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Diritto commerciale Campobasso
Introduzione
Nel nostro sistema si puo’ determinare una precisa parte di articoli e leggi riferita agli imprenditori cioe’ a quei soggetti che esercitano profesionalmente un’attivita’ economica organizzata, finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o servizi. Nell’ opzione della nostra costituzione per un sistema giuridico che riconosce la proprieta’ privata e la liberta’ di iniziativa economica (art. 41 e 42 cost). Il nostro sistema su basa sull’ ECONOMIA DI MERCATO:
Parliamo di liberta’ commerciali relative in quanto strumentalizzate alla realizzazione del benessere collettivo in quanto indirizzate o quanto meno controllate dagli interventi pubblici; ma pur sempre liberta’ e poi ci sono liberta’ destinate a svilupparsi nella sfera del diritto privato fin quando si resta in una cornice istituzionale che non si basi sulla proprieta’ collettivadei mezzi di produzione e sulla esclusiva avocazione alla mano pubblica. Nel nostro sistema come negli altri in cui l’economia e’ libera e mista, il fenomeno imprenditoriale costituisce percio’ l’asse portante dello sviluppo economico e del processo di razionale utilizzazione delle risorse produttive ma tenendo sotto controllo questo sviluppo con un ambiente giuridico propizio ordinato e razionale. Obiettivo perseguito attraverso una normativa che riguarda sia i singoli rapporti economici sia l’attivita’ di impresa(come i contratti, le obbligazioni e la tutela del credito) e una parte della normativa che regola l’organizzazione e l’esercizio dell’attivita’ dell’impresa unitariamente considerata. Infatti gli imprenditori sono assoggettati a particolari statuto professionali (gli statuti societari). Il diritto commerciale moderno e’ appunto la parte del diritto privato che ha per oggetto e regola l’attivita’ e gli atti d’impresa, e’ il diritto privato delle imprese, parte centrale del diritto privato dell’economia. (il capitolo dell’introduzione si chiude con una parte riguardante la evoluzione storica del diritto commerciale nei secoli decisamente poco rilevante per lo studio di questa materia).
NOZIONE DI IMPRENDITORE. L’art.2082 del Codice Civile afferma che “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.”
Si noti che la norma (ma nessuna norma all’interno del Codice Civile lo fa) non definisce che cosa sia l’impresa, tuttavia fissa i requisiti minimi e sufficienti affinché un dato soggetto sia esposto alla disciplina dell’imprenditore.
Requisiti essenziali dell’imprenditore:
N.B. Problema dei prestatori autonomi d’opera manuale (elettricisti, idraulici,..) o di servizi fortemente personalizzati (mediatori, agenti di commercio,…): nonostante opinioni contrastanti, si ritiene che un minimo di organizzazione di lavoro altrui o di capitale è pur sempre necessaria per aversi impresa sia pure piccola. In mancanza si avrà semplice lavoro autonomo non imprenditoriale.
ARGOMENTI CONTROVERSI:
CAPITOLO 2: LE CATEGORIE DI IMPRENDITORI
A tutti gli imprenditori si applicano le norme relative ad azienda, segni distintivi (ditta, insegna,marchio) e concorrenza.
PRIMA DISTINZIONE. In base all’oggetto dell’attività, è possibile distinguere:
Imprenditore agricolo. Art. 2135: “E’ imprenditore agricolo chi esercita un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e attività connesse”. Le attività agricole possono perciò essere distinte in: a) attività agricole essenziali e b) attività agricole per connessione.
Imprenditore commerciale. L’art. 2195 afferma che è imprenditore commerciale chi esercita una o più delle seguenti categorie di attività:
In realtà, le attività elencate ai punti 3, 4, 5 sono solo specificazione delle prime due categorie e dunque gli elementi che contraddistinguono l’impresa commerciale rispetto all’impresa agricola sono solo il carattere industriale dell’attività di produzione di beni o servizi e nel carattere intermediario dell’attività di scambio. Ad ogni modo, le categorie elencate non sono una divisione netta, poiché piuttosto generiche, pertanto si preferisce definire l’imprenditore commerciale per differenza rispetto all’imprenditore agricolo.
Per quanto riguarda l’impresa civile, parte della dottrina riteneva che essa debba affiancarsi all’impresa agricola e a quella commerciale, per il fatto che la legge parla soltanto di “attività industriali”, lasciando aperti altri spazi impliciti.
Tale teoria è stata comunque per lo più abbandonata per mancanza di coerenza con le norme legislative.
SECONDA DISTINZIONE. In base alla dimensione dell’impresa, si differenziano:
Piccolo imprenditore. Art. 2083: “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”. Quindi la prevalenza del lavoro proprio e familiare sia rispetto al lavoro altrui, sia rispetto al capitale investito, costituisce il carattere distintivo di tutti i piccolo imprenditori. Non esistono invece plausibili ragioni per differenziare, ai fini del codice civile, le single figure di piccoli imprenditori.
Una legge fallimentare aveva introdotto ulteriori requisiti per il piccolo imprenditore, ma è stata implicitamente abrogata e pertanto non va considerata. Parte di tale legge rimane comunque in vigore e assume importanza: “In nessun caso sono considerati imprenditori le società commerciali”. Esse dunque sono comunque esposte al fallimento.
Impresa artigiana. La legge quadro per l’artigianato n. 443 del 1985 definisce l’impresa artigiana, sulla base: a) dell’oggetto dell’impresa, che può essere costituito da qualsiasi attività di produzione dei beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi; b) del ruolo dell’artigiano nell’impresa, richiedendosi che esso svolga “in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo”, ma non (attenzione!) che il suo lavoro prevalga sugli altri fattori produttivi; c) del numero di dipendenti.
Tale legge comunque non basta a sottrarre l’artigiano allo statuto dell’imprenditore commerciale non piccolo. Oggi, come e più di ieri, l’imprenditore artigiano non è che un piccolo industriale e quindi, giuridicamente, rientra nella categoria degli imprenditori commerciali e, al pari di ogni imprenditore commerciale, l’imprenditore artigiano sarà esonerato dal fallimento solo se in concreto ricorre la prevalenza del lavoro familiare. L’impresa artigiana in forma societaria sarà invece sempre esposta al fallimento in applicazione di principi della legge fallimentare.
Impresa familiare. L’impresa familiare, che non va confusa con la piccola impresa e che ha avuto largo successo soprattutto per ragioni tributarie, è regolata da ampia disciplina, poiché il legislatore ha voluto predisporre una tutela minima e inderogabile al lavoro familiare nell’impresa. Ai membri della famiglia nucleare che lavorino in modo continuato nella famiglia o nell’impresa, sono attribuiti determinati diritti patrimoniali e amministrativi.
Tra i diritti patrimoniali, sono riconosciuti:
Tra i diritti amministrativi, è poi previsto ad esempio che le decisioni in merito alla gestione straordinaria dell’impresa e talune altre decisioni di particolare rilievo “sono adottate a maggioranza dai familiari che partecipano all’impresa stessa”, e che il diritto di partecipazione è trasferibile solo a favore degli altri membri della famiglia nucleare e con il consenso unanime dei familiari già partecipanti. Riguardo alla gestione ordinaria, nessun potere spetta invece ai membri, poiché essi rientrano nella competenza esclusiva dell’imprenditore, il quale tuttavia è responsabile in proprio degli atti verso terzi.
TERZA DISTINZIONE. In base alla natura del soggetto, si differenziano:
Impresa societaria. Le società si dividono in 6 categorie:
- Sa.p.a. che non si applica alle società commerciali che svolgono attività agricola.
Impresa pubblica. Lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali possono anch’esse svolgere attività d’impresa, e lo possono fare:
Si ritiene che le imprese accessorie di cui al punto a), nonostante diverse opinioni, non siano soggette alle norme riguardanti l’imprenditore commerciali, mentre le imprese che costituiscono attività principale soggiacciono a tutte le norme riguardanti l’imprenditore commerciale, con l’esclusione del fallimento. Gli enti pubblici economici infatti non possono fallire e sono esonerati da procedure concorsuali minori.
Attività commerciale delle associazioni e delle fondazioni. Tutti gli enti privati con fini ideali e altruistici possono svolgere attività commerciale, che può anche costituire attività esclusiva o principale, qualificabile come attività d’impresa. Tali enti acquistano sicuramente la qualità di imprenditori commerciali con pienezza di effetti anche se l’attività commerciale ha carattere accessorio o secondario. Anche tali enti saranno quindi esposti al fallimento.
L’acquisto della qualità di imprenditore è presupposto per l’applicazione ad un dato soggetto del complesso di norme che l’ordinamento ricollega a tale qualifica. Si diventa imprenditori, come dice l’art. 2082, con l’esercizio di attività d’impresa. Tuttavia per affermare che un dato soggetto è diventato imprenditore, è necessario che l’attività d’impresa sia a lui giuridicamente riferibile, ovvero sia a lui imputabile, così come è necessario stabilire, visto che la legge è muta al riguardo, quando inizi e finisca l’impresa.
A. L’IMPUTAZIONE DELL’ATTIVITA’ D’IMPRESA.
Esercizio diretto dell’attività d’impresa. Quando gli atti di impresa sono compiuti direttamente dall’interessato o da altri in suo nome, non sorgono particolari problemi. La qualità di imprenditore è acquistata, con pienezza di effetti, dal soggetto e solo dal soggetto il cui nome è stato speso nel compimento dei singoli atti di impresa. Solo questi è obbligato nei confronti del terzo contraente, ed anche quando gli atti di impresa sono compiuti tramite il rappresentante, imprenditore diventa il rappresentato e non il rappresentante.
Tutto ciò è possibile in base al criterio di spendita del nome: quando il mandatario agisce in nome del mandante (mandato con rappresentanza), tutti gli effetti negoziali si producono direttamente nella sfera giuridica di quest’ultimo, mentre il mandatario che agisce in proprio nome (mandato senza rappresentanza) “acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato. I terzi non hanno alcun rapporto con il mandante”.
Esercizio indiretto dell’attività d’impresa. Spesso l’impresa viene esercitata tramite interposta persona. Cioè vi è distinzione tra chi compie in proprio nome i singoli atti d’impresa (imprenditore palese o prestanome), e chi somministra al primo i mezzi finanziari, dirige di fatto l’impresa e fa propri i guadagni, pur non palesandosi come imprenditore di fronte ai terzi (imprenditore occulto, vero dominus dell’impresa). I problemi gravi sorgono quando gli affari vanno male e il rischi d’impresa viene trasferito sui creditori più deboli che non i erano premuniti contro casi simili.
Parte della dottrina ritiene che si debba superare il principio della spendita del nome per quanto riguarda i debiti d’impresa, e che dunque il rischio si trasferisca direttamente all’imprenditore occulto, altri ritengono che siano responsabili cumulativamente sia il prestanome sia l’imprenditore occulto, con esclusione però del fallimento per quest’ultimo.
Un passo avanti è compiuto invece dalla teoria dell’imprenditore occulto, che sostiene che il dominus di un’impresa formalmente altrui non solo risponderà insieme a questi, ma fallirà sempre e comunque qualora fallisca il prestanome. Tutto ciò in base all’art. 147, 2° comma, legge fall.
Tuttavia l’affermazione in base alla quale risponderebbe e fallirebbe anche il reale interessato non può essere condivisa, così come non può essere condiviso il più radicale assunto in base al quale la sovranità di fatto sull’impresa rappresenta il solo criterio giuridico di imputazione dell’attività d’impresa, sicché solo il dominus acquisterebbe la qualità di imprenditore.
Dall’art. 147, 2° comma, si può desumere il principio che chi è socio di una società a responsabilità illimitata risponde verso i terzi anche se la sua partecipazione alla società non è stata esteriorizzata. Non già che può essere chiamato a rispondere chi socio non è. Ma proprio quest’ultimo è il risultato che si determina rendendo responsabile l’imprenditore occulto.
Nella fattispecie imprenditore occulto – imprenditore palese manca, infatti, una società con soci a responsabilità illimitata (il prestanome è persona fisica o società di capitali), e soprattutto nessuna società esiste tra dominus e prestanome, essendo quest’ultimo mandatario senza rappresentanza del dominus e non socio dello stesso. Dunque non è possibile affermare per analogia, in base all’art. 147, la responsabilità illimitata del dominus di un’altrui impresa individuale o di una società di capitali.
Il regime descritto non è comunque così iniquo e pericoloso come appare a prima vista. E’ vero che, non chiamando a rispondere chi sta dietro le quinte, si danneggiano i creditori dell’imprenditore palese, tuttavia con la soluzione opposta essi sarebbero avvantaggiati oltremodo poiché finirebbero per giovarsi di un patrimonio (quello del dominus) su cui non potevano fare affidamento quando concessero credito al prestanome.
Per tutelare i creditori dalle azioni tipiche di chi abusa in generale della posizione di dominio su una società di capitali, la giurisprudenza accosta tali azioni ad autonoma attività d’impresa (ovvero impresa di finanziamento o gestione della società di capitali dominata). Pertanto i soci che hanno abusato dello schermo societario risponderanno come titolari di un’autonoma impresa commerciale individuale o societaria (impresa di fatto), per le obbligazioni da loro contratte nello svolgimento dell’attività fiancheggiatrice della società di capitali ed in quanto tali potranno anche fallire.
ê B. INIZIO E FINE DELL’IMPRESA
Inizio dell’impresa. La qualità di imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività di impresa, sia per le persone fisiche sia per gli enti pubblici e privati, comprese le società (principio dell’effettività) Non sono sufficienti né l’intenzione di dare inizio all’attività, né l’iscrizione nel registro delle imprese.
Nel caso che l’attività d’impresa sia preceduta da una fase organizzativa oggettivamente percepibile anche un solo atto di esercizio è sufficiente per affermare che l’attività è iniziata (l’organizzazione è già indice non equivoco di attività professionale). Nel caso in cui, invece tale fase organizzativa manchi, solo la ripetizione nel tempo di atti di impresa omogenei e funzionalmente coordinati renderà certo che non si tratta di atti occasionali bensì di attività professionalmente esercitata.
Talvolta, particolarmente per le società, anche atti di sola organizzazione (valutati secondo il loro numero e il livello di significatività) possono essere equiparati ad atti di impresa, determinando dunque l’acquisto della qualità di imprenditore ed anche l’esposizione al fallimento.
Fine dell’impresa. Anche nel caso della fine dell’impresa, domina il principio dell’effettività. La qualità di imprenditore si perde solo con l’effettiva cessazione dell’attività, ovvero con la chiusura della liquidazione, che potrà verificarsi chiusa solo con la definitiva disgregazione del complesso aziendale (non si devono cioè più verificare operazioni intrinsecamente uguali a quelle “normali”),
che rende definitiva ed irrevocabile la cessazione. Non è necessario che siano stati riscossi tutti i crediti e pagati tutti i debiti relativi.
E’ importante determinare l’esatto giorno di cessazione di attività d’impresa commerciale, poiché l’art. 10 legge fall. prevede che l’imprenditore può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell’attività.
Per quanto riguarda le società, si verifica talvolta che dei creditori avanzino pretese dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese. Il legislatore dispone che di tali passività sopravvenute risponderanno gli ex soci o i liquidatori. La giurisprudenza tuttavia è ormai consolidata nell’affermare che la società, benché cancellata dal registro delle imprese, deve ritenersi ancora esistente ed esposta al fallimento, fin quando non sia stato pagato l’ultimo debito. Una società può essere perciò dichiarata fallita anche a distanza di anni dalla definitiva cessazione di ogni attività d’impresa e dalla cancellazione del registro delle imprese.
L’art. 10 legge fall. è così giurisprudenzialmente abrogato per le società.
ê C. CAPACITA’ E IMPRESA
Capacità e incompatibilità. La capacità all’esercizio di attività d’impresa si acquista con la piena capacità d’agire e quindi al compimento del diciottesimo anno di età. Si perde in seguito ad interdizione o inabilitazione. Costituiscono invece incompatibilità divieti di esercizio di impresa commerciale posti a carico di coloro che esercitano determinati uffici o professioni. Essi non precludono all’acquisto della qualità di imprenditore, ma espongono a gravi sanzioni.
L’impresa commerciale dell’incapace. Per quanto riguarda l’attività agricola, il codice non detta disposizioni, e trovano perciò applicazione in materia le norme di diritto comune che regolano il compimento di atti giuridici da parte degli incapaci. Per l’attività commerciale, viene invece ampiamente regolata l’amministrazione del patrimonio degli incapaci, in modo da garantirne la conservazione e l’integrità impedendo che lo stesso venga impiegato in operazioni aleatorie o di pura sorte. Viene inoltre posto un divieto assoluto di inizio di impresa commerciale per il minore, l’interdetto e l’inabilitato. Salvo che per il minore emancipato, è pertanto consentita solo la continuazione dell’esercizio di un’impresa commerciale preesistente, quando ciò sia utile per l’incapace e purché la continuazione sia autorizzata dal tribunale. L’esercizio autorizzato dell’impresa determina l’acquisto della qualità di imprenditore commerciale da parte dell’incapace. In particolare:
Fallimento del minore. Dato che l’autorizzazione alla continuazione dell’attività fa sorgere in capo all’incapace la qualità dell’imprenditore, questi resta esposto a tutte le conseguenze che ne derivano, compreso il fallimento in caso di insolvenza. Nel caso del minore, si ritiene giusto far ricadere le sanzioni penali non sul minore fallito esente da responsabilità oggettive, ma sul rappresentante legale, sebbene non possa essere qualificato imprenditore. Più difficile appare invece sottrarre il minore fallito alle incapacità personali (esclusione da varie professioni), in quanto nell’albo dei falliti va iscritto il minore.
Statuto generale dell’imprenditore:
Statuto speciale dell’imprenditore commerciale (non piccolo):
Funzione delle norme. Le norme riguardanti tutti gli imprenditori tutelano la figura dell’imprenditore verso i terzi, le norme riguardanti l’imprenditore commerciale tendono invece a tutelare i terzi che entrano in contatto con tali imprese.
ê A. LA PUBBLICITA’ LEGALE
La necessità di terzi di poter disporre con facilità di informazioni veritiere e non contestabili su fatti e situazioni delle imprese con cui entrano in contatto è soddisfatta dal legislatore con l’introduzione di un sistema di pubblicità legale. Dal 1942 al 1997 ha trovato applicazione un “regime transitorio” imperniato sull’iscrizione nei preesistenti registri di cancelleria, caratterizzato dall’esonero temporaneo dall’iscrizione degli imprenditori commerciali individuali e degli enti pubblici economici. Per le sole S.p.A. ed S.r.l., e per i consorzi con attività esterna, era previsto un sistema di pubblicità legale attraverso la pubblicazione o il deposito nel BUSARL (per le prime), e nel BUSC (per i secondi), definitivamente soppressi dal 1997.
Registro delle imprese. L’art. 8 della legge n. 580 del 1993 ed il relativo regolamento di attuazione permettono l’entrata in vigore di un nuovo regime, più ordinato del precedente. E’ cioè previsto, attraverso lo strumento del registro delle imprese, l’obbligo di rendere di pubblico dominio determinati atti o fatti della vita dell’impresa, secondo forma e modalità predeterminate per legge.
In tal modo le informazioni rilevanti non solo sono rese accessibili ai terzi interessati (pubblicità notizia), ma producono l’effetto tipico proprio di ogni forma di pubblicità legale: l’opponibilità a chiunque degli atti o dei fatti così resi conoscibili.
L’ufficio del registro delle imprese è istituito in ciascuna provincia presso la Camera di commercio, retto da un conservatore nominato dalla giunta. Il registro è articolato in una sezione ordinaria e in più sezioni speciali.
Iscrizione in sezione ordinaria [pubblic. legale]:
Iscrizione in sezioni speciali [pubblicità notizia]:
Fatti e atti da registrare sono specificati da una serie di norme, diversi a seconda della struttura dell’impresa. Riguardano gli elementi di individuazione dell’imprenditore e dell’impresa, la struttura e l’organizzazione delle società. Sono poi soggette in via di principio a registrazione tutte le modificazioni di elementi già iscritti. Non è consentita l’iscrizione di atti non previsti dalla legge.
Procedimento. L’iscrizione, eseguita su domanda dell’interessato (o d’ufficio se l’iscrizione è obbligatoria e l’interessato non vi provvede), deve essere fatta nel registro delle imprese della provincia in cui l’impresa ha sede. L’iscrizione è eseguita entro dieci giorni dalla data di protocollazione della domanda. L’ufficio del registro deve comunque prima procedere al controllo di regolarità formale, e successivamente di regolarità sostanziale (esistenza e veridicità dell’esistenza dell’atto o del fatto). L’inosservanza dell’obbligo di registrazione porta a sanzioni amministrative e indirette.
Efficacia dell’iscrizione. Di regola, l’iscrizione in sezione ordinaria ha solo efficacia dichiarativa: dal momento della registrazione gli atti e i fatti iscritti sono opponibili a chiunque e i terzi non potranno eccepire l’ignoranza del fatto e qualsiasi prova contraria che daranno sarà inutile. Da notare che l’imprenditore che ha omesso la registrazione può comunque provare che i terzi hanno avuto ugualmente conoscenza effettiva dell’atto o del fatto.
In alcune ipotesi, tassativamente previste, l’iscrizione può anche avere efficacia costitutiva totale (sia tra le parti che per i terzi), oppure parziale (solo verso i terzi). Ad esempio, ha efficacia costitutiva (totale), l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto costitutivo delle società di capitali e delle società cooperative.
In altri casi, l’iscrizione nella sezione ordinaria, è presupposto per la piena applicazione di un determinato regime giuridico (efficacia normativa). E’ questo il caso delle S.n.c. e delle S.a.s. che, se non iscritte, vengono comunque ad esistenza ma la mancata registrazione comporta l’applicazione del più gravoso regime dettato per la società semplice. Tale società è detta irregolare.
L’iscrizione nelle sezioni speciali non produce invece nessuno degli effetti sopra elencati in quanto ha solo funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia.
ê B. LE SCRITTURE CONTABILI
Obbligo di tenuta delle scritture contabili. Le scritture contabili sono i documenti che contengono la rappresentazione, in termini quantitativi e monetari, dei singoli atti d’impresa, della situazione del patrimonio dell’imprenditore e del risultato economico dell’attività svolta. Esse contribuiscono a rendere razionale ed efficiente l’organizzazione e la gestione dell’impresa e perciò sono di regola spontaneamente tenute da qualsiasi imprenditore. La tenuta delle scritture contabili è tuttavia elevata ad obbligo ed è legislativamente disciplinata per gli imprenditori che esercitano attività commerciale. Non vi è però assoluta coincidenza tra i soggetti obbligati a tenere le scritture contabili secondo il codice civile e la categoria degli imprenditori commerciali:
Scritture contabili obbligatorie. Le scritture necessarie per un’ordinata contabilità variano a seconda del tipo di attività, delle dimensioni e dell’articolazione territoriale dell’impresa.
L’art. 2214 pone il principio generale secondo cui l’imprenditore deve tenere tutte le scritture contabili “che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa”. In ogni caso devono essere tenuti il libro giornale (registro cronologico–analitico, in cui tutte le operazioni dell’impresa vanno registrate nell’ordine in cui sono state compiute) e il libro degli inventari (registro periodico-sistematico, da redire ogni anno, che fornisce il quadro patrimoniale dell’imprenditore, comprese le passività e le attività estranee all’impresa). Devono essere anche conservate gli originali della corrispondenza commerciale ricevuta e le copie di quella spedita.
Tutti gli imprenditori devono inoltre redire il bilancio, composto da stato patrimoniale e conto economico, riguardo al quale tutti gli imprenditori devono seguire gli artt. 2423-2435bis che disciplinano il bilancio delle S.p.A.
Regole di tenuta e controllo. La redazione di altre scritture è rimessa alla “discrezionalità” dell’imprenditore (libro mastro, libro cassa, libro magazzino) con i limiti delle norme tecniche, ma nella pratica si ritengono sufficienti le scritture obbligatorie di cui sopra.
Il codice detta poi l’obbligo di osservare alcune regole formali e sostanziali nella tenuta delle scritture contabili per garantirne la veridicità ed evitare che le stesse siano successivamente alterate:
sono le cosiddette formalità estrinseche (es. libri numerati,..) e formalità intrinseche (cioè “secondo un’ordinata contabilità”). Scritture e corrispondenza commerciale vanno conservate per 10 anni.
L’inosservanza di tali regole rende le scritture irregolari e quindi giuridicamente irrilevanti.
Di regola non c’è controllo esterno sulle scritture, ma ci sono nella pratica rilevanti eccezioni, a causa dei numerosi interessi coinvolti, che chiamano in causa società di revisione ed altre società.
Sanzioni. L’obbligo di tenuta delle scritture contabili non è assistito da nessuna sanzione generale o diretta, salvo quelle previste dalla legislazione tributaria. Non mancano, però, sanzioni eventuali e indirette: l’imprenditore che non tiene regolarmente le scritture contabili non può utilizzarle come mezzo di prova a suo favore, non può essere ammesso al concordato preventivo e alla amministrazione controllata ed è inoltre assoggettato alle sanzioni penali per i reati di bancarotta semplice o fraudolenta in caso di fallimento.
Rilevanza esterna delle scritture contabili. In via di principio, esse sono destinate a restare nella sfera interna dell’imprenditore e non accessibili a terzi. In realtà anche questo principio non è senza eccezioni. Il diritto al segreto contabile cede di fronte alle esigenze conoscitive della pubblica amministrazione, finalizzate ad accertamenti di carattere tributario a alla repressione di reati.
Ad esempio il bilancio delle società di capitali e delle cooperative deve essere reso pubblico mediante deposito presso l’ufficio del registro delle imprese, ed inoltre il diritto al segreto non sussiste né da parte delle imprese soggetto a controllo pubblico verso l’organo pubblico preposto alla vigilanza, né da parte delle società di capitali quotate in borsa verso la Consob.
Efficacia probatoria. Sul piano processuale,le scritture contabili, siano o meno regolarmente tenute, possono sempre essere utilizzate dai terzi come mezzo processuale di prova contro l’imprenditore che le tiene. Il terzo che se ne vuole avvantaggiare non può però scinderne il contenuto.
Affinché l’imprenditore possa utilizzare le proprie scritture come mezzo processuale di prova contro terzi, è necessario che: a) si tratti di scritture regolarmente tenute; b) la controparte sia anch’essa un imprenditore; c) la controversia sia relativa all’esercizio dell’impresa.
Quanto ai modi di acquisizione, in generale il giudice può chiedere l’esibizione riguardante soltanto singole scritture contabili, relative alla controversia in esame,mentre può ordinare la comunicazione alla controparte di tutte le scritture in tre casi tassativi: controversie relative allo scioglimento della società, alla comunione dei beni e alla successione per causa di morte.
ê C. LA RAPPRESENTANZA COMMERCIALE
Di regola l’imprenditore si avvale di ausiliari interni (o subordinati) oppure di ausiliari esterni (o autonomi), ed in entrambi i casi la collaborazione può riguardare anche la conclusione di affari con terzi in nome e per conto dell’imprenditore: l’agire in rappresentanza dell’imprenditore.
Disciplina generale della rappresentanza. In generale, affinché l’incaricato possa agire in nome e per conto dell’interessato, è necessario l’espresso conferimento del potere di rappresentanza attraverso una specifica dichiarazione di volontà, denominata procura. Il potere di rappresentanza sussiste nei limiti fissati dalla procura, che deve essere conferita con le forma prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere. E’ il terzo sul quale cade l’onere di accertarsi della procura, poiché il contratto concluso dal falso rappresentante è infatti improduttivo di effetti ed il terzo non potrà vantare alcun diritto nei confronti del preteso rappresentato. Egli può solo chiedere il risarcimento al falso rappresentante.
Queste regole tutelano male il terzo e cedono il passo a diversa disciplina quando si è in presenza di determinate figure tipiche di ausiliari interni (institore, procuratori e commessi). Tali principi facilitano le contrattazioni di impresa in quanto ridimensionano i pericoli cui è di regola esposto chi contratta con l’altrui rappresentante, che non dovrà verificare la veridicità della rappresentanza.
Sistema speciale di rappresentanza. Il potere di institori, procuratori e commessi di vincolare direttamente l’imprenditore non si fonda sulla presenza e sulla validità di una procura,ma costituisce effetto naturale di quella determinata collocazione nell’impresa ad opera dell’imprenditore. Questi potrà modificare il contenuto di tale potere di rappresentanza, ma servirà uno specifico atto.
L’institore. Secondo l’art. 2203, l’institore è colui che è preposto dal titolare all’esercizio della impresa, o di una sede secondaria, o di un ramo particolare della stessa. E’ dunque di regola un lavoratore subordinato con la qualifica di dirigente, posto al vertice della gerarchia del personale, attraverso un atto di preposizione dell’imprenditore, investito dall’imprenditore di un potere di gestione generale (direttore generale nel linguaggio comune).
Obblighi dell’institore, congiuntamente all’imprenditore, sono quelli dell’iscrizione nel registro delle imprese e della tenuta delle scritture contabili. In caso di fallimento dell’imprenditore, gli
effetti relativi alle sole sanzioni penali ricadranno anche sull’institore.
L’institore ha inoltre un ampio potere di rappresentanza: anche in mancanza di espressa procura, egli può compiere in nome dell’imprenditore “tutti gli atti pertinenti all’attività dell’impresa”. E’ comunque certo che l’institore non può compiere atti che esulino dalla gestione dell’impresa, e soprattutto gli è espressamente vietato di alienare o ipotecare i beni immobili, se non è stato a ciò specificatamente autorizzato. Riguardo alla rappresentanza processuale, l’institore può stare in giudizio, sia come attore (rappresentanza processuale attiva), sia come convenuto (rappresentanza processuale passiva) per le “obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell’esercizio dell’impresa cui è preposto, compresi gli atti posti in essere direttamente dall’imprenditore.
I poteri rappresentativi dell’institore possono essere ampliati o limitai dall’imprenditore sia all’atto della preposizione sia successivamente, ma le limitazioni saranno opponibili ai terzi solo se la procura originaria o il successivo atto di limitazione siano stati pubblicati nel registro delle imprese. Mancando tale pubblicità legale, “la rappresentanza si reputa generale”. Da notare quindi che, nonostante il legislatore parli più volte di una procura da parte del preponente, questa non è assolutamente necessaria. La revoca dei poteri è opponibile solo se pubblicata o se l’imprenditore prova la loro effettiva conoscenza.
Sempre riguardo alla rappresentanza institoria, l’institore è personalmente obbligato se omette di far conoscere al terzo che egli tratta per il preponente. Peraltro, diversamente dalla rappresentanza generale dove il rappresentato non è responsabile, personalmente obbligato è anche il preponente, quando gli atti compiuti dall’institore “siano pertinenti all’esercizio dell’impresa a cui è preposto”.
I procuratori. Essi sono ausiliari subordinati di rado inferiore rispetto all’institore in quanto a differenza di questo: a) non sono posti a capo dell’impresa o di un ramo o di una sede secondaria;
b) pur essendo ausiliari con funzioni direttive, il loro potere decisionale è circoscritto ad un determinato settore operativo dell’impresa o ad una serie specifica di atti (es. direttore acquisti).
L’art. 2209 trasferisce al procuratore alcune norme dettate per gli institori: i procuratori sono quindi investiti di un potere di rappresentanza generale dell’imprenditore, relativamente però alle sole specie di operazioni per le quali essi sono stati investiti di autonomo potere decisionale.
Altre norme dettate per gli institori non sono richiamate, perciò il procuratore:
I commessi. Essi sono ausiliari subordinati cui sono affidate mansioni esecutive e materiali che li pongono in contatto con i terzi. Hanno potere di rappresentanza, decisamente più limitato rispetto ai due casi di cui sopra, anche in mancanza di specifico atto di conferimento. L’art. 2210 afferma che essi 2possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie di operazioni cui sono incaricati”. In generale, salvo espressa autorizzazione, i commessi:
I poteri del commesso possono essere ampliati o limitai dall’imprenditore, ma le limitazioni (dato che non è previsto sistema di pubblicità legale) saranno opponibili ai terzi solo se portate a conoscenza degli stessi con mezzi idonei, o se si prova l’effettiva conoscenza.
Definizione di azienda. L’art. 2555 definisce l’azienda come “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Da ciò emerge che l’azienda è un complesso di singoli elementi che hanno unitaria destinazione verso uno specifico fine produttivo. Essa può essere vista come il mezzo di cui l’imprenditore si avvale per lo svolgimento della propria attività (rapporto mezzo/fine tra azienda e attività d’impresa).
L’azienda assume inoltre forte rilievo sul piano economico, acquistando solitamente valore maggiore rispetto alla somma dei valori dei singoli beni (avviamento).
Si distingue tra avviamento oggettivo, quello ricollegabile a fattori suscettibili di permanere anche se muta il titolare dell’azienda, e avviamento soggettivo, quello dovuto all’abilità operativa dell’imprenditore sul mercato ed in particolare alla sua abilità nel formare, conservare e accrescere la propria clientela.
Elementi costitutivi dell’azienda. Al fine di qualificare un dato bene come bene aziendale è rilevante solo la destinazione dell’imprenditore all’esercizio all’attività d’impresa. Irrilevante è il titolo giuridico (proprietà, usufrutto, altro) che legittima l’imprenditore ad utilizzare un dato bene.
Riguardo a cosa ricomprendere nella parola “beni”, l’opinione più diffusa considera elementi costitutivi dell’azienda solo le cose in senso proprio di cui l’imprenditore si avvale, escludendo dunque servizi, crediti, debiti, rapporti di lavoro e rapporti contrattuali.
Tra concezione atomistica e concezione unitaria. Le teorie unitarie considerano l’azienda come un unico bene immateriale, sul quale il titolare potrebbe avere un diritto di proprietà unitario. Le teorie atomistiche concepiscono invece l’azienda come una semplice pluralità di beni tra loro funzionalmente collegati e sul quale l’imprenditore può vantare diritti diversi (proprietà, diritti reali limitai, diritti personali di godimento). Mancando una legge di circolazione propria dell’azienda l’ipotesi unitaria va rifiutata, tuttavia bisogna sempre tenere conto, nelle controversie, della salvaguardia dell’unità funzionale dell’azienda.
Anche per quanti vogliono considerare l’azienda un’universalità di beni mobili (che secondo l’art. 816 sono “la pluralità di cose che appartengono alla stessa persona e hanno una destinazione unitaria”), la disciplina dettata per tali universalità non è applicabile all’azienda, se non per risolvere problemi pratici lasciati insoluti dalla disciplina dell’azienda. Infatti, l’azienda è di regola costituita da beni eterogenei e può comprendere anche beni (mobili ma anche immobili) che non sono di proprietà dell’imprenditore.
Trasferimento dell’azienda. Per stabilire se un determinato atto di disposizione dell’imprenditore vada qualificato come trasferimento di azienda o come trasferimento di singoli beni aziendali, non si guarda al nomen dato al contratto, ma al risultato realmente perseguito e realizzato.
Con il trasferimento di azienda, saranno considerati trasferiti tutti quei beni che hanno come funzione lo svolgimento dell’attività d’impresa: è necessaria la specificazione dei beni che l’imprenditore non vuole includere nel trasferimento.
Si noti che il trasferimento di azienda può riguardare anche un solo ramo d’azienda, purché dotato di organicità operativa. Non è neanche necessario che l’azienda sia in funzione al momento della vendita, ma solo che l’insieme dei beni trasferiti sia di per sé potenzialmente idoneo ad essere utilizzato per l’esercizio di una determinata attività d’impresa.
La forma necessaria per la validità del trasferimento deve essere “la stessa forma stabilita dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la particolare natura del contratto”. Non esiste quindi un’autonoma ed unitaria legge di circolazione dell’azienda. Di conseguenza, ad esempio, il trasferimento di immobili comporterà la forma scritta pena la nullità.
La forma richiesta ai fini di opponibilità ai terzi è invece quella scritta, per quanto riguarda le imprese “soggette a registrazione”, includendo tra queste tutte le imprese, poiché tutte le imprese vengono registrate, seppure con diversi tipi di pubblicità. Sempre per le imprese soggette a registrazione, l’art. 2256 stabilisce anche che i relativi contratti, redatti per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, sono soggetti a iscrizione nel registro delle imprese.
Effetti della vendita dell’azienda:
¬ Divieto di concorrenza dell’alienante. L’art. 2257 afferma che chi aliena un’azienda commerciale deve astenersi, per un periodo massimo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che possa comunque, “per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze”, sviare la clientela dall’azienda ceduta.
Si vuole in questo modo contemperare l’esigenza dell’acquirente di godere dell’avviamento soggettivo (che egli stesso ha pagato!), e quella dell’alienante a non vedere compressa la propria libertà di iniziativa economica per troppo tempo.
Si noti che resta possibile stabilire un termine minore di cinque anni, ma mai maggiore, e che il divieto è da ritenersi applicabile anche in caso di vendita coattiva (il divieto rimane al fallito).
Spesso si tenta inoltre di eludere il divieto attraverso inizio di impresa attraverso un prestanome, costituendo una società di comodo o entrando in un’altra impresa concorrente come dirigente.
Si ritiene che il divieto debba considerarsi violato ogni volta si sia avuto sviamento di clientela dall’azienda ceduta, per fatto concorrenziale direttamente o indirettamente dovuto all’alienante.
E’ comunque difficile provare l’elusione, e sono necessarie adeguate clausole per evitare tutto ciò.
La successione nei contratti aziendali. La disciplina dettata riguardo alla successione nei contratti aziendali deroga alla disciplina della cessione di contratti “normali” di diritto comune.
L’art. 2258 stabilisce che “se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale”, e dunque automaticamente, senza bisogno di alcuna manifestazione di volontà.
Al terzo contraente è riconosciuto il diritto di recedere dal contratto “entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante”.
Da notare in questo caso che la deroga ai principi di diritto comune è ancora più marcata: non è necessario il consenso del contraente ceduto, che può soltanto chiedere il risarcimento danni all’alienante dando la prova (non facile!) che questi non ha osservato la normale cautela nella scelta dell’acquirente dell’azienda. Inoltre il recesso non determina il ritorno del contratto in testa all’alienante ma la definitiva estinzione dello stesso.
E’ evidente dunque il favor legislativo per il mantenimento dell’unità funzionale dell’azienda.
Riguardo al carattere personale dei contratti, l’opinione prevalente ritiene che contratti personali siano quei contratti nei quali l’identità e le qualità dell’imprenditore alienante sono state in concreto determinanti del consenso del terzo contraente (e non viceversa). Per il trasferimento di tali contratti si ritorna alla disciplina di diritto comune di cessione del contratto.
Anche al fine di provare la giusta causa, il terzo deve dimostrare che l’identità dell’imprenditore era essenziale ai fini del contratto.
® I crediti e i debiti aziendali. A) Riguardo ai crediti, la legge non dice, come invece fa con i contratti, se crediti e debiti si trasferiscono direttamente con l’azienda o meno. L’opinione seguita è che il trasferimento non è automatico, in mancanza di espressa previsione.
Inoltre, come recita l’art. 2259, dal momento dell’iscrizione del trasferimento dell’azienda nel registro delle imprese, la cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta ha effetto nei confronti dei terzi, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione. Tuttavia, “il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede all’alienante” (l’alienante deve naturalmente impegnarsi a pagare a sua volta il debito all’acquirente). Nel caso di imprese non soggette a registrazione, vige invece la disciplina generale della cessione dei crediti.
B) Riguardo ai debiti, l’art. 2560, al fine di tutelare i terzi creditori e l’esigenza di certezza, afferma che l’alienante non è liberato dai debiti anteriori al trasferimento, se non ha il consenso dei creditori. Per quanto riguarda le sole imprese commerciali, è previsto invece che “nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori.
Usufrutto e affitto dell’azienda. L’azienda può essere costituita in usufrutto o concessa in affitto.
La costituzione in usufrutto comporta il riconoscimento di poteri-doveri in testa all’usufruttuario, per tutelare sia la libertà dell’usufruttuario, sia l’interesse del concedente.
A tal fine, l’art. 2561 dispone che l’usufruttuario deve esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue, conducendo l’azienda senza modificarne la destinazione ed in modo da conservarne l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte. La violazione di tali obblighi o la cessazione arbitraria dalla gestione dell’azienda determinano la cessazione dell’usufrutto per abuso dell’usufruttuario. L’usufruttuario ha inoltre il potere-dovere non solo di godere dei beni aziendali, ma anche di disporne nei limiti delle esigenze della gestione.
L’usufruttuario potrà comprare nuovi beni, che diventeranno di proprietà del nudo proprietario e sui quali l’usufruttuario avrà diritto di godimento e potere di disposizione.
L’affitto di azienda ha come oggetto del contratto un complesso di beni organizzati ed è decisamente diverso dalla locazione di un immobile destinato all’esercizio di attività d’impresa, che ha per oggetto il locale in quanto tale. Nella pratica non è facile distinguerli.
Sia all’affitto, sia all’usufrutto si applicano le norme riguardo il divieto di concorrenza e la successione nei contratti aziendali, al solo usufrutto la disciplina dei crediti aziendali, a nessuno dei due le norme riguardanti i debiti aziendali anteriori, dei quali risponderanno unicamente il nudo proprietario o il locatore.
CAPITOLO 6: I SEGNI DISTINTIVI
Funzione dei segni distintivi. La funzione dei segni distintivi, ovvero ditta, insegna e marchio, è quella di favorire la formazione ed il mantenimento della clientela. Essi consentono infatti ad un dato imprenditore di individuarlo sul mercato e di distinguerlo dagli altri imprenditori concorrenti.
Tutti i segni distintivi dovranno comunque rispettare i principi di: a) novità; b) originalità; c)verità.
La ditta è il nome commerciale dell’imprenditore, che lo individua come soggetto di diritto nel campo dell’imprenditoria. Due limiti specifici nella scelta della ditta sono:
Trasferimento della ditta. Secondo l’art. 2565, la ditta è trasferibile, ma solo insieme all’azienda. Se il trasferimento avviene per atto tra vivi, è necessario il consenso espresso dell’alienante. Regola opposta vale se l’azienda è acquistata per successione a causa di morte: la ditta si trasmette al successore, salvo diversa disposizione testamentaria.
E’ importante notare che se la persistenza del legame segno distintivo-complesso produttivo tende a tutelare i consumatori, tutela invece molto meno quanti all’imprenditore stesso concedono credito.
La giurisprudenza ritiene comunque che chi ha trasferito l’azienda è responsabile in solido con l’acquirente per i debiti da questo contratti spendendo la ditta derivata, qualora il terzo contraente abbia potuto ragionevolmente ritenere di trattare col cedente.
Ditta e nome civile. Nome civile e ditta non vanno confusi. Il nome civile, attribuito per legge, è a struttura fissa (prenome + cognome), unico e non liberamente modificabile. Principi opposti regolano la ditta. Inoltre omonimia è consentita tra nomi civili, ma non tra ditte. Questa distinzione è utile per comprendere l’art. 2567, la cui interpretazione chiarisce che le società devono avere una ragione sociale o una denominazione sociale (nome delle società), che non possono essere uguali o simili ad altri “nomi di società” (come per la ditta) e non possono essere trasferiti (come per il nome civile). Tuttavia le società possono anche avere una ditta originaria, formata rispettando le norme sulla ditta (e come prima doveva includere sigla o cognome dell’imprenditore, adesso deve includere ragione sociale o denominazione sociale), e più ditte derivate, che rimangono distinte dal nome e potranno essere trasferite.
L’insegna contraddistingue i locali dell’impresa. La sua disciplina si esaurisce nell’art. 2568, che rimanda all’art. 2564: l’insegna non potrà cioè essere uguale o simile ad altra già utilizzata da altro imprenditore concorrente, con conseguente obbligo di differenziazione per non creare confusione.
Si può comunque affermare che l’insegna deve rispettare i principi generali di liceità, veridicità (non deve trarre in inganno riguardo attività o prodotti), originalità. Il trasferimento dell’insegna si ritiene consentito, così come la licenza non esclusiva ed il conseguente co-uso della stessa insegna da parte di imprenditori collegati (ad esempio nel franchising).
Funzione del marchio. Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa.
Esso costituisce il principale collegamento tra produttori e consumatori e svolge perciò un ruolo centrale nella formazione e nel mantenimento della clientela. La sua principale funzione è la differenziazione del prodotto da quelli concorrenti. Inoltre il marchio è indicatore di provenienza da una fonte unitaria di produzione, anche se dopo la riforma del 1992 è possibile anche la licenza non esclusiva del marchio. Terza funzione del marchio può essere considerata quella di attrarre i consumatori. Da notare che non può invece essere considerata una funzione del marchio quella di garanzia della qualità dei prodotti: nessuna norma può infatti vietare al produttore variazioni qualitative della propria produzione.
Nell’ordinamento nazionale il marchio è disciplinato dal codice Civile (artt. 2569-2574) e dalla legge marchi modificata nel 1992 dopo l’emanazione della Direttiva CEE del 1988. Il marchio internazionale è disciplinato da due convenzioni internazionali.
Tipi di marchi. A seconda di ciò su cui si pone l’attenzione, è possibile distinguere:
Requisiti di validità. Per tutelare e registrare il marchio, bisogna rispettare alcuni requisiti:
¬ Liceità. Il marchio non deve andare contro la legge, il buon costume, l’ordine pubblico, non deve contenere segni protetti da convenzioni internazionali, lesivi di diritto d’autore o di proprietà industriale. Riguardo alla tutela dell’altrui diritto al nome: se si tratta di persona nota, è necessario il suo consenso per utilizzare il suo nome o lo pseudonimo (es. videogiochi Fifa senza il nome di Ronaldo), se invece si tratta di persona non nota, in generale non c’è bisogno del consenso ma l’uso non deve comunque “ledere la fama, il credito o il decoro” dell’avente diritto al nome.
Verità (o non ingannevolezza del marchio). Nel marchio non possono essere inseriti segni idonei ad ingannare il pubblico, “in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi” (es. marchio New England per magliette fabbricate in Italia).
® Originalità. Il marchio deve cioè essere composto in modo da consentire l’individuazione sul mercato dei prodotti contrassegnati. Secondo il legislatore, non bastano né le denominazioni generiche del prodotto o del servizio o la loro figura generica (es. “calzature”), né le indicazioni descrittive dei caratteri essenziali, delle prestazioni e della provenienza geografica del prodotto (es. “brillo” per prodotti luccicanti), né i segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente (es. “super”, “extra”). Si vuole così impedire l’acquisto di posizioni di monopolio su simboli che nel lessico comune individuano genericamente quel dato prodotto. Tale regole non valgono per marchi di fantasia, che non abbiano relazione con il prodotto contraddistinto(es.“aeroplano” per un marchio di calzature), e per parole straniere generiche non note al consumatore medio italiano (es. “Cynar”).
E’ possibile usare combinazioni di parole generiche (es. ”Amplifon”), tuttavia in questo caso il marchio è detto marchio debole poiché bastano poche modifiche per imitarlo(es. “Udifon”). Marchi forti sono invece quelli dotati di forte capacità distintiva e quindi in genere i marchi di pura fantasia.
Ai fini dell’originalità, è importante parlare del “secondary meaning”. E’ il caso di marchi registrati ma privi di capacità distintiva (come parole generiche, tipo “Bambolina”), che possono diventare marchi “forti”, e quindi validi, a seguito dell’uso che ne è stato fatto e della notorietà che ha acquistato presso il pubblico, in genere grazie ad un’accorta pubblicità.
¯ Novità. La novità riguarda l’uguaglianza o la somiglianza con altri marchi. Si distingue tra marchi ordinari e marchi celebri. Per i primi la regola è che non sono nuovi i segni che possono determinare “un rischio di confusione per il pubblico”, poiché identici o simili ad un segno già noto come marchio, ditta o insegna di altro imprenditore concorrente, o comunque già registrato da altri come marchio per prodotti identici o affini. Il rapporto di affinità non è invece necessario se il marchio è celebre.
à Nullità e convalida. Il difetto dei requisiti di validità esposti comporta la nullità del marchio, che può riguardare anche solo parte dei prodotti o servizi per i quali il marchio è stato registrato.
Due eccezioni sono previste: a) la nullità del marchio per difetto di novità non può più essere dichiarata quando chi lo ha richiesto non era in mala fede ed il titolare del marchio anteriore ne abbia tollerato l’uso per cinque anni (è questa la convalida del marchio); b) la nullità del marchio per difetto di originalità non può più essere dichiarata quando il marchio ha acquisito capacità distintiva grazie al secondary meaning.
Il marchio registrato. La registrazione del marchio presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi, attribuisce al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo dello stesso su tutto il territorio nazionale. Il diritto di esclusiva copre prodotti identici ma anche affini (destinati cioè alla stessa clientela, es. frigoriferi e lavatrici, o al soddisfacimento di bisogni identici o complementari, es. prodotti caseari e alimentari). Per marchi celebri, come detto, la tutela copre anche prodotti non affini (es. Coca-Cola non può essere utilizzato da altri per il vestiario).
Il diritto di esclusiva decorre in maniera retroattiva dalla data di presentazione della domanda all’Ufficio B.M. (e non dalla registrazione!), sempre che sia poi arrivata la successiva conferma.
Dopo il deposito del marchio, l’Ufficio B.M. verifica solo i requisiti di non ingannevolezza e liceità, mentre riguardo all’originalità e alla novità possono sorgere problemi e controlli solo in caso di controversie. La registrazione del marchio dura 10 anni, ma è rinnovabile un numero infinito di volte (tutela pressoché perpetua), salvo che non sia dichiarata nullità o decadenza del marchio.
à Decadenza. Un marchio decade per: a) volgarizzazione (marchio diventato denominazione generica, es. Aspirina), b) sopravvenuta ingannevolezza dello stesso, c) mancata utilizzazione entro cinque anni dalla registrazione, o se l’utilizzazione è stata sospesa per uguale periodo, salvo che l’inerzia del titolare non sia dovuta a motivo legittimo.
Il marchio registrato è tutelabile civilmente e penalmente: il titolare del marchio leso nel diritto di esclusiva, può promuovere azione di contraffazione, per ottenere l’inibitoria della continuazione di atti lesivi, e la rimozione degli effetti degli stessi. Possono essere utilizzati marchi protettivi (non soggetti a decadenza) per precostituire la prova della confondibilità.
Il marchio di fatto. La tutela del marchio di fatto è decisamente minore di quella del marchio registrato, e più o meno ampia a seconda della diffusione locale o nazionale. Infatti, l’art. 2571 dispone che “chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, [ma] nei limiti in cui anteriormente se ne è avvalso”.
Se c’è notorietà nazionale,il titolare di marchio non registrato potrà impedire l’uso o la registrazione di marchio confondibile per difetto di novità riguardo prodotti uguali,ma non affini. Se c’è notorietà locale, altri potranno utilizzare e registrare lo stesso marchio in altre regioni. In tal caso il titolare di marchio di fatto non potrà diffondere i prodotti contrassegnati fuori dall’ambito territoriale.
Trasferimento del marchio. Il marchio può essere trasferito a titolo sia temporaneo sia definitivo, e dal 1992 può essere trasferito o concesso in licenza anche senza trasferimento dell’azienda. E’ ora possibile anche la licenza di marchio non esclusiva, utilizzata per il franchising e il merchandising.
Dal trasferimento o concessione del marchio non deve comunque derivare inganno nei caratteri essenziali dei prodotti e il licenziatario deve utilizzare il marchio per prodotti con uguali caratteristiche a quelle dei prodotti del concedente. In caso di violazione, si è esposti alla decadenza.
Oggetto. Le invenzioni industriali consistono nella soluzione originale di un problema tecnico, suscettibile di pratica applicazione nel settore della produzione di beni o servizi. Rispetto alle opere dell’ingegno, si differenziano per il diverso modo di acquisto del diritto di utilizzazione economica: la concessione del corrispondente brevetto da parte dell’Ufficio Brevetti e marchi.
Possono formare oggetto di brevetto:
¬ Invenzioni di prodotto, riguardanti un nuovo prodotto materiale;
Invenzioni di procedimento, riguardanti un nuovo metodo;
® Invenzioni derivate, che “derivano da un’invenzione precedente e a loro volta si suddividono in: a) invenzioni di combinazione, combinazione di invenzioni precedenti per averne una nuova, b) invenzioni di perfezionamento, attraverso modificazioni di miglioramento di un’invenzione precedente; c) invenzioni traslative, nuova utilizzazione di prodotto già conosciuto.
Per scelta legislativa, non sono però considerate invenzioni (e tutti così ne possono fruire):
scoperte, teorie scientifiche e metodi matematici; presentazione di informazioni; software (mentre lo è l’hardware). Non sono brevettabili neanche i metodi diagnostici e chirurgici, né le razze animali modificate biologicamente.
Requisiti di validità:
Il diritto al brevetto. L’inventore acquista il diritto ad essere riconosciuto autore dell’invenzione (diritto morale) per il solo fatto dell’invenzione. Egli ha inoltre il diritto, trasferibile, di conseguire il brevetto (diritto al brevetto), che ha funzione costitutiva ai fini dell’acquisto del diritto patrimoniale all’utilizzazione economica in esclusiva sul trovato (diritto sul brevetto).
N.B. Non sempre l’autore dell’invenzione coincide col soggetto legittimato a richiedere il
brevetto e a sfruttarlo economicamente.
Posto che il lavoratore ha sempre diritto ad essere riconosciuto autore dell’invenzione fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro (art. 2590), possono distinguersi 3 casi:
Domanda di brevetto. La domanda per il brevetto va fatta all’Ufficio brevetti, corredata, a pena di nullità, da una adeguata descrizione dell’invenzione. Può inoltre avere ad oggetto una sola invenzione e deve specificare cosa debba formare oggetto del brevetto (rivendicazione).
L’Ufficio brevetti accerta solo la regolarità formale (liceità e industrialità), e non accerta invece né se il richiedente è titolare del diritto al brevetto, né la novità e l’originalità.
Durata ed effetti. La durata del brevetto per invenzioni industriali è 20 anni dalla data di deposito della domanda (e non dalla registrazione!). E’ esclusa ogni possibilità di rinnovo.
Il brevetto conferisce la facoltà esclusiva di attuare l’invenzione e di trarne profitto nel territorio dello Stato, sia per quanto riguarda la fabbricazione, sia per quanto riguarda il commercio e l’importazione dei prodotti cui l’invenzione si riferisce. Si parla però di esaurimento à L’esclusiva di commercio si esaurisce con la prima immissione in circolazione del prodotto brevettato (finalità di ridimensionare eventuali posizioni monopolistiche create dal brevetto)
Caso particolare dell’invenzione di procedimento. Se l’invenzione riguarda un nuovo metodo, il titolare del brevetto non potrà impedire la messa in commercio di prodotti identici ai propri, se ottenuti con metodo differente.
Trasferimento e licenza di brevetto. Il brevetto è liberamente trasferibile sia fra vivi sia mortis causa, indipendentemente dal trasferimento dell’azienda. Sul brevetto potranno essere conseguiti diritti reali di godimento o di garanzia. Il titolare del brevetto può inoltre concedere licenza di uso dello stesso, con o senza esclusiva di fabbricazione a favore del licenziatario.
Tutela. L’invenzione brevettata è tutelata da sanzioni civili e penali. E’ possibile esercitare azione di contraffazione verso chi abusivamente sfrutta l’invenzione, che può causare l’inibitoria ed eventualmente il sequestro, la rimozione, la distruzione, salvo il risarcimento dei danni. Può essere anche disposta la pubblicazione in uno o più giornali.
Brevettazione internazionale. Il rilascio del brevetto per invenzione attribuisce diritto di invenzione solo sul territorio nazionale. In ambito europeo, per la tutela in altri Stati:
Invenzione non brevettata. Chi non brevetta un’invenzione può sfruttarla in segreto, ma rischia che qualcun altro lo preceda, attraverso la brevettazione, acquistando il diritto di esclusiva. Chi ha fatto uso dell’invenzione nella propria azienda, nei 12 mesi anteriori all’altrui domanda, può continuare a sfruttare l’invenzione stessa nei limiti del preuso. Può anche trasferire tale facoltà, ma solo insieme all’azienda in cui l’invenzione è utilizzata.
I modelli industriali sono creazioni intellettuali applicate all’industria di minor rilievo rispetto alle invenzioni industriali. Essi si dividono in:
Data la difficoltà di distinguere agevolmente tra i due modelli, il legislatore consente di ottenere entrambi i brevetti contemporaneamente e di godere di entrambe le protezioni.
Difficile appare distinguere tra invenzioni e modelli di utilità (i cui brevetti non sono cumulabili), e soprattutto tra modelli ornamentali e opere soggette al diritto d’autore. Per quest’ultimo caso è applicato dal legislatore un criterio poco chiaro, definito criterio della scindibilità: se la forma
estetico è scindibile dal prodotto stesso, è applicabile il diritto d’autore, in caso contrario si preferisce utilizzare la disciplina dei brevetti riguardanti i modelli ornamentali.
CAPITOLO 8: LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA
Il modello del mercato teorizzato, ideale e teorico, è quello della concorrenza perfetta.
Il riconoscimento legislativo della libertà di iniziativa economica privata e della conseguente libertà di concorrenza (art. 41 Cost.) è presupposto necessario ma non sufficiente perché si instauri un regime oggettivo di mercato caratterizzato da un sufficiente grado di concorrenza effettiva.
E’ necessaria pertanto una regolamentazione legislativa della concorrenza e di tutti i tipi di intese, che non vanno sempre viste come negative à talvolta sono necessarie limitazioni della concorrenza, quando lede il principio del pubblico interesse: l’art. 2595 dispone che “la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi della comunità nazionale” e l’art. 41 Cost. ribadisce che l’iniziativa privata è sì libera, ma “non piò svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”.
Disciplina antitrust. Solo con la legge n.287/1990 è in vigore in Italia una disciplina nazionale antitrust, che regola il regime concorrenziale nazionale, e che va ad affiancarsi alla disciplina antitrust comunitaria, che regola la concorrenza che incide sul mercato europeo. La competenza della disciplina italiana ha carattere residuale: è circoscritta alle pratiche concorrenziali che hanno rilievo esclusivamente locale e che non incidono sulla concorrenza nel mercato comunitario.
Sul rispetto delle normative comunitaria ed italiana vigilano rispettivamente la Commissione delle Comunità Europee e l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Per i “settori speciali” (editoria, radiodiffusione, aziende di credito) sono previste specifiche autorità di vigilanza.
L’Autorità italiana ha ampi poteri di indagine ed ispettivi, adotta i provvedimenti monopolistici necessari ed irroga le sanzioni amministrative pecuniarie previste. Contro i provvedimenti amministrativi, è possibile il ricorso al TAR del Lazio.
Tre sono i fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica nazionale e comunitaria:
Fonte: http://lab.artmediastudio.it/www-storage/appunti/155951/30392/Diritto%20commerciale%20Campobasso.doc
Sito web da visitare: http://lab.artmediastudio.it/
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