Diritto informazione e comunicazione

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Diritto informazione e comunicazione

 

DIRITTO DELL’INFORMAZIONE E DELLA COMUNICAZIONE – Riassunto libro di Paolo Caretti

1 - STAMPA

La libertà di stampa nel periodo statutario

La tutela della libertà di stampa si afferma insieme all’affermarsi della forma di Stato liberale. E’ solo con le due grandi rivoluzioni della fine del 700, quella americana e quella francese, che cominciano a definirsi modelli stabili di tutela della libertà di stampa: da una parte il modello americano di stampo giusnaturalista, che trova espressione nel 1° emendamento della Costituzione del 1787; dall’altra il modello francese positivista che trova espressione nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 e poi nella Costituzione del 1791. Sarà proprio questo secondo modello quello al quale si ispireranno le Costituzioni liberali europee del secolo scorso.

In questo contesto si inserisce perfettamente anche lo Statuto Albertino del 1848, divenuto successivamente Carta costituzionale del Regno d’Italia. Nel 1848 viene pubblicato anche l’Editto sulla stampa che affronta tutti i profili fondamentali della disciplina della libertà di stampa: dall’introduzione del divieto di ogni forma di censura preventiva, alla definizione dei reati a mezzo stampa ecc. Da notare, all’interno dell’Editto, l’ampiezza della nozione di abuso nell’esercizio della libertà di stampa e la sua potenziale utilizzazione in chiave repressiva del dissenso politico espresso attraverso la stampa. Tuttavia, questo primo atteggiamento di favore nei confronti della libertà di stampa presente nell’Editto subirà col tempo una progressiva trasformazione in senso più restrittivo, mano a mano che emergerà con maggiore evidenza il nesso tra stampa e politica. Espressioni chiare di questo sono da un lato le prassi applicative delle norme dell’editto, di cui spesso si accentuano gli elementi meno “liberali”, dall’altro le varie leggi di polizia che si succedono nei decenni che accompagnano e seguono l’unificazione del paese.

Solo con l’avvio del periodo giolittiano, in virtù delle condizioni generali di maggior stabilita politica e sociale che lo caratterizzano rispetto al passato, appaiono i primi segnali chiari di una attenuazione delle tendenze restrittive in materia di libertà di stampa.

La svolta in senso liberale che la disciplina della libertà di stampa avrebbe potuto ricevere subì però una brusca battuta d’arresto con l’inizio della guerra. Con la legge n. 83 del 1915, infatti, si stabilì di attribuire all’Esecutivo il potere di vietare la pubblicazione di ogni notizia di carattere militare. Si diede il via a un generalizzato sistema di censura preventiva degli stampati.  Questo sistema, giustificato dalle esigenze legate alla sicurezza nazionale durante il periodo bellico, continuò, tuttavia, a trovare parziale applicazione anche nell’immediato primo dopoguerra, caratterizzato da forti tensioni sociali e politiche, e fu alla base di quello che da lì a poco sarebbe divenuto l’asse portante della legislazione fascista in materia.

La disciplina della stampa durante il periodo fascista

Durante il periodo fascista fu significativa la tendenza del regime ad estendere il proprio controllo sulle stesse condizioni di esercizio della libertà di stampa. Importante fu anche l’istituzione dell’Ordine e dell’Albo dei giornalisti. Questa costituì un meccanismo di filtraggio e selezione “politica” di coloro che volessero esercitare l’attività giornalistica. L’ Albo si componeva di 3 elenchi:

  1. quello dei giornalisti professionisti (nel quale potevano essere iscritti coloro che avessero esercitato la professione in via esclusiva per almeno 18 mesi)
  2. quello dei praticanti (nel quale potevano iscriversi coloro che avessero esercitato in via esclusiva l’attività giornalistica per un periodo inferiore ai 18 mesi o che non avessero ancora compiuto i 21 anni di età)
  3. quello dei pubblicisti (nel quale potevano essere iscritti coloro che esercitavano l’attività giornalistica non in via esclusiva)

Per l’iscrizione all’Albo, oltre ai requisiti “positivi” (possesso della cittadinanza italiana, godimento dei diritti civili, attestato dell’attività svolta presso un’impresa editoriale), si richiedevano anche alcuni requisiti “negativi” che consistevano in una serie di divieti come ad esempio un divieto di iscrizione per coloro che avessero riportato una condanna a pena detentiva superiore ai 5 anni, un divieto a carico di coloro che avessero svolto una “pubblica attività contraria agli interessi della Nazione”, e si esplicitava l’esigenza dell’ allineamento politico di fondo di ogni giornalista con i principi del nuovo regime che il richiedente era costretto a certificare legalmente dal Prefetto.

In realtà l’Ordine non fu mai istituito e  le funzioni ad esso attribuite furono di fatto esercitate dal sindacato nazionale fascista dei giornalisti.

Il nuovo assetto della disciplina della libertà di stampa trova un suo svolgimento nella nuova disciplina dei reati a mezzo stampa stabilita dal codice Rocco del 1930. Con il codice Rocco l’intero settore dei reati a mezzo stampa è ricondotto nell’ambito della disciplina codicistica. Essa tocca in primo luogo il profilo dell’imputazione della responsabilità per la commissione di reati di questo tipo. La nuova disciplina codicistica si segnala per un notevole arricchimento dei tipi di crimine (es. il vilipendio, la diffamazione, i reati a mezzo pubblicitario) e l’ aggravamento delle pene relative. Tra il 1926 e il 1931 si verifica inoltre l’ampliamento dei poteri di intervento preventivo dell’autorità di polizia sulla stampa. L’autorità di pubblica sicurezza è abilitata ad intervenire anche al di là delle ipotesi che lasciano presumere l’esistenza di un reato, ogni qual volta si sia in presenza di scritti che si presentino come contrari agli ordinamenti politici, sociali o economici costituiti nello Stato o lesivi del prestigio dello Stato o dell’autorità o offensivi del sentimento nazionale, del pudore, che minacciano la sicurezza pubblica o che facciano propaganda indiretta o diretta di mezzi anticoncezionali.

La politica fascista si mosse anche sul versante del sostegno economico alle imprese editoriali, dando vita a forme di aiuto destinate a rimanere per lungo tempo, anche successivamente al crollo del fascismo, tra gli elementi portanti del sistema dell’intervento pubblico in questo settore. Nella prima metà degli anni 30 prende corpo la prima forma istituzionalizzata di sostegno economico alla stampa. Essa nasce in realtà insieme alla costituzione dell’Ente nazionale cellulosa e carta.

Si assiste anche alla nascita di apparati amministrativi sempre più consistenti che operano su due versanti:

  1. quello dei controlli sul contenuto dell’informazione stampata
  2. quello degli interventi economici.

Nel 1923 l’Ufficio stampa viene spostato dal Ministero dell’ Interno alla Presidenza del Consiglio. A partire dal 1924 esso svolgerà il compito di fornire agli organi di stampa le informazioni politiche ufficiali al fine di assicurare un omogeneo allineamento dell’informazione soprattutto politica agli indirizzi politici del regime.

Nel 1937 ci fu poi la sostituzione del Ministero per la Stampa e la propaganda con il Ministero di cultura popolare, cui il regime assegnò il compito di coordinare le diverse forme di controllo esercitate dallo Stato sulla stampa e su ogni altro aspetto della vita culturale del paese.

Nel 1940 viene costituito l’Ente stampa che era chiamato a svolgere un’azione tesa a garantire l’omogeneità e il coordinamento dei diversi organi di informazione.

La libertà di stampa durante il periodo costituzionale provvisorio

I primi interventi normativi relativi all’esercizio della libertà di stampa, adottati subito dopo la caduta del fascismo, risentono di 2 elementi:

  1. il perdurare dello stato di guerra
  2. la situazione di sovranità limitata in cui versa l’ Italia in questo periodo e che si traduce, nel settore in esame, nell’emanazione di direttive vincolanti da parte di un apposito organismo (il Psychological Warfare Branch), istituito dalla autorità occupanti.

E’ solo con l’imminenza dell’avvio dei lavori dell’Assemblea costituente che si assiste al varo di un primo significativo provvedimento legislativo che segna una svolta radicale rispetto al passato e che testimonia del maturare di un atteggiamento favorevole alla restituzione alla stampa della sua dimensione di diritto di libertà e non più di strumento di sostegno e propaganda degli assetti di potere costituiti. Si tratta del d.l. n. 561 del 1946 che ridisciplina lo strumento del sequestro. Le nuove disposizioni aboliscono il sequestro preventivo ad opera dell’autorità di pubblica sicurezza e limitano il ricorso ad esso ai soli casi di sentenza di condanna irrevocabile per l’accertata commissione di un reato a mezzo stampa.

Nello stesso periodo ci fu la riconduzione alla Presidenza del Consiglio delle competenze amministrative in materia di stampa.

La nuova disciplina costituzionale della libertà di stampa nel dibattito in Assemblea costituente

Si cerca di ridimensionare i danni provocati durante il regime fascista.

Si realizza un’inversione di tendenza rispetto al passato nella definizione dei rapporti tra autorità giudiziaria e autorità di pubblica sicurezza in materia. Applicando lo schema base di tutela dei diritti di libertà vengono così trasposti i due istituti della riserva di legge e della riserva di giurisdizione, secondo i quali solo la legge del parlamento può stabilire le ipotesi in cui il diritto di libertà è suscettibile di incontrare delle limitazioni e solo il giudice può disporre l’applicazione a singole fattispecie concrete.

Affermato al secondo comma il divieto di sottoporre la stampa ad autorizzazioni e censure, l’ultimo comma dell’art. 21 individua nella sola tutela del buon costume il fondamento di possibili limitazioni alla libertà di stampa. Il terzo comma individua nel sequestro l’unica forma di intervento autoritario sull’esercizio della libertà di stampa, cui solo il giudice può ricorrere e solo nelle ipotesi di delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo preveda. Nel quarto comma si dispone invece che gli ufficiali di polizia giudiziaria, sempre secondo gli estremi previsti dalla legge, siano abilitati in caso di urgenza a disporre il sequestro dello stampato. Si tratta tuttavia di un provvedimento non definitivo che deve essere convalidato dal giudice.

Attenzione assai minore ebbero invece i profili legati allo sviluppo del settore dell’informazione rispetto alle esigenze di pluralismo e diversificazione delle fonti che è necessario soddisfare in un sistema democratico. L’unica disposizione a riguardo si trova nel comma n. 5 dell’art. 21 in cui vengono dettate norme di carattere generale che consentano di pubblicizzare i mezzi di finanziamento delle imprese editoriali nel settore della stampa periodica. Era una disposizione che mirava a garantire al trasparenza a tutela dell’interesse degli utenti dell’informazione, ossia dei cittadini.

L’attuazione del dettato costituzionale: la legge n. 47 del 1948

In relazione alla stampa periodica la vera novità sta nell’abolizione dell’autorizzazione dell’autorità prefettizia e la sua sostituzione con un semplice obbligo di registrazione delle testate presso l’autorità giudiziaria.

Con l’introduzione dell’istituto della registrazione scomparivano anche le vecchie norme fasciste relative al riconoscimento del direttore responsabile, la cui figura resta inalterata.

Un ultimo aspetto della legge in esame è quello relativo alle integrazioni che essa contiene in ordine alle fattispecie di reati a mezzo stampa.

I residui poteri di intervento preventivo dell’autorità di pubblica sicurezza e i reati a mezzo stampa al vaglio della Corte costituzionale

Sono state eliminate, in seguito a una pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza n. 1 del 1956), le licenze di polizia relative all’affissione degli stampati, disciplinate dall’art. del t.u. delle leggi di pubblica sicurezza del 1931. Il risultato delle varie modifiche introdotte dalla legge n. 47 del 1948 è stato la sopravvivenza, accanto alle ipotesi connesse alla tutela dei diritti individuali di un folto numero di fattispecie di reato, connesse all’esercizio della libertà di espressione, a tutela della personalità dello Stato, a tutela del sentimento religioso, a tutela dell’ordine pubblico, cui è difficile riconoscere un sicuro fondamento costituzionale. Solo di recente la disciplina codicistica è stata modificata provvedendo a sfoltire la trama fittissima dei reati connessi all’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero.

La riforma della disciplina dell’Ordine e dell’Albo dei giornalisti: con la legge n. 69 del 1963 si è proceduto alla completa riforma della precedente legislazione fascista relativa all’Ordine e all’Albo dei giornalisti. La legge prevede che tutte le attività connesse alla tenuta dell’Albo siano affidate all’Ordine dei giornalisti, articolato in consigli regionali o interregionali e dal consiglio nazionale, istituito presso il Ministero di Grazia e giustizia e composto da due giornalisti professionisti e da un pubblicista per ogni consiglio regionale o interregionale.

Ai consigli regionali o interregionali spetta, tra l’altro, oltre alla cura dell’osservanza della legge professionale, la tenuta dell’Albo: essi decidono in merito alle iscrizioni e alle cancellazioni, ed esercitano il potere disciplinare nei confronti dei loro iscritti. Quanto alle modalità di iscrizione all’Albo, esse si differenziano a seconda che si tratti di giornalisti professionisti (coloro che esercitano la professione giornalistica in modo continuativo ed esclusivo) o di pubblicisti (coloro che invece esercitano l’attività giornalistica in modo non occasionale e retribuito, ma non esclusivo).

Per l’iscrizione nell’elenco dei giornalisti professionisti si richiede, oltre al raggiungimento del ventunesimo anno di età, l’iscrizione nel registro dei praticanti, l’esercizio continuativo della pratica giornalistica per un periodo di tempo non inferiore ai 18 mesi, il superamento con esito favorevole di una prova di idoneità professionale, da svolgersi davanti a una commissione mista composta da 5 giornalisti professionisti e 2 magistrati, nominati dal Presidente della Corte d’Appello di Roma. Accanto a questi requisiti positivi, la legge ne richiede anche di negativi, come il non aver riportato condanne penali che comportino l’interdizione dai pubblici uffici. Quanto all’iscrizione all’elenco dei pubblicisti, si prevede che i richiedenti, oltre ai requisiti per l’iscrizione all’Albo dei giornalisti professionisti, siano tenuti a documentare un’attività pubblicistica retribuita svolta per almeno 2 anni.

Ai consigli regionali o interregionali spetta ogni decisione in merito alla cancellazione dall’Albo, la quale può intervenire o per perdita di uno dei requisiti richiesti per l’iscrizione, per cessazione dell’attività o per inattività protratta per un periodo di tempo da 2  a 3 anni.

Secondo quanto disposto dall’art. 48 sono passibili di essere sottoposti a procedimento disciplinare gli iscritti all’Albo che “si rendano colpevoli di fatti non conformi al decoro e alla dignità professionali, o di fatti che compromettano la propria reputazione o la dignità dell’ordine.” Tale procedimento si conclude con una decisione del consiglio che può comportare l’irrogazione di sanzioni che vanno dal semplice avvertimento a cambiare condotta, alla censura, alla sospensione dall’esercizio della professione, fino alla radiazione dall’Albo nei casi più gravi. Ai soggetti colpiti da sanzione disciplinare si riconosce il diritto di esperire tutti i ricorsi che la legge prevede. Nell’ipotesi di radiazione si riconosce il diritto all’interessato di richiedere la reiscrizione all’Albo, dopo che siano trascorsi almeno 5 anni dal giorno della radiazione.

In base a quanto è stato disposto dall’art. 21, 1° c., Cost., che dà a tutti il diritto di manifestare il proprio pensiero, sono nati dei dubbi sulla legittimità costituzionale sull’istituzione dell’Ordine e dell’Albo dei giornalisti, cui ha risposto la Corte Costituzionale con una pronuncia del 1968 in cui la disciplina che regola la professione giornalistica viene vista come un elemento che tutela la libertà di stampa.

Diritti e doveri del giornalista

Quanto ai diritti, essi consistono nella insopprimibile libertà di informazione e di critica “limitata all’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui.”

Quanto ai doveri, essi si riferiscono all’obbligo di rispettare la verità sostanziale dei fatti, all’obbligo di rettificare le notizie che risultino inesatte e di riparare agli eventuali errori, all’obbligo di rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie quando ciò sia richiesto.

Si prevede che chi si senta fatto oggetto di notizie false o inesatte abbia il diritto di chiederne la rettifica all’organo di stampa, che deve essere sollecita ed avere lo stesso rilievo tipografico di quello riservato alla notizia cui la rettifica si riferisce.

Contrattazione collettiva: ha introdotto le c.d. “clausole di coscienza”, che consentono al giornalista che non condivida il mutamento di linea editoriale del periodico presso il quale presta la propria attività di sciogliere unilateralmente il rapporto, senza perdita delle indennità di fine rapporto.

Si è assistito alla mancata ridefinizione legislativa degli esatti confini del diritto di cronaca. Ciò ha consentito la permanenza di una disciplina codicistica del segreto di Stato, estesa non solo alla tutela della sicurezza nazionale, ma anche dell’interesse politico dello Stato che solo con la legge n. 801 del 1977 ha conosciuto una modifica che ha ricondotto la nozione del segreto penalmente tutelabile all’unico interesse costituzionalmente rilevante e cioè quello legato alla sicurezza dello Stato.

Bisogna sottolineare anche la permanenza del segreto istruttorio che non realizza affatto quel giusto contemperamento tra diritto di cronaca ed esigenze della giustizia che sarebbe viceversa auspicabile.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n.5259 del 1984, ha esteso i limiti del diritto di cronaca identificandoli nella verità dei fatti descritti, nella rispondenza dei medesimi ad un interesse sociale effettivo alla loro conoscenza e nella correttezza della loro esposizione.

Il nuovo codice di procedura penale prevede una parziale estensione del diritto di astenersi dal testimoniare anche per i giornalisti. Ai sensi, infatti, dell’art. 200, 3° c., tale diritto viene riconosciuto ora anche ai giornalisti professionisti iscritti all’Albo professionale con riferimento “ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario.”

Attività giornalistica e tutela della “privacy”

La legge sulla privacy: legge n. 675 del 1996, che rappresenta l’adempimento del legislatore italiano agli obblighi derivanti sia dalla Convenzione di Strasburgo del 1981, resa esecutiva con legge n. 98 del 1989, sia dall’Accordo di Schengen del 1985, sia da atti normativi comunitari e da varie raccomandazioni del Consiglio d’Europa.

Oggetto della disciplina posta dalla legge è la raccolta e il trattamento dei dati personali (ossia informazioni relative a persone fisiche, persone giuridiche, enti o associazioni, identificati o identificabili), effettuati da qualunque soggetto sul territorio nazionale.

Per ciò che attiene alla raccolta e al trattamento effettuati da soggetti privati la tutela si realizza essenzialmente attraverso tre strumenti:

  1. l’imposizione a carico del soggetto che realizza le dette attività di raccolta e trattamento di dati personali di una serie di obblighi che vanno dall’informazione degli interessati, alla richiesta di un apposito consenso da parte degli stessi.
  2. la costituzione di una serie di diritti per coloro che sono oggetto delle attività suddette, che vanno dal diritto di accesso ai propri dati, al diritto di controllo e di rettifica, al diritto di opporsi per motivi legittimi al trattamento dei dati stessi.
  3. l’istituzione di un’apposita Autorità di garanzia (il Garante per la protezione dei dati personali) composta da 4 membri di nomina parlamentare con compiti di vigilanza sulla corretta applicazione della legge, nonché compiti di intervento volti a far cessare comportamenti contrari alla legge.

La legge contiene una disciplina specifica sulle attività di raccolta e trattamento dei c.d. “dati sensibili”, ossia quei dati che sono in grado di rilevare l’origine razziale ed etnica delle persone, le loro convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, l’adesione a partiti e sindacati, le condizioni di salute, le abitudini sessuali. A questo riguardo, si prevede infatti che il trattamento, quando effettuato da soggetti privati, possa avvenire solo con il consenso scritto degli interessati e previa autorizzazione dell’Autorità garante, mentre quando è effettuato da soggetti pubblici, possa avvenire solo nelle ipotesi in cui esso è autorizzato da espresse previsioni legislative.

Ai giornalisti e a tutti coloro che esercitano l’attività di informazione si consente di raccogliere e diffondere  dati personali, compresi i dati sensibili, senza incontrare tutte le limitazioni previste dalla legge in via generale. La legge prevede inoltre l’adozione di uno speciale “codice di deontologia” approvato da parte dell’Ordine dei giornalisti in dialettica collaborazione con l’Autorità garante nel luglio 1998. Al suo interno si è stabilito che il giornalista è tenuto solo a rendere nota la propria identità, la propria professione e la finalità della raccolta di dati. Il codice deontologico contiene inoltre importanti disposizioni relative ai minori e alla tutela della dignità personale. Infine il codice prevede che le sue disposizioni si applichino non solo ai giornalisti professionisti, ma anche a tutti coloro che anche occasionalmente esercitino l’attività pubblicistica.

Gli interventi sui mezzi (le imprese editoriali): il soggetto economico alla stampa

Gli interventi sulle condizioni economiche nelle quali operano le imprese editoriali: fino agli anni 70 l’unico rilevante strumento in tale direzione è stata l’integrazione del prezzo della carta, operata dall’ente nazionale cellulosa e carta. A questo strumento si aggiungono poi le forme di sostegno indiretto rappresentate da alcune agevolazioni fiscali e riduzioni tariffarie. Solo con la legge n. 1063 del 1971 si assiste all’introduzione di 3 importanti integrazioni al sistema di sostegno economico alla stampa sino ad allora vigente. Vengono decisi anche dei contributi straordinari per le imprese editrici, finanziati direttamente dal bilancio dello Stato. Si è poi stabilito che le imprese editoriali possano accedere a forme di credito agevolato.

In seguito viene approvata la legge n. 172 del 1975 in cui si stabilisce una sempre più stretta relazione tra sostegno economico dello Stato e programmi di riconversione tecnologica delle imprese editoriali. Obiettivo principale di tale impostazione resta quello di mantenere un livello sufficiente di pluralismo informativo.

E’ con la legge n. 416 del 1981, successivamente modificata dalla legge n. 67 del 1987, nonché dalla più recente legge n. 250 del 1990, che la disciplina della materia in esame compie un decisivo salto di qualità. La linea di fondo di questa normativa è rappresentata dal tentativo di ridefinire l’intervento di sostegno statale, abbandonando progressivamente la strada del sostegno diretto, di natura sostanzialmente assistenziale, a favore di un intervento di sostegno soprattutto indiretto e mirato a favorire il processo di modernizzazione tecnologica in atto nel settore editoriale. I contributi indiretti ruotano attorno all’istituzione di due fondi speciali volti ad agevolare l’accesso al credito da parte delle imprese editrici impegnate in specifici programmi di ristrutturazione tecnico-economica. Accanto alle forme di mutuo agevolato disposte a favore delle imprese editrici di opere di elevato valore culturale sono anche previste agevolazioni concernenti le tariffe telefoniche, telegrafiche, postali e dei trasporti.  Sulla base di quanto disposto dalla legge n. 67 del 1987 e dalla legge n. 250 del 1990, l’area dei possibili destinatari di interventi di sostegno economico diretto si riduce fino a ricomprendere solo alcune particolari categorie di imprese editrici. Questa decisione ha suscitato numerose critiche per aver ignorato l’esigenza del pluralismo informativo nel preferire solo alcune imprese editrici. In parallelo alla drastica riduzione degli interventi di sostegno economico diretto e all’accentuazione degli interventi indiretti a favore della stampa, si è proceduto all’abolizione del meccanismo del prezzo amministrato. La fissazione in via amministrativa del prezzo dei quotidiani rappresentava il corrispettivo che veniva imposto alle imprese editrici, in cambio della garanzia di un approvvigionamento costante della materia prima, ossia la carta. A questa ragione se ne aggiunse un’altra e cioè la necessita di mantenere basso il prezzo dei quotidiani, ritenuti i maggiori veicoli di informazione, in generale, e di informazione politica, in particolare.

Riguardo agli altri interventi legislativi, si è assistito anche all’introduzione di un tetto massimo degli introiti pubblicitari. L’art. 5 della legge n. 67 del 1987 stabilisce l’obbligo per le amministrazioni statali e gli enti pubblici non territoriali di destinare alla pubblicità su quotidiani e periodici almeno il 50 % delle spese complessivamente sostenute per pubblicità.

Di recente si è inoltre assistito ad interventi a riguardo non solo da parte dello Stato ma anche delle Regioni. Tutti gli statuti regionali infatti recano una serie di disposizioni che alludono ad un impegno delle Regioni a favorire le condizioni per lo sviluppo di un sistema informativo in grado di assicurare un’effettiva e consapevole partecipazione dei cittadini alle scelte politiche regionali.  Tali disposizioni sono rimaste a lungo sulla carta in quanto c’ è stata l’opposizione del Governo nazionale a riconoscere la legittimità di leggi regionali a riguardo.

Le nuove norme in materia di vendita di quotidiani e periodici

Con la legge n. 108 del 1999 sono state stabilite le regole sulla vendita di quotidiani e periodici. All’interno di questa legge si è deciso di sperimentare altri possibili punti vendita che vadano ad integrare la rete fissa dedicata. A tal fine si è prevista una prima fase di sperimentazione cui possono partecipare alcuni esercizi commerciali espressamente indicati sull’intero territorio nazionale e destinata all’acquisizione di elementi conoscitivi circa le variazioni prodotte da queste nuove forme di vendita sul mercato della stampa quotidiana e periodica. Agli esercizi che partecipano alla sperimentazione (bar, rivendite di carburante ecc.) oltre all’obbligo di assicurare la parità di trattamento alle testate poste in vendita, sono imposti altri obblighi nei confronti degli altri rivenditori (mantenimento dello stesso prezzo, predisposizione di appositi spazi espositivi ecc.).

Alla verifica trimestrale dell’andamento della sperimentazione è preposta una Commissione paritetica Governo-editori. Si prevede che, ultimata la sperimentazione della durata di 18 mesi, il Governo provveda ad adottare un decreto legislativo diretto a far nascere un sistema misto di diffusione.

Le norme anticoncentrazionistiche

A questo riguardo è importante l’art. 3 della legge n. 67 del 1987, che stabilisce che si considera dominante sul mercato la posizione di chi si trovi ad essere editore o a controllare società che editano testate quotidiane, la cui tiratura abbia superato nell’anno precedente, il 20 % della tiratura complessiva dei giornali quotidiani in Italia. Allo stesso modo, è considerata dominante la posizione di chi edita direttamente o controlla società che editano un numero di testate quotidiane superiore del 50 % di quelle edite nell’anno precedente.

Quanto alla nozione di controllo, l’ art. 2359 afferma che sono considerate società controllate:

  1. le società in cui un’altra società dispone della maggioranza di azioni o quote richiesta per la deliberazione dell’assemblea ordinaria
  2. le società che sono sotto l’influenza dominante di un’altra società a causa di legami contrattuali

Sono stati previsti 1) tutta una serie di obblighi di trasparenza a carico delle imprese editrici 2) l’individuazione di appositi organi incaricati del compito di assicurare la corretta applicazione della legge 3) la definizione di uno specifico sistema sanzionatorio.

1) Gli obblighi di trasparenza consistono nel rendere pubblici gli assetti proprietari di chi opera nel settore dell’informazione per la conoscenza degli assetti societari e dei loro eventuali mutamenti. Essi consistono nell’obbligo di iscrizione al Registro nazionale della stampa e in quello di depositare annualmente presso il Registro il proprio bilancio annuale, nonché l’obbligo di comunicare ogni trasferimento di azioni, partecipazioni o quote di proprietà di imprese editrici di quotidiani, se la quota supera il 10 % del capitale sociale. Obblighi aggiuntivi sono inoltre previsti a carico di quelle imprese che controllano più quotidiani o periodici e tra questi quello di presentare un bilancio consolidato di gruppo. Obblighi e limiti analoghi a quelli riferiti alle imprese editoriali sono previsti dalla legge anche nei confronti delle concessionarie di pubblicità, da cui dipende in gran parte la sopravvivenza economica delle diverse iniziative editoriali.

  1. Con la legge n. 416 del 1981 è stata stabilita l’istituzione di un Garante che doveva acquisire informazioni circa l’identità e la situazione patrimoniale dei soggetti che risultassero titolari di azioni o di quote di società editrici di quotidiani o periodici.  Non si prevedeva però con questa legge alcun diretto potere ispettivo ai fini della verifica della veridicità delle informazioni così raccolte. La situazione muta con la legge n. 67 del 1987, la quale introduce tra i poteri del Garante quello di intervenire direttamente  in modo da fornire la relativa informazione al Parlamento.  Inoltre la legge prevede che il Garante possa chiedere al giudice provvedimenti di urgenza.  Un’ulteriore novità si trova nella legge n. 223 del 1990 che prevede il trasferimento dal Servizio dell’editoria al Garante della tenuta del Registro della stampa e il rafforzamento dell’apparato di supporto all’azione del Garante. Inoltre si prevede in questa legge l’estensione dell’intervento del Garante ai processi di concentrazione incrociata stampa-radiotelevisione, con la previsione dia autonomi poteri sanzionatori di carattere amministrativo.

 

  1. Per quanto riguarda infine il profilo sanzionatorio va sottolineato che l’ eventuale violazione dei limiti di soglia fissati dalla legge e degli obblighi di trasparenza ad essa connessi comporta anche la sospensione o perdita degli aiuti economici da parte dei soggetti in posizione dominante beneficiari cui si aggiungono anche sanzioni di carattere penale.

2 - RADIOTELEVISIONE

1. Sistema radiotelevisivo e forma di Stato

      2. Elementi comuni nell'esperienza dei paesi europei in materia di informazione radiotelevisiva

2.1. Il periodo tra le due guerre mondiali
Se si guarda ad un'esperienza che copre ormai poco meno di un secolo non è difficile individuare in essa una linea di sviluppo comune, che ha conosciuto tre fasi distinte:

  1. la fase della introduzione di forme di monopolio pubblico;
  2. la fase della riforma del regime pubblicistico;
  3. la fase della introduzione di un sistema misto, in parte pubblico e in parte privato. La prima fase è quella che caratterizza la disciplina del sistema radiotelevisivo tra le due guerre. La scelta a favore di un regime pubblicistico nasce all'origine da ragioni di ordine sia tecnico, che legate alla particolare natura del mezzo. Tuttavia, per l’affermazione del monopolio pubblico, resta decisivo il fattore di ordine politico legato alla scoperta dell'efficacia del nuovo mezzo quale strumento per la conquista e il consolidamento del consenso sociale a favore degli assetti politici costituiti.

2.2. Le innovazioni introdotte dalla legislazione tra gli anni '60 e '70
L'abbandono del modello pubblicistico, così come ereditato dal passato, doveva rivelarsi tutt'altro che agevole, risultando una delle maggiori difficoltà quella rappresentata dall'assenza nelle Costituzioni di questo periodo di una espressa disciplina del mezzo radiotelevisivo. Di qui lo sviluppo di un ampio dibattito che si incentrava, da un lato, sulle caratteristiche tecniche del mezzo stesso (che utilizza risorse, le frequenze via etere, non illimitate), dall'altro, sul suo impatto sociale, da valutare in termini di incidenza sulla informazione e sulla formazione culturale e politica dei cittadini. Si assiste così all’introduzione di una serie di correttivi e di adattamenti che si muovono essenzialmente su tre piani diversi: 1) il riequilibro del ruolo svolto in questo settore rispettivamente da Governo e Parlamento; 2) la definizione di un più stretto rapporto tra strutture radiotelevisive e autonomie locali; 3) l’introduzione di forme di partecipazione dei gruppi sociali alla gestione ed utilizzazione del mezzo (programmi dell’accesso).

      2.3. Le leggi della «terza generazione» e il superamento del monopolio pubblico radiotelevisivo
Con l'inizio degli anni '80, prende avvio la terza fase dell'evoluzione dei sistemi radiotelevisivi europei, si tratta di quella che potremmo definire la legislazione della «terza generazione» chiamata a fronteggiare una realtà assai complessa ed articolata: dall'accelerazione delle innovazioni tecnologiche (reti via cavo, satelliti da punto a punto e poi a televisione diretta e così via), che conducono verso il superamento della limitatezza «oggettiva» del mezzo, alla crescente pressione esercitata dal mondo imprenditoriale e pubblicitario per una liberalizzazione e privatizzazione dell'attività radiotelevisiva, alle esigenze di equilibrio generale del sistema dell'informazione, ormai sempre più difficilmente scomponibile (e regolabile) per comparti separati. Nasce così un sistema radiotelevisivo «misto» pubblico-privato, nel quale il soggetto pubblico tende a mantenere una posizione di preminenza, a volte legislativamente sancita, ma i cui equilibri appaiono spesso precari e destinati ad ulteriori inevitabili assestamenti. Anche la legislazione della «terza generazione» non sembra affatto destinata a rappresentare un punto d'arrivo definitivo; al contrario, le incertezze che percorrono la disciplina degli attuali sistemi radiotelevisivi «misti» inducono a ritenere che essa non rappresenti altro che una tappa importante, ma ancora intermedia di quella evoluzione.

3. Il caso italiano: la disciplina della radiofonia durante il periodo fascista

In questo processo evolutivo si inseriscono, in modo del tutto coerente, anche le vicende del sistema radiotelevisivo italiano. Un vero e proprio intervento organico nel campo della radiofonia si ha, in Italia, solo con l'avvento del regime fascista, in sintonia con un indirizzo generale volto ad estendere il controllo dei pubblici poteri sull'intero sistema dell'informazione mentre nel periodo immediatamente precedente, l'attenzione del legislatore verso i problemi relativi ad un settore che ancora non era uscito da una prima fase di sperimentazione era stata modesta. Con una prima serie di interventi del 1924 si procedeva al rilascio di una concessione in esclusiva ad un'unica società, l'Unione radiofonica italiana (uri). Ma è tre anni più tardi, nel 1927, che il settore della radiofonia assume il suo assetto definitivo, quando si porta a compimento il processo di pubblicizzazione della concessionaria: divenuta proprietà della sip, essa assume il nome di Ente italiano per le audizioni radio-foniche (eiar). Gli interventi successivi non fanno che completare questo assetto: nel 1935 si procede ad una razionalizzazione delle diverse competenze in materia ripartite tra vari organi governativi e l'anno successivo, sulla base di una legge di delegazione del Parlamento (legge n. 336 del 1933), viene varato il codice postale (r.d. n. 645 del 1936), che come vedremo sarà destinato a sopravvivere a lungo alla caduta del regime fascista.

  1. L'assetto del settore durante di periodo costituzionale provvisorio e nell'immediato secondo dopoguerra

 

Il regime giuridico continuava a far perno sulla riserva allo Stato dei servizi di radio e telecomunicazione, cosi come definita dal codice postale del 1936 ribadito poi da un decreto del 1947, e sul modello di concessione del servizio in esclusiva ad una società a capitale in prevalenza pubblico. Un ruolo assolutamente centrale veniva riservato al Ministero delle Poste e telecomunicazioni, cui spettava, oltre alla vigilanza generale sugli impianti, l'approvazione dello statuto della concessionaria, il controllo contabile sulla gestione della stessa, la nomina del Presidente e dell'amministratore delegato della concessionaria. Presso il Ministero di settore, veniva inoltre creato un apposito Comitato per la definizione delle direttive di massima culturali, artistiche ed educative cui avrebbe dovuto uniformarsi l'attività di diffusione dei programmi, che esprimeva un parere sul piano triennale della programmazione che la concessionaria era tenuta a presentare per l'approvazione al ministro. Il secondo obiettivo perseguito dal decreto del 1947, e in ciò sta la sua vera novità rispetto al passato, era quello di coinvolgere nel governo del settore radiotelevisivo anche il Parlamento con l'istituzione di una commissione parlamentare di vigilanza, cui veniva affidato il compito di assicurare l'imparzialità politica e l'obiettività dell'informazione trasmessa dalla concessionaria. Questo quadro normativo non cambia, ma anzi riceve una puntuale ed articolata conferma con la nuova concessione del servizio alla rai del 1952, che precede di due anni l'inizio delle trasmissioni televisive. Non doveva tuttavia passare molto tempo perché questa operazione di mera cosmesi della disciplina ereditata dal fascismo mostrasse tutti i suoi limiti a fronte dei nuovi principi costituzionali e, più precisamente, con quella affermazione contenuta nell'art. 21, Cost.

5. Il ruolo della Corte costituzionale: dalla conferma della legittimità del monopolio pubblico alla riforma del 1975

Nel 1960, con la sentenza n. 59, si arriva così alla prima pronuncia della Corte in tema di legittimità costituzionale del modello pubblicistico di esercizio dell'attività radiotelevisiva. Una pronuncia di grande rilievo perché in essa si coglie immediatamente quale ruolo decisivo la Corte intenda assumere in questa difficile opera di ridefinizione. Chiamata a decidere circa i dubbi di legittimità costituzionale della riserva allo Stato del servizio di radio e telediffusione, sancita dall'art. 1 del vecchio codice postale del 1936, la Corte arriva ad una decisione di rigetto che poggia su tre ordini di motivazioni, tra loro strettamente collegati: 1) trattandosi di un mezzo di comunicazione che si avvale di una risorsa (le bande di frequenza) oggettivamente limitata, esso non poteva a priori essere parificato agli altri mezzi di comunicazione; 2) affinché un regime differenziato per il mezzo radiotelevisivo fosse coerente con le garanzie costituzionalmente previste, dovesse essere comunque evitato il rischio del formarsi di situazioni di monopolio od oligopolio privato, contrarie al principio del necessario pluralismo informativo che la Costituzione impone di rispettare; 3) la soluzione di assoggettare il settore ad un regime di monopolio pubblico, pur non rappresentando una soluzione costituzionalmente obbligata, doveva ritenersi una soluzione consentita, alla luce del combinato disposto degli artt. 21 e 43 Cost.: il regime pubblicistico doveva cioè considerarsi quello che meglio di ogni altro assolveva al compito di assicurare il tasso di pluralismo necessario. Più in particolare, essa affermò che una disciplina pubblicistica avrebbe dovuto prevedere la possibilità di un accesso al mezzo da parte di tutte le diverse correnti culturali e politiche, nonché un ridimensionamento del ruolo del Governo a tutto favore del Parlamento. Da questa sentenza del 1960 doveva passare oltre un decennio prima che la Corte intervenisse ancora due pronunce del 1974 con le sentenze 225 e 226. Mentre con la sentenza n. 225 viene dichiarata costituzionalmente illegittima la riserva allo Stato dell'attività di ritrasmissione di programmi di emittenti estere e se ne ammette l'esercizio anche da parte di soggetti privati, con la sentenza n. 226, dichiarandosi l'illegittimità costituzionale della riserva statale nel settore dei servizi radiotelevisivi via cavo se ne consente l'ingresso alle iniziative private (previa introduzione di un apposito regime autorizzatorio), sia pure con riferimento al solo livello locale, mentre viene fatta salva la relativa riserva per ciò che attiene il livello nazionale. Ad orientare la Corte in questa direzione è la considerazione dell'inesistenza di possibili attentati al pluralismo informativo (mera ritrasmissione di programmi esteri); nel secondo caso, in ragione della natura del mezzo tecnico, il cavo appunto, suscettibile di garantire una sua utilizzazione illimitata e comunque tale da fare salvo il principio pluralistico. Sotto il secondo profilo, la Corte riprende le indicazioni già fornite con la sentenza n. 59 del 1960 per ribadire, questa volta in maniera assai più puntuale, le condizioni che il legislatore avrebbe dovuto sollecitamente soddisfare in sede di riforma della disciplina del monopolio pubblico: 1) sottrazione degli organi di vertice della concessionaria del servizio all'influenza esclusiva o prevalente dell'Esecutivo; 2) necessaria garanzia dell'imparzialità e completezza dell'informazione, nel rispetto di tutte le tendenze culturali e politiche; 3) necessario coinvolgimento del Parlamento nella definizione delle direttive generali, nonché nell'esercizio del controllo circa la loro effettiva applicazione; 4) necessaria tutela dell'autonomia professionale degli operatori dell'informazione all'interno della concessionaria; 5) necessaria predisposizione di limiti quantitativi alla pubblicità commerciale, a tutela della possibilità di sviluppo di altri mezzi di informazione ed in particolare dell'informazione stampata; 6) necessaria disciplina del diritto di accesso al mezzo radiotelevisivo; 7) necessaria disciplina del diritto di rettifica. Si tratta di quelli che verranno chiamati i «sette comandamenti» della Corte costituzionale.

6. La legge di riforma n. 103 del 1975 e la sua rapida obsolescenza

La legge di riforma del monopolio pubblico che il Parlamento finalmente vara nel 1975 si muove lungo le linee tracciate dalla Corte nelle pronunce da ultimo ricordate. Definita la radiodiffusione circolare, nel quadro di quanto disposto dall'art. 43 Cost., se ne afferma la riserva allo Stato e la conseguente sottrazione alla libera disponibilità dei privati (art. 1). Tale riserva non si estende, tuttavia, né all'attività diretta alla gestione di impianti ripetitori di programmi stranieri e nazionali, né all'installazione e all'esercizio di impianti di diffusione via cavo, a livello locale (art. 2). Con riferimento alla gestione dei ripetitori di programmi esteri e di quelli nazionali, la legge prevede (artt. 38 ss.) il rilascio di un'apposita autorizzazione. Anche per l'attività radiotelevisiva via cavo, a livello locale, la legge introduce un regime autorizzatorio (artt. 24 ss.). In secondo luogo, l'ossequio ai «comandamenti» della Corte, nasce la Commissione bicamerale per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (artt. 4 ss.). Un nuovo assetto assumone il rapporto tra gli organi interni della concessionaria e che vede il Presidente e il Direttore generale esercitare le loro funzioni (il primo come responsabile della rispondenza della gestione aziendale agli indirizzi generali fissati dalla Commissione bicamerale di vigilanza, il secondo come responsabile dell'attuazione dei deliberati del Consiglio). Terzo profilo importante toccato dalla legge di riforma, quello dell'inserimento delle Regioni nel quadro del nuovo sistema. Accanto al canone, resta confermata l'entrata derivante dalla pubblicità commerciale, ma con un doppio limite: il primo, legato ad una soglia massima non valicabile dall'indice di affollamento (5%), il secondo, di ordine finanziario, determinato da una soglia massima di introiti pubblicitari, da determinarsi ogni anno da parte della Commissione bicamerale. Ma, ad un solo anno di distanza dall'approvazione della legge di riforma n. 103, è di nuovo il giudice costituzionale a determinare una svolta nell'evoluzione del sistema radiotelevisivo. La Corte fa propria la tesi sostenuta dai ricorrenti, volta a sostenere l'esistenza, a livello locale, di una disponibilità di frequenze utilizzabili sufficiente a scongiurare il formarsi di monopoli con possibili conseguenze negative sul pluralismo informativo. Di qui l'apertura alle iniziative private dell'esercizio dell'attività radiotelevisiva via etere, a livello locale, in analogia alla radiodiffusione via cavo. Ciò che preme sottolineare di questa sentenza, davvero storica, è  che segna una svolta netta nell'itinerario logico sino ad allora seguito dai giudici costituzionali, nella sentenza n. 202 lo stretto nesso tra i due elementi (limitatezza delle frequenze e ruolo essenziale del sistema radiotelevisivo) appare irrimediabilmente spezzato: ciò che assume rilievo decisivo nell'orientare la Corte è la sola motivazione di ordine tecnico, sganciata da ogni riferimento all'altro tipo di valutazione. È sufficiente per la Corte accedere alla tesi dell'aumento delle disponibilità tecniche di trasmissione a livello locale (pur nella loro perdurante limitatezza) per ritenere di per sé, e per ciò solo, soddisfatte le esigenze connesse al pluralismo informativo. Una conclusione che finisce per rendere ambigua la nozione di attività radiotelevisiva: si appanna la nozione di servizio pubblico essenziale; le ragioni del servizio pubblico paiono ricondotte alla sola attività svolta dall'emittente pubblica, là dove, per il settore privato lo stesso tipo di attività pare attratto nell'ambito della libertà di iniziativa economica e delle sue regole, quasi che il livello nazionale o locale di esercizio della medesima attività possa determinarne un mutamento di natura quanto ai riflessi sociali che essa produce. Si tratta, come vedremo, di un elemento di ambiguità che peserà a lungo non solo sugli sviluppi successivi della giurisprudenza costituzionale in materia, ma anche sull'operato del legislatore.

7. Il lento cammino verso la disciplina del sistema «misto» pubblico e privato: dalla normativa transitoria della legge n. 10 del 1985 alla sentenza n. 826 del 1988 della Corte costituzionale

La ricordata sentenza n. 202 del 1976 apre un lungo periodo, destinato a chiudersi solo con l'approvazione della legge n. 223 del 1990, caratterizzato, da un lato, dai tentativi numerosi del Parlamento di arrivare alla definizione del nuovo assetto del sistema radiotelevisivo imposto dalla pronuncia della Corte, dall'altro, dallo sviluppo sempre più consistente e tumultuoso di iniziative private a livello locale. Nel perdurare della latitanza del legislatore, il settore privato, si avvia sempre più verso la concentrazione (una grande emittente, rispetto alla quale le altre svolgono sostanzialmente la funzione di semplici terminali per la diffusione dei programmi). Questo alimenta la spinta alla polarizzazione della risorsa pubblicitaria attorno alle iniziative private di maggiore consistenza e si realizza attraverso varie forme di interconnessione funzionale, fino alla messa in onda in contemporanea di programmi preregistrati, superando così, di fatto, l'ambito locale cui la Corte aveva ancorato il «diritto» dei privati all'esercizio dell'attività radiotelevisiva. Con la sentenza n. 148 del 1981 la Corte avverte chiaramente che una maggiore disponibilità tecnica del mezzo non può considerarsi condizione di per sé sufficiente a garantire il pluralismo informativo, ma c’è bisogno di una disciplina del «mercato» dell'informazione radiotelevisiva tale da eliminare ogni rischio del formarsi di situazioni di monopolio od oligopolio privato. All'elemento di ordine tecnico, la Corte aggiunge ora un elemento di ordine economico, ma ciò accentua l'ambiguità, già a suo tempo segnalata, circa il modo d'intendere la natura dell'attività radiotelevisiva. La sentenza n. 148 del 1981 rappresenta un'ulteriore tappa nella discontinuità aperta dalla sentenza n. 202 del 1976, di cui la pronuncia del 1981 costituisce in qualche misura il logico sviluppo. Questo nuovo intervento della Corte determina un completo mutamento di prospettiva per il legislatore: se fino ad allora il legislatore si era mosso nell'ottica di una «concorrenza» pubblico-privato (al polo pubblico = servizio radiotelevisivo di livello nazionale, polo privato = l'ingresso al solo livello locale, in seguito il nuovo sistema «misto» comincia a delinearsi come sistema a concorrenza generalizzata. Inizia da questo momento una sorta di gara più o meno sotterranea, indiretta e impari tra il legislatore da una parte e le maggiori emittenti private dall'altra. Il Governo decide di intervenire con una disciplina transitoria (il d.l. n. 807 del 1984, convertiro nella legge n. 10 del 1985, altrimenti detto dl Berlusconi), che avrebbe dovuto restare in vigore per non più di sei mesi e verrà sostituita solo nell'agosto del 1990. Come contropartita a questa legittimazione «transitoria» si estendono alle emittenti private alcuni obblighi, analoghi a quelli gravanti sull'emittente pubblica. Ma il d.l. n. 807 del 1984 non rappresenta soltanto una testimonianza evidente di un ormai acquisito mutamento di prospettiva, ma anche delle difficoltà che il legislatore si trova ad affrontare nella definizione di un nuovo quadro normativo di riferimento. L'analisi della legge riflette tutta l'ambiguità e l’incertezza del legislatore, un'incertezza che, come vedremo meglio più avanti, non verrà dissipata nemmeno dalla legge di riforma del 1990, lasciando aperti numerosi interrogativi di non facile risoluzione. L'incapacità del legislatore di superare in tempi ragionevoli le difficoltà, sono alla base di un nuovo importante intervento della Corte, che contribuisce in maniera decisiva ad accelerare il dibattito parlamentare su quella che diventerà la legge n. 223 del 1990. Si tratta, come è noto, della sentenza n. 826 del 1988, una sorta di summa dell'intera giurisprudenza della Corte in materia di informazione radiotelevisiva e, insieme, uno dei tentativi più arditi di condizionare l'operato e i tempi del legislatore. La corte decide per una sorta di «assoluzione condizionata» di una disciplina di legge ordinaria, ritenuta in sé incostituzionale, ma provvisoriamente assolvibile in ragione proprio della sua transitorietà.. Tre sono le accezioni che la Corte individua: 1) quella di pluralismo esterno, inteso quale presenza attiva del maggior numero possibile di fonti; 2) quella di pluralismo interno, maggior numero possibile di opinioni, tendenze politiche, ideologiche e culturali; 3) pluralismo inteso quale possibilità di scelta tra una molteplicità di fonti informative. Si tratta dei diversi ruoli che emittenza privata ed emittenza pubblica sono chiamate rispettivamente a svolgere: la prima legata al pluralismo esterno; la seconda al pluralismo interno. La Corte ricava alcuni importanti corollari applicativi, che possono riassumersi in cinque punti: 1) la necessità di una disciplina dei flussi di risorse finanziarie, tale da garantirne una distribuzione equilibrata tra i diversi settori in cui esso si articola;  2)  l'esigenza di una disciplina della pubblicità radiotelevisiva a tutela dell'utente-consumatore; 3) ribadisce l'esigenza della introduzione di una normativa antitrust; 4) l'affermazione della necessaria tutela delle emittenti locali; 5) la sollecitazione rivolta al legislatore ad immaginare soluzioni di prospettiva che tengano conto degli sviluppi tecnologici in atto.

8. La necessaria attuazione della normativa comunitaria in materia di pubblicità televisiva

Un altro stimolo nella stessa direzione viene dalla direttiva del Consiglio del 3 ottobre 1989, n. 552, dedicata al «coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l'esercizio delle attività televisive».. Il cuore della direttiva è rappresentato dalle disposizioni relative alla pubblicità commerciale e ne affronta quattro diversi profili: contenuto, modalità di trasmissione (riconoscibilità del messaggio pubblicitario e divieto della pubblicità subliminale, gli spot tra e non nelle trasmissioni), indice di affollamento, sponsorizzazioni (limitare le sponsorizzazioni al «mecenatismo d'impresa».. Con la direttiva, 89/552/CEE siamo di fronte ad una serie di disposizioni per una disciplina comune della pubblicità commerciale, con riflessi immediati sugli equilibri complessivi del settore dell'informazione. Un tentativo concepito in termini sufficientemente puntuali e tali da produrre conseguenze di grande rilievo soprattutto in quegli ordinamenti, come quello italiano, nei quali meno attenta e sollecita era stata, sino ad allora, l'azione del legislatore.

9. La legge 6 agosto 1990, n. 223 sulla nuova disciplina del sistema radiotelevisivo «misto» pubblico e privato

La nuova disciplina avrebbe dovuto risolvere le complesse questioni legate al difficile contemperamento tra libertà di informare e libertà di iniziativa economica, con la necessaria garanzia del pluralismo quantitativo e qualitativo delle fonti. Solo con l’approvazione della legge n. 223 del 1990 si arriva ad una disciplina il sistema radiotelevisivo misto pubblico-privato. L'impianto della legge ruota attorno a cinque assi portanti:
I principi comuni. L'attività diretta alla diffusione di programmi radiofonici e televisivi è attività di «preminente interesse generale», e «i principi fondamentali del sistema radiotelevisivo, che si realizzano con il concorso di soggetti pubblici e privati» (art. 1). Proprio nell’assoggettare ad una serie di principi comuni l'attività radiotelevisiva, la legge contiene un elemento di forte ambiguità: mentre, infatti, l'impostazione unitaria dell’art. 1 sembrerebbe consentire la previsione di limiti comuni all'uno e all'altro settore, la scissione cui pare alludere l’art. 2 sembrerebbe poter giustificare un regime di limiti differenziato, nel quale il rispetto dei c.d. principi comuni venga in realtà affidato soltanto, o prevalentemente, alla concessionaria pubblica. Si tratta di un elemento di ambiguità che peserà in modo non indifferente su alcuni contenuti di rilievo della legge.
Il regime concessorio. La disciplina del regime concessorio, intesa come individuazione dell'organo titolare del potere di rilasciare, sospendere o revocare la concessione, dei criteri per l'esercizio di tale potere, nonché come definizione dei requisiti dei richiedenti e del contenuto della concessione, ha la sua premessa fondamentale in due atti di pianificazione: il piano nazionale di ripartizione (che  provvede a ripartire le bande di frequenza utilizzabili tra i diversi servizi di telecomunicazione) e il piano di assegnazione delle frequenze (che provvede ad assegnare le bande di frequenza tra i vari bacini di utenza, nei quali viene diviso il territorio nazionale per la radiodiffusione). L'approvazione del piano di ripartizione delle frequenze spetta, oggi, al ministro delle Comunicazioni su parere dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, mentre il piano di assegnazione è approvato da quest'ultima. Questa attività di pianificazione non si esaurisce affatto in un'operazione esclusivamente tecnica, ma incide profondamente sul numero complessivo delle emittenti teoricamente attivabili, ossia sul tasso di «pluralismo esterno» presente nel settore radiotelevisivo. L'art. 16 si occupa della definizione dei criteri cui ancorare il rilascio delle concessioni. Essi poggiano essenzialmente sulla potenzialità economica delle diverse iniziative, sulla natura dei progetti tecnici presentati, sulla qualità della programmazione prevista, nonché  sulla base della qualità e della quantità della programmazione prodotta, degli assetti aziendali e degli indici di ascolto. Se la disciplina delle fasi essenziali del procedimento relativo al rilascio della concessione è riassunta unitariamente nelle disposizioni dell'art. 16, altrettanto non può dirsi per quella relativa agli obblighi che la legge prevede a carico dei concessionari, solo alcuni dei quali sono contenuti in quanto disposto dall'art. 20. Gli obblighi comuni attengano essenzialmente a due profili: quello relativo alla gestione dell'impresa e quello relativo al contenuto dei programmi. Tra i primi, si possono far rientrare l'obbligo di iscrizione nel Registro nazionale delle imprese radiotelevisive; di comunicazione dei trasferimenti di proprietà; di promuovere azioni dirette a realizzare condizioni di «pari opportunità» nei rapporti di lavoro; di trasmettere lo stesso programma in tutta l'area geografica per cui è rilasciata la concessione; di rispettare le leggi e le convenzioni internazionali in materia di telecomunicazioni e di tutela del diritto d'autore; di rispettare determinate modalità di trasmissione dei messaggi pubblicitari, nonché i limiti in materia di sponsorizzazioni; di rispettare i limiti massimi di affollamento pubblicitario; relativo alla trasmissione gratuita di brevi comunicati per conto di vari organi pubblici; di rispettare i limiti previsti in ordine alla trasmissione di opere cinematografiche; di rispettare il diritto di rettifica. Tra gli obblighi della seconda categoria, cioè relativi al contenuto dei programmi, possono farsi rientrare l'obbligo di non trasmettere messaggi subliminali; di non nuocere allo sviluppo psichico e morale dei minori; di rispettare il divieto di trasmettere messaggi pubblicitari che possano ledere valori di rilievo costituzionale, nonché di rispettare il divieto di trasmettere messaggi pubblicitari relativi a certi prodotti. Si aggiungono poi quelli specifici posti a carico della concessionaria pubblica (trasmissione dei messaggi di «utilità sociale», e quello, previsto come transitorio, di rispettare un «tetto» massimo negli introiti pubblicitari annuali) e dei concessionari privati (prestare una cauzione e pagare un canone per l'esercizio della concessione), quello di rispettare un livello minimo di ore di trasmissione e quello di riservare una parte della programmazione a programmi di informazione.
La normativa antitrust. Il «cuore» della legge n. 223 è rappresentato dalla normativa diretta a contenere i fenomeni di concentrazione in atto, al fine di assicurare un sufficiente tasso di pluralismo. Tale disciplina tocca tre diversi aspetti del fenomeno delle concentrazioni: il primo, relativo ai rapporti tra le emittenti radiotelevisive; il secondo, relativo ai rapporti tra emittenti radiotelevisive e stampa; infine, il terzo, relativo ai rapporti tra emittenti radiotelevisive e concessionarie di pubblicità.. Circa il primo profilo, la legge si preoccupa di stabilire il numero massimo di concessioni rilasciabili ad uno stesso soggetto, distinguendo il livello nazionale dal livello locale. Quanto al profilo relativo ai rapporti tra emittenti radiotelevisive e stampa, la legge, abbandona la c.d. «opzione zero», e adotta una linea più flessibile. Infine, per ciò che attiene ai rapporti tra emittenti e concessionarie di pubblicità, la legge prevede che queste ultime non possano raccogliere pubblicità per più di tre reti televisive nazionali, per più di due reti nazionali e tre locali ovvero per più di una rete nazionale e sei locali, comprese quelle di cui sono titolari i soggetti controllanti o collegati. Ogni ulteriore attività di raccolta pubblicitaria deve essere indirizzata verso mezzi di comunicazione e in ogni caso non può superare il 2% del totale degli investimenti pubblicitari complessivi dell'anno precedente.
La disciplina della pubblicità radiotelevisiva. Si tratta di un «corpo» di regole che segnano una svolta decisiva rispetto alla situazione normativa precedente. La legge n. 223 affronta organicamente il tema della pubblicità radiotelevisiva sotto cinque distinti profili: quello relativo al contenuto dei messaggi pubblicitari; quello relativo alle modalità di trasmissione degli stessi; quello relativo agli indici di affollamento; quello, di cui si è già detto, relativo ai rapporti tra emittenti e imprese concessionarie di pubblicità; quello, infine, relativo alle c.d. sponsorizzazioni. Una diversa attenzione che si spiega soprattutto con l'esigenza di dar seguito alle indicazioni che su questo terreno gli erano venute, come si è sottolineato, sia dalla Corte costituzionale che dalla normativa comunitaria. A quelle indicazioni, il contenuto della legge risulta solo in parte fedele (solo nelle parti relative ai contenuti e agli indici di affollamento). Discorso diverso vale per le modalità di trasmissione dei messaggi pubblicitari (i messaggi pubblicitari vanno trasmessi «tra» e non «all'interno» delle trasmissioni). Ma le discrasie tra normativa nazionale e normativa comunitaria risultano ancora più marcate con riferimento alla disciplina delle sponsorizzazioni. Tale omissione rende quasi indecifrabile la linea di demarcazione tra questo tipo di pubblicità e quella ordinaria facendo così venir meno ogni giustificazione ad un suo trattamento differenziato. Si tratta ovviamente di una discrasia così grande che, come vedremo, di lì a poco il legislatore dovrà tornare sul punto per eliminarla.
Gli strumenti di garanzia di una fedele applicazione della legge. A garanzia di un'effettiva e fedele applicazione della complessa trama di limiti e di obblighi che si sono più sopra sinteticamente richiamati, la legge predispone tutta una serie di meccanismi di controllo e sanzionatori che fanno capo essenzialmente al Garante per la radiodiffusione e l'editoria e al ministro delle Poste e telecomunicazioni. A questo scopo, la legge attribuisce al Garante numerosi e rilevanti poteri di proposta e consultivi, regolamentari, di controllo e sanzionatori. I poteri di controllo consistono essenzialmente nella tenuta del registro nazionale delle imprese radiotelevisive, cui sono tenute ad iscriversi obbligatoriamente anche le imprese concessionarie di pubblicità e le imprese produttrici di programmi; nell'esame dei bilanci societari e della relativa documentazione; nello svolgimento dell'attività istruttoria ed ispettiva tesa ad assicurare il rispetto dei limiti e degli obblighi previsti dalla legge; nella vigilanza sulla rilevazione e pubblicazione degli indici di ascolto. Infine, quanto ai poteri sanzionatori, la legge stabilisce che il Garante, ove accerti violazioni di alcuni obblighi, una volta diffidati gli interessati può irrogare delle sanzioni pecuniarie ovvero disporre la sospensione della concessione per un periodo da uno a dieci giorni (trenta giorni nei casi di recidiva). Nelle ipotesi più gravi, può chiedere al ministro la revoca stessa della concessione. Sempre al Garante spetta intervenire nelle ipotesi di accertata violazione della normativa antitrust. Assai più consistenti sono i poteri sanzionatori riconosciuti dalla legge al ministro di settore. Per effetto della legge n. 249 del 1997 le competenze spettanti al Garante sono state trasferite all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

10. I provvedimenti legislativi in materie radiotelevisive successivi alla legge n. 223 del 1990: la disciplina della radiotelevisione via cavo e via satellite

Successivamente all'entrata in vigore della legge n. 223 numerosi sono stati gli interventi normativi integrativi, attuativi o modificativi della legge. Vale la pena di segnalare il d.lgs. n. 73 del 1991 che ha dettato la nuova disciplina dell'attività radiotelevisiva via cavo e via satellite e che sostituisce integralmente quella a suo tempo dettata, a questo riguardo, dalla legge n. 103 del 1975. Esso distingue, innanzitutto, tra attività di installazione e di gestione di reti ed impianti di diffusione sonora e televisiva via cavo (monocanale e pluricanale) e attività diretta a distribuire programmi attraverso detti impianti. Il primo tipo di attività viene riservato allo Stato, ma se ne prevede un esercizio o diretto o indiretto attraverso soggetti privati, che abbiano ottenuto un'apposita concessione da parte del ministro delle Poste e telecomunicazioni. Il secondo tipo di attività, non è invece coperto da alcuna riserva statale e può essere svolto da chiunque purché in possesso di un'autorizzazione, sempre rilasciata dal ministro di settore. Si applicano le disposizioni della legge n. 223 relative al limiti e agli obblighi da essa previsti a carico dei titolari di concessioni radiotelevisive via etere, ivi compresi i limiti antitrust. Quanto all'attività radiotelevisiva diretta via satellite, essa trova ora le sue regole essenziali in alcune disposizioni della legge n. 249/97. I profili toccati dalla detta disciplina attengono soprattutto al regime e alle condizioni di esercizio di tale attività, nonché alle relative norme antitrust. Si prevede che la diffusione  radiotelevisiva via satellite originata dal territorio nazionale è soggetta ad un'apposita autorizzazione, rilasciata dall'Autorità, istituita dalla stessa legge. Si stabilisce innanzitutto che nessun soggetto destinatario di autorizzazioni per emittenti televisive via cavo o via satellite possa raccogliere proventi superiori al 30% del totale delle risorse del settore considerato. Infine, altro aspetto toccato dalla legge che interessa anche la disciplina della radiotelevisione via satellite è quello relativo alla c.d. piattaforma digitale. Con tale termine si intende alludere ad una infrastruttura (ossia ad un complesso di apparati) necessaria a trasformare i segnali televisivi analogici in segnali digitali compressi e all'invio dei medesimi o ad una rete via cavo o ad un satellite. Una infrastruttura dunque che consente di fornire al pubblico, sfruttando la nuova tecnica digitale servizi via satellite e via cavo, nonché trasmissioni codificate in forma analogica su reti terrestri, ricevibili e decodifìcabili attraverso un unico decoder.

11. (segue) La nuova disciplina della pubblicità televisiva e delle sponsorizzazioni

Si è già accennato alle anomalie che la legge n. 223 del 1990 contiene in ordine alla disciplina sia della pubblicità radiotelevisiva, che delle sponsorizzazioni rispetto alle disposizioni dettate al riguardo dalla direttiva comunitaria n. 552 del 1989. Tali anomalie hanno costretto il legislatore a modificare tale disciplina. Per ciò che attiene alla pubblicità televisiva, delle modifiche agli indici di affollamento per le emittenti private sono state introdotte dalla legge n. 650 del 1996, sì che il quadro che oggi ne risulta può essere sintetizzato nel modo che segue: a) per la concessionaria pubblica: 4% dell'orario settimanale e 12% di ogni ora di programmazione; b) per le emittenti televisive private: 15% dell'orario giornaliero e 18% di ogni ora di trasmissione, per quelle che operano a livello nazionale; 20% di ogni ora di programmazione, per quelle che operano a livello locale; c) emittenti radiofoniche private: 18% di ogni ora di trasmissione, per quelle che operano a livello nazionale; 20% di ogni ora, per quelle che operano in ambito locale; 5% per le emittenti nazionali o locali a carattere comunitario. É inoltre previsto che tali limiti tali affollamento pubblicitario vengano elevati qualora vengano trasmesse anche forme di pubblicità come le offerte dirette al pubblico della vendita, dell'acquisto o noleggio di prodotti o servizi, le c.d. televendite. Un migliore adeguamento della legislazione alle regole comunitarie è venuto dall'approvazione della legge n. 122 del 1998, che contiene, tra l'altro, l'affermazione del carattere eccezionale degli spot pubblicitari e di televendita isolati; l'affermazione per cui, di regola, tali forme di pubblicità debbano essere inserite «tra» i programmi e non «nel corso» degli stessi; la previsione di regole particolari per l'inserimento di messaggi pubblicitari con riferimento a programmi composti di parti autonome, ai programmi sportivi, i lungometraggi cinematografici, ecc.; la previsione dell'intervallo minimo di venti minuti tra un'interruzione pubblicitaria e l'altra nei programmi diversi da quelli ora menzionati; il divieto di interruzioni pubblicitarie per la trasmissione di funzioni religiose, nonché per i notiziari, le rubriche di attualità, i documentari, i programmi religiosi e quelli per bambini di durata inferiore ai trenta minuti. Si tratta dunque di un intervento legislativo che non tocca il profilo dei «tetti» pubblicitari, ma invece quello delle modalità di inserimento dei messaggi pubblicitari. Dei «tetti» o indici di affollamento pubblicitario torna invece ad occuparsi la già richiamata direttiva comunitaria n. 36 del 1997, che introduce alcune modifiche non secondarie alla precedente direttiva n. 552 del 1989 proprio a questo riguardo. La nuova estende fino a tre ore al giorno il tempo che può essere dedicato alle c.d. finestre di televendita, prevede la distinzione tra spot pubblicitari ed «altre forme di pubblicità». Non è difficile capire come l'applicazione di queste nuove regole ripropone il problema più volte sottolineato dalla Corte di una distribuzione delle risorse economiche derivanti dalla pubblicità commerciale sull'intero sistema dei «media» a tutela del principio del pluralismo informativo. L'attuazione sul piano del diritto interno della nuova disciplina della pubblicità televisiva disposta dalla direttiva non è tuttavia obbligatoria per gli Stati membri, si che essa è rimessa ad un'autonoma valutazione di opportunità da parte dei legislatori nazionali, tra i quali quello italiano, per il momento, ha provveduto ad un'attuazione parziale attraverso la ricordata legge n. 122 del 1998. Anche con riferimento alla revisione della disciplina delle sponsorizzazioni contenuta nella legge n. 223/90, la spinta decisiva è venuta dalla Commissione europea e poi dall’apertura di una procedura d'infrazione contro l'Italia avente come specifico oggetto l'ambigua ed eccessivamente ampia nozione di sponsorizzazione fatta propria dalla legge n. 223. La risposta del nostro legislatore non poteva farsi attendere: con la legge n. 483 sempre del 1992, con la quale si riconduce alla più ristretta nozione comunitaria la definizione legislativa di sponsorizzazioni. Tuttavia, a riprova di quanto poco questa vicenda si presti ad essere letta soltanto in chiave di tecnica interpretativa ma della straordinaria consistenza dello scontro di interessi che essa ha fatto emergere, stanno i suoi sviluppi successivi. Esclusa dal dettato legislativo, la sponsorizzazione, per così dire, a contenuto promozionale diretto ha finito per ritrovare una sia pur parziale legittimazione in sede di predisposizione del nuovo regolamento ministeriale in materia. Di fronte al nuovo dettato legislativo, il tentativo subito posto in essere da chi vedeva pregiudicati per il futuro i propri introiti pubblicitari è stato quello di sostenere l'assimilazione delle sponsorizzazioni a contenuto promozionale diretto (ribattezzate «telepromozioni») nell'ambito delle c.d. «vendite dirette al pubblico».. Per questa via, le telepromozioni non solo avrebbero mantenuto diritto di cittadinanza, ma sarebbero state escluse dal calcolo dell'indice di affollamento orario per incidere invece solo sul calcolo dell'indice giornaliero. Un risultato, dunque, che si sarebbe tradotto in un'operazione meramente trasformistica e che avrebbe lasciato sostanzialmente inalterati i dubbi e le perplessità circa l'idoneità di tale disciplina ad assicurare una ripartizione effettivamente equilibrata della risorsa pubblicitaria tra i diversi mezzi di informazione, circa la sua reale rispondenza a quel principio di giusto contemperamento dei diversi interessi in gioco (libertà di informazione, libertà di impresa, interessi degli utenti), al cui rispetto la Corte costituzionale aveva, in più di un'occasione, richiamato il legislatore e di cui si era data carico la stessa normativa comunitaria più volte richiamata. Il nuovo regolamento ministeriale in materia di sponsorizzazioni e di vendite dirette al pubblico, nel respingere questa impostazione, disciplina correttamente, in modo distinto, le sponsorizzazioni, nell'unica accezione consentita dalla legge n. 483 del 1992 (in ossequio alla direttiva comunitaria), e le vendite dirette al pubblico, anch'esse nell'unica accezione corretta di programmi dedicati alla commercializzazione di beni o servizi attraverso il mezzo radiotelevisivo. Esso tuttavia, non vieta del tutto quelle che abbiamo chiamato le sponsorizzazioni a contenuto promozionale diretto, ma le assimila agli ordinari messaggi pubblicitari ai fini del calcolo degli indici di affollamento giornaliero e orario. Si tratta di una soluzione di compromesso che, se pur meno rigorosa di quella individuata in sede comunitaria, ha comunque il pregio di non tradirne la ratio di fondo e consente di restituire una coerenza logica complessiva alla disciplina di questo non secondario aspetto del sistema dell'informazione.

12. (segue) La nuova disciplina della comunicazione politica

Una delle lacune più vistose della legge n. 223 del 1990 era rappresentata dalla mancata disciplina delle trasmissioni politiche, e, in particolare, di quelle elettorali. A questa lacuna aveva cominciato a porre rimedio la nuova legge elettorale per i Comuni e le Province (legge n. 81 del 1993), che dettava una serie di regole per il solo periodo della campagna elettorale. A questa legge è poi seguita la n. 515 del 1981 la quale dettava una disciplina di questa materia assai più complessa e articolata, anch'essa limitata all'accesso ai grandi mezzi di informazione da parte dei partecipanti alle diverse competizioni elettorali e, da ultimo, la legge n. 28 del 2000. Essa non punta soltanto a regolare le condizioni di accesso ai mezzi di informazione da parte di partiti e movimenti politici nel corso delle campagne elettorali, ma a regolare più in generale la comunicazione politica, in ispecie quella televisiva, anche al di fuori di tali periodi. Tanto la disciplina generale della comunicazione politica, quanto quella più specificamente dedicata alle campagne elettorali si ispirano ai principi della parità di trattamento e dell'imparzialità (la c.d. «par condicio»). L'intero impianto della legge ruota attorno alla distinzione tra comunicazione politica (tutti quei programmi radiotelevisivi nel corso dei quali si mettono a confronto in forma dialettica e discorsiva le varie opinioni) e messaggio autogestito (forme di comunicazione volte ad illustrare una singola opinione politica). È lecito chiedersi, di fronte ad una disciplina così articolata e dettagliata, ricca di divieti e di obblighi che toccano pur sempre l'esercizio di una libertà costituzionalmente garantita e nei termini particolarmente garantisti dell'art. 21 Cost., se essa risponda davvero ad un'esigenza anch'essa di rilievo costituzionale. La risposta a tale interrogativo è certamente positiva per tutta quella parte della legge che punta a rendere effettivo il pluralismo dei programmi di comunicazione politica dei vari partiti o movimenti politici.

13. (segue) L'annullamento parziale della normativa antitrust da parte della Corte costituzionale e la risposta del legislatore

Si è detto come uno dei contenuti centrali della legge n. 223 del 1990 è rappresentato dall'introduzione, per la prima volta nel settore radiotelevisivo, di una normativa antitrust. L'introduzione di tali norme ha segnato il passaggio da una situazione di anarchia ad una nella quale risultano definite alcune soglie massime di concentrazione; e tuttavia era apparso a molti che esse finissero per fotografare l'assetto allora esistente. La fissazione a tre del numero massimo di concessioni radiotelevisive di livello nazionale cristallizzava una situazione che già la Corte costituzionale, nella richiamata sentenza n. 826 del 1988, aveva valutato negativamente. Nessuna meraviglia dunque se, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di quella disposizione, l'abbia dichiarata incostituzionale (sentenza n. 420 del 1994). Nella stessa pronuncia, la Corte, a regolare la situazione che così si veniva a creare, in attesa della annunciata riforma nella disciplina del sistema radiotelevisivo (annunciata ma a tutt'oggi non ancora varata dal Parlamento), consentiva tuttavia che transitoriamente i soggetti titolari del numero di concessioni dichiarato illegittimo continuassero ad operare alla base di concessioni appunto a durata transitoria. Dalla sentenza della Corte sono ormai passati oltre sei anni, ma la situazione non è sostanzialmente mutata se non per ciò che al riguardo è previsto dalla legge n. 249 del 1997 che, in ossequio al disposto della decisione della Corte, ha stabilito che ad uno stesso soggetto non possano essere rilasciate concessioni o autorizzazioni che consentano di irradiare più del 20% delle reti televisive o radiofoniche analogiche e dei programmi televisivi o radiofonici numerici, in ambito nazionale, trasmessi su frequenze terrestri, sulla base del piano di assegnazione delle frequenze e che i soggetti che superino quella soglia possano transitoriamente proseguire l'esercizio delle reti eccedenti, a condizione che le trasmissioni siano diffuse contemporaneamente su frequenze terrestri e via satellite o via cavo e successivamente solo via satellite o via cavo. Tale passaggio è legato alla fissazione di un termine da parte dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni in relazione all'effettivo e congruo sviluppo di queste nuove tecnologie trasmissive (termine che non è ancora stato fissato).

14. I problemi aperti: il servizio pubblico tra diritto interno e diritto comunitario

Oggi non è più possibile affrontare il problema del ruolo e della disciplina del servizio pubblico radiotelevisivo in un'ottica esclusiva di diritto interno. La tendenza espansiva del diritto comunitario nell'area dei servizi pubblici si è sviluppata sulla scorta di quanto previsto dall'art. 86 del Trattato ce in base al quale anche le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale sono sottoposte alle regole del Trattato, il che significa, in altre parole, sottrarre alle decisioni sovrane degli Stati membri decisioni fondamentali in ordine alla definizione dei loro rapporti con i cittadini. Il rilievo e le conseguenze che una tale linea di tendenza presenta sono alla base delle resistenze che sono venute dagli Stati membri e che hanno portato all'affermazione di un importante principio che afferma da un lato, l'intento di valorizzare quella che potremmo sinteticamente indicare come la funzione sociale dei servizi pubblici e, dall'altro, il riconoscimento del ruolo primario degli Stati membri nella disciplina di questo settore e quello solo sussidiario delle istituzioni comunitarie. Ma, resistenze ancora maggiori sono venute dagli Stati membri con riferimento a quello specifico servizio pubblico che è quello radiotelevisivo. Tali resistenze hanno portato all'approvazione di un apposito protocollo sul sistema di radiodiffusione pubblica negli Stati membri che fa salve e giustifica a priori l'esistenza di servizi pubblici radiotelevisivi, in quanto collegati ad esigenze insopprimibili di ogni società (esigenze democratiche, sociali e culturali): con il che si esclude un controllo comunitario circa i presupposti che ne giustificano l'esistenza. Dove si situi il punto di equilibrio tra le esigenze legate alla libera concorrenza e le esigenze legate alla missione del servizio pubblico radiotelevisivo è compito degli Stati membri stabilire, ma le decisioni al riguardo potranno essere censurate in sede comunitaria. In conclusione, sembra di poter dire che, allo stato, se la sopravvivenza dei servizi pubblici radiotelevisivi non è messa in discussione dal diritto comunitario, la sua concreta disciplina da parte dei legislatori nazionali appare oggi assai più condizionata che non in passato e per aspetti non certo marginali. Dal legislatore (non solo quello italiano, ovviamente) ci si attende una nuova disciplina dell'emittenza pubblica in grado di rispondere ai principi posti dal protocollo di Amsterdam; dalla sua capacità di coniugare in modo equilibrato le esigenze del servizio pubblico e quelle di un libero mercato concorrenziale. Ma, nella direzione di una riforma dell'attuale disciplina del servizio pubblico radiotelevisivo spingono anche ragioni legate agli sviluppi che il complessivo sistema dell'informazione ha subito dal 1990 ad oggi. Basti qui ricordare due dati: l'avvenuta abrogazione ad opera del referendum tenutosi l’11 giugno del 1995 dell'inciso «a totale partecipazione pubblica» contenuto nell'art. 2, 2° c. della legge n. 223 del 1990 e riferito alla concessionaria del servizio pubblico e lo straordinario sviluppo di nuove tecnologie trasmissive. Il primo dato, cui sin qui il legislatore non ha dato seguito, allude alla trasformazione della concessionaria del servizio radiotelevisivo da società a totale proprietà pubblica a società almeno in parte aperta al capitale privato. Il secondo dato pone la questione di ricalibrare tutto l'apparato concettuale che sino ad oggi ha costituito lo sfondo sul quale si è svolto il dibattito sul ruolo del servizio pubblico: dalla nozione di pluralismo informativo, agli obblighi che ne derivano, alla loro ripartizione tra i diversi soggetti pubblici e privati che operano nel settore integrato della comunicazione, ai contenuti della missione del servizio pubblico alla luce della nuova nozione di servizio universale e così via. Delle esigenze cui si è ora fatto riferimento punta a rispondere il disegno di legge governativo n. 1138, da tempo in discussione in Parlamento. Tale disegno di legge richiama il processo di convergenza tecnologica in atto tra il settore delle telecomunicazioni e quello radiotelevisivo come linea di guida dell'intero impianto della nuova disciplina. Quest'ultima prevede, infatti, il passaggio obbligatorio dal sistema analogico a quello digitale per le trasmissioni su frequenze terrestri. Da questo punto di vista si può dire che il principio del pluralismo informativo tenda, nella logica del disegno di legge, a realizzarsi soprattutto attraverso un'accentuazione del c.d. pluralismo esterno, ossia della presenza del maggior numero possibile di fonti, numero oggi, almeno sul piano tecnico, potenzialmente in grado di dilatarsi in modo considerevole.

4 - TEATRO E CINEMA

La disciplina degli spettacoli durante il periodo liberale

La legge di pubblica sicurezza del 1859 (legge n. 3720) subordinava le attività di pubblico intrattenimento ad una previa licenza di polizia. Si trattava di un meccanismo di intervento di tipo censorio e preventivo, dato che se questa licenza veniva rifiutata si poteva bloccare la rappresentazione prima che potesse avere luogo. In seguito con la legge di pubblica sicurezza del 1865 venne ribadito il principio per cui ogni rappresentazione pubblica doveva essere previamente autorizzata dall’ autorità locale di pubblica sicurezza. Nel relativo regolamento di esecuzione il rilascio dell’autorizzazione era subordinato al rispetto non solo della moralità e dell’ordine pubblico, ma anche al rispetto degli ordinamenti politici dello Stato, della religione cattolica, nonché della vita privata delle persone e dei principi della famiglia. All’autorità locale di pubblica sicurezza veniva inoltre attribuito il compito di svolgere un’attività di vigilanza sullo svolgimento delle rappresentazioni teatrali autorizzate. In caso di tumulti o disordini la polizia poteva far cessare immediatamente la rappresentazione o sospenderla in via provvisoria. Questo sistema rimarrà invariato nella successiva legge di pubblica sicurezza del 1889.

La legislazione fascista in materia di spettacoli teatrali e cinematografici: gli interventi censori

Per quanto riguarda le rappresentazioni teatrali, il testo unico del 1926 attuano in modo più aspro di quello liberale la censura preventiva sulle rappresentazioni. Il. t.u. delle leggi di pubblica sicurezza del 1931 affidava invece direttamente al Ministero dell’Interno il compito di operare la preventiva revisione del contenuto delle rappresentazioni teatrali, trasferendo a questo livello il potere di vietarle, in vista della tutela dell’ordine pubblico, della morale e del buon costume, rimanendo tuttavia ferma la possibilità di un successivo intervento dell’autorità locale di pubblica sicurezza in grado lo stesso di impedire la rappresentazione. La funzione censoria del Ministero dell’Interno fu poi trasferita nel 1935 all’Ispettorato per il teatro e nel 1937 al Ministero per la Cultura popolare. Anche le rappresentazioni cinematografiche sono sottoposte ad una serie di autorizzazioni preventive. Esse sono dirette ad accertare l’idoneità dei soggetti che intendono esercitare l’attività cinematografica, l’idoneità dei luoghi nei quali le rappresentazioni si svolgono, e quella dei soggetti che gestiscono tali luoghi. Le autorizzazioni hanno una durata provvisoria e valgono solo per il locale al quale si riferiscono. Si richiedono inoltre requisiti morali e personali dei singoli soggetti per ottenere l’autorizzazione. Anche in questo caso l’autorità di pubblica vigilanza può interrompere la rappresentazione in caso di situazioni di pericolo per l’ordine pubblico. Anche le rappresentazioni cinematografiche sono inoltre sottoposte ad un sistema di censura preventiva per quanto riguarda il loro contenuto. Tale intervento preventivo è affidato nel 1926 al Ministero dell’Interno e comportava l’integrale visione della pellicola cinematografica. Questo sistema di censura preventiva, che farà poi capo al Ministero della Cultura popolare, subì solo modeste modifiche integrative da parte del testo unico del 1931, in cui vengono cambiati i membri delle commissioni di revisione delle pellicole. Il legislatore fascista introdusse anche l’istituto dell’autorizzazione all’esercizio dell’arte tipografica. Si tratta dell’obbligo che viene imposto a tutti coloro che intendano produrre pellicole cinematografiche di darne comunicazione scritta all’autorità locale di pubblica sicurezza di modo che si provveda all’iscrizione in un apposito registro.

Gli aiuti economici al cinema e teatro nel periodo fascista: negli anni 30 viene istituito il Sottosegretariato per la stampa e propaganda, divenuto poi Ministero. Alla base del sistema di provvidenze a favore delle attività teatrali viene posto il meccanismo del canone per le radioaudizioni. Il ministro poteva esercitare un controllo sull’esito artistico della programmazione sovvenzionata, il quale poteva portare all’annullamento, totale o parziale, della sovvenzione nell’ipotesi in cui le disposizioni di legge fossero state violate. Dal 1938 viene attivata la prima forma di credito agevolato per le attività teatrali che consisteva nella concessione di mutui per opere edilizie teatrali. All’intervento di sostegno economico si affiancherà poi un intervento promozionale che vede lo Stato svolgere in prima persona attività teatrali. Nasce nel 1937 l’EIST (Ente italiano per gli scambi teatrali) con il compito di contribuire all’incremento del teatro drammatico in Italia attraverso scambi di esperienze con i paesi stranieri.  Nel 1942 nasce invece l’ETI (Ente teatro italiano) con il compito di promuovere l’ampliamento della rete di sale teatrali sul territorio nazionale. Nel 1937 nasce l’INDA (Istituto nazionale del dramma antico) al quale viene affidato il compito di mantenere viva la tradizione del teatro classico greco e romano. Queste istituzioni durarono oltre il periodo fascista. Nel 1937 viene infine fondata l’Accademia d’arte drammatica. Un analogo sviluppo si ha anche sul versante cinematografico.  Nasce l’istituto della programmazione obbligatoria che consiste nell’imposizione agli esercenti di sale cinematografiche dell’obbligo di riservare una certa percentuale delle giornate di proiezione a film di produzione italiana. Questi film naturalmente erano scelti in base al sistema di censura preventiva. Furono introdotti i contributi alla produzione che consistevano nel ritorno ai produttori di una percentuale degli incassi lordi realizzati dai film nazionali ammessi alla programmazione obbligatoria. Nel 1935 fu poi introdotta una forma speciale di credito agevolato a favore delle imprese di produzione. Nel 1933 fu introdotta la legge della tassa sul doppiaggio, rappresentata dall’obbligo imposto alle imprese produttrici e distributrici estere di eseguire in Italia il doppiaggio dei film che intendessero inserire nel circuito distributivo nazionale. Nascono inoltre l’Istituto cinematografico educativo Luce e il Centro sperimentale per la cinematografia, il primo con compiti propagandistici e il secondo con compiti di formazione professionale e artistica come per l’Accademia d’arte drammatica.

La disciplina degli spettacoli teatrali e cinematografici dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana

I residui poteri di intervento dell’autorità di pubblica sicurezza e i poteri autorizzatori del Ministero di settore: nel 1945 si provvide ad abrogare gran parte dell’impalcatura dei controlli preventivi, legati al sistema delle provvidenze economiche, soprattutto nel settore della cinematografia. Rimase invece in piedi il meccanismo di revisione del contenuto dei film. Nel 1947 viene tentata una prima riorganizzazione dell’intervento di sostegno economico dello Stato, attraverso il recupero dell’istituto della programmazione obbligatoria e la creazione di una struttura amministrativa centrale cui assegnare le più rilevanti funzioni in materia. Nel 1947 venne stabilito che parte dei proventi dei diritti erariali sugli introiti lordi sugli spettacoli cinematografici venisse devoluto a favore di comuni e province. E’ rimasto poi in vigore l’istituto della licenza per tenere in luogo pubblico o aperto al pubblico rappresentazioni teatrali o cinematografiche. Sono rimasti parzialmente in vigore gli art. 70 e 74 del t.u. del 1931 che stabiliscono il divieto di rappresentare spettacoli che possano turbare l’ordine pubblico o contrari alla morale e al buon costume se non si vuole incorrere nella sospensione dello spettacolo da parte delle autorità competenti. Rimane inoltre la necessita di avere un’autorizzazione per l’apertura di sale cinematografiche.

La riforma del sistema di censura preventiva sulle opere teatrali e cinematografiche

I punti cardine della riforma del 1962 sono rappresentati dalla eliminazione di ogni criterio di carattere politico nell’esercizio dell’attività di revisione da parte degli organi a ciò deputati e dal rigoroso ancoraggio di questa attività di controllo al rispetto del solo limite del buon costume, dalla trasformazione da obbligatoria a facoltativa della sottoposizione al controllo delle opere teatrali, nonché dalla predisposizione di una serie di garanzie a tutela della posizione dei soggetti interessati. La legge subordina la proiezione in pubblico dei film e l’esportazione all’estero dei film nazionali, ad un previo nulla osta rilasciato prima dal Ministero del Turismo e dello spettacolo e, oggi, dal ministro per i Beni e le attività culturali, naturalmente in base al parere di una commissione. La revisione dei film può concludersi con un parere favorevole al rilascio del nulla osta ministeriale, con un parere sfavorevole oppure con un parere favorevole ma condizionato al divieto di assistere alla proiezione per i minori di 14 o 18 anni. Nel rispetto del principio del contraddittorio, nel corso del procedimento che si svolge davanti alla commissione hanno diritto di essere ascoltati i diretti interessati. Sempre la legge n. 203 ha opportunamente introdotto alcune regole volte a disciplinare la trasmissione televisiva di opere a soggetto e di film prodotti per la televisione: qualora tali programmi contengano immagini tali da poter incidere negativamente sulla sensibilità dei minori essi possono essere trasmessi solo in una certa fascia oraria.

Gli interventi promozionali diretti

Sotto la vigilanza del Ministero del Turismo e dello spettacolo hanno continuato a operare alcuni enti creati nel periodo fascista, come l’ETI, l’INDA, il Centro sperimentale per la cinematografia e l’Accademia d’arte drammatica. In seguito questi enti sono stati privatizzati nel 1995. Si è assistito alla trasformazione nella fondazione Scuola nazionale di cinema dell’ ente pubblico Centro sperimentale di cinematografia nel 1997 e all’analoga trasformazione in fondazione dell’ente pubblico Istituto del dramma antico nel 1998. restano pubbliche le finalità istituzionali di tali enti, così come la parte maggioritaria del loro finanziamento. Proprio per questo continuano ad essere soggetti ai poteri di vigilanza del Governo. Tra gli enti di nuova istituzione ci sono l’Ente autonomo di gestione per il cinema (1958) che nel 1993 è diventato una società per azioni e cioè l’Ente S.p.A., nel cui campo restano inquadrate le società gia esistenti ed operanti nel campo della cinematografia come l’Istituto Luce che ha incorporato l’Italnoleggio e Cinecittà. Nel 1991 è stata costituita una terza società inquadrata anch’essa nell’Ente cinema e cioè Cinecittà International, che ha il compito di promuovere la produzione cinematografica italiana all’estero. Sul versante del teatro, soprattutto musicale, tra gli enti che vedono la luce nel secondo dopoguerra vanno annoverati gli enti lirici istituiti dalla legge n. 800 del 1967. Nel 1996 e nel 1998 si è assistito alla trasformazione degli enti lirici in fondazioni di diritto privato. Tra le strutture pubbliche sorte nel secondo dopoguerra vanno infine annoverati i c.d. teatri stabili, con il compito di assegnare le risorse destinate al sostegno delle attività teatrali.

L’intervento di sostegno economico

Con la legge n. 163 del 1985 viene istituito un Fondo unico per lo spettacolo in cui confluiscono tutti i finanziamenti stabiliti a favore dei diversi settori dello spettacolo da precedenti leggi e viene rifinanziato ogni anno attraverso la legge finanziaria. La legge provvede direttamente a fissare le quote percentuali da destinarsi ai vari tipi di attività. Nel 1996 viene istituito il Comitato per i problemi dello spettacolo. Spetta al ministro, sulla base delle proposte formulate da questo Comitato, comunicare, prima dell’inizio di ogni esercizio finanziario, il piano di riparto del Fondo al ministro del Tesoro, per le conseguenti variazioni di bilancio. La legge n. 650 del 1996 ha affidato al Governo il compito di approvare un apposito regolamento per fissare i criteri e le modalità per la concessione dei contributi, sussidi e ausili finanziari a favore dei soggetti dello spettacolo. Lo stesso regolamento individua i settori teatrali beneficiari dei contributi statali. La quota del Fondo unico destinata alle attività teatrali viene ripartita su base triennale con decreto ministeriale tra i diversi soggetti, secondo percentuali fissate nel decreto. Integra il sistema delle sovvenzioni, la prevista possibilità per gli operatori nel settore teatrale di accedere al credito in forme agevolate. Vanno inoltre ricordate alcune importanti agevolazioni fiscali che la legge n. 163 del 1985 ha introdotto a favore delle attività teatrali. Esse riguardano il 70 % degli utili reinvestiti nella produzione di spettacoli o nelle attività di ristrutturazione o miglioramento tecnologico delle strutture destinate a rappresentazioni teatrali. Inoltre la legge n. 444 del 1998 detta una serie di disposizioni volte a favorire la riapertura di immobili adibiti a teatro e per attività culturali. Per quanto riguarda invece il cinema, l’intervento di sostegno economico copre l’intera gamma delle attività connesse alla cinematografia, dalla produzione e distribuzione all’esercizio. Presupposto per la concessione dei benefici disposti dalla legge è la dichiarazione di nazionalità per l’ammissione alla programmazione obbligatoria. A questo fine però il prodotto deve anche essere in possesso di requisiti di idoneità tecnica e di qualità artistica, culturale e spettacolare che vengono vagliati da un’apposita commissione di nomina ministeriale. Alla programmazione obbligatoria si collegano i contributi alla produzione che la legge fissa per il produttore al 13 % dell’introito lordo delle proiezioni del film. Quanto al credito cinematografico, la legge n. 1213 del 1965 interviene a potenziare la capacità di azione della sezione autonoma istituita presso la Banca Nazionale del Lavoro. Sempre a sostegno della produzione e distribuzione cinematografica è destinato anche il Fondo di intervento, istituito dalla legge n. 819 del 1971 e che ha riassorbito alcuni fondi speciali prima esistenti e finanziati con la c.d. tassa sul doppiaggio. Con la legge n. 378 del 1980 è stato inoltre istituito un fondo di sostegno per l’esercizio cinematografico. Infine per l’attività cinematografica la legge n. 163 del 1985 prevede un regime di agevolazioni fiscali che riguardano sia l’esercizio che l’attività di produzione e distribuzione.

La nuova legge sul cinema (legge n. 153 del 1994)

Con il d.l. n.26 del 1994 il Governo ha tradotto in decreto legge parte dei contenuti di quella legge di riforma del cinema. E’ stata prevista dall’art. 22 l’istituzione di un pubblico registro per la cinematografia, la cui tenuta è affidata alla SIAE, nel quale dovrebbero essere iscritte tutte le opere cinematografiche prodotte o importate in Italia e destinate alla pubblica programmazione. L’iscrizione al registro è condizione necessaria per poter usufruire dei benefici di legge. Scompare l’istituto storico della programmazione obbligatoria trasformato in un invito ad accentuare la programmazione di film nazionali. Per quanto riguarda le novità in materia di credito cinematografico, viene istituito un fondo di garanzia destinato a garantire gli investimenti operati sia sul versante della produzione sia su quello della distribuzione ed esportazione di opere cinematografiche nazionali di particolare livello culturale e al finanziamento di speciali premi per i nuovi autori. Un’altra novità di rilievo è rappresentata dall’estensione anche al settore della cinematografia della normativa generale antitrust, prevista dalla legge n. 287 del 1990. E’ all’Autorità della concorrenza e del mercato che viene affidato il compito di assicurare il rispetto dei limiti antitrust (la posizione dominante è quella di chi detiene una quota superiore al 25 % del fatturato della distribuzione cinematografica), onde evitare che si verifichino situazioni tali da ridurre in modo sostanziale  la concorrenza. Latro aspetto importante della legge in esame è rappresentato dalla disciplina dei rapporti tra cinema e televisione, con particolare riferimento alla televisione criptata.

Le strutture amministrative: dalla soppressione del Ministero del Turismo e dello spettacolo all’istituzione del Ministero per i Beni e le attività culturali

E’ soprattutto il Ministero del Turismo e dello spettacolo che ha costituito, dal 1959, l’elemento cardine della gestione dell’intervento dello Stato in questo settore. Questo modello di amministrazione fortemente accentrata e largamente permeata dalla presenza massiccia delle categorie professionali interessate ha finito con il tempo per denunciare molti limiti, dovuti a tre motivi. Innanzitutto alle modalità di costituzione del Ministero, che hanno visto assegnare al medesimo funzioni disomogenee tra loro e correlate a settori che presentano problemi specifici e che poco o nulla hanno in comune (turismo, spettacolo e sport). In secondo luogo, al fatto che é stata affidata soprattutto agli organi collegiali esterni all’apparato ministeriale la responsabilità delle decisioni di amministrazione diretta, mentre é stato confinato agli organi ministeriali un ruolo solamente istruttorio. In terzo luogo, al mancato adeguamento della struttura ministeriale in conseguenza dell’attuazione dell’ordinamento regionale. Nel 1998 quindi, per rimediare a questa situazione, è sorto il Ministero per i Beni e le attività culturali, al quale è stato trasferito il Dipartimento per lo spettacolo, nonché tutte le funzioni rimaste di competenza dell’amministrazione statale in questo settore.

 

Fonte: http://www.scicom.altervista.org/diritto%20europeo%20della%20comunicazione/Diritto%20informazioneriassunto%20slides%20Granata.doc

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