla legge” alcuni vi leggono una garanzia ulteriore, nel senso che la legge, oltre che limitarsi a stabilire i casi in cui, ad esempio, può essere adottata una intercettazione di corrispondenza telefonica, deve e può prevedere ulteriori garanzie; per esempio, stabilire che siano coperte con segreto le notizie raccolte mediante intercettazioni, ma non pertinenti alla indagine per la quale si procede.
In generale, si ritiene che le prove illegittimamente acquisite (e cioè le prove acquisite senza il rispetto delle condizioni costituzionali o di legge) non possano essere utilizzate nel processo.
La libertà di circolazione e soggiorno, garantita nell’art. 16 (e, si badi, riferita ai “cittadini” e non a “tutti”) tutela la possibilità di muoversi nel territorio nazionale e di soggiornarvi liberamente.
Nell’esplicita esclusione della possibilità che la libertà di circolazione di una persona sia limitata per motivi politici troviamo il ricordo e la condanna dell’istituto fascista del confino politico.
Questa libertà può essere limitata solo “dalla legge in via generale per motivi di sanità e sicurezza”: non ricorre qui la riserva di giurisdizione. La riserva di legge formulata in questa disposizione è una riserva rinforzata di legge, il che significa non solo che la Costituzione abilita solo la legge a stabilire i casi in cui questa libertà può essere limitata,ma anche che la Costituzione definisce in quali sole ipotesi la legge può limitare questa libertà, i motivi che rendono legittima la limitazione, indicandoli nei soli motivi di sanità e sicurezza.
b) Diritti civili collettivi
Scene di uomini nei caffè, che leggono i giornali e discutono tra loro i problemi generali cominciano a divenire frequenti nella pittura inglese della fine del seicento; l’arte francese della fine del settecento ci lascerà ritratti vivacissimi di assembramenti di folla cospirante e minacciosa nella notte; non meno che di eleganti gruppi di borghesi a passeggio, nei parchi e nei viali: persone che si incontrano, si scambiano opinioni, fanno nascere e morire reputazioni, determinano mode, successi e fallimenti sociali, oscillazioni del gusto, passioni. Sono le immagini della società civile, dell’insieme delle persone private, dal cui vivere e dal cui incontrarsi, nei boulevards o nei salotti privati, nasce quella opinione pubblica senza la quale,senza le cui dialettiche interne e senza il cui continuo relazionarsi anche oppositivo e critico con la sfera dei pubblici poteri non esiste, secondo almeno la nostra tradizione, una convivenza libera. L’opinione pubblica è l’ambito in cui spontaneamente la società genera le sue opinioni, esprime i suoi bisogni, sceglie le sue direzioni; è la bussola che dovrebbe orientare anche i pubblici poteri, indicando richieste cui la società civile sente il bisogno sia data una risposta e indicando anche i modi in cui la società desidera e tollera avere risposte alle proprie esigenze. In mancanza di una opinione pubblica visibile e libera, sarebbero invece solo i pubblici poteri a decidere l’agenda delle cose da fare e a scegliere modi e forme di risposta ai problemi, calandoli dall’alto sulla società.
L’ossatura giuridica delle libertà della società civile è data dalle libertà civili collettive: la libertà di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero, di fede religiosa ne sono i pilastri tradizionali; e, di tutte queste, la libertà di fede religiosa rappresenta probabilmente la quintessenza.
Nella sistematica della nostra Costituzione la dimensione pubblica o collettiva delle libertà civili emerge con la libertà di riunione, che è disciplinata nell’art. 17. Come è stato notato (da A. Cerri,427), essa fa opportunamente da ponte tra le più individuali e private delle libertà civili e quelle più pubbliche e collettive. Infatti, essa stessa è una libertà che può essere tanto bene esercitata del tutto nel privato (riunione nel proprio domicilio per discutere coi propri amici i propri punti di vista su problemi o interessi comuni) quanto sfociare in tutto e per tutto nella sfera pubblica (corteo con un migliaia di partecipanti per invocare la pace tra le nazioni).
La riunione è la compresenza fisica di più persone nello stesso luogo, risultato non di un assembramento spontaneo, casuale (come il capannello di persone che si può formare dopo che è avvenuto un incidente per strada), ma di un accordo preventivo, dove qualcuno (i promotori della riunione) fissa il luogo e l’ora e altri (gli aderenti o partecipanti) convergono (ad esempio, riunione alle 16 sotto il consiglio regionale per protestare contro la legge…; o alle 17 al cinema talaltro per discutere di….; o alle 20 a casa di Caio per ascoltare Tizio che riporta le sue esperienze di operatore sociale in Africa); ci si riunisce per discutere di politica, per protestare, per praticare un culto religioso, per approfondire un tema,per giocare a carte, per guardare insieme un film. I cortei – detti anche, nel linguaggio corrente, “manifestazioni” - sono “riunioni itineranti” nello svolgimento delle quali si esercitano tanto la libertà di riunione che la libertà di circolazione.
Dare vita a una riunione è un diritto, che spetta a tutti i cittadini alla sola condizione di avvenire in modo pacifico e senza armi, e che può essere esercitato in luogo privato (es. il domicilio di qualcuno), in luogo aperto al pubblico (sono i luoghi l’accesso ai quali è subordinato all’acquisto di un biglietto o a altra condizione: cinema, teatro,sala conferenze) e in luogo pubblico, che è il luogo l’accesso al quale non è subordinato ad alcuna condizione (strada, piazza).
La principale differenza tra queste ipotesi è che mentre per le riunioni in luogo privato o in luogo aperto al pubblico non è richiesto preavviso, per svolgere una riunione in luogo pubblico occorre dare preventivo avviso alla autorità di pubblica sicurezza. La necessità del preavviso si spiega proprio con la natura pubblica del luogo: in altri termini, siccome far convenire cinquemila o centomila persone in un certo luogo pubblico, come una piazza di Roma, dove nello stesso giorno alla stessa ora passano centinaia di automobilisti,decine di autobus e migliaia di passanti, può avere ripercussioni quantomeno sulla scorrevolezza del traffico, occorre il preavviso, in modo che la pubblica autorità possa prendere tutte le misure opportune per far convivere lo svolgimento della riunione con le esigenze generali, come, nel nostro esempio, le esigenze del traffico (dovrà essere organizzato un servizio aggiuntivo di vigili urbani; dovranno essere previste deviazioni della circolazione stradale; oppure dovrà essere decisa una chiusura al traffico da una certa ora a una data altra ora, ecc.). In particolare, come dice espressamente l’art. 17, l’autorità di pubblica sicurezza dovrà valutare le esigenze di sicurezza e incolumità pubblica e, sempre solo laddove vi siano comprovati motivi di temere rischi per queste esigenze, essa potrà vietare lo svolgimento della riunione. E’ molto importante avere chiaro che, siccome quello di riunirsi è un diritto costituzionale, dando il preavviso alla autorità di pubblica sicurezza non si chiede una autorizzazione; tuttavia, ove vi siano comprovati motivi di sicurezza e incolumità pubblica, l’autorità di pubblica sicurezza può vietare lo svolgimento della riunione. In altri termini, l’autorità di p.s. non ha il potere di autorizzare la riunione, ma solo di vietarla –oppure di scioglierla, se i pericoli summenzionati sorgano nel corso della riunione - quando ricorrano le ipotesi previste dalla Costituzione. Dal fatto che l’autorità di p.s.non ha il potere di autorizzare la riunione, ovverosia dal fatto che e il preavviso non è una autorizzazione, discende che la sola circostanza che una riunione in luogo pubblico non sia stata preavvisata non ne legittima lo scioglimento, perché,per rendere legittimo lo scioglimento, devono comunque ricorrere in concreto le ragioni di incolumità e sicurezza, che avrebbero legittimamente determinato il divieto allo svolgimento della riunione.
E’ il caso di soffermarsi un attimo sulla scelta delle parole operata dall’art. 17. La riunione può essere vietata solo quando ricorrano “comprovati motivi di sicurezza e incolumità pubblica” (es. è stato scelto, per lo svolgimento della riunione, un luogo dove, se vi convenissero tutte le persone attese, potrebbe verificarsi un crollo). E’ questo un caso in cui, per abitudine e per brevità, può venir fatto di parlare di “ordine pubblico”; tuttavia si deve dare il giusto valore al fatto che la nostra Costituzione non parla mai di ordine pubblico (o meglio,non ne parlava fino a una novità introdotta nel 2001, di cui parleremo più avanti) e non ne parlava per una scelta precisa, e cioè per il potenziale repressivo che è implicito in quella espressione. I motivi di ordine pubblico erano e sono cari a ogni regime autoritario, il quale tende a identificare se stesso e la propria conservazione con le esigenze dell’ordine pubblico. Desiderosi che non si ripetessero gli abusi, materiali, ma anche simbolici (operati cioè già col solo modo in cui le parole vengono usate), che avevano contrassegnato il periodo fascista, i nostri Costituenti decisero di non ricorrere mai all’espressione ordine pubblico. Essi sapevano e ricordavano che troppe volte nella storia riunioni di manifestanti sono state impedite, o represse con violenza, in nome della difesa dell’ordine pubblico, dell’ordine “costituito”; in pratica, per impedire di protestare contro l’assetto del potere vigente.
L’approccio della nostra Costituzione al problema “ordine pubblico” può anche essere descritto ricorrendo a una distinzione all’interno di questa nozione, la distinzione, usuale nella nostra dottrina, tra ordine pubblico “ideale” e ordine pubblico “materiale”. L’ordine pubblico ideale è quello in nome del quale si difende il regime vigente: quando una riunione, o qualunque altra forma di manifestazione del pensiero, venga vietata, che lo si dica espressamente o meno, perché si sa e si teme che da essa possano provenire critiche ai pubblici poteri, siamo di fronte a un divieto dovuto a motivi di ordine pubblico “ideale”, e questo divieto è sicuramente contrastante con la volontà e i principi della nostra Costituzione. Quando una riunione viene vietata perché si teme che il palco crolli o perché risulta effettivamente in modo comprovato che il suo svolgimento potrebbe innescare atti di violenza, o questi di fatto avvengano nel corso della riunione, siamo di fronte a motivi di ordine pubblico “materiale”, che sono legittimamente invocabili (l’ordine pubblico materiale è appunto la legalità, la sicurezza e l’incolumità). In sintesi, pertanto “anche una riunione sovversiva, se, in atto, non presenta pericoli di violenza, è lecita; per contro, il venire in essere di illeciti nel corso della riunione può dar luogo a scioglimento, quando le necessità di prevenzione e repressione non consentano altro rimedio” (A. Cerri, 426).
Altro momento classico della capacità della società civile di esprimersi, esercitare un peso e una influenza,manifestare umori, perseguire progetti,è la libertà di associazione, riconosciuta dall’art. 18 della nostra Costituzione, e che comprende sia la libertà positiva di associazione (libertà di dar vita a una associazione, o di aderirvi) che la libertà negativa di associazione (libertà di non aderire ad alcuna associazione; libertà di recedere da una associazione di cui si sia fatto parte).
La riunione esiste per tutto il tempo in cui si svolge, fintantoché permane la compresenza fisica delle persone che hanno dato vita alla riunione. Una associazione,invece, è un gruppo a cui si aderisce volontariamente, e cioè che nasce da un contratto, ma del quale si può far parte anche senza riunirsi mai fisicamente con gli altri associati. Si dice pertanto che gli associati sono astretti, legati l’uno all’altro, da un vincolo ideale. Ogni associazione costituisce un ordinamento, cioè un gruppo di individui che si danno regole comuni, in forza delle quali acquisiscono reciproci diritti e doveri (dal dovere di pagamento della quota associativa al diritto di eleggere gli organismi direttivi dell’associazione). Le associazioni rientrano tra le formazioni sociali riconosciute dall’art.2, ma non esauriscono la categoria, che è ben più ampia, dato che le associazioni sono solo le formazioni sociali a base volontario-contrattuale alle quali si aderisce per il perseguimento di scopi comuni agli associati, mentre, per il sussistere di una formazione sociale, non è sempre necessario il carattere volontario-contrattuale della adesione di coloro che ne fanno parte (si pensi alla qualità di membro di una famiglia, e in particolare alla qualità di figlio; o alle formazioni sociali coattive, come il carcere) né la comunanza di scopi tra i componenti (si pensi all’impresa).
Il cuore della garanzia costituzionale della libertà di associazione è nella formula per cui i cittadini sono liberi di dar vita o di partecipare ad associazioni, senza bisogno di alcuna autorizzazione,” per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”. Questa espressione ha un significato e un intento molto preciso, che si traduce in una volontà di offrire la massima garanzia alla libertà di associazione: la formula impone che tutto quello che una persona può fare come singolo, possa farla anche come associato, possa farla anche una associazione ; di conseguenza, la legge non può stabilire che un certo fine o una certa attività è vietato solo in quanto, e perché, è perseguito in forma associata. In particolare: “ciò che non è penalmente vietato al singolo o che, addirittura, rientra nel suo diritto di libera manifestazione del pensiero (criticare il sistema costituzionale medesimo) non può essere precluso alla associazione” (A. Cerri, 428). Siccome una protesta, un progetto, una azione perseguita in forma associata può essere molto forte e molto visibile, la tentazione di vietare le associazioni in quanto tali o le associazioni che perseguono certe finalità è sempre molto forte per il potere pubblico; contro queste eventualità si rivolge la garanzia dell’art. 18.
La garanzia del primo comma dell’art. 18 si traduce dunque nel vietare alla legge di inventare limiti e divieti rivolti specificatamente alle associazioni in quanto tali.
Il secondo comma dell’art. 18 prevede inoltre due fattispecie di associazioni vietate: le associazioni segrete e le associazioni che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. Queste associazioni sono dunque direttamente vietate dalla Costituzione.
Per quanto riguarda il divieto di associazioni “segrete”, si ritiene che questo non si rivolga contro le associazioni segrete in quanto tali (quelle di cui gli associati non desiderino dar notizia ai terzi) ma contro le associazioni che si servono della segretezza per perseguire scopi politici; il divieto di associazione segreta è perciò, nella radice, simile al divieto di associazioni militari con fini politici. In entrambi i casi, ciò che si vuole vietare è il perseguimento di finalità politiche con metodi antidemocratici, intendendosi per metodi democratici la trasparenza, la visibilità, il rispetto e la lealtà nei confronti degli avversari politici, e la possibilità che il successo di una formazione politica sia condizionato solo dalla volontà degli elettori, e non certo dalla capacità di quella formazione politica di affermarsi con pressioni occulte o con la minaccia delle armi! La segretezza e l’organizzazione militare rendono illecita l’associazione qualunque sia il contenuto dei suoi fini politici. Una associazione può proporsi anche i fini più belli e giusti del mondo, ma se li persegue segretamente è vietata, perché in una democrazia ciò che è bello e giusto da fare deve essere deciso pubblicamente, riportato alla responsabilità e alla libertà di giudizio della società e del corpo elettorale,e non calato dall’alto e il fatto solo di voler perseguire date finalità senza sottoporsi al giudizio della società civile e degli elettori è contrario all’essenza di una democrazia.
Bisogna ricordare che, nel corso della storia, le associazioni, i “gruppi intermedi” tra individuo e stato sono sempre stati guardati anche come possibili sedi di doppie fedeltà (quella verso la associazione, quella verso lo stato), e, in questo senso, anche quando non o tutt’altro che rivoluzionarie, sovversive, violente, comunque però potenziali disgregatrici della unità statale, non foss’altro perché, con la loro sola esistenza, le associazioni sono, anche, o possono essere, allusive a un mondo pre-statale, e a possibilità di vita politica diverse da quelle che hanno preso forma nello stato (per esempio, al mondo medievale delle corporazioni: proprioper questo motivo lo stato liberale era in realtà contrario alla libertà di associazione; in Francia, la legge Le Chapelier del 1791 vietò i sindacati operai col motivo che avrebbero fatto rivivere le corporazioni medievali).
A maggior ragione, è importante la scelta della nostra Costituzione di riconoscere nel massimo grado di ampiezza la libertà di associazione, e, soprattutto, la scelta di non imporre alla libertà di associazione alcun limite di contenuto: una associazione non può essere vietata perché “sovversiva” o “antisistema” nei contenuti della sue finalità, ma solo perché e quando in concreto i modi del suo operare siano modi antidemocratici (segreti, di perseguimento di fini politici con mezzi militari).
Che la condizione di cittadino, l’appartenenza alla comunità politica, i valori da quest’ultima condivisi e i fini da essa perseguiti possano non esaurire i pensieri, le aspirazioni, o non coincidere con le convinzioni di un intero gruppo sociale è del resto l’eventualità tipica che si presenta nel rapporto tra lo stato e le fedi religiose. Il riconoscimento della libertà di fede e di culto, operato nell’art.19 della nostra Costituzione, ha uno spessore tutto particolare, analogo solo, forse, al riconoscimento della libertà di associazione: lo stato non solo si dichiara incompetente sulle scelte di coscienza dei suoi cittadini (stato laico), ma si impegna a rispettarle, a consentirne la libera manifestazione nella sfera pubblica e dunque accetta la sfida di vedere le proprie leggi e le proprie scelte criticate in nome di un punto di vista irriducibilmente altro, rispetto a sé stesso, ma altrettanto ultimativo.
Una importante conseguenza di ciò è la problematica dell’obiezione di coscienza (all’uso delle armi; alle pratiche mediche abortive) che rappresenta benissimo le questioni “estreme e paradossali” che nel campo della libertà religiosa si pongono per una democrazia. Quest’ultima, per la sua stessa essenza, deve rispettare la coscienza dei suoi cittadini, trovare un limite in essa (altrimenti non sarebbe una democrazia) ma al tempo stesso ha bisogno anche di obbedienza, di effettività (sintetizziamo così una riflessione del filosofo Passerin d’Entrèves, citata da A.Cerri, 432). Oggi siamo talvolta indotti a pensare che certe tematiche, come il rapporto con culture religiose diverse da quelle maggioritarie in Europa, i cui appartenenti avanzano, per esempio, l’esigenza di indossare abiti caratterizzati in senso religioso (il velo islamico) siano difficilissime novità tutte contemporanee, sfide tutte inedite e legate al nostro solo presente. In verità la storia delle democrazie è sempre stata accompagnata dalla esigenza di ricerca di modi non oppressivi per instaurare e mantenere la convivenza tra laicità dello stato e religiosità delle persone; precisamente, le democrazie hanno scelto di accogliere questa sfida, di misurarsi col problema della individuazione dei modi possibili di far convivere la coscienza dei singoli con le leggi generali. I problemi che oggi ci sono proposti come nuovi e inauditi sono nuove espressioni di problemi eterni, con cui le democrazie si sono da sempre confrontate, problemi che, di volta in volta, hanno trovato soluzioni solo col tempo e attraverso lunghe discussioni.
Ricordiamo inoltre che, nel caso specifico del nostro paese, il riconoscimento della libertà religiosa operato nell’art. 19 assume anche il peso tutto particolare di riconoscimento di pluralismo religioso in un paese che sino a quel momento aveva identificato la propria religione in quella cattolica romana.
L’art.19 riconosce a “tutti” il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualunque forma, individuale o associata (professare una fede significa conformare la propria vita alle prescrizioni di una religione, prescrizioni che possono investire l’ambito delle scelte alimentari; del vestiario); di farne propaganda (cioè di diffonderla presso gli altri, di manifestarla per propagarla) e di esercitarne in privato e in pubblico il culto, cioè i riti.
La libertà religiosa comprende dunque la libertà di professione religiosa, di propaganda religiosa e di culto.
L’unico limite opponibile alla libertà religiosa concerne il momento del culto.Sono vietati solo i riti contrari al buon costume, espressione che designa la morale sessuale (sono vietati, pertanto, i riti a carattere “osceno” come quelli che orgiastici).
Classico nerbo della società civile, espressione dell’opinione pubblica, è la libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21.
La libertà di manifestazione del pensiero protegge il diritto di tutti di diffondere pubblicamente le proprie opinioni, e cioè di esternarle a destinatari potenzialmente indeterminati (questo, a differenza della libertà di corrispondenza, che protegge le comunicazioni che sono rivolte a destinatari determinati).
La libertà protegge le manifestazioni del pensiero che avvengano con la parola, lo scritto e qualunque mezzo di diffusione (radio, televisione, ecc.).
Nell’art. 21 viene individuato un unico limite alla libertà di manifestazione del pensiero, che è “il buon costume”, menzionato nell’ultimo comma della disposizione in discorso. Come in ogni altro caso in cui questo concetto venga utilizzato dalla Costituzione (lo abbiamo appena visto riferito alla libertà religiosa), ad esso viene attribuito il significato di “morale sessuale”, dunque sono vietate le manifestazioni del pensiero oscene o lesive del pudore sessuale (questo limite non riguarda però le manifestazioni del pensiero scientifiche ed artistiche, alle quali si riferisce l’art. 33 della Costituzione e che sono considerate, per questo motivo, libertà particolarmente “privilegiate”). Il limite del buon costume viene utilizzato in questa accezione, che lo fa coincidere con la morale sessuale, perché l’altra accezione possibile dell’espressione, che vedrebbe il “buon costume” coincidere con la morale corrente, le opinioni etiche diffuse nella società, è più ampio e consente margini di apprezzamento più soggettivi; in altri termini,consentirebbe di introdurre limitazioni troppo penetranti e indeterminate nei confronti di questa libertà.
Il limite del buon costume è l’unico limite esplicito alla libertà di manifestazione del pensiero, cioè l’unico limite espressamente enunciato nell’art.21. La dottrina e la giurisprudenza della Corte costituzionale hanno però sempre ammesso l’esistenza di limiti ulteriori, ed impliciti,ovverosia deducibili dal complesso dell’ordinamento costituzionale e rappresentati da altri beni costituzionalmente protetti e di pari importanza rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero, come l’onore delle persone,la vita, la riservatezza, la tutela della salute, l’interesse della giustizia. Laddove la libertà di manifestazione del pensiero, in singoli casi concreti, si trovi a collidere con questi altri beni, costituzionalmente rilevanti e protetti, si tratterà di valutare volta per volta, in forza del bilanciamento tra gli interessi in gioco, se debba prevalere la libertà di manifestazione del pensiero o l’altro interesse con essa nel caso concreto collidente. I limiti impliciti, dunque, non sono limiti che proteggono beni cui la libertà di manifestazione del pensiero è subordinata o inferiore, ma beni ad essa equiordinati. Quando la libertà di manifestazione del pensiero si trovi in conflitto con un altro di questi beni o interessi occorre valutare come nel caso concreto si presentano i valori in gioco e la prevalenza sarà assegnata ora all’una ora all’altro a seconda di una ponderazione, di un bilanciamento, che tiene conto delle circostanze del caso.. Es.: un giornalista pubblica i risultati di una propria indagine, dalla quale risulta che un noto uomo politico, presidente della tale Provincia, ha avuto contatti con un personaggio dai trascorsi poco puliti, il quale guarda caso ha vinto un appalto miliardario bandito dalla Provinciai; un altro giornalista pubblica un articolo, nel quale racconta le amicizie di una certa casalinga. In entrambi i casi la libertà di cronaca, espressione della libertà di manifestazione del pensiero, del giornalista, entra in conflitto con un interesse alla riservatezza delle due altre persone, ma la risposta al problema su quale dei due beni in conflitto avrà la prevalenza sarà diversa nei due casi. Nel primo caso, siccome si tratta delle vicende di un uomo politico, che ha scelto di essere uomo pubblico e le cui azioni sono influenti sul giudizio dell’elettorato, e sull’andamento della cosa pubblica, prevale la libertà di cronaca. Nel secondo, siccome si tratta delle vicende di una persona che non ha scelto di vivere una vita pubblica (non è una attrice, per esempio, ma una qualunque casalinga), e le cui azioni non hanno conseguenza per la società, prevale, sul diritto di cronaca, l’interesse alla riservatezza. Il conflitto intercorre sempre tra i soliti due beni (diritto di cronaca e riservatezza) ma lo si risolve diversamente tenendo conto del modo in cui il conflitto si presenta in concreto (coinvolgendo, in un caso, una persona “pubblica” le cui scelte sono interessanti per l’opinione pubblica; nel secondo, una persona la cui vita privata è un fatto solo suo. Si potrebbe proseguire nell’esempio osservando che, se il giornalista avesse rivelato una vicenda sentimentale dell’uomo politico, avrebbe di nuovo prevalso la riservatezza. Infatti, se è logico che quest’ultima, nel caso di un uomo politico, subisca qualche limitazione per tutte quelle scelte e quei comportamenti che possono avere un peso sul giudizio che l’opinione pubblica può avere su quel personaggio in quanto uomo politico, rimane irrilevante per l’opinione pubblica come una persona, anche se visibile e influente, vive la propria vita sentimentale).
In ogni caso, affinché la libertà di manifestazione del pensiero possa “soccombere” nel bilanciamento con un altro bene o interesse costituzionale, si deve dare,per questo altro bene o interesse, un pericolo imminente, chiaro e presente che derivi dall’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero (quello che gli americani chiamano un clear and present +danger); in particolar modo, come ricorda anche A. Cerri, 432, “si assume che il dibattito anche critico sui fondamenti del sistema costituzionale non possa come tale essere nocivo; solo l’azione violenta può,qui e ora, essere impedita”.
L’art. 21 contiene sia il riconoscimento e la garanzia della libertà di manifestazione del pensiero “con ogni mezzo”, sia la disciplina delle garanzie che assistono un particolare mezzo di manifestazione del pensiero, che è la stampa. La particolare attenzione alla stampa si spiega con motivi storici: la stampa, i quotidiani, i settimanali, hanno rappresentato la prima e più radicata forma di espressione dell’opinione pubblica, e per questo motivo anche la nostra Costituzione si preoccupa di circondare la stampa di particolari garanzie. Queste sono le seguenti:
a) la pubblicazione degli stampati non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure (l’autorizzazione è un provvedimento precedente la pubblicazione, la censura un provvedimento successivo) (art. 21 comma 2);
b) il sequestro degli stampati, cioè la loro requisizione dalla circolazione commerciale, può avvenire solo quando ricorrono particolari condizioni, rappresentate dalla riserva di legge e dalla riserva di giurisdizione.
Il sequestro degli stampati può avvenire solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione) e nei casi cui sia stato commesso un delitto a mezzo stampa o un delitto di stampa, per i quali la legge preveda espressamente come possibile conseguenza il sequestro degli stampati (riserva di legge). Un delitto a mezzo stampa è un delitto che, per sua natura, può essere commesso anche in modi diversi che mediante la stampa (diffamazione, ingiuria) ma che, nel caso di specie, è commesso proprio mediante la stampa, per esempio la diffamazione operata mediante un articolo di giornale (ai delitti a mezzo stampa si riferisce la formula “delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi); i delitti di stampa sono delitti che possono essere commessi solo nell’ambito della stampa perché costituiscono violazioni di specifiche norme della legislazione sulla stampa (es.: doverosità della indicazione del luogo in cui la pubblicazione è stata stampata: del direttore responsabile: la pubblicazione di un quotidiano che non indichi il nome del direttore responsabile integra un delitto di stampa).
A queste previsioni, contenute nel comma 3 dell’art. 21, si aggiunge – di nuovo sulla falsariga della disciplina della libertà personale – l’ipotesi dei casi di urgenza. Quando con uno stampato sia commesso un reato di tale gravità che il sequestro si rende immediatamente necessario e non si può attendere l’intervento preventivo dell’autorità giudiziaria, l’autorità di pubblica sicurezza può procedere al sequestro, ma deve immediatamente (entro le 24 ore) renderlo noto (farne denunzia) all’autorità giudiziaria, la quale può convalidare o meno il sequestro; se non lo convalida, questo è revocato e privo di effetti.
La disposizione del quarto comma dell’art.21, secondo la quale legge può stabilire che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica prende atto del potere della stampa e del fatto che attraverso di essa si può condizionare l’opinione pubblica. Per questo si rende opportuno che si sappia a chi appartengono le testate giornalistiche, o comunque, come esse si finanziano, per conoscere chi, attraverso la stampa, può proporsi di incidere sull’opinione pubblica.
Il discorso potrebbe essere allargato alle problematiche che i mezzi di comunicazione di massa (e in particolare la televisione) pongono in una democrazia. La capacità di condizionamento e manipolazione dell’opinione pubblica che è insita nella particolare efficacia persuasiva di questi mezzi ha sempre fatto sì che essi siano accompagnati dalla preoccupazione che nella loro disciplina sia garantito un tasso qualificato di pluralismo (nessuno,privato o pubblico operatore, deve “monopolizzare” i mezzi di informazione o avere all’interno di essi una posizione dominante). Su questo tema, che in particolare, nel nostro paese, ha portato con sé numerosissime decisioni della Corte costituzionale e una frequente modificazione della legislazione vigente, ci limiteremo a riportare queste osservazioni del costituzionalista A. Cerri, 437, che sono piuttosto asciutte, ma molto precise: “Il possesso dei mezzi di diffusione di massa può apparire non più momento di libertà, sebbene il presupposto di un potere, quello di conformare l’altrui opinione. Qualcosa di simile emerse anche nella democrazia ateniese, quando l’arte retorica ad un certo punto venne intesa come potere di influenzare e di assimilare le altrui opinioni: figlia della democrazia sembrò trasformarsi in un vincolo di demagogia e quindi di tirannide. La nostra Corte afferma un principio di pluralismo informativo per conseguire una informazione completa (pluralismo esterno, come esistenza di una pluralità di reti informative; pluralismo interno, come accesso, all’interno della singola rete informativa, di punti di vista diversi). Il pluralismo è qualcosa di diverso (come accenna a dire la Corte) dalla concorrenza, appunto perché esige che ogni opinione irriducibile alle altre possa trovare sufficiente modo di manifestarsi e non solo le opinioni che coprono i costi del mezzo espressivo”.
Diritto di voto
Diritto di associazione in partiti politici
I diritti politici sono disciplinati all’interno del titolo IV della parte prima della Costituzione, “Rapporti politici”.
Abbiamo appena visto che numerose libertà civili, come la libertà di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero, di stampa, sono dotate di evidente significato politico, ossia della capacità di operare come strumenti per la formazione dell’opinione pubblica e per l’espressione di giudizi e di indirizzi nei confronti dell’operato degli organismi di governo. Vi sono dunque molte libertà che hanno rilievo e significato politico, ma ciononostante l’espressione diritti politici viene utilizzata con riferimento solo ad alcune specifiche forme di libertà, quelle che hanno una finalizzazione diretta e specifica alla formazione degli organismi rappresentativi e alla incisione sul loro operato, ovverosia il diritto di voto (art. 48), del quale abbiamo già parlato nella prima parte del nostro corso di lezioni, e il diritto di associazione in partiti politici (art. 49).
E’ importante tener conto che i diritti politici in senso stretto sono capaci di assicurare l’esistenza di una democrazia reale e funzionante solo se accompagnati, per così dire immersi, in un tessuto funzionante di libertà civili. Se è molto difficile che un sistema senza elezioni e senza partiti funzioni effettivamente come una democrazia, è anche vero che un sistema nel quale si svolgono elezioni e qualche lista si presenta, ma non esistono organi di informazione liberi e pluralisti, associazioni, momenti vitali di espressione dell’opinione pubblica, non è una democrazia, ma solo il simulacro o il fantoccio di una democrazia, perché, in quel caso, elezioni e partiti si sovrappongono a realtà sociali che rimangono silenti, estranee, passive e pertanto quantomeno manovrabili. Molte cd. democrazie di importazione, erette da un giorno all’altro, magari dopo una guerra, su sistemi politici già autoritari, oppure retti da regole giuridico-politiche loro tradizionali e diverse da quelle occidentali (si pensi a paesi nei quali resistono assetti cetuali di tipo tribale), presentano questo carattere.
Per tornare alla nostra Costituzione, il diritto di associazione in partiti politici, che è una forma della più ampia libertà di associazione, è riconosciuto a tutti i cittadini, e la finalità della libertà in discorso è descritta dall’articolo 48 in questi termini: “per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale”.
Il “metodo democratico” è anche un limite alla liceità dei partiti politici, ma non è un limite ideologico, cioè riferito al contenuto del programma politico di cui un partito può farsi portatore. “Per quanto eversiva dell’ordine costituito possa essere una concezione ideologica, il partito che se ne faccia portatore ha piena cittadinanza, purché l’attività che esso svolge risulti rispettosa del metodo democratico, ossia delle regole che in democrazia disciplinano la lotta politica (divieto dell’uso della violenza, accettazione della logica propria di un sistema rappresentativo, basato sui meccanismi elettorali, e così via). Non è stato, dunque, introdotto dal Costituente alcun limite riferito ad un obbligo di fedeltà ai valori sottostanti l’ordine costituzionale esistente, come invece è avvenuto in altre Carte costituzionali, come nell’art. 21 della Costituzione tedesca, che all’espressa previsione di tale limite di fedeltà ai principi costituzionali accompagna l’affidamento alla Corte costituzionale del compito di sanzionarne le eventuali violazioni con lo scioglimento e la confisca dei beni del partito” (Caretti, De Siervo, 464).
Non esistono, dunque, da noi “partiti antisistema”: l’unico limite ideologico è quello contenuto nella XII disposizione finale della Costituzione (divieto di ricostituzione del partito fascista) e, come la giurisprudenza costituzionale ha spiegato, questo limite colpisce solo quelle formazioni politiche che si pongano come esplicito e centrale obiettivo quello di far rivivere le finalità e i metodi del partito nazionale fascista (in forza di questo divieto fu sciolta, negli anni ’60, la formazione politica neofascista “Ordine nuovo”).
Diritti del lavoratore
Diritto all’istruzione
Diritto alla salute
Con l’espressione “diritti sociali” si designano i diritti il cui contenuto consiste nell’aspettativa a ricevere una prestazione da parte dello stato o degli altri soggetti pubblici. I diritti sociali si rivolgono al riequilibrio di situazioni svantaggiate, alla realizzazione di condizioni di uguaglianza sostanziale e, pertanto, appartengono alla fase storica dello stato sociale. Essi possono essere considerati come applicazioni specifiche del disposto generale dell’art.3 comma 2 Cost.
I principali diritti sociali riconosciuti nella nostra Costituzione, e che prenderemo in considerazione anche qui, sono il diritto al lavoro (o, potremmo dire meglio, i diritti del lavoratore, specialmente il diritto alla retribuzione, ma anche il diritto alla assistenza e alle varie forme di previdenza), il diritto alla salute e il diritto all’istruzione. Altri diritti sociali previsti nella nostra Costiuzione sono il diritto alle agevolazioni economiche per la formazione della famiglia e pe le famiglie numerose, il diritto alla protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù (art.31 commi 1 e 2); il diritto dei non abbienti a che siano loro assicurati i mezzi per agire e per difendersi in giudizio (art.24 comma 3). Bisogna precisare che, come viene osservato per es. da A.Pace, 147 nota 191, il diritto del lavoratore a una retribuzione equa e sufficiente, siccome non si caratterizza come diritto alla erogazione di prestazioni positive di natura pubblicistica, non rientrerebbe in una rigorosa definizione di diritto sociale (se questa deve coincidere coi soli diritti a ricevere prestazioni da parte dei soggetti pubblici). Qui si predilige l’opinione secondo cui il diritto alla retribuzione, in quanto ricollegato ad un insieme di altri, che nel loro complesso tendono a costituire equi rapporti sociali e istituiscono una visione emancipativa del ruolo del lavoro e dei lavoratori della società, fa a pieno titolo parte dei diritti sociali.
Il modo in cui la nostra Costituzione considera il lavoro merita una attenzione particolare. E’ una posizione di rilievo, che risalta se si tiene conto che la proclamazione per cui l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro apre la Costituzione o del fatto che l’art. 4, che proclama il diritto al lavoro, trova collocazione tra i principi fondamentali della Repubblica, insieme a principi antichissimi e prestigiosissimi come il principio di uguaglianza, impegnando la Repubblica (oltre a non adottare alcun provvedimento che trasformi il diritto al lavoro,e cioè il diritto a svolgere un lavoro di propria scelta, in un obbligo a lavorare) all’adozione di politiche orientate al massimo ampliamento delle possibilità di lavoro dignitoso.
Per quanto possa sembrare sorprendente e paradossale, dato che è molto comune sentir dire che la Costituzione sta in contrapposizione al fascismo, essa invece, come era del resto inevitabile, perché nulla nasce dal nulla e nel nulla, è percorsa dalla complessa eredità del fascismo, dal rapporto con una eredità difficile ma pur sempre una eredità. Talvolta il rapporto con quella eredità si esprime con un segno netto di condanna (come quando la Costituzione fa oggetto di esplicito divieto pratiche che erano state abituali del regime: v. il divieto di limitare il diritto di circolazione e soggiorno per motivi politici, art. 16; o il divieto di privare qualcuno della cittadinanza o del nome per motivi politici, art. 22).Altre volte,il rapporto con il passato si esprime in un modo più articolato e sottile,con l’introduzione di elementi significativi di discontinuità all’interno di una certa continuità di discorso. La considerazione che il lavoro riceve nella nostra Costituzione è uno dei momenti in cui il rapporto con l’eredità politica e culturale del fascismo assume le forme di questa continuità rotta da una significativa discontinuità, una significativa discontinuità nella quale si esprime l’essenza dell’identità repubblicana.
Il periodo fascista assegnò una enorme importanza al lavoro (né si deve dimenticare che il movimento fascista, che avvertiva se stesso come una “rivoluzione”, al suo nascere raccoglieva anche personalità che erano impegnate nel mondo sindacale, sensibili ad esigenze di trasformazione della realtà sociale del paese); tant’è vero che il nostro codice civile, emanato nel 1942, e cioè verso la fine del regime, ma i cui lavori preparatori si protrassero per alcuni anni prima di quella data, fu il primo codice civile emanato in Europa a contenere un libro, cioè una sezione, dedicata al lavoro. In realtà, il contenuto di quel libro era soprattutto rappresentato dalla disciplina dell’impresa, dell’azienda, delle società commerciali, e, infine, del rapporto di lavoro; così stando le cose, la scelta di intitolare il libro “Del lavoro”, anziché “Dell’impresa e delle società commerciali”, come sarebbe stato coerente coi suoi contenuti (non a caso quel libro del codice rappresenta la principale ossatura della materia che si studia come “Diritto commerciale”), aveva una precisa portata ideologica, che rifletteva in tutto e per tutto le mentalità del regime, il tipo di immagine della società che esso costruiva e mediante la quale esso si voleva legittimare. Quello il regime fascista voleva, era raffigurare il mondo produttivo e il suo cuore, l’impresa, come un mondo nel quale non si agitavano conflitti e interessi contrapposti (quelli di chi dà il suo lavoro salariato e quello di chi di quel lavoro si appropria per trarne un profitto), ma, al contrario, come un mondo unificato, solidale, collaborativo, nel quale sia l’operaio sia il datore di lavoro, o imprenditore, sono uniti da comuni responsabilità, da comuni obiettivi, che erano raffigurati nel progresso economico della Nazione (infatti una delle disposizioni del codice prevedeva anche una specie di responsabilità dell’imprenditore che si rendesse colpevole di avere gestito male la sua azienda, di aver nuociuto agli interessi della produzione; e non è un caso, probabilmente, che la condizione giuridica del fallito fosse, nel codice, durissima, dato che l’imprenditore fallito è quasi un uomo sotto tutela e che perde alcuni fondamentali diritti, e tale è rimasto anche per lungo tempo in epoca repubblicana e, in parte, sino ad oggi).
Il “lavoro” era sia quello dell’imprenditore, sia quello dell’operaio o del dipendente; entrambi venivano gratificati della sublime soddisfazione di essere utili al bene comune; con questi messaggi, facendo pensare che nella comune grande famiglia dell’impresa tutti sono uguali, il regime intendeva proporre una ideologia che si contrapponeva a quelle che invece facevano perno sulla lotta di classe e che si temeva potessero rompere le basi sociali del consenso intorno al regime. Peccato che se il giudizio di responsabilità per l’imprenditore non fu mai applicato, le leggi che qualificavano lo sciopero come reato lo fossero (e come!), insieme a quelle che vietavano l’associazione sindacale.
Ma non solo il libro del lavoro testimonia dell’attenzione del regime verso la raffigurazione del lavoro come componente di fondo per la costruzione del consenso intorno a sé; fin dal 1927 l’emanazione della Carta del lavoro – un documento normativo e programmatico che esprimeva gli obiettivi del fascismo nel campo sociale - aveva voluto raffigurare che il mondo produttivo (quel mondo in cui padroni e salariati sono raffigurati come eguali membri di una grande famiglia) stesse al centro delle “paterne” preoccupazioni del regime.
Questi dati ci aiutano a capire come, per chi aveva una trentina o quarant’anni nel 1946, anno in cui iniziarono le attività dell’Assemblea Costituente, il lavoro era un tema centrale di riflessione, un catalizzatore di attenzione, una idea centrale con la quale si era cresciuti, come oggi siamo cresciuti con la globalizzazione, la “sicurezza” e il “terrorismo” e la “biotetica”. Che si fossero condivise le ideologie del regime, che ci si fosse o meno “pentiti” in un secondo tempo; o che si fosse invece sempre stati consapevoli del loro carattere manipolatorio, restava che l’attenzione al lavoro aveva fatto inevitabilmente parte della riflessione e dell’educazione di ciascun intellettuale e uomo politico dell’epoca.
Per schiarirci il senso della considerazione del lavoro nella nostra Costituzione è doveroso dunque tener conto che il richiamo al lavoro fu una ri-elaborazione, una elaborazione in chiave nuova di un tema che in quel momento era storicamente centrale. Lo spirito antifascista (la dis-continuità rispetto al passato fascista) della Costituzione consistette nel conservare il valore del lavoro ma di depurare i riferimenti al lavoro da ogni atteggiamento manipolatorio e paternalista, che volesse negare l’evidenza per cui il lavoro, il rapporto di lavoro, è anche un momento di squilibrio, una possibile fonte di sfruttamento. La Costituzione volle conservare il valore del lavoro come strumento per conquistarsi una vita socialmente dignitosa, ma si rifiutò di dipingere il rapporto di lavoro come un idillio collaborativo. Con il coraggio che fu tipico della stagione del secondo dopoguerra, la Costituzione non volle costruire una immagine risolta, ideale, unificata della società. Essa sa che nella società ci sono squilibri, differenze, ingiustizie e sa che di questo insieme di problematiche il lavoro è un momento possibile di emersione. E per questo motivo a essere tutelato è il lavoratore, la persona concreta che dà il suo lavoro, contrapposta a chi dei frutti del lavoro si appropria, e non, come era piaciuto al fascismo, il lavoro, la figura astratta nella quale i diversi e contrapposti interessi di chi offre il proprio lavoro e di chi lo sfrutta si stemperano.
Se una delle fonti della considerazione del lavoro nella nostra Costituzione è il ripensamento della eredità lasciata dalla riflessione e dalla attività del fascismo intorno al lavoro, l’altra fonte è da ricercare nel tipo di mondo del lavoro che a quell’epoca di fatto esisteva, un mondo fatto ancora sia di lavoro agricolo sia di quel tipo di lavoro industriale che è uso definire “taylorista” o “fordista”; un mondo del lavoro che si incentra nella fabbrica e nella catena di montaggio, e che ha per protagonista l’operaio da un lato e il “padrone” dall’altro, che i modi della produzione fissano in modi sociali, stili di vita, quartieri della città perfettamente distinguibili e visibili.
La prospettiva con cui la Costituzione guarda il lavoro è, dunque, almeno triplice: il lavoro è uno strumento per realizzare una vita dignitosa; il lavoro è un luogo di potenziali conflitti, di sicuro squilibrio di potere contrattuale, e, perciò, espone una persona al rischio dello sfruttamento, dunque il lavoratore deve essere tutelato; il mondo del lavoro che la Costituzione tiene presente è il mondo della fabbrica o il mondo agricolo.
Oggi, il mondo del lavoro, i modi della produzione, i ruoli che nel lavoro si rapportano, sono profondamente cambiati. La figura tradizionale dell’operaio, del lavoratore subalterno, scarsamente alfabetizzato, che si reca in fabbrica e vi passa otto ore al giorno dopodiché orienta i suoi consumi in un modo caratterizzato assai diversamente da quello di chi esercita professioni liberali o è imprenditore (es.:mai un viaggio,mai una vacanza all’estero), ha lasciato il posto alla diffusa figura del lavoratore del settore terziario o dei servizi, un lavoratore cui si richiede un certo grado di conoscenze intellettuali (inglese, informatica), che spesso lavora a casa o anche a casa collegandosi al suo computer, che si proietta in un universo dei consumi, nel mercato, con gusti e capacità di acquisto del tutto simili a quelle di altri (telefonino, macchina, vacanze, vestiti…), e che però si trova spesso in una situazione di incertezza quantomeno sulla stabilità del proprio impiego e del proprio reddito. I cambiamenti del modo del lavoro rendono strane, e forse inefficaci, certe garanzie che la costituzione si è preoccupata di fissare (che la giornata lavorativa abbia un massimo fissato per legge è una pretesa un po’ rigida in un mondo nel quale si lavora spesso a casa propria; le “ferie annuali retribuite” una soluzione quantomeno non sempre applicabile quando il lavoro si presenta nella forma di contratti trimestrali o semestrali); ma le esigenze di garanzia restano (avere un “tempo libero” per sviluppare propri interessi, per pensare a sé, nella certezza della stabilità del proprio posto di lavoro; avere un reddito che garantisca una vita dignitosa).
Sotto questo profilo,e cioè come indicazione che garanzie per il lavoro vi siano, la Costituzione rimane vitale; anche se è un compito dei nostri tempi quello di individuare le garanzie adatte ed efficaci ad un mondo del lavoro trasformato.
Nel senso che la Costituzione tenga presente, allorché pensa al lavoro, soprattutto il mondo della fabbrica o il mondo agricolo si ricevono segnali in tal senso per esempio dall’art. 35, che si apre con l’espressione “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni” e nel corpo del quale è chiaro, anche tenuto conto del tenore delle espressioni successive (che fanno riferimento alla formazione ed elevazione professionale “dei lavoratori” o alla libertà di “emigrazione”), che tutelato è il lavoro in quanto bene offerto da chi, per usare una antica terminologia, “vende” la propria forza-lavoro, e non ha molto altro di che vivere.
Il perno dei diritti del lavoratore è racchiuso nell’art. 36. Questa disposizione stabilisce che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa. La disposizione impegna inoltre la legge a fissare la durata massima della giornata di lavoro e pone il diritto, irrinunciabile, del lavoratore al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite. Sono importanti garanzie, che rivelano la piena consapevolezza dello squilibrio di forze esistente nel rapporto di lavoro e che scelgono di dichiarare quello squilibrio ponendosi a tutela della parte debole, cioè del lavoratore. Infatti, quella secondo cui deve essere la legge a fissare la durata massima della giornata di lavoro e quella secondo cui il lavoratore non può rinunciare alle ferie e al riposo settimanale sono precisazioni che si spiegano tenendo conto che, altrimenti, dato lo squilibrio di forze che c’è nel rapporto di lavoro, il lavoratore potrebbe facilmente essere spinto ad accettare un orario troppo lungo, e come tale nocivo quantomeno alla salute, e a rinunziare alle ferie.
L’esigenza di proteggere il lavoratore torna nell’art. 38 comma 2, diritto all’assistenza sociale ( I lavoratori hanno diritto a che siano preveduti ed assicurati mezzi, adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria; compiti ai quali, come alla tutela delle persone inabili al lavoro, provvedono, ferma restando la libertà della assistenza privata, “organi o istituti predisposti o integrati dallo stato”).
La consapevolezza dichiarata del carattere conflittuale delle relazioni del mondo del lavoro è espressa poi nella disposizione (art. 40) che riconosce il diritto di sciopero (punito come reato dal fascismo) e che riconosce la libertà (art. 39) di dare vita a sindacati (vietati dal fascismo).
Le disposizioni sui diritti del lavoratore sono inserite nel titolo III della parte prima della Costituzione, che si intitola “Rapporti economici” e che prosegue con la disciplina della iniziativa economica privata, e della proprietà, che sono tradizionalmente indicate come le “libertà economiche”. Le disposizioni dedicate a questi istituti sono anche il cuore di quella che si usava definire la “Costituzione economica” cioè la parte della Costituzione dedicata a disciplinare i rapporti economici.
Il fatto che né la libertà di iniziativa economica privata, né il diritto di proprietà vengano annoverati tra i diritti civili, tra le fondamentali libertà individuali, e il tipo di disciplina che, come vedremo, la Costituzione offre di queste libertà, hanno spinto molti interpreti in passato a evidenziare che la libertà di impresa e la proprietà non riceverebbero, dalla Costituzione, lo status di libertà fondamentali, di diritti assoluti dell’individuo.
Vediamo intanto la disciplina.
Secondo l’art.41 l’iniziativa economica privata è libera ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La disposizione, nel secondo comma, prevede anche che la legge possa determinare i “programmi e controlli” opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Secondo l’art. 42 la proprietà è pubblica o privata e la proprietà privata “è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento, e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
Un terreno normativo di questo genere è quello che autorizza il legislatore a imporre per legge l’adozione di misure di sicurezza dei luoghi di lavoro (sicurezza); a vietare controlli sulle opinioni politiche o sulle condizioni di salute o sugli orientamenti sessuali dei suoi dipendenti (dignità e libertà); a adottare pur costose misure antinquinamento (utilità sociale); ma anche a pianificare lo sviluppo economico, ad esempio incentivando la collocazione di imprese in aree “depresse” del paese; ad adottare norme edilizie che impediscono di farla del tutto da padroni in casa propria costruendo un palazzo di venticinque piani in prossimità di una deliziosa spiaggia. In altri termini, le disposizioni che consentono di incidere sull’utilizzo egoistico della libertà di iniziativa economica privata e della proprietà privata, mentre riconoscono l’essenziale funzione di queste libertà prendono atto del loro potenziale lesivo e aggressivo di altri beni.
Sta appunto in ciò la differenza che intercorre tra lo statuto delle libertà economiche da quello delle libertà civili: mentre queste ultime sono disegnate come assolute, come non finalizzabili a obiettivi ulteriori e anzi, al contrario, sono valorizzate in quanto siano anche critiche e oppositive rispetto allo stesso ordine costituito (si pensi alla libertà di manifestazione del pensiero, che è valorizzata in quanto nei suoi liberi itinerari conduce alla messa in discussione di tutto e alla prospettazione di mondi nuovi), la libertà di iniziativa economica privata e il diritto di proprietà vengono riconosciuti, ma viene anche affermato che i loro modi di esercizio possono essere regolamentati dall’esterno, dalla legge, dal diritto, in modo che quelle libertà possano servire a dei fini che, evidentemente, sono considerati più importanti (l’utilità sociale, i fini sociali) o in modo che esse non possano offendere beni e interessi che, nell’ottica di valorizzazione della persona umana che è propria della Costituzione, sono assolutamente prioritari (libertà, dignità, sicurezza umana).
A condurre il Costituente ad operare questo tipo di scelte erano, di nuovo, una tradizione culturale che bene o male aveva già posto l’accento sulla responsabilità sociale dell’impresa e della proprietà,ma soprattutto l’idea, tipica del clima storico che presiedeva all’epoca della redazione della Costituzione, che lo stato dovesse dotarsi degli strumenti per indirizzare e coordinare (seppure non per dirigere in modo autoritativo!) lo sviluppo economico, in modo da prevenirne i possibili squilibri e da valorizzarlo come strumento per il raggiungimento di più equi rapporti sociali.
Si tratta di un clima culturale ben lungi dall’aver contrassegnato solo il nostro paese! Per convincersene, basta leggere il tenore dell’art. 14 della Costituzione della Germania: “La proprietà e il diritto ereditario sono garantiti. Contenuto e limiti vengono stabiliti dalle leggi./La proprietà impone degli obblighi. Il suo uso deve al tempo stesso servire al bene della collettività.” Una disposizione che la Costituzione della Germania non ha avuto alcuna difficoltà a collocare tra quelle che riconoscono i Diritti fondamentali e che dunque ci rivela come, in una società contemporanea, non si nega nulla dell’importanza, della libertà e dell’ampiezza dei diritti della proprietà e dell’iniziativa economica, quando se ne sottolineano le alte responsabilità e i doveri non egoistici.
Nella previsione secondo cui “La scuola è aperta a tutti./L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi./ La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso” (art. 34) si esprime il diritto all’istruzione, diritto a ricevere gratuitamente una istruzione di base e a proseguire negli studi ove capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi.
Secondo l’art. 32 della Costituzione “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
II: I soggetti dei diritti costituzionali
Soggetti, cioè titolari,di diritti costituzionali possono essere sia singoli individui che gruppi o collettività di persone.
In questo paragrafo, vedremo che, a seconda del loro titolare, si distinguono:
Quanto ai diritti a titolarità individuale, bisogna tener presente che la nostra Costituzione, analogamente a come procedono molte altre, riferisce talvolta i diritti a “tutti” e talaltra a “tutti i cittadini”. Nel primo caso il titolare del diritto è ogni persona umana, anche se non legata allo stato da un rapporto di cittadinanza (Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, art. 19; Tutti hanno diritto di manifestare il loro pensiero, art.21); nel secondo vale evidentemente il contrario. Generalmente, sono riservati ai cittadini quei diritti che implicano una risonanza politica, cioè una possibilità diretta o indiretta di incidere sugli indirizzi politici del paese (vedi il diritto di riunione e di associazione; e, a maggior ragione, il diritto di voto o di associazione in partiti politici):gli stranieri sono generalmente esclusi anche da quei diritti l’esercizio dei quali può mettere in gioco alcuni interessi fondamentali dello stato, come il mantenimento dell’ordine pubblico (v. la libertà di circolazione e soggiorno, garantita ai soli cittadini).
Naturalmente, trattandosi, nell’eventualità, di ampliare e non di restringere le facoltà di una persona, il fatto che la Costituzione riferisca un diritto ai soli cittadini non impedisce al legislatore anche di riferirlo ai non cittadini, mentre, semmai, sarebbe illegittimo il contrario (che il legislatore riferisca ai soli cittadini un diritto riconosciuto dalla Costituzione a “tutti”).
Sul tema della titolarità dei diritti costituzionali incide anche l’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, perché alcuni almeno dei diritti dei cittadini sono oggi attribuiti, in base al Trattato comunitario, anche ai cittadini degli altri paesi membri della Ue (come il diritto di circolazione e soggiorno; sul punto,v. il par. VI di queste lezioni). Alla specifica condizione dello straniero (nozione da referirsi oggi ai soli cittadini di stati non membri della Unione europea) è poi riservata la disciplina posta dall’art. 10 Cost., il quale impegna l’Italia a regolamentare la condizione giuridica dello straniero “in conformità delle norme e dei Trattati internazionali” e che riconosce allo straniero “al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” il “diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
Nella nostra Costituzione il titolare dei diritti non è sempre e di necessità una singola persona, un singolo individuo. Diritti, speciali prerogative, tutele, sono riferite anche a entità collettive. Per esempio alle associazioni o istituzioni di culto (art. 20: “Iil carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica o forma di attività”: questa disposizione intende tutelare le associazioni e le istituzioni di culto nei confronti di una legislazione che volesse “render loro difficile la vita” imponendo vincoli e limiti eccessivi); le confessioni religiose (che secondo l’art. 8 hanno “diritto di organizzarsi secondo propri statuti”); la Chiesa cattolica (art. 7); la famiglia (art. 29: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” e (art. 31) ne agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione e l’adempimento dei compiti); il sindacato (quantomeno nella misura in cui quest’ultimo viene protetto dalla previsione di obblighi ulteriori rispetto a quelli ammessi dalla stessa Costituzione, art.39 comma 2). Si possono menzionare anche la ricerca e l’insegnamento (art.33, “L’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento”), dove la”ricerca” e l’ “insegnamento” sono termini che designano anche le istituzioni nelle quali queste attività, che godono di una libertà privilegiata di manifestazione del pensiero, si svolgono, oltre che le persone fisiche che quelle attività pongono in essere.
La tutela accordata a tutte queste istituzioni non deve stupire se si tiene presente che si tratta di altrettante formazioni sociali, e che queste ultime, in generale, sono riconosciute e protette dall’art. 2, che tutela anche i diritti dell’individuo all’interno di esse.
Nella scelta di riconoscere in generale il valore delle formazioni sociali, dei corpi intermedi tra individuo e stato e nella scelta, in particolare, di attribuire ad alcune tra le molte possibili formazioni sociali particolari prerogative e diritti, si coglie un aspetto molto importante dell’idea di rapporto tra individuo e stato che la nostra Costituzione accoglie: l’individuo non è solo davanti all’autorità e nella sfera pubblica, ma è inserito in contesti, nei quali svolge la sua personalità, ai quali appartiene, rivolge fedeltà, riceve connotazioni. E’, insomma, l’espressione profonda del pluralismo che percorre la nostra Costituzione e una espressione della consapevolezza che l’essere umano non è un concetto astratto ma un soggetto collocato in contesti (l’ homme situé) e che nessun contesto, tantomeno lo stato, è l’unico ambito di riferimento della vita umana.
I diritti o le prerogative che vengono riconosciuti a formazioni sociali, gruppi o soggetti collettivi quei diritti o prerogative sono anche definiti “garanzie di istituto”. Essi valgono anche a riconoscere, a garantire, a quella formazione sociale un certo status e significano che la Costituzione dà importanza a quella formazione sociale, ne vuole conservare l’esistenza.
Nella storia costituzionale, la prima costituzione contemporanea che ha riconosciuto le garanzie di istituto è stata la costituzione della Repubblica di Weimar, la Repubblica sorta in Germania dopo la fine del primo conflitto mondiale e caduta nel 1933 con l’avvento del nazismo.
In una Costituzione che sceglie di farsi garante di una gamma molto ampia di beni, compresi beni collettivi e immateriali come la cultura e l’ambiente (art.9 comma 2, “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione) occorre tener conto di un ulteriore livello di titolarità dei diritti, o,meglio, degli interessi costituzionali, oltre a quello individuale e di istituto, che è il livello degli interessi collettivi o diffusi. Si tratta degli interessi che si ricollegano a beni, come la qualità dell’ambiente, che, per loro natura, appartengono a tutti e a nessuno.
Il ruolo di tutelare gli interessi collettivi e diffusi spetta naturalmente alle diverse istituzioni che compongono la repubblica (lo stato, le leggi statali, le leggi regionali, gli interventi amministrativi statali e locali, ecc.) ma anche la società civile vi può essere direttamente coinvolta, si pensi alle molte associazioni il cui fine statutario, il cui obiettivo comune, è quello di tutelare l’ambiente, o gli animali,o il paesaggio, o i beni artistici (associazioni ambientaliste).
Oggi viene riconosciuto che le associazioni che si propongono di tutelare certi interessi diffusi o collettivi possano anche costituirsi come parte in un processo che sia volto ad accertare le responsabilità per danni all’ambiente o al paesaggio conseguenti a fatti dolosi o colposi (es.: inquinamento di fiume dovuta alla discarica abusiva di una o più fabbriche). Nel nostro processo, legato all’idea che possano sollevare azione o resistere in un giudizio solo i singoli, diretti titolari dei beni coinvolti, questa scelta ha rappresentato una grande novità, che, sia pure lentamente e faticosamente, ha potuto affermarsi anche grazie al riconoscimento dell’ambiente e del paesaggio come beni di rilievo costituzionale.
IV: L’efficacia giuridica dei diritti e delle libertà costituzionali
Essere titolari del diritto alla libertà personale significa, sul piano giuridico, la stessa cosa dell’essere titolari del diritto alla salute come diritto a ricevere cure gratuite?
No, non proprio.
In questo paragrafo vedremo che i diritti costituzionali possono atteggiarsi
come diritti soggettivi assoluti
o come diritti condizionati.
In genere, essi hanno efficacia sia “verticale” che “orizzontale”.
I diritti civili di libertà hanno di solito un contenuto forte che corrisponde a quello di diritti soggettivi assoluti: la loro semplice previsione in Costituzione basta a crearne la titolarità (la libertà di riunione spetta a tutti i cittadini, ciascun cittadino, per il solo fatto di esser tale, ha in pieno questa libertà) e, sempre grazie alla loro semplice previsione in Costituzione, questi diritti assegnano ai loro titolari tutte le facoltà che ne formano il contenuto e che determinano una responsabilità in chi non li rispetta o li viola.
Questa struttura, di diritti soggettivi, la cui titolarità in capo al soggetto è creata direttamente dalla Costituzione e che sono difendibili in giudizio, che spetta alle libertà civili, ci rende anche ragione del fatto che nel titolo dedicato ai diritti civili troviamo anche le disposizioni dedicate a riconoscere e disciplinare il diritto alla tutela giurisdizionale (art.24).
Ciò avviene non solo perché, a sua volta, il diritto alla tutela giurisdizionale, il diritto di agire in un processo per tutelare i propri interessi, diritti e beni, è un fondamentale diritto civile, ma anche perché la tutela giurisdizionale è la forma di tutela più classica e adeguata per i diritti soggettivi.
I diritti sociali o di prestazione sono invece di solito diritti condizionati, cioè diritti la cui messa in opera, la cui soddisfazione e, prima ancora, la individuazione del cui concreto titolare, richiede la interposizione del legislatore, richiede l’intervento di una legge che dia applicazione alla previsione costituzionale. Es.: la Costituzione prevede che debbano esserci borse di studio per gli studenti meritevoli ma privi di mezzi; per far funzionare questa previsione occorre una disciplina attuativa, il reperimento di fondi, l’individuazione dei livelli di reddito e dei livelli di merito che giustificano l’erogazione del beneficio e le forme di erogazione. Ecco che alla fine il titolare del diritto a concorrere per una borsa di studio saràcolui che vanti un reddito non superiore a un certo limite, mentre chi ha un reddito superiore non avrà il diritto.
In mancanza di questa interposizione del legislatore, normalmente, i diritti sociali non funzionano, non hanno neppure un titolare determinato (solo dei titolari potenziali) e, pertanto, non possono essere tutelati in via giurisdizionale (perché finché non sono titolare di un diritto, non posso nemmeno agire in un processo per tutelarlo!). Dare una misura di attuazione per i diritti sociali è, per il legislatore, doveroso, ma, al tempo stesso, è rimessa allo stesso legislatore la scelta sulla misura, l’entità del riconoscimento, una scelta che implica, tra l’altro, evidenti valutazioni economiche. La dottrina ha dunque sempre ammesso una certa gradualità nella attuazione dei diritti sociali, anche se ha al contempo sostenuto l’idea che i gradi di attuazione via via raggiunti dai diritti sociali non potessero più essere ritrattati, diminuiti.
Bisogna dire peraltro che questo condivisibile ordine di idee è stato espresso in contesti nei quali erano dominanti queste idee: che i soli soggetti cui competeva il dovere di attuare i diritti sociali fossero il legislatore e la pubblica amministrazione, e che i diritti sociali dovessero essere attuati in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Se il soggetto che attua i diritti sociali è uno solo (il legislatore, che dà i compiti alla pubblica amministrazione), è facile misurare se l’attuazione dei diritti sta avanzando o andando indietro, è facile utilizzare quel modo di ragionare, appena ricordato, per cui l’attuazione dei diritti è un processo graduale che non si deve interrompere e nel quale non si torna indietro. Oggi sono proprio i soggetti e i modi cui è affidata l’attuazione dei diritti sociali a essere stati trasformati, o ad essere in corso di trasformazione; intanto, vi sono ampie competenze dei vari e diversi enti locali; poi si è diffusa l’idea che gli stessi privati, ad esempio tramite le c.d. attività non profit (come le cooperative di servizi) e in forme di mercato, possano operare nel campo dei diritti sociali (un’idea che trova riconoscimento per es. nel tenore dell’art. 118 ultimo comma: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”); il tutto, nel diffondersi di una filosofia sociale che guarda con favore alla riduzione o allo snellimento delle strutture pubbliche. Dunque, resta vero che i diritti sociali sono diritti “condizionati”; al tempo stesso, è anche vero che la realtà che si profila è tale (per la molteplicità dei soggetti che operano nel campo dell’attuazione dei diritti e per il dominare dell’idea che anche le attività di servizio debbano essere in grado di sopravvivere in un’ottica di mercato, cioè finanziandosi coi propri ricavi), per cui l’antico ragionamento della “gradualità” nell’attuazione dei diritti sociali e della non ritrattabilità dei gradi di attuazione –idee che hanno fatto da tradizionale corollario e contrappeso alla idea di condizionalità dei diritti sociali – sono difficilmente applicabili.
Per altro verso, occorre tener presente che la corrispondenza diritto civile-diritto soggettivo; diritto sociale-diritto condizionato ricorre però solo di solito, o tendenzialmente, perché si danno consistenti ed importanti eccezioni.
Intanto, tutte le volte che una libertà, pur fondamentale negativa e civile implica l’ uso di mezzi che sono di là della disponibilità del singolo (perché cadono sotto la regolamentazione pubblica, o sono nella proprietà privata di qualcuno), viene meno la caratteristica di questi diritti, di essere immediatamente (= senza l’intermediazione di regole poste dal legislatore) esercitabili, e dunque la caratteristica di essere pieni assoluti e non condizionati. Basti pensare a questo: per manifestare il mio pensiero ho diritto di salire sul famoso sgabello in Central Park e mettermi a parlare; ma non ho nessun diritto di vedere pubblicato un mio articolo su un quotidiano, di apparire in televisione e nemmeno di fondare una impresa televisiva nuova (l’articolo dovrà essere accettato dal quotidiano, che è libero di non farlo; in televisione potrò andare se invitato; quanto ad aprire una nuova televisione, il fatto che con questo io possa arricchire il pluralismo televisivo non significa che lo stato o altri mi debbano fornire i capitali necessari ad avviare una impresa così costosa)
Viceversa, ci sono diritti sociali a efficacia immediata, come il diritto alla retribuzione equa e sufficiente, che può essere reclamato direttamente davanti al giudice nei confronti del datore di lavoro inadempiente.
Tutti i diritti costituzionali, a qualunque categoria appartengono, dispongono inoltre di una efficacia sia verticale (nei confronti dei pubblici poteri) che orizzontale (nei confronti di altri soggetti privati,nelle relazioni interprivate) e anzi, nonostante che, coi diritti civili, i diritti costituzionali siano nati per rispondere a esigenze di tutela verticale, vi sono diritti che spendono la loro efficacia soprattutto e tipicamente nel piano orizzontale (diritti dei lavoratori).
Infine, e anche se il profilo del problema dell’incidenza sul bilancio pubblico sia tradizionalmente sottolineato per i soli diritti sociali, tutti i diritti costano e sono condizionati nella loro effettività dalla possibilità e dalla volontà di investire su di essi. Tanto un diritto sociale come quello all’istruzione, che un diritto civile come quello alla tutela giurisdizionale, sono condizionati dall’impegno statale o pubblico nel reperimento di fondi per strutture e personale.
I diritti sociali mediante
Una “riserva di giurisdizione” ricorre in tutti i casi in cui la Costituzione vuole che la decisione sulla applicazione di un provvedimento incisivo su una libertà non sia rimessa alla autorità di pubblica sicurezza, dunque al potere esecutivo, ma alla autorità giudiziaria, con un atto motivato (possono fare eccezione parziale le ipotesi di urgenza, ma sempre quando la legge lo preveda e in casi tassativi: art. 13, 14, 21).
Una “riserva di legge” consiste nello stabilire che la legge sola, tra le diverse possibili fonti del diritto, può individuare i casi in cui una libertà può essere limitata (es., per quali comportamenti, integranti reato, vi è la conseguenza della limitazione della libertà personale). La riserva di legge può essere assoluta, relativa o rinforzata.
Una riserva di legge è assoluta quando l’intera disciplina della materia deve essere posta con legge e soltanto i dettagli più strettamente esecutivi, che implicano nessuna o una limitatissima valutazione discrezionale, possono essere posti con altri atti normativi, e cioè da regolamenti dell’esecutivo.Lo schema di una riserva assoluta contempla dunque: intera disciplina posta con legge e, al massimo, spazio per un regolamento governativo di esecuzione. Esempio di riserva assoluta: art. 13, art. 14.
Una riserva di legge è relativa quando si ammette che la legge si limiti a porre la disciplina generale, ma questa disciplina può essere completata con atti secondari dell’esecutivo, cui sia lasciato un margine di valutazione relativamente ampio. Es., l’art. 97 comma 2 Cost.
Una riserva, sia assoluta, sia relativa, può essere rinforzata. La riserva è rinforzata quando la Costituzione non solo prescrive che la legge debba, in tutto o in parte, disciplinare la materia,ma indica anche i fini, i casi, i modi in cui la deve disciplinare (es., art. 16, la legge può limitare la libertà di circolazione e soggiorno solo per motivi di incolumità e sicurezza).
Nella nostra Costituzione le riserve di legge compaiono anche fuori dal campo della disciplina dei diritti di libertà. Nelle intenzioni dei nostri Costituenti, tutte le riserve di legge dovevano essere assolute; potevano essere assolute e rinforzate, ma certo i Costituenti non pensavano alla figura della riserva relativa, che è un po’ una contraddizione in termini e che si è affermata in forza di interpretazioni della dottrina e della Corte costituzionale (che hanno ammesso, in certe materie, un intervento dei poteri regolamentari del governo più ampio che in altre) per motivi di praticità, per non vincolare la disciplina di una gamma ampia di materie come quelle coperte da riserva di legge all’effettivo puntuale e particolareggiato intervento della legge. L’area della riserva assoluta si è così ristretta, grosso modo, al campo delle libertà civili fondamentali. Anche noi, adesso, per fare un esempio di riserva relativa siamo andati a cercarla fuori dalla disciplina costituzionale delle libertà, in quanto abbiamo richiamato l’art. 97 comma 2 che è la disposizione sulla organizzazione e il funzionamento dei pubblici uffici.
Sempre per motivi di praticità, è stato ammesso, sin dai primi passi della esperienza repubblicana, che la riserva di legge sia soddisfatta non solo dall’intervento della legge ordinaria, votata dal Parlamento, ma anche dall’intervento degli atti con forza di legge (decreto delegato e decreto legge). Anche in questo caso, l’intenzione dei Costituenti era sicuramente opposta. Il senso delle riserve di legge si capisce infatti solo se si guarda alla natura della legge. Questo atto è votato dall’unico organo direttamente rappresentativo del popolo, il parlamento; perciò, la legge può essere anche intesa come l’atto col quale il popolo vota, indirettamente, una limitazione dei propri diritti. Inoltre, la legge è frutto di un procedimento ampio e dibattuto, nel quale si confrontano maggioranze e opposizione il che la rende più garantista, per le minoranze, che non gli atti con forza di legge del governo, i quali sicuramente rappresentano i soli interessi della maggioranza.
Tuttavia, il fatto che il governo eserciti i suoi poteri normativi primari o su autorizzazione preventiva delle Camere (d.delegato, che si fonda sulla legge di delegazione) o a condizione di una convalida parlamentare (d.legge, che, se non viene convertito in legge, perde efficacia ed è come se non fosse mai esistito) hanno offerto argomenti per sostenere che anche questi atti potevano soddisfare una riserva di legge, in quanto sono comunque sottoposti, nel nostro sistema, a controlli del Parlamento, che dunque rimane centrale nella disciplina di queste materie.
Bisogna prestare attenzione al fatto che quando la Costituzione istituisce una riserva di legge essa stabilisce che il legislatore ha il potere, ma anche il dovere di disciplinare la materia (il legislatore deve adempiere la riserva e non rimettere la disciplina della materia ad altri soggetti); inoltre, la riserva di legge, piuttosto che suonare come una abilitazione per il legislatore, è un limite nei suoi confronti (es.: il legislatore deve fissare in modo tassativo i casi in cui è ammesso l’arresto in flagranza; può limitare la libertà di circolazione e soggiorno solo per motivi di sanità e sicurezza).
In altri termini, le riserve di legge individuano nella legge sia uno strumento di garanzia (tra le diverse fonti del diritto la legge e gli atti aventi forza di legge sono prescelti come gli unici idonei a disciplinare e limitare le libertà perché essi sono gli unici atti diretta o indiretta espressione dell’organo rappresentativo; sia pure con molta astrazione, si può vedere in essi una autolimitazione che il popolo sovrano fa dei propri stessi diritti), sia uno strumento che, a sua volta, come ogni espressione dei pubblici poteri, può potenzialmente attentare alle libertà,e, pertanto è autorizzato a intervenire in questo campo solo nel rispetto dei limiti costituzionali. In sostanza, il legislatore è l’unico autorizzato a limitare le libertà, ma, a sua volta, può farlo solo rispettando i limiti posti dalla Costituzione, e potendo incorrere in un giudizio di incostituzionalità se contravviene a quei limiti.
Nel caso dei diritti sociali, il soggetto chiamato ad attuarli è talvolta la legge, più spesso la Repubblica. Qui non ricorre lo schema rigoroso della riserva di legge ma piuttosto quello del rinvio alla legge nel senso lato di rinvio al diritto: questi rinvii hanno la funzione di incaricare e rendere doveroso al legislatore di attivarsi per attuare quei diritti.
Nei casi di rinvio alla legge il legislatore, inteso in senso lato (non solo Parlamento, ma anche Governo e altri centri normativi), e l’amministrazione sono intesi principalmente come gli agenti della attuazione dei diritti e non anche come i loro possibili attentatori, come invece avviene nel campo delle libertà civili. Del resto è logico: le libertà civili nascono per proteggere il singolo anche contro le possibili invadenze del potere pubblico, e della legge in primo luogo; i diritti sociali vengono soddisfatti attraverso l’attività del potere pubblico, mediante essa.
Il tema delle riserve di legge è destinato a conoscere nuovi sviluppi per effetto della recente riforma del titolo V.
Nel previgente sistema le Regioni avevano competenza legislativa solo in un certo numero di materie e si riteneva escluso che una legge regionale potesse dettare la disciplina di una libertà costituzionale o di diritti sociali, che non fossero espressamente attribuiti alla competenza regionale (il che accadeva per esempio nel campo della istruzione professionale, che era una materia di competenza regionale). Questo aveva anche come risvolto che la disciplina sia dei diritti civili e politici, che dei diritti sociali, si dovesse presentare uniforme nel territorio nazionale.Tutto ciò si basava sul meccanismo di attribuzione delle competenze legislative alle Regioni, il quale consisteva nella individuazione di un elenco di materie (contenuto, per le Regioni ordinarie, nel vecchio testo dell’art. 117 Cost.,e,per quelle speciali, nei rispettivi statuti, e nel quale comparivano, ad esempio: urbanistica, caccia e pesca, istruzione professionale, ecc.) al cui solo e determinato ambito si estendeva la capacità delle Regioni di emanare leggi. Oggi il meccanismo è rovesciato: la Costituzione contiene un elenco di materie riservate allo stato (art. 117 comma 2); un elenco di materie concorrenti (art. 117 comma 3), nelle quali sono competenti sia lo Stato che le Regioni (le quali porrano le loro discipline legislative nell’ambito dei principi fondamentali determinati dalla legislazione dello Stato); mentre per ogni altra materia sono competenti le Regioni (art. 117 comma 4).
La titolarità, in capo alle Regioni, di competenze legislative generali permette senz’altro che una riserva di legge possa essere soddisfatta anche da legge regionale, o sia da una legge statale che da una legge regionale insieme, in modo concorrente; ad essere decisiva in tal senso non è la semplice presenza della riserva di legge, ma la materia in cui la riserva cade. Secondo il giurista F.Pizzetti, “E’ dunque necessario prendere atto che ora, in virtù del nuovo testo dell’art. 17, la stessa ‘riserva di legge’, tradizionalmente intesa essenzialmente e prevalentemente come riserva di legge statale, è divenuta in primo luogo ‘riserva di potestà legislativa’”. E siccome la potestà legislativa spetta, con pari dignità, sia allo Stato che alle Regioni, “questo istituto, si rivolge, per sua stessa natura, sia alla legge statale che a quella regionale, a seconda dell’ambito di competenza dell’uno o dell’altro legislatore”.
Il nuovo testo dell’art. 117 non menziona le singole libertà costituzionali, ma interi complessi di materie. Pertanto, la soluzione del problema di quale dei due legislatori possa o debba attuare una certa riserva di legge va ricercata individuando quali libertà (o quali profili della disciplina delle singole libertà) rientrano nel complesso di materie facenti parte, oggi, della competenza esclusiva dello Stato, della competenza concorrente Stato-Regione o della competenza residuale regionale. Si impone una nuova modalità di interpretazione delle riserve di legge, di cui può essere utile un esempio.
Bisogna ricordare che l’art. 117, comma 2, lett. h) assegna alla competenza esclusiva dello Stato la materia “ordine pubblico e sicurezza”. Con questa dizione l’espressione ordine pubblico – da intendersi comunque come ordine pubblico materiale – fa il suo ingresso in Costituzione, ma l’espressione ha anche conseguenze sulla spettanza della competenza ad assolvere le riserve di legge riferite ad alcune libertà fondamentali. Osserva il giurista P. Bonetti che “la potestà legislativa esclusiva dello Stato nelle materie dell’ordine pubblico e della sicurezza comporta che spetta soltanto alla legislazione statale la disciplina legislativa concernente i limiti alle libertà costituzionali menzionati negli art. 14, 15, 16, 17 18 e 21 Cost., la definizione e i compiti dell’autorità di pubblica sicurezza menzionati negli artt. 13 e 14 Cost. e il limite della sicurezza posto dall’art. 41 Cost. alla iniziativa economica privata. Perciò la previsione delle materie dell’ordine pubblico e della sicurezza contenute nell’art. 117 comma 2 lett. h) consente di configurare tali limiti come coperti da una riserva di legge statale”.
La materia delle delle “comunicazioni” è invece inclusa tra le materie di potestà concorrente (art. 117 comma 3), il che fa ritenere che “la disciplina e i limiti della libertà di comunicazione prevista dagli art. 15 e 21 Cost. debba ripartirsi tra i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale e le norme delle leggi regionali” .
Novità si annunciano anche su un altro versante, quello che concerne l’uniformità sul territorio nazionale della attuazione dei diritti.
Centrale a questo riguardo è la disposizione dell’art. 117 comma 2 lett. m), che riserva allo Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Questa previsione è destinata a operare in tutti i casi in cui la soddisfazione di un diritto passi attraverso l’erogazione di una prestazione (come esempio di una prestazione atta a soddisfare un diritto civile, si pensi per es. al diritto alla tutela giurisdizionale dei non abbienti, che comporta l’erogazione del servizio “gratuito patrocinio”, = avvocato d’ufficio; come esempio di prestazione che soddisfa un diritto sociale si pensi al diritto alla salute, e alle prestazioni sanitarie), e introduce una possibilità di differenziazione quantitativa delle tutele specialmente nel campo dei diritti sociali. L’idea è che, con legge statale, siano fissati i livelli minimi delle prestazioni uniformi sul piano nazionale ma che, per il resto, ogni Regione possa differenziare le tutele. Per quanto non sia agevole definire che cosa debba intendersi per “livelli essenziali”, certamente “il riferimento all’essenzialità del livello sembra imporre al legislatore statale di non conculcare la libertà e la discrezionalità dei governi locali in misura da imporre sempre e comunque un esercizio uniforme delle prestazioni su tutto il territorio nazionale” (F. Pizzetti, 622).
Nel corso degli anni ’90 si è affermato nel nostro Paese una modalità di intervento e garanzia nei confronti di alcuni diritti che ci incentra sull’operato di una nuova figura, quelle delle c.d. Autorità indipendenti. Le Autorità indipendenti sono organismi collocati in una posizione di indipendenza rispetto ai pubblici poteri,e in particolare rispetto al Governo,e dotate dalla legge di un particolare “mandato”: quello di esercitare poteri “regolatori” e “giustiziali, e cioè di dettare regole, emanare giudizi ed erogare sanzioni in certi campi, nei quali sono in gioco libertà costituzionali e dove si muovono privati e pubblici operatori, campi che,per la loro delicatezza, sono sembrati richiedere un intervento specializzato e anche caratterizzato da una posizione di autonomia rispetto ai poteri di indirizzo politico. Si tratta dei settori della concorrenza, dell’uso dei dati sensibili, della regolamentazione delle televisione e dei mezzi di comunicazione.
Una importante figura di autorità indipendente è infatti,ad esempio, l’Autorità antitrust, o Garante della concorrenza, nata nel 1990,che ha il compito di sorvegliare sul rispetto delle regole della libera concorrenza da parte degli operatori economici e di contrastare, se del caso erogando sanzioni, le ipotesi di abuso di posizione dominante. Ad essere tutelata attraverso l’operato di questa Autorità è appunto la libertà di concorrenza, che, peraltro, non menzionata dalla nostra Costituzione ma è stata inserita tra i valori portanti del nostro ordinamento dal processo di integrazione europea (v. il paragrafo VI di queste lezioni). Il Garante per la Protezione dei dati personali è una Autorità istituita nel 1996 e dotata del compito di tutelare il rispetto della privacy, della riservatezza delle persone, con particolare riguardo ai nuovi mezzi di telecomunicazione (banche dati, internet, cellulari) che possono essere abusivamente utilizzati per invadere la riservatezza (invio di informazioni commerciali indesiderate via internet; uso delle banche dati per raccogliere, archiviare e utilizzare informazioni sulla salute, gli orientamenti sessuali, gli acquisti che una persona fa, col rischio che tutto ciò avvenga all’insaputa dell’interessato). Anche il Garante può dettare regole che si impongono agli operatori del settore e giudicare ricorsi che un soggetto, che veda leso un suo diritto alla riservatezza, proponga.
In questo paragrafo vedremo che la fonte dei diritti e delle libertà non è solo il testo costituzionale nella sua letteralità, ma il testo costituzionale per come esso viene interpretato dalla Corte costituzionale e dai giudici sotto l’influsso delle sollecitazioni che vengono dai casi concreti e dalle scelte del legislatore.
In questo modo si mantiene il contatto tra la Costituzione del 1948 e la contemporaneità.
Come si vede anche dagli ultimi rilievi ora svolti, il “catalogo” delle libertà costituzionali non è affatto rimasto cristallizzato e ibridato nel modo in cui il testo della Costituzione lo formula. Il corso del tempo modella i contenuti delle libertà e dei diritti, ne aggiunge di nuovi, introduce forse nuovi limiti. La Costituzione non menziona né la libertà di concorrenza né la riservatezza, eppure si tratta certamente di valori e interessi che il nostro ordinamento riconosce.
Il catalogo delle libertà costituzionali non si compone, dunque, soltanto delle libertà e dei diritti espressamente enunciati nel testo, ma anche di quei diritti e di quelle libertà che sono deducibili in via interpretativa dalle libertà espressamente riconosciute, considerate ciascuna singolarmente oppure lette l’una in connessione con altre, per trarne una comune finalità, un comune valore tutelato. Dal fatto che la nostra Costituzione riconosca l’inviolabilità del domicilio e un insieme di altri diritti riconducibili a una esigenza di tutela della vita privata (segretezza della corrispondenza; tutela della vita familiare), si deduce che essa riconosce anche un diritto alla riservatezza, alla privatezza, che il singolo può opporre, per esempio, al diritto di cronaca dei giornalisti, diritto che, a sua volta, non è espressamente menzionato in Costituzione ma si deduce dal riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero e dalla libertà di stampa. Oppure si pensi a come il riconoscimento della libertà di iniziativa economica venga oggi declinato anche in termini di “libertà di concorrenza”.
Una Costituzione si evolve in via interpretativa; ma da dove vengono le sollecitazioni che spingono a interrogare il testo e a “spremerne” nuovi contenuti? Queste sollecitazioni vengono dalla realtà, dai conflitti, dai bisogni e dalle invenzioni che si agitano nella realtà. Il diritto alla riservatezza può essere ancorato al diritto all’inviolabilità del domicilio, ma a spingere i giudici ad andare a cercare se un diritto alla riservatezza è deducibile dal nostro sistema sono i casi concreti, i casi in cui un singolo di fatto chieda tutela in nome di questo diritto, fino a quel momento nuovo o conosciuto solo attraverso le esperienze di altri ordinamenti. Racconta A.Cerri, 419, come, negli anni ’70, “Un noto settimanale aveva pubblicato un servizio fotografico nel quale venivano riprese effusioni affettuose tra la principessa Soraya Esfandari e un noto regista nella villa della prima. L’interessata aveva proposto azione risarcitoria per violazione del diritto all’immagine e alla riservatezza.La controversia, dopo alterne vicende, perveniva al giudizio della Corte di cassazione, che, nel riconoscere il fondamento giuridico della pretesa della parte, aveva così modo di affermare un generale diritto alla riservatezza”, che veniva argomentato sulla base dell’art.4 Cost. (inviolabilità del domicilio), 15 (libertà e segretezza della corrispondenza); 29 (vita familiare)”.
Sollecitazioni vengono poi dal piano della evoluzione normativa, dalla evoluzione del diritto vigente. Come vedremo nel paragrafo successivo, l’adesione del nostro paese alla Comunità europea ha inciso anche sul quadro dei valori costituzionali, mettendo l’accento su alcuni piuttosto che su altri o conducendo a interpretazioni nuove di figure antiche. La Comunità, dice il Trattato istitutivo, ha tra i suoi principi e obiettivi di fondo quello di una “economia di mercato aperta e in libera concorrenza”; questa finalità ha richiesto istituti e regole volte alla protezione della concorrenza nei mercati e ha introdotto una nuova sensibilità per i valori della concorrenza, tanto che la legge che nel 1990 ha creato l’Autorità antitrust afferma di porsi “in attuazione dell’art. 41 Cost.”. Questo articolo,però, non parla di concorrenza; è che la “libertà di iniziativa economica”, che esso menziona, viene oggi interpretata in strettissima connessione con la libertà di concorrenza e la stessa scelta della legge Antitrust di definirsi come legge che attua l’art. 41 si è inserita perentoriamente in questo processo.
Tutto ciò ci permette di svolgere qualche osservazione sul rapporto che intercorre tra il piano della Costituzione e quello della legge ordinaria (o,in generale,del diritto vigente) con riferimento alla costruzione delle libertà costituzionali, in modo da abituarci a una percezione di questo rapporto, che non sia troppo ingenua e semplificante.
Certamente, il primo e principale effetto che consegue alla previsione costituzionale di una libertà o di un diritto è che la legge che viola quel diritto o quella libertà possa essere considerata illegittima, e dunque annullata, con un procedimento che si svolge davanti alla Corte costituzionale.
Tuttavia sarebbe sbagliato pensare che il rapporto tra Costituzione, e diritti in essa riconosciuti, da un lato, e legge, dall’altro, sia un rapporto che si esaurisce in questa dimensione oppositiva per cui la legge viene in considerazione solo come l’atto che può aggredire le libertà, e che, come tale può essere annullato, e basta.
In verità, la legge è anche il piano che dà svolgimento e attuazione ai diritti o, quantomeno, dà loro un volto in concreto nei singoli tempi storici, nei singoli momenti, e, spesso, il compito di una Corte costituzionale o di un giudice supremo è quello non tanto di giudicare la legge dall’alto della Costituzione ma di elaborare percorsi interpretativi che mantengano vivo il contatto tra la Costituzione e le evoluzioni dell’ordinamento, in modo che le esigenze di garanzia costituzionale continuino a vivere, ma prendendo le forme che i nuovi contesti richiedono e consentono.
Negli anni ’80 la nostra Corte costituzionale è stata interrogata sulla legittimità di una legge allora recente, che riconosceva la possibilità di abortire nei primi tre mesi dal concepimento e in presenza di rischi per la salute fisica e psichica della donna. Che fosse stata emanata una legge di questo genere significava che nella nostra società erano avvenuti enormi cambiamenti,in particolare sotto il profilo della concezione del ruolo sociale delle donne; ed infatti questi cambiamenti erano avvenuti, ma continuavano a creare conflitti,discussioni e lacerazioni. La Costituzione non parla né di aborto né di embrioni; essa però riconosce certamente il valore della vita umana, afferma un principio di rispetto della personalità e un principio di dignità. La decisione fu condotta sul filo di questi principi, e la Corte ritenne che la legge, consentendo l’aborto ma solo nei primi tre mesi e solo col ricorrere di certe condizioni, operasse un ragionevole bilanciamento tra le esigenze di tutela della vita prenatale e le esigenze di tutela della libertà e della dignità della donna (altrimenti costretta a subire anche una gravidanza pericolosa o gravemente dannosa per il suo equilibrio).
Come in questo caso, chiamate a pronunciarsi su questioni che come tali non sono contemplate in costituzione, le Corti rispondono ricercando i principi di base che sono coinvolti nella questione loro sottoposta, e cercando di stabilire se quei principi trovano, o non, un equo contemperamento nella legislazione che è sottoposta al loro esame. In tal modo, si cerca di non chiudere il dialogo tra la Costituzione, che certamente è legata al tempo in cui fu scritta, e i tempi nuovi.
VI. Altri livelli di riconoscimento di diritti e i loro interscambi con la Costituzione repubblicana: LA TUTELA INTERNAZIONALE DEI DIRITTI DI LIBERTA’
Una fonte di trasformazioni e di innovazioni nel quadro delle libertà e dei diritti costituzionali è data dall’influenza, sul nostro diritto interno, della “dimensione internazionale” dei diritti di libertà.
Nel corso del secondo dopoguerra sono stati sottoscritti diversi accordi internazionali il cui contenuto è l’impegno, da parte degli stati firmatari, a rispettare alcuni diritti fondamentali della persona, che in quei documenti sono solennemente proclamati.
In questo paragrafo vedremo in che modo questi documenti hanno interagito e interagiscono col nostro ordinamento.
I documenti che prenderemo in considerazione sono
Il più celebre documento di riconoscimento internazionale di diritti è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’assemblea generale dell’Onu nel 1948.Questa Dichiarazione non è assistita da strumenti di tutela e di applicazione specifici.
Dotata di strumenti specifici di tutela è invece la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Cedu), sottoscritta nel 1950 dagli stati aderenti al Consiglio d’Europa, una organizzazione internazionale che riunisce una parte molto ampia dei paesi europei. La caratteristica più interessante e innovativa della CEDU è che essa non si limita ad enunciare dei diritti,ma crea un tribunale, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha sede a Strasburgo, che è competente a giudicare dei casi in cui uno stato firmatario della Cedu viene citato in giudizio da un cittadino per avere violato uno dei diritti riconosciuti dalla Carta stessa. Per poter adire la Corte europea, il privato deve avere preventivamente esperito tutti i rimedi giurisdizionali che nel suo paese sono previsti a tutela dei diritti (per esempio, un cittadino italiano, prima di poter agire davanti alla Corte europea, deve prima avere esperito tutti i gradi di giudizio, fino alla Cassazione). Se la Corte ritiene che effettivamente lo stato abbia violato uno dei diritti che la Cedu riconosce, essa ha il potere di condannare lo stato al risarcimento del danno, e, se possibile, alla eliminazione delle conseguenze della violazione.
Come già la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, anche la Cedu è stata ratificata in Italia con legge ordinaria, dunque non ha rango costituzionale e non ha modificato o integrato la Costituzione. Ciò non significa che essa sia del tutto irrilevante, anzi, al contrario, questo documento può incidere sulla interpretazione della Costituzione: è divenuto piuttosto frequente il caso in cui, se un diritto è riconosciuto sia dalla Cedu che dalla Costituzione italiana, la Corte costituzionale tenga conto anche della definizione offerta dalla Cedu per interpretare e schiarire il contenuto del diritto costituzionale.Per esempio, l’art. 19 della Cedu definisce il contenuto della libertà di manifestazione del pensiero come “diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”, una esemplificazione che può servire a rafforzare argomentazioni e interpretazioni rivolte a individuare la portata anche dell’art. 21 Cost.
Se la Dichiarazione del 1948 e la Cedu hanno in comunque l’essere state recepite in Italia col rango di legge ordinaria, ciò che differenzia le due dichiarazioni è dunque che solo la Cedu (e non la Dichiarazione universale) assicura al cittadino italiano, come al cittadino di ogni stato contraente, uno strumento integrativo e ulteriore di tutela rispetto a quelli che il diritto nazionale mette a sua disposizione. Questo strumento è rappresentato dalla attività della Corte europea di Strasburgo.
Anche i Trattati istitutivi della Comunità europea, la cui prima stesura risale agli anni ’50,ma che sono stati modificati varie volte nel corso del tempo, racchiudono la enunciazione di alcuni diritti riconosciuti in capo ai cittadini europei, e cioè ai cittadini di ciascuno degli stati membri. Questi diritti sono la libertà di circolazione, di stabilimento dei lavoratori e di prestazione di servizi all’interno degli stati membri (che assicura ai cittadini europei il diritto di circolare all’interno del territorio degli stati membri e di esercitarvi una attività lavorativa dipendente o una attività professionale autonoma) e il diritto alla parità di trattamento retributivo tra uomini e donne. La particolarità dei Trattati istitutivi è che essi riconoscono non un generale catalogo di diritti, ma solo alcuni diritti e libertà, come quelli che abbiamo appena ricordato, che sono legati a e strettamente funzionali al fine di realizzare lo scopo, in vista del quale la Comunità europea (già “Mercato unico”) si è costituita, e cioè lo scopo di costruire un mercato unico funzionante secondo i principi della libertà di concorrenza.
Mano a mano che la Comunità europea ha ampliato le proprie competenze e le proprie finalità essa ha peraltro prestato una sempre maggiore attenzione ai diritti e oggi, nell’ art. 6 del Trattato di Maastricht, che nel 1992 segnò il passaggio ad una fase più avanzata di integrazione, contrassegnata dalla nascita della Unione europea, si legge che “L’Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto,principi che sono comuni agli Stati membri./ L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri in quanto principi generali del diritto comunitario”.
Nel 2000 è stata votata dal Consiglio europeo di Nizza la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, un documento che esprime le principali libertà e i principali diritti nei quali l’Unione riconosce il proprio patrimonio giuridico e che essa si impegna a rispettare.
Il rispetto, da parte delle fonti del diritto comunitario (regolamenti e direttive) delle norme dei Trattati (tra cui quelle sulle libertà) e il rispetto, da parte del diritto statale, del diritto comunitario, è assicurato dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, che ha sede a Lussemburgo.Davanti alla Corte è possibile che siano convenuti i singoli stati membri, di solito per iniziativa di istituzioni comunitarie ma talvolta anche da singoli cittadini, i quali hanno, in particolare, il potere di adire la Corte per chiedere l’annullamento di un atto adottato da una istituzione comunitaria o da uno stato membro che abbia violato il Trattato e, nel caso dei cittadini, mediante questa violazione abbia provocato una lesione di uno dei diritti riconosciuti dal Trattato ai cittadini stessi.
Anche la Comunità, dunque, come la Cedu, ha un proprio tribunale, ma c’è una importantissima differenza che rende del tutto particolare l’esperienza della Comunità sia rispetto all’appartenenza dell’Italia all’Onu che al Consiglio d’Europa.
La principale differenza che intercorre tra i Trattati comunitari (e le libertà in essi sancite) e documenti come la Dichiarazione Onu o la Cedu, è che i Trattati comunitari (e il diritto comunitario “derivato”, ossia i regolamenti e direttive emanati dalla Comunità), ed essi soli, hanno efficacia immediata nell’ordinamento interno degli stati membri e godono di una posizione di primato, per cui tutto l’ordinamento interno è tenuto a rispettarli ed essi prevalgono anche sulle norme costituzionali con essi eventualmente contrastanti. Questa fortissima posizione di primato assiste tutto ciò che è contenuto nei Trattati e nel diritto comunitario secondario (direttive e regolamenti); non, dunque, la Carta dei diritti, che, non essendo stata inserita nei trattati, gode di una efficacia giuridica che per il momento è assai incerta, ma sicuramente non è quella, intensissima, delle norme dei Trattati europei.
Bisogna aggiungere che, mentre la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Cedu sono dichiarazioni che riepilogano un intero patrimonio di diritti occidentali (dalla libertà personale al diritto di riunione alla tutela dell’identità alla libertà di manifestazione del pensiero ad alcuni fondamentali diritti sociali), i Trattati, siccome sono nati per impegnare gli stati membri ad abbattere le barriere commerciali,a dar vita a un mercato comune nel quale valessero i principi della libera concorrenza (dove cioè le imprese dei singoli paesi membri potessero concorrere liberamente senza essere avvantaggiate o ostacolate da dogane o altre barriere giuridiche o economiche), essi danno un taglio tutto particolare alle libertà e ai diritti: infatti, come si è visto, i Trattati accolgono espressamente la libertà di andare a lavorare in un paese membro,ma non quella di manifestazione del pensiero, che, semmai, è recepita implicitamente tramite il rinvio dell’art.6 TUE alle “tradizioni costituzionali comuni”.
Questa particolarità può anche essere espressa con l’idea, che fa ormai parte delle chiavi di lettura più diffuse dell’esperienza comunitaria e delle trasformazioni da essa indotte negli ordinamenti degli stati membri, secondo la quale gli ordinamenti nazionali hanno oggi il carattere di “frammenti” (così Armin von Bogdandy, 275): gli ordinamenti nazionali e quello europeo costituiscono insieme un ordinamento a più livelli, “multilivello”, all’interno del quale gli stati hanno ormai competenze solo parziali. Questo particolare assetto non ha peraltro comportato una “divisione di competenze” tra organi giurisdizionali comunitari e organi giurisdizionali nazionali (una divisione di competenze in base alla quale, per esempio, quando si discute di libertà di stabilimento, è competente la Corte di giustizia; quando si controverte di libertà di manifestazione del pensiero restano competenti le Corti nazionali).Una simile divisione di competenze non poteva aver luogo per il semplice motivo che, nella maggior parte dei casi, i temi si presentano intrecciati: in una controversia che abbia ad oggetto una questione inerente la libertà di aprire una impresa televisiva in un paese membro sono coinvolte sia la libertà di stabilimento, sia la libertà di manifestazione del pensiero. Controversie che presentano questo intreccio di profili, che coinvolgono sia le libertà del Trattato che le libertà riconosciute dalle Costituzioni nazionali si sono presentate molto spesso e la Corte di giustizia le ha ritenute rientranti nella propria competenza, considerando prevalente, assorbente, il profilo in cui è coinvolta una libertà riconosciuta dal Trattato (nel nostro esempio, la libertà di stabilimento). Inevitabilmente, però, mentre, in un caso del genere, la Corte di giustizia decide di libertà di stabilimento, essa pone un precedente anche in tema di libertà di manifestazione del pensiero,e questa libertà, pur non essendo menzionata nei Trattati, viene per questa rimodellata sulle esigenze dell’ordinamento comunitario. E’ così che,pur essendo interprete del solo diritto comunitario (limitato a poche libertà), la Corte di giustizia ha posto una giurisprudenza che ha iniziato a incidere anche sulla interpretazione di tanti altri istituti, formalmente riconosciuti nei soli diritti nazionali.
Ciò è divenuto particolarmente evidente quando, nel 1992, nel Trattato sono state menzionate le “tradizioni costituzionali comuni”, il che legittima la Corte di giustizia a giudicare la legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie e degli stati membri sia alla luce delle libertà che stanno espressamente scritte nel trattato, sia alla luce del complesso del patrimonio costituzionale dei paesi membri.
Resta il fatto che siccome le controversie che vanno davanti alla Corte di giustizia si originano di solito dal modo in cui nei paesi membri viene attuato il diritto comunitario (recepimento di direttive, interpretazione di regolamenti) e questo diritto è prevalentemente orientato verso le finalità “regine” dell’integrazione comunitaria (libertà di concorrenza, libertà economiche), tutte le volte in cui la Corte fa riferimento, in un proprio giudizio, alle libertà ulteriori che possono essere coinvolte nel caso di specie, essa le rilegge in una chiave in cui quelle libertà appaiono strumentali o serventi alla realizzazione delle libertà economiche garantite dal Trattato, e comunque non assumono il ruolo di perno della decisione. In un caso piuttosto celebre il ricorrente si lamentava delle difficoltà di distribuzione della carne kasher, la carne macellata conformemente alle prescrizioni della religione ebraica. Una questione di questo genere ha a che vedere con la tutela delle minoranze religiose, e molto probabilmente una Corte nazionale la avrebbe decisa partendo dalla premessa che: a) esiste un diritto delle minoranze religiose a praticare i propri culti e a seguire i propri precetti e che: b) nel caso di specie i diritti delle minoranze religiose comportano che sia assicurata la distribuzione commerciale della carne kasher. Viceversa la Corte di giustizia pone sempre come premessa maggiore una libertà riconosciuta dal Trattato, e in un caso del genere decide dicendo che: a) i Trattati riconoscono la libertà della circolazione dei prodotti nei diversi paesi europei; b) la carne kasher è un prodotto, che deve circolare liberamente; dunque c) anche i produttori di carne kasher non devono essere discriminati, tanto più che d) esiste, nelle tradizioni dei paesi membri, un diritto alla tutela delle identità culturali e religiose, al soddisfacimento del quale si preordina la reperibilità della carne kasher
Tutto ciò è stato ricordato per mettere in evidenza che mentre la sottoscrizione della Dichiarazione Onu e nemmeno l’adesione alla Cedu hanno sostanzialmente avuto la capacità di incidere in modo trasformativo sul contenuto delle libertà e dei diritti della nostra Costituzione, l’adesione alla Comunità europea ha avuto questa capacità, incidendo nel senso di valorizzare le libertà economiche (dell’uomo in quanto attore economico ma anche del mercato come entità astratta) bendi più di quanto esse non lo fossero nella nostra, e in altre costituzioni dei paesi europei.
Si tratta di un processo tendenziale e ancora in divenire, ma che permette già ad alcuni osservatori di ritenere che i Trattati hanno modificato “il punto prospettico normativo”, rispetto al quale si ordinano i sistemi costituzionali nazionali.
Secondo il giurista tedesco Armin von Bogdandy, per esempio, nei Trattati europei “è possibile individuare norme che fanno riferimento a una Costituzione della libertà nella concorrenza, in particolare alla libertà di movimento delle merci, dei servizi, dell’esercizio della professione e dei capitali, alla libertà di spostamento dei lavoratori, nonché alle prescrizioni in merito alla concorrenza. C’è da chiedersi se, al posto di un consenso di base fondato sulla dignità dell’uomo, se ne venga a collocare un altro che riduce l’individuo all’homo oeconomicus e produce integrazione politica passando per il modello sociale di un benevolo edononismo. Nei Trattati europei manca tutt’oggi una norma equiparabile all’art. 1 della Legge fondamentale tedesca, il quale costituisca un punto prospettico normativo dell’ordinamento giuridico, irrinunciabile nella tradizione della modernità europea”.
Stando a questo tipo di letture, l’interazione che la integrazione europea ha avuto con le costituzioni nazionali consiste nell’avere sottratto centralità all’idea che la politica, e, attraverso di essa, l’economia, potesse essere orientata da un insieme di valori prescrittivi e riassumibili nella dignità dell’uomo. In tal modo, il processo di integrazione rappresenterebbe una modifica rispetto ai percorsi che il costituzionalismo europeo si era proposto di compiere allorché, nel dopoguerra, le Costituzioni erano state pensate anche come limite, e come controllo, nei confronti delle direzioni “libere” della politica e dell’economia, e, dunque, come protezione di valori che nessuno di questi due ambiti poteva travolgere in nome di valutazioni riferite solo a se stesso e alle proprie convenienze. Non è probabilmente un caso che la Carta dei diritti, dichiarata nel 2000 dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione, nel proclamare i “valori comuni” tra i popoli europei che la Comunità si propone di riconoscere, tutelare e promuovere, includa un gruppo limitato, e piuttosto genericamente garantito, di diritti sociali, rispetto a quelli riconosciuti dalle Costituzioni nazionali .
Per quanto la Carta dei diritti non abbia ancora una precisa efficacia giuridica, essa merita certamente attenzione perché rappresenta, quantomeno, un segnale, un indice che può riassumere le linee di tendenza sinora seguite, e future, dell’influenza dell’integrazione comunitaria sul panorama delle libertà in Europa. Secondo alcuni autori il senso della menzione dei diritti sociali nella Carta dei diritti è soltanto quello di individuare quali diritti sociali possono essere mantenuti come limiti legittimi al cospetto delle prerogative delle libertà economiche, ma certamente non quello di indicare, nei diritti sociali, un insieme di fini di giustizia sociale al cui perseguimento il processo economico possa essere orientato. “La Carta rischia di congelare l’elenco degli interessi sociali giudicati come sufficientemente importanti da giustificare una restrizione alle libertà economiche di circolazione o di concorrenza.Fissando determinati diritti sociali ed escludendone altri –quali il diritto a un’equa retribuzione o il diritto all’abitazione – non è forse possibile che la Carta, al prezzo della garanzia dei primi, finisca per agevolare il sacrificio dei secondi alle esigenze del mercato interno?” Con queste notazioni il giurista belga Olivier de Schutter, 210, intende dire che sia nella Carta, come già nella giurisprudenza della Corte di giustizia, “la tutela del diritto sociale è costruita come una eccezione al principio della libertà economica e non è pertanto ammessa che a condizioni restrittive”.
Abbiamo dunque raccolto due importanti aspetti della interrelazione tra costituzioni nazionali e integrazione europea:
Se il segno della integrazione europea è certamente questo, resta che il significato che questi sviluppi assumono deve ancora essere interamente colto. Questi sviluppi, allo stato, possono infatti essere interpretati in due modi diversi e addirittura opposti: si può guardare al processo di integrazione europea come a uno strumento che ha operato per ridurre, in nome delle libertà economiche, lo spazio dei diritti sociali; oppure si può pensare che, se il processo di integrazione europea ha rovesciato il rapporto tra libertà economiche e diritti sociali ciò è accaduto solo perché quel processo è consapevole di come, nel tempo presente, il rapporto tra politica economia e diritti non possa più essere pensato nei termini in cui era pensabile e governabile nel dopoguerra, e si è messo perciò alla ricerca delle forme in cui è possibile realizzare oggi, una tutela della giustizia sociale, quando le nuove realtà e le nuove esigenze della economia, le nuove forme del lavoro, le nuove articolazioni della società, sembrano rendere meno attuali e meno praticabili le vie che a quello scopo erano state disegnate dalle Costituzioni nazionali, tutte legate a un quadro storico piuttosto diverso dall’attuale.
C) La reintroduzione di una idea di “ordine pubblico ideale”?
Un terzo elemento va inoltre aggiunto.
Abbiamo notato che la nostra Costituzione fa attentamente a meno della nozione di ordine pubblico e, in questo a differenza di altre Costituzioni nazionali, e segnatamente della Costituzione tedesca, non subordina mai i diritti e le libertà della persona alla condizione del loro esercizio non abusivo, o, come si esprime l’art. 18 della Legge fondamentale tedesca, “contrario all’ordinamento fondamentale democratico e liberale”.
Insomma, la nostra Costituzione non ha eretto l’ordinamento fondamentale democratico liberale, se stessa, il proprio ordine, a ordine ideale, a bene in sé, a orizzonte e limite della progettualità politica dei singoli e dei gruppi. La vita politica della società non è finalizzata e sottoposta al rispetto di contenuti determinati, ma solo al rispetto di metodi democratici.
L’idea che esista un ordinamento che è un bene in sé, che è migliore di altri, che è identificato da una serie di contenuti specifici e che va difeso anche contro i suoi stessi membri (idea che, come si ripete, è estranea alla nostra Costituzione), è invece ricomparsa proprio nei Trattati europei, specialmente con una disposizione, introdotta nel 1997 dal Trattato di Amsterdam, l’art.7 del Trattato UE, il quale stabilisce che se uno stato membro si rende colpevole della violazione grave e permanente di uno dei principi dell’art. 6 (“libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto”) l’Unione può reagire con sanzioni. “L’art. 6, comma 1, TUE, assieme all’art. 7, comma 1, formula standard unitari dello Stato di diritto democratico per tutti i detentori della sovranità nell’associazione europea di stati. E questo non è tutto:l’art. 7 TUE affida all’Unione anche il potere di comminare sanzioni agli Stati membri che abbiano violato in modo grave e continuativo i principi dell’art. 6 comma 1 TUE. Il Trattato colloca così l’Unione nella posizione di garante della costituzionalità liberal-democratica e pertanto del contenuto normativo essenziale della modernità europea. “(Armin von Bogdandy, 277).
Questa osservazione di von Bogdandy sembra suggerire che l’Unione europea abbia creato l’immagine di una costituzionalità liberal-democratica che, almeno in parte, astrae dalla concretezza, dalla realtà delle tensioni, della vita, degli sviluppi e dei percorsi delle società che la compongono, e si sovrappone ad esse.
Da questo punto di vista, questi sviluppi più recenti dell’integrazione comunitaria convergono con altri portati della internazionalizzazione dei diritti umani iniziata nel ’48 con la dichiarazione Onu, passata attraverso la Cedu e giunta fino al ricorso alla forza militare per fini umanitari inaugurato con l’intervento Nato in Serbia (su questo, se vuoi, vedi anche Caretti De Siervo, 431), e cioè nella tendenza, divenuta fortemente avvertibile nel momento attuale, a immaginare l’esistenza di una identità occidentale – di cui i diritti sono il contenuto – che perde però il soggetto, l’ homme situé, che li rende vivi, che li condiziona, che li protegge e li innerva in quanto li desidera, li sente utili, ne fa uso.
Il rischio, in altri termini, è che l’internazionalizzazione dei diritti concorra a permettere un uso politico-ideologico dei diritti - che sembrano a tratti divenire parole d’ordine, con le quali l’occidente identifica se stesso e si differenzia e contrappone ad altri mondi -, piuttosto che a mantenerne e rafforzarne la funzione, meno retorica, ma più concreta, di strumenti effettivi di tutela di singoli e di interrelazione viva tra società civile e società politica.
Qualche suggestione in tal senso viene proprio dal confrontare tra loro gli “stili decisionali”, il modo di argomentare, interpretare e decidere le questioni che coinvolgono i diritti, che caratterizza le diverse Corti che nella tutela dei diritti sono coinvolte.
Tutti gli interpreti osservano che le Corti costituzionali nazionali sono costrette a tener conto dei contesti nei quali le loro decisioni incideranno; sono portate a calare le loro interpretazioni sulla realtà immediata dei loro ordinamenti,e, per questo motivo, sono stimolate ad argomentare, a ponderare, a mediare, anziché a dire o bianco, o nero, giusto o sbagliato, buono o cattivo. Le Corti nazionali devono tenere attentamente conto delle reazioni che davanti alle loro decisioni potrebbe avere la società civile, l’opinione pubblica, cui sono vicine; devono considerare l’impatto che sul tessuto normativo nazionale la decisione avrà; sono consapevoli della storia e della realtà dei loro paesi. Invece, una Corte è internazionale, lontana dai contesti concreti, si può permettere di decidere quasi per “parole d’ordine”, ma in tal modo produce una giurisprudenza nella quale i diritti della tradizione europea diventano a tratti quasi gli slogan di una identità piuttosto sbandierata verso l’esterno, che nascente dall’interno della società.
Mi pare interessante confrontare, a questo riguardo, come la Corte di Strasburgo, nel 2001, e il Tribunale costituzionale federale della Repubblica di Germania, nel 2003, hanno deciso il caso, analogo, di una insegnante di scuola pubblica cui le autorità scolastiche hanno vietato di indossare il velo islamico mentre faceva lezione. Nel caso deciso dalla Corte di Strasburgo si trattava di una cittadina svizzera, convertita all’islamismo, insegnante in una scuola elementare; nel caso deciso dal Tribunale costituzionale federale si trattava di una cittadina naturalizzata tedesca, di origine afgana, di religione islamica, insegnante in un liceo di un Land a maggioranza cattolica (il Baden Württemberg).
La Corte tedesca ha dichiarato che la libertà dell’insegnante di professare la propria religione e quella di qualunque persona a non essere costretta a subire l’ostentazione di segni religiosi altrui devono essere contemperate tra di loro tenendo conto del caso concreto; essa ha comunque precisato che, per giovani che crescono in una società multiculturale e multireligiosa, il prendere coscienza fin dalla scuola che esistono religioni diverse, comportamenti diversi, abiti diversi, non può che contribuire ad “aprire la mente” e ad aiutare crescere in un clima di tolleranza e comprensione reciproca; tuttavia, la Corte ha anche tenuto conto che peraltro le diverse realtà storico-geografiche della Germania sono tali da sconsigliare una decisione una volta per tutte; pertanto, essa ha concluso che ciascun Land della Germania dovrà adottare una propria soluzione in materia, soluzione che sarà costituzionalmente legittima se rappresenterà un ragionevole contemperamento tra l’identità religiosa della maggioranza, la storia culturale del paese, i diritti del singolo all’identità religiosa e alla libertà di opinione.
Una decisione molto complessa! Una decisione che decide poco, ma che sicuramente non offende nessuno e, così facendo, rispetta le competenze della società a pensare ai propri problemi, a discuterli e risolverli, e che non cala soluzioni dall’alto.
La Corte di Strasburgo, ben diversamente, ha invece senz’altro dichiarato che portare il velo a scuola è illegittimo, non tanto per l’impatto, “molto difficile da valutare” che “un simbolo esteriore forte può avere sulla libertà di coscienza e di religione” dei bambini piccoli delle elementari, che proprio perché in tenera età sono “facilmente influenzabili” , ma soprattutto perché è “difficile conciliare il vestire il velo islamico con il messaggio di tolleranza, di rispetto degli altri e soprattutto di uguaglianza e di non discriminazione che in ogni società democratica, ogni insegnante deve trasmettere ai propri allievi”. Con queste parole la Corte di Strasburgo si prende la libertà di fare una valutazione molto giudicante sul significato del velo islamico, che viene condannato in quanto tale, per concludere che “il divieto imposto alla ricorrente di indossare il velo islamico nell’ambito della sua attività di insegnante costituisce una misura necessaria in una società democratica”.
C’è da chiedersi, se lo stabilire dall’alto che cosa è necessario e che cosa non lo è in una democrazia non contribuisca a svuotare di senso l’idea stessa di democrazia, che non dovrebbe essere calata dall’alto sopra e anche contro le coscienze delle persone, che ne sono i soggetti e gli autori, ma essere la parola con cui si designano gli approdi imprevedibili di percorsi di discussione e confronto, percorsi che essi (prima che i loro risultati) devono essere democratici, cioè avvenire in modo aperto al confronto e alla pluralità delle voci. Esempi come quello della sentenza appena ricordata sollevano la domanda se un paradosso della tutela internazionale dei diritti umani non sia quello di finire per mettere una idea astratta di diritti al posto degli interessi e dei bisogni delle persone concrete che quei diritti esercitano e reclamano. Un dubbio, quest’ultimo, che la sentenza ora in discorso della Corte di Strasburgo solleva anche in un altro passaggio: la ricorrente faceva notare che impedendole di indossare il velo la si discriminava, come donna, rispetto agli uomini di fede islamica, i quali non devono indossare un abito particolare e perciò non possono nemmeno subire il divieto che lei subiva (“la ricorrente ritiene che il divieto costituisce una discriminazione basata sul sesso, ai sensi dell’art. 14 della Convenzione, nella misura in cui un uomo di religione musulmana potrebbe insegnare in una scuola pubblica senza incorrere in alcun divieto, mentre una donna della stessa confessione deve rinunciare alle pratiche religiose per potervi insegnare”). La Corte le risponde che, tutto al contrario, è proprio in nome della uguaglianza tra i sessi che alla donna ricorrente deve essere impedito di portare il velo, che è un segno di discriminazione sessuale (“l’indossare il velo islamico, che sembra imposto dalle prescrizioni craniche, è difficilmente conciliabile con l’uguaglianza tra i sessi”). Un passaggio che fa pensare, quasi che (si ricordi che la ricorrente è una convertita, di origine occidentale), i diritti che costituiscono lo statuto delle democrazie occidentali, tra cui la prerogativa dell’uguaglianza, anziché disporsi a servire lo sviluppo della personalità degli individui, debbano essere loro imposti affinché l’identità occidentale (che dunque è superiore ai singoli che la compongono?) possa essere protetta.
Per evitare di concludere queste lezioni con accenti troppo pessimistici, è anche da dire, peraltro,che il problema esaminato nelle due sentenze appena ricordate è discusso in questi giorni in molti paesi europei. Se ciascuna delle soluzioni proposte può sollevare dubbi o perplessità (fa molto discutere, per esempio, l’idea francese di una legge che vieti di indossare qualunque segno visibile di appartenenza a una fede religiosa, politica o filosofica) è l’esistenza di una pluralità di idee o di punti di vista che continua a garantire, di per sé, la possibilità che i problemi, che le nostre società fronteggiano, siano impostati, elaborati e vissuti in un modo coerente con le scelte di libertà e di rispetto della persona, che le Costituzione europee hanno posto alla propria base.
Fonte: http://spol.unica.it/didattica/niccolai/Istituzioni%20di%20diritto%20pubblico/I%20diritti%20di%20libert%C3%A0.doc
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