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Il diritto internazionale può essere definito come il diritto della comunità degli Stati. Si tratta di un
complesso di norme che nascono dalla cooperazione tra gli Stati e si collocano al di sopra di ogni
stato. Si dice anche che il diritto internazionale regola i rapporti tra Stati, ma questa definizione è un
po' equivoca perché oggi si assiste alla tendenza al c.d. "internazionalismo", perché il diritto
internazionale disciplina anche molti aspetti commerciali, sociali ed economici e non è più un
semplice "diritto per diplomatici", ma viene continuamente applicato direttamente dai giudici interni,
nazionali. E' pertanto opportuno distinguere la definizione:
Dalla definizione
2) Materiale (nel senso che regola i rapporti interindividuali, cioè interni alle singole comunità
statali).
Oggi si tende anche a distinguere il diritto internazionale pubblico dal diritto internazionale privato.
In realtà bisogna precisare che non si tratta di due branche dello stesso ordinamento, ma di due
ordinamenti diversi: il diritto internazionale privato è formato da quelle norme statali che delimitano il
diritto privato di uno Stato, stabilendo quando esso va applicato e quando invece il giudice nazionale
deve applicare le norme del diritto privato straniere. In Italia la materia è regolata dalla legge 218/95.
Ad esempio l’art 20 della legge del 1995 diche “la capacità giuridica delle persone fisiche è regolata dalla loro legge nazionale” ciò vuol dire che il giudice italiano applicherà alla capacità giuridica delle persone il codice civile e le altre norme privatistiche italiane se la persona ha la cittadinanza italiana, se invece la persona è straniera, il giudice applicherà la legge nazionale della medesima.
Il diritto internazionale privato riguarda l’ordinamento statale, il diritto internazionale pubblico riguarda l’ordinamento della comunità degli stati.
È vero che il diritto internazionale pubblico (in esso compreso il diritto dell’UE) tende a regolare anche rapporti interni allo stato ed anche rapporti oggetto del diritto privato ma ciò significa soltanto che lo stato ha l’obbligo di tradurre le norme internazionali che di simili rapporti si occupano in norme interne).
Tuttavia non essendovi omogeneità tra il diritto internazionale privato e pubblico, la qualifica di pubblico è superflua se non erronea. In realtà il diritto della comunità internazionale e cioè il d. internazionale non è né pubblico né privato tale distinzione ha senso solo con riguardo all’ordinamento statale.
2. Quadro sintetico delle funzioni di produzione, accertamento ed attuazione coattiva del diritto internazionale.
Anche nell'ordinamento internazionale troviamo tre funzioni:
2. Funzione di accertamento del diritto.
3. Funzione di attuazione coattiva delle norme.
diritto internazionale generale: ossia tra le norme che si indirizzano a tutti gli Stati
e
diritto internazionale particolare : norme che vincolano solo una ristretta cerchia di soggetti di solito quelli che hanno partecipato alla loro formazione.
L'articolo 10 della Costituzione italiana fa riferimento alle norme di diritto internazionale generale. Queste norme generali sono innanzitutto le consuetudini, che si formano nella comunità internazionale attraverso l'uso: di queste norme può affermarsi l’esistenza solo laddove si dimostri una prassi consolidata nel tempo seguita dagli stati. La caratteristica di questo tipo di norme è che, a differenza degli ordinamenti interni, è la fonte primaria ed ha dato luogo ad uno scarso numero di norme. A parte le norme strumentali (che regolano i requisiti di validità ed efficacia dei trattati che quindi si limitano a disciplinare un0ulteriore fonte normativa) quelle consuetudinarie materiali (che impongono direttamente obblighi e riconoscono diritti) non sono molte.
Sebbene esistano anche consuetudini particolari le tipiche norme del diritto internazionale particolare sono invece i trattati (o patti, accordi, convenzioni) internazionali che vincolano solo gli Stati contraenti. Essi sono al contrario delle norme consuetudinarie assai numerosi e costituiscono la parte più rilevante del d. internazionale. Infatti oggi si tende a regolare molti rapporti della vita sociale dello stato proprio attraverso i trattati. Il trattato è subordinato alla consuetudine così come nel diritto statale il contratto è subordinato alla legge.
Al di sotto dei trattati troviamo un'altra fonte: i procedimenti previsti da accordi detti anche fonti di terzo grado, sono fonti di diritto internazionale particolare. Essi traggono la loro forza dai trattati internazionali che li prevedono e vincolano solo gli Stati aderenti ai trattati stessi.
In questa categoria rientrano molti atti delle organizzazioni internazionali, ossia delle varie
Associazioni fra Stati, come l'ONU, l’Unione Europea etc.
Il problema principale che le organizzazioni di questo tipo pongono è quello della sistemazione dei loro atti tra le fonti internazionali. In realtà le organizzazioni internazionali non hanno poteri legislativi quindi non hanno poteri vincolanti nei confronti degli stati membri e lo strumento di cui si servono normalmente è la raccomandazione, che non è vincolante, ma ha valore di mera esortazione.
Non mancano però casi in cui le organizzazioni emanano decisioni vincolanti. Forza vincolante hanno tra l’altro proprio gli atti dell’organizzazione che più a vicino ci interessa e che presenta caratteri del tutto sui generis cioè l’Unione europea. Le decisioni vincolanti degli organi internazionali si trovano nella gerarchia delle fonti al di sotto degli accordi in quanto proprio da un accordo il c.d. trattato istitutivo ciascuna organizzazione prende vita. Lo stato cioè è vincolato dalla decisione in quanto con l’accordo costitutivo dell’organizzazione si è impegnato a rispettarla.
2. Per quanto concerne invece la funzione di accertamento giudiziario del diritto internazionale,
nell'ambito della comunità internazionale prevale una funzione arbitrale, che poggia sull'accordo tra
le parti, accordo diretto a sottoporre la controversia ad un determinato giudice. Ciò che quindi è l'eccezione nel diritto interno, diventa la regola nell'ordinamento internazionale. Anche la corte internazionale di giustizia (CIG) il massimo organo giudiziario delle Nazioni unite ha funzione essenzialmente arbitrale. Non mancano però istanze giurisdizionali istituzionalizzate ossia tribunali permanenti istituiti da singoli trattati ed innanzi ai quali gli stati contraenti possono essere citati da altri stati contraenti o da singoli individui. Anche in questi casi cmq il fondamento della competenza del giudice resta pattizio nel senso che solo gli stati che hanno accettato in un modo o nell’altro detta competenza possono essere convenuti in giudizio a differenza del diritto statale dove la sottoposizione alla funzione giurisdizionale è imposta dalla legge. Occorre però sottolineare che tali istanze giurisdizionali internazionali sono cresciute enormemente.
3. Per quanto attiene invece ai mezzi che vengono utilizzati nel d. internazionale per assicurare coattivamente l'osservanza delle norme e reprimerne le violazioni, occorre riconoscere che sono quasi tutti riportabili alla categoria dell'autotutela (altra diversità dal diritto interno per cui farsi giustizia da sé è solo un’eccezione nell’eventualità che non possano intervenire gli organi statali). Si desume che il d. internazionale poggia su rapporti di mera forza.
Il diritto internazionale è vero diritto?
Ci si chiede, considerate le caratteristiche, se il diritto internazionale sia in realtà un vero diritto e quali argomenti si possano addurre per dimostrare la sua obbligatorietà. Tale argomentazione ha impegnato ed impegna i cultori più rappresentativi della materia.
Contrapposto a questi sforzi sta lo scetticismo che si manifesta sia a livello scientifico sia a livello umano che pone l’accento sulla mancanza di mezzi idonei a costringere i singoli stati a rispettare le norme e le sentenze di d. internazionale. Nessuno nega e non sarebbe possibile farlo che delle norme si formino al di sopra dello stato per consuetudine per la stipulazione di accordi ciò che si nega è che si tratti di un vero e proprio fenomeno giuridico.
Una soluzione proposta di tale problema (dell’obbligatorietà) esiste:
il diritto internazionale per ricevere concreta e stabile attuazione deve passare attraverso i giudici interni che devono applicarlo e quindi farlo rispettare; gli ordinamenti statali quindi devono prevedere con regole più o meno simili in tutti i paesi che il d. internazionale sia osservato al pari del diritto statale quindi interno: ad esempio l'articolo 10 della Costituzione italiana impegna al rispetto delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, inoltre i trattati stipulati dal nostro Paese generalmente sono oggetto di una legge ordinaria che ne ordina l'applicazione. Il rispetto del diritto internazionale non può che essere assicurato dagli strumenti che lo stesso diritto statale offre a garanzia di siffatta osservanza ed è assicurato nei limiti i cui si determina tra gli operatori giuridici interni dei vari paesi quella solidarietà internazionale che spesso manca tra i governi.
Quanto qui esposto è una formulazione in termini moderni della teoria positivistica tedesca del 19esimo secolo di Jellinek, che considerava il diritto internazionale come il frutto di un' autolimitazione del singolo Stato, poiché non esistono veri e propri mezzi giuridici per reagire efficacemente ed imparzialmente alle violazioni delle norme internazionali. Ciò che bisogna superare è però l'idea dell'arbitrio del singolo Stato, altrimenti si legittimerebbe la possibilità dello Stato stesso di sciogliersi liberamente in qualsiasi momento da qualunque impegno internazionale.
Il diritto internazionale può essere anche considerato avendosi riguardo esclusivamente alla sua esistenza nell’ambito della comunità internazionale a livello delle relazioni internazionali e quindi senza richiamare in alcun modo in causa gli ordinamenti giuridici statali. Esso appare quindi sotto tale aspetto come un punto di riferimento e di sostegno di una sana diplomazia.
Tale testo si propone di avvicinarsi ad un discorso compiuto del d. internazionale attraverso un approccio internistico cioè soffermandosi sui problemi di adattamento tra diritto statale e diritto internazionale con particolare attenzione al diritto statale italiano naturalmente. Il testo è rivolto in particolar modo agli operatori giuridici interni o meglio intende formare coloro che lo diventeranno particolarmente dei giudici e dei pubblici funzionari.
Altri soggetti e presunti tali.
Se definiamo il diritto internazionale come il diritto della comunità degli Stati, bisogna specificare
cosa intendiamo per Stato, poiché, a livello di definizione, possiamo distinguerlo in Stato-comunità o
in Stato-organizzazione ( o stato-apparato o stato-governo). La prima accezione fa riferimento ad un insieme di individui quindi una comunità che si stanzia su una porzione di superficie terrestre ed è sottoposta a delle regole che la tengono unita.
La seconda, invece, è costituita dall'insieme di governanti, cioè degli organi che esercitano sui singoli associati il potere di imperio.
Questi fenomeni sono entrambi reali e vengono “definiti” dalla teoria generale del diritto.
La qualifica di soggetto del diritto internazionale spetta però solo allo Stato-organizzazione, allo Stato-apparato.
Sono infatti gli organi statali che partecipano alla formazione delle norme internazionali, sono loro i
destinatari delle norme internazionali materiali e sono sempre loro che rispondono per eventuali
violazioni delle norme internazionali. Ovviamente, quando parliamo di organi statali facciamo
riferimento a tutti gli organi, sia quelli del potere centrale che quelli del potere periferico.
Lo Stato-organizzazione deve presentare però dei requisiti per poter essere considerato tale:
In tal senso non sono soggetti del diritto internazionale gli Stati membri di Stati federali (perché, anche se talvolta possono essere autorizzati dalla Costituzione federale a stipulare accordi con Stati terzi, devono normalmente avere il consenso del Governo centrale), né le Confederazioni che è un'unione fra Stati perfettamente indipendenti e sovrani, creata in genere per scopi di difesa che comunque devono giungere ad una decisione comune per questo è (forse) esclusa l’indipendenza e di conseguenza la soggettività internazionale.
Il requisito dell'indipendenza deve essere inteso con cautela: non coincide con la perfetta possibilità di determinarsi da sé, poiché l'interdipendenza è oggi una delle caratteristiche sempre più marcate delle relazioni internazionali (stati satelliti, stati deboli, stati con truppe straniere...).
Bisogna allora intenderlo in senso formale: è indipendente uno stato il cui ordinamento è originario,
cioè tragga la sua forza giuridica dalla propria Costituzione e non da quella di un altro Stato.
Il dato formale cede però di fronte al dato reale quando di fatto l’ingerenza da parte di un altro stato nell’esercizio del potere di governo è totale e quindi il Governo indigeno è un governo fantoccio e come tale privo di soggettività internazionale. Un esempio attuale di governo fantoccio è la repubblica turco-cipriota.
Quando ricorrono i due requisiti, l'organizzazione di governo acquista la qualità di soggetto
internazionale automaticamente: non è necessario il riconoscimento. Il riconoscimento, come anche il
non-riconoscimento, è un atto meramente lecito che attengono alla sfera della politica ma non
producono conseguenze giuridiche. Generalmente infatti il riconoscimento da parte degli Stati
preesistenti rivela l’intenzione di stringere rapporti amichevoli di scambiare rappresentanze diplomatiche e di avviare forme più o meno intense di collaborazione mediante la conclusione di accordi. La maggiore o minore intensità che si intende imprimere alla collaborazione viene di solito sottolineata rispettivamente con la formula de jure cioè a pieno e quella del riconoscimento de facto.
Quando si nega al riconoscimento valore giuridico si viene a respingere soprattutto la tesi che esso sia costitutivo della personalità internazionale. Si viene cioè a negare la possibilità che gli stati preesistenti possano esercitare potere di ammissione nella comunità internazionale a quell’organizzazione che si viene ad affermare attraverso i caratteri dell’effettività e dell’indipendenza. Bisogna però ammettere che la tesi ha il merito di cogliere una tendenza che è stata sempre presente nella prassi internazionale anche se poi non è mai riuscita a tradursi in precise norme giuridiche. Gli stati preesistenti infatti tendono a giudicare se lo stato nuovo “meriti” o meno la soggettività ancorando il loro giudizio ad un certo valore o una certa ideologia. In passato non meritava la soggettività uno stato non cristiano per esempio oggi non merita la soggettività uno stato non democratico e che quindi viola i diritti umani. Tutto ciò non si è mai tradotto in norme internazionali x il semplice motivo che gli stati possono essere d’accordo sul valore da porre a base del riconoscimento ma divergono poi sulla sua riscontrabilità in ciascun caso concreto. ( a volte l’ammissione è stata burocratizzata è il caso della dichiarazione di Bruxelles sul riconoscimento dei nuovi stati nell’Europa orientale. I 12 paesi comunitari si dichiararono disposti a riconoscere gli stati che via via si fossero formati seguendo un processo democratico purchè avessero presentato vari requisiti essenziali: rispetto per la carta delle nazioni unite e per l’atto finale della conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, il rispetto dei principi sulla tutela delle minoranze, l’osservanza della regola dell’inviolabilità ecc… le repubbliche formatesi vennero quindi invitate a presentare domanda e mote vennero accolte).
Quando si richiedono altri non necessari come quello che il nuovo Stato non debba costituire una minaccia per la pace e la sicurezza per la pace, che il suo Governo goda del consenso del popolo e che non violi i diritti umani, questi non sono necessari ai fini dell'acquisto della soggettività internazionale, ma servono soltanto per valutazioni politiche degli altri Stati per valutare se stringere rapporti d'amicizia. Nella comunità internazionale attuale non mancano stati che temporaneamente o permanentemente minacciano la pace o violano i diritti umani, sebbene i principi del diritto internazionale obblighino gli stati a tutt’altro, ma è anche vero che tali obblighi non condizionano ma presuppongono la personalità giuridica dello stato medesimo.
Sembra risolto anche il problema della soggettività del Governo (o Partito) insurrezionale: gli insorti in quanto tali non sono soggetti del diritto internazionale e il Governo c.d. legittimo potrà prendere i provvedimenti che reputa più opportuni (fatti salvi però i movimenti di liberazione nazionale). Se tuttavia i ribelli nel corso della guerra civile riescono a dare vita ad un'organizzazione di governo che controlla effettivamente una parte del territorio, la personalità non può negarsi, indipendentemente dal fatto che tale personalità sia destinata ad estinguersi qualora l’insurrezione non abbia successo.
La maggior parte della dottrina contemporanea parla di una personalità, sia pure limitata, degli individui, persone fisiche e giuridiche. Essa trae spunto soprattutto dal moltiplicarsi di quelle norme convenzionali che obbligano gli Stati a tutelare i diritti fondamentali dell’uomo; sempre più spesso, inoltre, l’individuo può ricorrere, se non vede riconosciuto il proprio diritto, ad organi internazionali appositamente creati: alla tutela dell’interesse individuale sia accompagna l’attribuzione all’individuo di un potere di azione. Anche il diritto consuetudinario fornisce ampia materia per sostenere la personalità internazionale degli individui: i c.d. crimina juris gentium comprendono i crimini di guerra e contro la pace e la sicurezza dell’umanità e dunque quei reati per i quali lo Stato può esercitare la propria potestà punitiva oltre i limiti normalmente assegnatigli. Parte della dottrina non accoglie questa tesi. In definitiva, è vero che molte norme internazionali si prestano ad essere interpretate come regole che si indirizzano direttamente agli individui, ma è anche vero che la comunità internazionale resta ancora strutturata come una comunità di governanti e non di governati. La personalità internazionale dell’individuo è comunque stata affermata anche dalla Corte Internazionale di Giustizia (per la prima volta nel 2001).
Numerose sono le norme internazionali che tutelano le minoranze etniche, ma esse non assurgono a soggetti di diritto internazionale in mancanza di strumenti di azione diretta.
Nella prassi internazionale si parla spesso di ‘diritti dei popoli’: il termine ‘popolo’ è usato solo in modo enfatico e può essere tranquillamente sostituito dal termine ‘Stato’. Il discorso è diverso quando di un diritto dei popoli si parla in relazione a norme che si occupano del popolo come contrapposto allo Stato, che si occupano dei governati come contrapposti ai governanti. A parte i diritti umani, l’unica norma in cui si esprime detta contrapposizione è il principio di autodeterminazione dei popoli. Esso è regola di diritto internazionale positivo, non solo è contenuto in testi convenzionali, come tali vincolanti solo gli Stati contraenti, ma ha acquistato carattere consuetudinario attraverso una prassi sviluppatasi ad opera delle Nazioni Unite e che trova la sua base sia nella stessa Carta ONU sia in certe solenni Dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’Organizzazione. Anche la Corte Internazionale di Giustizia ne ha riconosciuto l’esistenza come principio consuetudinario.
Non è facile indicare quale sia l’esatto contenuto del principio di autodeterminazione dei popoliin quanto principio giuridico. A nostro avviso se si guarda alla prassi effettiva degli stati il principio di autodeterminazione non ha ancora oggi un ampio campo di applicazione.
Tale principio come ha affermato anche la CIG si applica soltanto ai popoli sottoposti ad un Governo straniero (c.d. autodeterminazione esterna), in primo luogo ai popoli soggetti a dominazione coloniale, in secondo luogo alle popolazioni di territori conquistati ed occupati con la forza: l’autodeterminazione comporta il diritto dei popoli sottoposti a dominio straniero di divenire indipendenti e di scegliere liberamente il proprio regime politico. Perché il principio sia applicabile, salvo il caso dei territori coloniali, la dominazione straniera non deve risalire oltre l’epoca in cui il principio stesso si è affermato come principio giuridico, ossia oltre l’epoca successiva alla fine della seconda guerra mondiale. (IRRETROATTIVITà DEL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE)
Quando si tratta di territori nei quali il Governo straniero, presente con le proprie forze armate, si appoggia ad un Governo locale dal quale ha magari ricevuto una richiesta di ‘aiuto’, il principio di autodeterminazione si applica con molta difficoltà, imponendo a entrambi i Governi la cessazione dell’occupazione straniera. Circa l’autodeterminazione dei territori coloniali, si è formata una regola nell’ambito dell’ONU che attribuisce all’Assemblea generale la competenza a decidere, con effetti vincolanti per tutti gli Stati, circa la sorte dei territori medesimi: l’Assemblea deve conformarsi al principio di autodeterminazione, altrimenti la sua decisione è illegittima e senza efficacia. L’autodeterminazione dei territori coloniali deve coordinarsi poi con il principio dell’integrità territoriale, in base al quale occorre tenere conto dei legami storico-geografici del territorio da decolonizzare con uno Stato contiguo formatosi anch’esso per decolonizzazione: il principio di autodeterminazione deve cedergli il passo solo quando la popolazione locale non sia in maggioranza indigena ma importata dalla madrepatria.
È da escludere invece che il diritto internazionale richieda che tutti i Governi esistenti sulla terra godano del consenso della maggioranza dei sudditi e siano costoro liberamente scelti (c.d. autodeterminazione interna). Siano ancora lontani da una situazione del genere anche se è vero che la maggior parte degli stati tende a considerare l’autodeterminazione come sinonimo di democrazia, democrazia intesa come legittimazione democratica dei governi.
Dunque, il diritto internazionale impone allo Stato che governa un territorio non suo di consentire l’autodeterminazione. Lecito è considerato poi l’appoggio fornito ai movimenti di liberazione nazionale. Non si può parlare di un vero e proprio diritto soggettivo internazionale dei popoli alla autodeterminazione: come nel caso delle minoranze, i rapporti di diritto internazionale intercorrono esclusivamente tra gli Stati; è nei confronti di tutti gli Stati che l’obbligo per il Governo straniero di consentire l’autodeterminazione sussiste ed è nei rapporti tra lo Stato che governa il territorio e gli altri Stati che l’appoggio ai movimenti di liberazione nazionale non può essere considerato illecito.
Il principio di autodeterminazione è legato ad una determinata epoca storica l’epoca dell’indipendenza dei paesi in via di sviluppo. Esso è servito ad assicurare il dominio di ciascun popolo sul e nell’ambito del proprio territorio. Nell’epoca attuale caratterizzata dalla globalizzazione economica il problema non è più quello di garantire a tutti i popoli detto dominio ma di proteggere i popoli più deboli dall’invadenza dei poteri forti sia pubblici che privati internazionali. Poteri che non si lasciano bloccare dalle frontiere territoriali.
Non si può più negare piena personalità alle organizzazioni internazionali, (ONU, UE) ossia alle associazioni fra Stati dotate di organi per il perseguimento degli interessi comuni. Gli accordi che le organizzazioni stipulano nei vari campi connessi alla loro attività vengono considerati come produttivi di diritti ed obblighi veri e propri delle organizzazioni, restando senza effetti sulla sfera giuridica degli Stati membri, in quanto cmq la personalità giuridica degli stati e quella delle organizzazioni restano distinte. Sintomatico è l’art. 300 del Trattato della Comunità europea, secondo cui gli accordi conclusi dall’organizzazione vincolano anche gli Stati membri; di disposizioni del genere non vi sarebbe bisogno se, per regola generale, non valesse il contrario. La personalità di tutte le organizzazioni internazionali è stata nettamente affermata dalla Corte Internazionale di Giustizia in un parere (1980) sull’interpretazione dell’accordo (1951) tra Organizzazione Mondiale della Sanità ed Egitto.
Non bisogna confondere la personalità di diritto internazionale delle organizzazioni con la loro personalità di diritto interno: se un’organizzazione internazionale acquista immobili o contrae obbligazioni in uno Stato, sarà l’ordinamento di quest’ultimo a stabilire entro che limiti essa ha la capacità di farlo. Normalmente gli accordi istitutivi delle organizzazioni prevedono l’obbligo degli Stati membri di riconoscerne la capacità giuridica nei rispettivi ordinamenti.
Alla Chiesa cattolica, anche nel periodo tra il 1870 e il 1929, periodo in cui venne meno ogni suo dominio territoriale, la personalità internazionale è stata sempre per tradizione riconosciuta. Essa si concreta non solo nel potere di concludere accordi internazionali ma, data l’esistenza dello Stato della Città del Vaticano, anche in tutte le situazioni che presuppongono il governo di una comunità territoriale.
Una parte della dottrina italiana riconosce la qualità di soggetto internazionale anche al Sovrano Ordine Militare Gerosolimitano di Malta, ordine religioso dipendente dalla Santa Sede. L’Ordine ha governato un tempo su Rodi e, fino alla fine del Settecento, su Malta; intrattiene rapporti diplomatici con molti Paesi e ha ottenuto la qualifica di osservatore alle Nazioni Unite. La sua attività principale ha carattere assistenziale, funzione nobile ma non tale da giustificare il possesso della personalità internazionale.
PARTE PRIMA
LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI
4. Il diritto internazionale generale. La consuetudine ed i suoi elementi costitutivi.
Le norme di diritto internazionale generale, che vincolano cioè tutti gli Stati, hanno natura consuetudinaria. La consuetudine internazionale è costituita da un comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati, dal ripetersi di un certo comportamento, accompagnato dalla convinzione dell’obbligatorietà e della necessità del comportamento stesso. Due sono gli elementi che caratterizzano questa fonte: la diuturnitas e l’opinio juris sive necessitatis. Tale concezione è detta dualistica ed è stata da molti studiosi criticata in quanto la consuetudine deve essere considerata come una prassi prescindendo dall’opinio iuris in quanto ammettendolo inevitabilmente si arriverebbe a a considerare la consuetudine nata da un errore. L’opinio iuris quindi dovrebbe essere considerato come un elemento psicologico e non costitutivo. La critica alla teoria dualistica ha il difetto di fondarsi però su argomenti troppo logici, che in astratto possono essere esatti ma che sono stati sovvertiti dalla pratica. Infatti secondo la CIG e i così i tribunali internazionali per la formazione della consuetudine sono indispensabili entrambi gli elementi.
È anche vero che, almeno nel momento iniziale di formazione della consuetudine, il comportamento non è tanto sentito come giuridicamente quanto come socialmente dovuto. Se non si facesse leva sull’opinio juris sive necessitatis, mancherebbe però la possibilità di distinguere tra mero ‘uso’, determinato ad es. da motivi di cortesia, di cerimoniale ecc., e consuetudine produttiva di norme giuridiche.
L’esistenza o meno dell’opinio juris sive necessitatis è poi il solo criterio utilizzabile per ricavare una norma consuetudinaria dalla prassi convenzionale: i trattati costituiscono uno dei punti di riferimento più utilizzati nella costruzione di una regola consuetudinaria internazionale, ma possono essere interpretati sia come conferma di norme consuetudinarie già esistenti, sia come creazione di nuove norme e limitate ai rapporti fra Stati contraenti; e per l’appunto solo un’indagine sull’opinio juris, solo la ricerca tendente a stabilire se gli Stati contraenti abbiano inteso il vincolo contrattuale nel primo o nel secondo senso può consentire, o escludere, l’utilizzazione di tutta una serie di trattati come prova dell’esistenza di una norma consuetudinaria.
Un principio consuetudinario non può essere tratto da una prassi convenzionale, sia pure costante e ripetuta nel tempo, quando è chiaro che il principio medesimo è il frutto delle concessioni che una parte degli Stati contraenti fanno al solo scopo di ottenere altre concessioni. Il Tribunale Iran-Stati Uniti (istituito nel 1981) si è rifiutato di dedurre un principio di ‘indennizzo parziale’, applicabile all’espropriazione ed alla nazionalizzazione di beni stranieri, dalla prassi dei c.d. lump-sum agreements, accordi mediante i quali lo Stato nazionale dei soggetti i cui beni sono stati nazionalizzati o espropriati all’estero accetta dallo Stato nazionalizzante o espropriante una somma globale, solitamente inferiore all’intero valore dei beni. Secondo il Tribunale, i lump-sum agreements sarebbero frutto di transazioni e quindi non indicativi di norme di diritto internazionale generale.
L’elemento dell’opinio juris serve infine a distinguere il comportamento dello Stato diretto a modificare il diritto consuetudinario preesistente, cioè il comportamento diretto a modificare o ad abrogare una determinata consuetudine attraverso la formazione di una consuetudine nuova o semplicemente di una ‘desuetudine’, dal comportamento che costituisce invece un mero illecito internazionale.
Circa la diuturnitas, se il trascorrere di un certo tempo per la formazione della norma è necessario, e se è vero che certe norme consuetudinarie hanno carattere plurisecolare, è anche vero che certe regole si sono consolidate nel volgere di pochi anni. Il tempo può essere tanto più breve quanto più diffuso è un certo contegno tra i membri della comunità internazionale. Il fattore tempo (di formazione della consuetudine) resta è ineliminabile, essendo le c.d. consuetudini istantanee una contraddizione in termini e un fenomeno che non può generare almeno per noi, norme giuridiche, per la mancanza di quel carattere di stabilità che è insito nel d. non scritto.
Tutti gli organi statali possono partecipare al procedimento di formazione della norma consuetudinaria. Possono concorrere non solo gli atti ‘esterni’ degli Stati (trattati, note diplomatiche, comportamenti in seno ad organi internazionali) ma anche atti ‘interni’ (leggi, sentenze, atti amministrativi). Non vi è alcun ordine di priorità tra tutti questi atti, ma solo la maggiore importanza dell’uno o dell’altro a seconda del contenuto della norma consuetudinaria.
Nella formazione di certe norme consuetudinarie, precisamente di quelle che più sono destinate a ricevere applicazione all’interno dello stato è la giurisprudenza interna a giocare un ruolo decisivo, si pensi al campo delle immunità o a quello delle cause di invalidità e di estinzione dei trattati. Tale funzione e svolta dalle corti supreme statali con particolare autorità. Esse hanno un ruolo decisivo nella creazione del diritto consuetudinario ed è loro compito, di fronte a consuetudini antiche che contrastino con fondamentali e diffusi valori costituzionali, promuoverne, sia pure con cautela, la revisione.
Riepilogando la consuetudine crea diritto generale e come tale si impone a tutti gli stati abbiano o meno questi partecipato alla sua formazione. Questo principio è stato a lungo posto in discussione dagli stati sorti dal processo di decolonizzazione ossia dagli stati i quali oggi costituiscono la maggioranza dei membri della comunità internazionale. Essi sostengono che il vecchio diritto internazionale si sia formato in epoca diversa rispondendo a esigenze diverse, pertanto non può pretendere di vincolare uno stato che nasca oggi con esigenze e interessi opposti. Da qui la pretesa di rispettare solo le norme consuetudinarie preesistenti da essi liberamente accettate.
Il problema della contestazione del diritto consuetudinario con riguardo ai paesi sorti dalla decolonizzazione è ormai superato, va risolto in modo diverso a seconda che la contestazione della norma consuetudinaria provenga da un singolo Stato o da un gruppo di stati.
Nel primo caso (deriva da uno stato singolo) la contestazione anche ripetuta (fenomeno del c.d. persistent objector), è irrilevante; a maggior ragione, non occorre la prova dell’accettazione della norma consuetudinaria da parte dello Stato nei cui confronti questa è invocata; se tale prova fosse necessaria la consuetudine dovrebbe configurarsi come accordo tacito. Verrebbe meno l’idea sentita di un diritto internazionale generale comune ai vari soggetti internazionali.
Ma quando una regola è fermamente e ripetutamente contestata dalla più gran parte degli Stati appartenenti ad un gruppo, essa non solo non è opponibile a quelli che la contestano ma non è neanche da considerarsi esistente come regola consuetudinaria. Prima però di arrivare alla conclusione che un determinato settore non è regolato o non è più regolato da norme consuetudinarie l’interprete deve fare ogni sforzo per cercare di trovare un minimo comune denominatore nell’atteggiamento degli stati ai fini della ricostruzione di principi magari generalissimi.
I paesi in via di sviluppo tendono oggi a sopravvalutare l’importanza ai fini della ricostruzione del d. generale attuale di tutta una serie si risoluzioni. Si deve qui precisare, quindi che le risoluzioni (raccomandazioni) delle organizzazioni internazionali non hanno forza vincolante e le norme in esse contenute possono acquistare tale forza solo se vengono trasformate in consuetudini internazionali, ossia se sono confermate dalla diuturnitas e dall’opinio juris, oppure se vengono trasfuse in convenzioni internazionali; si dice che tali risoluzioni appartengono al ‘diritto morbido’ (soft law). Tale termine è impreciso e ambiguo si usa per indicare cmq la non obbligatorietà. Il che non esclude che il soft law, così come le raccomandazioni possano costituire l’avvio alla formazione della consuetudine o la premessa alla conclusione di accordi internazionali.
La consuetudine può considerarsi diritto spontaneo , e tale espressione viene usata soprattutto per mettere in luce che il diritto non scritto non deriva da una vera e propria fonte formale ma è opportuno sempre tenere presente che la consuetudine non si origina da materiale informe ma da ben precisi e ben individuabili atti degli stati.
Oltre alle norme consuetudinarie generali, si afferma l’esistenza di consuetudini particolari, cioè vincolanti per una ristretta cerchia di Stati (ad es. le consuetudini regionali o locali). È possibile, nel caso di trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, che le parti contraenti diano vita ad una prassi modificatrice delle norme a suo tempo pattuite. Ciò non accade allorché si tratti di organizzazioni internazionali che comprendono un organo giurisdizionale destinato a vegliare sul rispetto del trattato istitutivo (la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha stabilito, in una sentenza del 1994, che “una semplice prassi non può prevalere sulle norme del Trattato”).
Le norme consuetudinarie generali sono suscettibili di applicazione analogica. L’analogia è da intendersi come una forma di interpretazione estensiva consiste nell’applicare una norma ad un certo caso che essa non prevede ma i cui caratteri essenziali sono analoghi a quelli del caso previsto. Nell’ambito del d. consuetudinario il ricorso all’analogia ha senso soprattutto con riguardo a fattispecie nuove: le norme consuetudinarie possono essere applicate a rapporti della vita sociale che non esistevano all’epoca della formazione della norma (ad es. l’applicazione delle norme sulla navigazione marittima ai rapporti attinenti alla navigazione aerea).
5. I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.
L’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia (che è chiamata a dirimere una controversia ad essa sottoposta) annovera fra le fonti i “principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili”. Detti principi sono indicati nell’articolo al terzo posto, dopo gli accordi e le consuetudini, e si tratta quindi di una fonte utilizzabile là dove manchino norme pattizie o consuetudinarie applicabili ad un caso concreto. Il ricorso ai principi generali di diritto costituirebbe una sorta di analogia juris destinata a colmare le lacune del diritto pattizio o consuetudinario. Circa tale principi molto è stato detto e nessuna terminologia sembra convincere.
A nostro parere due requisiti devono sussistere perché principi statali possano essere applicati a titolo di principi generali di diritto internazionale. Occorre innanzitutto che essi esistano e siano uniformemente applicati nella più gran parte degli Stati; in secondo luogo, occorre che siano sentiti come obbligatori o necessari anche dal punto di vista del diritto internazionale, che essi cioè perseguano dei valori e impongano dei comportamenti che gli Stati considerino come perseguiti ed imposti o almeno necessari anche sul piano internazionale. ( questo è il requisito più importante). Costituiscono una categoria sui generis di norme consuetudinarie internazionali, rispetto alle quali la diuturnitas è data dalla loro uniforme previsione e applicazione da parte degli Stati all’interno dei rispettivi ordinamenti. Circa l’opinio juris sive necessitatis, essa è presente in quelle regole intese dagli organi dello Stato come aventi un valore universale, come necessariamente applicabili in qualsiasi ordinamento giuridico e quindi anche in quello internazionale. Per ogni altra regola uniforme di diritto interno occorrerà volta a volta accertare l’opinio iuris dal p.d.v. internazionale.
Nell’accertamento dell’opinio juris a livello internazionale è necessario molto rigore onde non pervenire alla conclusione che qualsiasi uniformità di norme generali statali crei diritto internazionale generale. Con questa riserva la categoria dei principi generali di diritto comuni agli ordinamenti statali è idonea ad aprire all’interprete prospettive interessanti di ricostruzione di norme internazionali. A parte le vecchie regole di giustizia e di logica giuridica essa può costituire una delle strade per affermare la natura internazionalistica di quei principi oggi universalmente propugnati che mirano a salvaguardare la dignità umana e ad attuare una migliore giustizia sociale.
Il ricorso ai principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili può essere assai utile per estendere la sfera dei rapporti tra stato e sudditi regolati dal diritto consuetudinario.
Il ricorso ai principi generali del diritto è particolarmente attuato nella materia della punizione dei crimini internazionali ad opera di tribunali internazionali penali.
Se il primo requisito per l’esistenza di un principio generale di diritto comune agli ordinamenti statali è che esso sia uniformemente seguito nella più gran parte degli Stati, ne deriva che la ricostruzione di un principio del genere può consentire al giudice di uno Stato di farne applicazione anche quando il principio medesimo non esista nell’ordinamento statale; ciò sempre che, come di solito avviene, l’ordinamento interno imponga l’osservanza del diritto internazionale. Ad es. i principi generali di diritto comuni agli ordinamenti statali fanno parte, al pari delle norme consuetudinarie, dell’ordinamento italiano, in virtù dell’art. 101 Cost. (“L’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”); dato che, in virtù dell’art. 10 Cost., la contrarietà di una legge ordinaria italiana al diritto internazionale generale comporta l’illegittimità costituzionale della medesima, tale illegittimità potrà dichiararsi anche in caso di contrarietà ad un principio generale di diritto riconosciuto dalle Nazioni civili.
6. Altre presunte norme generali non scritte. L’equità e il ruolo della giurisprudenza interna e internazionale nella formazione del diritto internazionale generale. La c.d. frammentazione del diritto internazionale.
Una parte della dottrina (Quadri) pone al di sopra delle norme consuetudinarie un’altra categoria di norme generali non scritte, i principi ‘costituzionali’ connaturati con la comunità internazionale. Questi sarebbero le norme primarie del diritto internazionale, “espressione immediata e diretta della volontà del corpo sociale” e comprenderebbero quelle norme volute e imposte dalle “forze prevalenti” in un dato momento storico nell’ambito della comunità internazionale. Tra i principi, alcuni avrebbero carattere formale, in quanto si limiterebbero a istituire fonti ulteriori di norme internazionali, altri carattere materiale, in quanto disciplinerebbero direttamente rapporti fra Stati.
Ciò che non convince è che, seguendo tale tesi, un gruppo di Stati o anche un solo Stato potrebbe imporre, disponendo della forza necessaria, la propria volontà a tutti gli altri membri della comunità internazionale. Inoltre, l’interprete interno, dovendo stabilire quali norme internazionali generali siano da applicare in Italia così come vuole l’art. 10 Cost. si dovrebbe chiedere di volta in volta se non vi siano ‘imposizioni’, in una determinata materia, da parte delle forze dominanti nella comunità internazionale.
È vero che alla base di una norma non scritta vi è spesso un’imposizione e che il ruolo di grandi potenze è sempre di primo piano nella formazione del d. internazionale ma se all’iniziale imposizione non fa seguito l’elemento di stabilità e continuità non è possibile ammettere l’esistenza di un principio.
Si discute se sia fonte di norme internazionali l’equità, definita come il “comune sentimento del giusto e dell’ingiusto” e soprattutto ci si chiede se all’equità possa ricorrere il giudice internazionale o interno che sia chiamato a risolvere una questione di d. internazionale. A parte la c.d. equità infra o secundum legem, ossia la possibilità di utilizzare l’equità come ausilio meramente interpretativo, ed a parte il caso in cui un tribunale arbitrale internazionale è espressamente autorizzato a giudicare ex aequo et bono, la risposta è negativa. L’equità svolge un ruolo importante soltanto nell’ordinamento inglese. La prassi internazionale però non avalla una trasposizione dall’ordinamento inglese a quello internazionale. È da escludere non solo l’equità contra legem, contraria cioè a norme consuetudinarie o pattizie, ma anche l’equità praeter legem, diretta a colmare le lacune del diritto internazionale: se il diritto internazionale è lacunoso ciò significa che gli stati non hanno obblighi da osservare o diritti da pretendere e l’equità non può essere idonea a crearli.
L’equità va inquadrata nel procedimento di formazione del diritto consuetudinario: spesso il ricorso all’equità si atteggia come una sorta di opinio juris sive necessitatis o anzi di opinio necessitatis in quanto esso ha luogo quando una norma si sta formando o modificando.
Quando una sentenza interna ricorre a considerazioni di equità nel quadro del diritto consuetudinario, essa influisce direttamente sulla formazione della consuetudine: le decisioni dei Tribunali interni costituiscono infatti una delle categorie più importanti di comportamenti statali dai quali la consuetudine va dedotta. L’influenza è diretta ma relativa, trattandosi di una decisione autorevole ma proveniente da un singolo Stato.
Circa le decisioni dei Tribunali internazionali, l’influenza è invece indiretta, dato che non si tratta della prassi degli Stati, ma è assai incisiva per il contesto in cui è esercitata.
Quando poi a pronunciarsi è la Corte Internazionale di Giustizia, ossia “l’organo giudiziario principale delle Nazioni Unite” (art. 92 Carta ONU), l’influenza è massima, visto che esprime l’opinio juris sive necessitatis della massima Organizzazione mondiale. Anche questa opinione però deve trovare prima o poi riscontro nella prassi degli Stati.
Si dice che la moltiplicazione delle istanze giurisdizionali internazionali, con la possibilità di decisioni discordanti, mini l’unità del diritto internazionale e si paventa la ‘frammentazione’ di quest’ultimo; cosicché da taluni si auspica un ruolo centrale per la Corte Internazionale di Giustizia. In realtà, il pericolo non sussiste: sulle interpretazioni discordanti delle sentenze sarà la prassi degli Stati ad operare la scelta definitiva. Del tema si è occupata la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite a partire dal 2002, ma finora i lavori non hanno approdato a nulla.
7. Inesistenza di norme generali scritte. Il valore degli accordi di codificazione.
Il fenomeno della codificazione del diritto internazionale generale consuetudinario data dalla fine del XIX secolo. Fino alla prima guerra mondiale furono le norme del c.d. diritto internazionale bellico ad essere trasfuse in testi scritti (Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre). Tentativi di codificazione furono fatti anche all’epoca della Società delle Nazioni, ma senza risultati. È con le Nazioni Unite che l’opera di codificazione ha preso slancio con una serie di trattati multilaterali.
L’art. 13 della Carta ONU prevede che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite intraprenda studi e faccia raccomandazioni per “…incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione…”. Sulla base di questa disposizione l’Assemblea costituì (1947) come proprio organo sussidiario la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite (CDI). Questa è composta da esperti che vi siedono a titolo personale (cioè da individui che non rappresentano alcun Governo) ed ha il compito di provvedere alla preparazione di testi di codificazione delle norme consuetudinarie relative a determinate materie procedendo a studi, raccogliendo dati della prassi e predisponendo in tal modo progetti di convenzioni multilaterali internazionali che poi di solito o in seno all’assemblea generale o in sede di apposite e solenni conferenze di stati vengono adottati e infine aperti alla ratifica e all’adesione da parte degli stati stessi. La commessione ha finora predisposto varie convenzioni di codificazione coprendo quasi tutti i settori del diritto internazionale. Si può dire che l’epoca delle grandi codificazioni si è conclusa e la Commissione si occupa attualmente di temi assai specifici oppure tende a rivedere convenzioni di codificazioni già esistenti. Inoltre sempre più spesso l’opera della commissione sfocia in progetti che magari proprio su proposta della commissione stessa non vengono tradotti in convenzioni.
Le principali convenzioni sono: Convenzione di Vienna (1961) sulle relazioni ed immunità diplomatiche; Convenzione sulle missioni speciali (1969); Convenzione di Vienna (1963) sulle relazioni consolari; Convenzioni di Ginevra (1958) sul diritto del mare; Convenzione di Vienna (1969) sul diritto dei trattati; Convenzione di Vienna (1986) sul diritto dei trattati conclusi da Stati con organizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali; Convenzione di Vienna (1978) sulla successione degli Stati nei trattati; Convenzione di Vienna (1983) sulla successione di Stati in materia di beni, archivi e debiti di Stati; Convenzione di Montego Bay (1982) sul diritto del mare; Convenzione sul diritto relativo alle utilizzazioni dei corsi d’acqua internazionali a fini diversi dalla navigazione (1997); Convenzione sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni (2004).
La Commissione non è l’unico organismo in seno al quale si predispongono progetti di accordi di codificazione: l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha spesso seguito altre strade: ha convocato conferenze di Stati in seno alle quali anche il progetto è stato redatto oppure la redazione del progetto è stata affidata ad organi sussidiari dell’assemblea come i Comitati ad hoc. Rispetto alle convenzioni progettate dalla Commissione la loro particolarità sta nel fatto che anche il progetto non è frutto del lavoro di individui indipendenti che esprimono opinioni personali ma di individui rappresentanti gli Stati e che devono seguire delle istruzioni.
Gli accordi di codificazione, in quanto comuni accordi internazionali, vincolano gli Stati contraenti, cioè valgono solo per gli Stati che li ratificano. (non possono cioè considerarsi al pari del d. consuetudinario generale).Ciò per vari motivi:
L’accordo di codificazione costituisce quindi un valido punto di partenza per l’interprete che deve ricostruire delle norme generali consuetudinarie, nella materia disciplinata dall’accordo medesimo; ma egli dovrà tuttavia compiere un’ulteriore verifica restando sempre da dimostrare che le norme contenute nell’accordo corrispondano alla prassi degli Stati; e solo se la verifica risultasse positiva egli potrà applicare la norma dell’accordo di codificazione a titolo di diritto generale. Ammesso pure che l’accordo di codificazione corrisponda perfettamente al diritto internazionale consuetudinario al momento della sua redazione, è ben possibile che in epoca successiva, il diritto consuetudinario subisca dei cambiamenti per effetto della mutata pratica degli Stati in tal senso si è espressa anche la CIG.
Nessun dubbio sorge circa l’inapplicabilità agli Stati non contraenti di una norma codificata ma non più corrispondente al diritto internazionale generale.
Per quanto riguarda gli Stati contraenti, la mancanza di un’autorità nell’ambito della comunità internazionale impedisce che si instauri quel rapporto tra diritto consuetudinario e diritto scritto che è tipico degli ordinamenti statali e che consiste nel valore puramente ausiliario del primo nei settori dove esiste il secondo: consuetudini e accordi sono in linea di principio fra loro derogabili e nulla vieta dunque che il diritto consuetudinario successivo abroghi quello pattizio anteriore. L’interprete deve essere estremamente sicuro della prassi da cui intende estrarre la norma consuetudinaria abrogatrice e deve dimostrare che la consuetudine si è formata col concorso degli Stati contraenti e che questi la intendano applicabile anche nei rapporti inter se. Se la dimostrazione è data l’accordo deve soccombere.
8. segue. Le dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’ONU.
Fin dai primi anni di vita, l’Assemblea ha seguito la prassi di emanare, in forma più o meno solenne, delle Dichiarazioni contenenti una serie di regole che talvolta riguardano rapporti fra Stati ma più spesso riguardano rapporti interni alle varie comunità statali, quali i rapporti dello Stato con i propri sudditi o con gli stranieri. Tra le principali dichiarazioni è da ricordare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). (sui diritti del fanciullo sul divieto dell’utilizzo di armi nucleari e sull’eliminazione della discriminazione razziale).
Le Dichiarazioni di principi non costituiscono un’autonoma fonte di norme internazionali generali. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite non ha poteri legislativi mondiali (l’atto tipico che essa può emanare in base alla Carta è la raccomandazione atto avente mero valore esortativo) e il carattere non vincolante delle sue risoluzioni, ivi comprese le Dichiarazioni di principi, è difeso con forza da una parte non indifferente dei suoi membri, come i Paesi occidentali.
Se l’assemblea avesse poteri legislativi, i paesi del terzo mondo che detengono la maggioranza in seno ad essa disporrebbero del diritto internazionale generale.
Le Dichiarazioni svolgono un ruolo importante ai fini dello sviluppo del diritto internazionale del suo adeguamento alle esigenze di solidarietà e di interdipendenza sempre più sentite nel mondo di oggi.
Non si tratta di accordare loro una forza vincolante che non hanno si tratta di riconoscere il contributo che con esse l’assemblea ONU dà alla formazione del diritto internazionale sia pure nel quadro delle fonti tipiche di tale diritto quali la consuetudine e l’accordo.
Per quanto riguarda il diritto consuetudinario, le Dichiarazioni vengono in rilievo, ai fini della sua formazione, in quanto prassi degli Stati, in quanto somma degli atteggiamenti degli Stati che le adottano, e non come atti dell’ONU.
Circa il diritto pattizio, certe Dichiarazioni o parti di esse hanno valore di veri e propri accordi internazionali: sono quelle Dichiarazioni che equiparano l’inosservanza dei principi espressi alla violazione della Carta. Ma poiché l’Assemblea non ha poteri interpretativi obbligatori per i singoli Stati, anche tali Dichiarazioni per la Carta restano mere raccomandazioni. È vero però che, equiparandosi l’inosservanza di un certo principio all’inosservanza della Carta, si utilizzi un espediente verbale per sancire puramente e semplicemente che quel principio è ormai obbligatorio, dal che risulta lecito presumere fio a prova contraria che gli Stati che partecipano col loro voto favorevole all’atto intendono obbligarsi. È agevole ammettere tale presunzione altrimenti bisognerebbe concludere che le dichiarazioni di principi del tipo in esame rappresentino per dirla in termini privatistici delle dichiarazioni non serie o rese con riserva mentale.
La situazione non cambia nel caso che la dichiarazione consideri l’inosservanza di un principio come violazione del diritto internazionale generale anziché della Carta. Anche in tal caso è legittimo presumere per gli stessi motivi che sussista una sincera volontà di obbligarsi.
Le Dichiarazioni inquadrabili come accordi vanno propriamente considerate, in vista del modo in cui vengono in essere, come accordi in forma semplificata.
9. I trattati. Procedimento di formazione e competenza a stipulare.
La terminologia usata è varia (trattato, convenzione, patto, ecc.; si usa poi il termine Carta o Statuto per i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali; scambio di note per l’accordo risultante dallo scambio di note diplomatiche; a seconda della materia ivi contenuta) ma la natura dell’atto, quella propria degli atti contrattuali, non muta. L’accordo internazionale può essere definito come l’incontro delle volontà di due o più Stati, dirette a regolare una determinata sfera di rapporti riguardanti questi ultimi.
Non va accolta, in quanto ambigua e poco rispondente alla realtà la distinzione ,elaborata dalla dottrina tedesca del XIX secolo e ancora aperta, fra trattati normativi e trattati-contratto (o trattati-negozio): i primi, considerati come gli unici accordi produttivi di vere e proprie norme giuridiche, sarebbero caratterizzati da volontà di identico contenuto, dirette a regolare la condotta di un numero rilevante di Stati (come la rinuncia alla guerra x es.), mentre nei secondi, fonti di diritti e obblighi, ossia di rapporti giuridici, non di norme, le parti muoverebbero da posizioni contrastanti ed attuerebbero uno scambio di prestazioni più o meno corrispettive (gli accordi commerciali x es.).
La distinzione non ha senso, non avendo senso la contrapposizione fra norma e rapporto giuridico: qualsiasi atto obbligatorio che vincoli qualcuno produce per ciò stesso una regola di condotta. Né ha senso parlare di parti unite e contrapposte essendo un dato comune a tutti i trattati.
L’uso del concetto di accordo normativo ebbe motivazioni prevalentemente di teoria generale derivando dal convincimento che solo la volontà dello stato, quale si esprime attraverso la legge, fosse idonea a creare diritto e che pertanto anche nel diritto internazionale si dovesse ricostruire qualcosa di simile alla legge, qualcosa che attuasse un’unione, a fini legislativi, della volontà di più stati.
Può accettarsi la distinzione fra norme astratte, regolanti una situazione o un rapporto ‘tipo’ e vincolanti i destinatari che vengano a trovarsi in quella situazione o rapporto, e norme concrete, regolanti una situazione o un rapporto singolo e determinato.
I trattati possono dar vita sia a regole materiali, cioè a norme che direttamente disciplinano i rapporti fra destinatari imponendo obblighi o attribuendo diritti, sia a regole formali o strumentali, cioè a norme che si limitano ad istituire fonti per la creazione di ulteriori norme.
Tra gli accordi istitutivi di fonti acquistano oggi grande importanza i trattati costitutivi di organizzazioni internazionali, i quali, oltre a disciplinare direttamente certi rapporti fra Stati membri, demandano agli organi sociali la produzione di norme ulteriori.
I trattati internazionali sottostanno ad una serie di norme consuetudinarie che ne disciplinano il procedimento di formazione nonché i requisiti di validità ed efficacia. Tale complesso di regole forma il c.d. diritto dei trattati, cui è dedicata la Convenzione di Vienna del 1969 (in vigore dal 1980 e ratificata dall’Italia nel 1974) questa è la più importante e quella alla quale si riferisce la sua sfera di applicazione tocca soltanto i trattati conclusi tra stati dopo la sua entrata in vigore. Vanno menzionate anche la Convenzione di Vienna del 1978 (in vigore dal 1996), sulla successione degli Stati nei trattati, e la Convenzione di Vienna del 1986 (mai entrata in vigore), sui trattati stipulati fra Stati e Organizzazioni internazionali o fra Organizzazioni internazionali.
È opinione universalmente seguita che il diritto internazionale lasci la più ampia libertà in materia di forma e procedura per la stipulazione: l’accordo può risultare da ogni genere di manifestazioni di volontà degli Stati, purché di identico contenuto e purché dirette ad obbligarli. L’accordo può realizzarsi istantaneamente o aversi al termine di complicate procedure, può essere scritto o orale, può essere consegnato in un documento ad hoc o può risultare da processo verbale di un organo internazionale o dallo scambio di note diplomatiche ecc…Non ha carattere tassativo l’elencazione dei modi di stipulazione contenuta nella Convenzione di Vienna (artt. 7-16), elencazione che tra l’altro è limitata agli accordi “conclusi per iscritto” e quando ci si descrive il procedimento di formazione dei trattati non ci si può riferire a precise e vincolanti norme giuridiche, neppure si può dare alla descrizione carattere tassativo dovendosi necessariamente limitarsi a quelle procedure che vengono più frequentemente usate dagli stati.
Ancora oggi, comunque, il procedimento normale o solenne di formazione del trattato, ricalca quello seguito all’epoca delle monarchie assolute. All’epoca la stipulazione del trattato era di competenza esclusiva del Capo dello Stato; esso era negoziato dai rappresentanti del Sovrano, definiti ‘plenipotenziari’ in quanto titolari di pieni poteri per la negoziazione, che predisponevano il testo dell’accordo (da approvare all’unanimità) e lo sottoscrivevano. Seguiva la ‘ratifica’ da parte del Sovrano ed occorreva, infine, che la volontà del Sovrano fosse portata a conoscenza delle controparti con lo scambio delle ratifiche.
Anche oggi il procedimento normale di formazione del trattato si apre con i negoziati condotti dai plenipotenziari, i quali di solito sono organi del Potere esecutivo o agiscono per suo mandato.
L’art. 7 della Convenzione di Vienna stabilisce che una persona è considerata come rappresentante dello Stato “…se produce dei pieni poteri appropriati…”; i pieni poteri sono ‘appropriati’ allorquando promanano dagli organi competenti in base al diritto e alla prassi propri di ciascun Paese (dal Potere esecutivo in Italia). Lo stesso art. 7 prevede che possano rappresentare lo stato senza produrre pieni poteri i capi di stato o di governo o i ministri dell’estero.
La fase della negoziazione è tanto più complessa quanto più numerosi sono gli stati che partecipano alla negoziazione medesima e importante è la materia da regolare: per esempio i trattati multilaterali come i trattati di pace, di codificazione ecc..di particolare rilievo sono negoziati dai plenipotenziari nell’ambito di conferenze diplomatiche rette da regole procedurali preventivamente concordate e spesso assai dettagliate; per quanto riguarda l’adozione del testo la vecchia regola dell’unanimità va cedendo il passo al principio di maggioranza e, talvolta, le due regole si combinano allorché sia prevista la votazione a maggioranza solo dopo che sia stato compiuto ogni sforzo per giungere ad un’adozione concordata.
I negoziati si concludono con la firma (o la parafatura, apposizione delle sole iniziali) da parte dei plenipotenziari. La firma (almeno nel procedimento normale cioè quello in questione) non comporta ancora alcun vincolo per gli Stati: essa ha fini di autenticazione del testo che è così predisposto in forma definitiva e potrà quindi subire modifiche solo in seguito all’apertura di nuovi negoziati.
La manifestazione di volontà con cui lo Stato si impegna è la ratifica. La competenza a ratificare è disciplinata da ogni singolo stato con proprie norme costituzionali. Da un p.d.v. comparativo e con approssimazione può dirsi che il capo di stato abbia competenza a ratificare ma tale potere concorre con quello del potere esecutivo.
Circa l’ordinamento italiano, l’art. 878 Cost. dispone che il Presidente della Repubblica ratifica i trattati internazionale previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere; l’art. 80 Cost. specifica che l’autorizzazione delle Camere è necessaria, e va data con legge, quando si tratti di trattati che hanno natura politica, o prevedono regolamenti giudiziari, o comportano variazioni del territorio nazionale od oneri alle finanze o modificazioni di leggi. Le due norme vanno combinate con l’art. 89 Cost. secondo cui “nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità”. È opinione comune che la ratifica rientri tra quegli atti che il Presidente della Repubblica non possa rifiutarsi di sottoscrivere una volta intervenuta la ratifica governativa ma di cui possa soltanto sollecitare il riesame prima della sottoscrizione: il che dimostra che il potere di ratifica è, quanto al contenuto, nelle mani dell’Esecutivo e, per le categorie di trattati indicate dall’art. 80 Cost., insieme del Potere esecutivo e di quello legislativo.
Alla ratifica (o conclusione o anche approvazione) è da equiparare l’adesione (o accessione), che si ha, nel caso di trattati multilaterali, quando la manifestazione di volontà diretta a concludere l’accordo promana da uno Stato che non ha preso parte ai negoziati; la possibilità di partecipare all’accordo a beneficio di Stati che non lo hanno negoziato deve essere prevista nel testo medesimo (c.d. clausola di adesione), occorre cioè che il trattato sia aperto.
L’adesione non è altro che la ratifica di un accordo predisposto da altri e si capisce perché di essa non si parla neppure nelle costituzioni, la competenza ad aderire rientrando in quella a ratificare. L’adesione di cui parliamo implica partecipazione diretta al trattato multilaterale aperto da parte dello stato che è rimasto estraneo ai negoziati.
Una volta formatasi la volontà dello stato attraverso le deliberazioni degli organi costituzionalmente competenti il procedimento di formazione si conclude con lo scambio o con il deposito delle ratifiche:
Allo scambio e al deposito, l’art. 16 della Convenzione di Vienna aggiunge la notifica agli Stati contraenti o al depositario.
Secondo l’art. 102 della Carta ONU ogni trattato o accordo internazionale ‘deve’ essere registrato presso il Segretariato delle Nazioni Unite e pubblicato a cura di quest’ultimo: unica conseguenza dell’omessa registrazione è l’impossibilità di invocare il trattato innanzi ad un organo delle Nazioni Unite. La registrazione non è dunque un requisito di validità del trattato. Normalmente, tutti gli accordi internazionali sono pubblicati nella raccolta ufficiale dell’ONU, la United Nations Treaty Series.
Spesso gli stati avvalendosi dell’ampia libertà di cui godono in materia seguono procedimenti diversi da quello normale. Le procedure alternative possono distinguersi a seconda che:
Tra le prime sono inquadrabili le numerose variazioni che nella prassi subiscono le fasi dei negoziati e della firma (ad es. per molti trattati predisposti da organizzazioni internazionali, alla negoziazione diretta si sostituisce la discussione e l’approvazione da parte di un organo dell’organizzazione). La firma viene sempre più spesso, nel caso di accordi multilaterali, differita nel tempo: il testo del trattato, una volta redatto di plenipotenziari, è ‘aperto’ alla firma e alla ratifica degli Stati; tale firma non ha più funzione di autenticazione del testo ma costituisce una generica dichiarazione di disponibilità.
Circa le procedure nelle quali la manifestazione di volontà dello Stato non consiste nella ratifica, è fondamentale il fenomeno dei c.d. accordi in forma semplificata (o accordi ‘informali’): tale è l’accordo concluso per effetto della sola sottoscrizione del testo da parte dei plenipotenziari, e che si ha quando, dallo stesso testo o dai comportamenti concludenti delle parti, risulti che le medesime hanno inteso attribuire alla firma il valore di piena e definitiva manifestazione di volontà. L’art. 12 della Convenzione di Vienna dice che “Il consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato è espresso dalla firma del rappresentante di questo Stato: a) quando il trattato prevede che la firma avrà tale effetto; b) quando è in altro modo stabilito che gli Stati partecipanti ai negoziati abbiano convenuto di attribuire tale effetto alla firma; c) quando l’intenzione dello Stato di dare tale effetto alla firma risulta dai pieni poteri del suo rappresentante o è stato espresso nel corso della negoziazione”.
A tale categoria di accordi sono da riportare anche gli scambi di note diplomatiche o di altri strumenti simili, sempre che dagli strumenti medesimi o aliunde si ricavi l’intenzione delle parti di vincolarsi immediatamente. Per aversi un accordo in forma semplificata è necessario che dal testo o dalle circostanze risulti una sicura volontà di obbligarsi; ciò perchè la prassi internazionale conosce numerosi casi di intese tra Governi, cui spesso si dà il nome di accordi, ma che non hanno natura di accordi in senso giuridico essendo tale natura esclusa da quanto risulta dal testo o dalle dichiarazioni di coloro che lo sottoscrivono. Tali intese valgono se e finchè applicate dalle parti.
In una zona di confine fra intese non giuridiche e accordi in forma semplificata si collocano gli accordi sull’applicazione provvisoria dei trattati, che si hanno quando le parti prevedono nel trattato o in dichiarazioni separate che il trattato si applichi provvisoriamente in attesa della sua entrata in vigore. Tali accordi da alcuni vengono considerati vincolanti da altri simili alle intese e quindi non vincolanti.
La competenza a concludere accordi in forma semplificata, al pari della competenza a ratificare, è regolata da ciascuno Stato con proprie norme costituzionali. Circa l’ordinamento italiano, la stipulazione in forma semplificata sarebbe secondo la tesi di Cassese da escludere solo quando l’accordo appartenga ad una delle categorie di cui all’art. 80 Cost. (trattati aventi natura politica, che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, che importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi); in tutti gli altri casi il Potere esecutivo è libero di decidere, insieme alle altre parti contraenti, che forma dare all’accordo e che procedura seguire (tale tesi, nel silenzio della nostra Costituzione, è ricavata da un’interpretazione sistematica degli artt. 80 e 87 Cost. e sembra essere confortata dai lavori dell’Assemblea Costituente durante i quali si ribadì che solo gli accordi più importanti necessitano della sottoposizione a ratifica).
La categoria degli accordi in forma semplificata è riconosciuta dal legislatore: la L. n. 839/84, nel riordinare la materia della pubblicazione degli atti normativi della Repubblica italiana nella Gazzetta Ufficiale, prevede, all’art. 1, che tale pubblicazione avvenga per “…gli accordi ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni internazionali, ivi compresi quelli in forma semplificata…”. Un limite alla competenza del Governo a stipulare accordi in forma semplificata è dato dal divieto, che la prevalente dottrina considera come implicitamente previsto dalla Costituzione, di concludere accordi segreti.
La prassi degli accordi in forma semplificata trova origine in quegli executive agreements statunitensi, stipulati dal Presidente ed esenti da ratifica (di competenza del Senato), che hanno per oggetto materie tecnico-amministrative e materie che rientrano nelle competenze del Presidente quale Comandante delle forze armate e responsabile della politica estera.
Un problema molto importante nasce se il Potere esecutivo si impegna autonomamente e definitivamente sul piano internazionale relativamente a materie per le quali la Costituzione richiede il concorso del Parlamento? (e, sia pure formalmente, del Capo dello Stato). Il Governo ha spesso utilizzato in Italia così come in altri paesi la forma semplificata per accordi che rientravano palesemente nelle categorie dell’art. 80 Cost. per i quali occorreva quindi l’intervento del Parlamento sotto forma della legge di autorizzazione alla ratifica, e la ratifica da parte del P. della Repubblica: l’esempio più significativo è costituito dalla domanda di ammissione dell’Italia alle Nazione Unite (la Carta ONU è chiaramente un trattato di natura politica e la partecipazione dello Stato all’Organizzazione importa oneri finanziari di rilievo), avvenuta con un atto del Ministro degli Esteri (emanato nel 1947 e accolto dall’Assemblea generale nel 1955).
La dottrina evita eccessi estremistici e, da un lato, esclude che per il diritto internazionale i trattati stipulati direttamente dall’Esecutivo siano in ogni caso validi, che l’Esecutivo abbia cioè, come si riteneva avesse un tempo il Capo dello Stato, lo jus repraesentationis omnimodae; dall’altro, esclude che qualsiasi vizio, anche soltanto formale, dal punto di vista interno, possa inficiare la validità internazionale dell’accordo.
Varie sono le teorie che vengono sostenute:
INTERNISTICA: secondo alcuni il diritto internazionale si rifarebbe nella materia alla ripartizione di fatto delle competenze esistenti all’interno dello stato al momento della stipula dell’accordo ppoure rinvierebbe alla costituzione vivente quale si forma attraverso la prassi, come contrapposta alla costituzione formale, o ancora terrebbe conto delle prospettive che per l’accordo concluso dall’organo incompetente sussistono di ricevere nonostante tutto esecuzione;
INTERNAZIONALISTICA: altri più vicini a questa tesi internazionalistica fanno leva sulla buona fede sostenendo che l’accordo sarebbe valido tutte le volte che la violazione del diritto interno non sia riconoscibile dalle parti contraenti.
Al di là delle varie soluzioni ‘internistiche’ o ‘internazionalistiche’, l’art. 46 della Convenzione di Vienna (abbastanza vicina alla soluzione internazionalistica) stabilisce che “1) Il fatto che il consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato sia stato espresso in violazione di una regola del suo diritto interno sulla competenza a stipulare trattati non può essere invocato da tale Stato come vizio del suo consenso, a meno che la violazione non sia manifesta e non concerna una regola del suo diritto interno di importanza fondamentale. 2) Una violazione è manifesta se obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si comporti in materia secondo la prassi abituale e in buona fede”.
Considerando che:
Stando così le cose riteniamo che l’art. 46 corrisponde al diritto internazionale generale quando codifica il principio che la violazione di norme interne di importanza fondamentale in tema di competenza a stipulare sia causa di invalidità del trattato; una violazione del genere si ha quando sia mancato, nelle materie elencate nell’art. 80 Cost., il concorso del Parlamento.
Tale articolo non corrisponde al diritto consuetudinario, risentendo di una concezione prettamente diplomatica del d. internazionale, nella parte in cui enuncia il principio della buona fede quindi il principio della riconoscibilità o meno della violazione ad opera dell’altro o delle altre parti contraenti: l’accordo concluso dall’Esecutivo senza la relativa competenza costituzionale resta un’intesa priva di carattere giuridico che vale finchè vale.
Una simile intesa acquista valore di vero e proprio accordo internazionale in senso giuridico nel momento in cui l’organo messo da parte manifesti, implicitamente o esplicitamente, il suo assenso, e purché esso adoperi lo stesso strumento formale (la legge, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, nelle materie elencate dall’art. 80 Cost.) previsto dalla Costituzione per il suo intervento.
Figure intermedie fra gli accordi in forma semplificata e gli accordi solenni sono gli accordi che espressamente subordinano la propria entrata in vigore alla comunicazione, da parte di ciascun Governo firmatario, che sono state adempiute le procedure previste dal diritto interno per “rendere applicabile nel territorio dello Stato” l’accordo medesimo. Quando tali accordi toccano materie rientranti nell’art. 80 devono ricevere anch’essi l’assenso del Parlamento con una legge di approvazione oppure con una legge contenente l’ordine di esecuzione.
Circa la capacità delle Regioni di concludere accordi internazionali, la Corte costituzionale prese in un primo tempo una posizione drastica in senso antiregionalista affermando l’incompetenza delle regioni in tema di formulazioni di accordi con soggetti propri di altri ordinamenti (sent. n. 170/75). La materia venne poi regolata dal D.P.R. n. 616/77, che riservava allo Stato le funzioni relative ai rapporti internazionali nelle materie trasferite e delegate alle Regioni e faceva divieto alle Regioni di svolgere “attività promozionali all’estero” senza il preventivo assenso governativo.
Significativa è la sent. n. 179/87 nella quale, capovolgendosi il primitivo orientamento, si sostiene che le Regioni, procuratesi il previo assenso del Governo centrale, possano stipulare non solo intese di rilievo internazionale, ma addirittura “accordi in senso proprio”, tali “da impegnare la responsabilità dello Stato” e purché si tratti di accordi che riguardino materie di competenza regionale e non rientranti nelle categorie previste dall’art. 80 Cost.
La materia è ora regolata dalla L. cost. n. 3/2001 che prevede la competenza della Regione, nelle materie di sua competenza, a “concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato”. I casi e le forme sono disciplinati dalla L. n. 131/2003 che prevede il preventivo conferimento di pieni poteri alla Regione da parte del Governo, configurando la competenza della Regione come competenza a stipulare per conto dello Stato, e quindi impegnando la responsabilità dello Stato.
Le iniziative regionali dirette a collaborare con analoghi enti stranieri non sono da considerare come iniziative dirette a concludere e veri e propri accordi retti dal diritto internazionale , in realtà, sono delle intese o meglio dei programmi, privi in sé di carattere giuridico, che costituiscono una mera occasione per l’adozione di atti legislativi o amministrativi da parte delle Regioni interessate e servono solo a fornire un’interpretazione degli atti medesimi.
Ad avere rilievo nel nostro ordinamento sono solo atti amministrativi o legislativi regionali che danno attuazione alla collaborazione concordata. Tali atti devono sottostare alle norme che presiedono alle competenze regionali ivi comprese le norme sulle funzioni statali di coordinamento.
Quanto detto a proposito delle intese tra regioni di stati diversi vale a maggior ragione per le intese tra altre circoscrizioni territoriali o enti pubblici come i gemellaggi tra città per esempio. Anche qui si tratta di meri programmi destinati a fornire l’occasione per l’adozione di atti amministrativi interni. A meno che non si tratti di veri e propri contratti di diritto privato.
Diffuso nella prassi contemporanea è il fenomeno degli accordi stipulati dalle organizzazioni internazionali, sia fra loro, sia con Stati membri oppure con Stati terzi. Il potere di concludere accordi è da considerare come la manifestazione più saliente della personalità giuridica internazionale delle organizzazioni. A siffatti accordi è dedicata la Convenzione di Vienna del 1986 che riproduce pedissequamente la Convenzione di Vienna del 1969.
Occorre far capo allo statuto di ciascuna organizzazione per stabilire quali sono gli organi competenti a stipulare e quali le materie per cui siffatta competenza è attribuita. Si può dire che una violazione grave delle norme statutarie sulla competenza a stipulare comporti l’invalidità dell’accordo. Poiché le norme contenute nel trattato istitutivo, come tutte le norme pattizie, sono modificabili per consuetudine, la competenza a stipulare può anche risultare da regola sviluppatesi nella prassi dell’organizzazione, purché si tratti di prassi certa e sempre che non vi sia, come avviene per le Comunità europea, un organo giudiziario destinato a vegliare sul rispetto del trattato istitutivo, nel qual caso il fattore determinante ai fini dell’eventuale sviluppo delle competenze originarie diviene la giurisprudenza.
Ciò trova riscontro grosso modo nell’art 46 della convenzione di Vienna del 1986 (riproducendo l’art 46 della convenzione di Vienna del 1962) che considera come causa di invalidità la violazione di una delle norme dell’organizzazione sulla competenza a stipulare di importanza fondamentale. A sua volta l’art. 2 della Convenzione di Vienna del 1986 precisa che per “norme dell’organizzazione” devono intendersi “le norme statutarie, le decisioni e le risoluzioni adottate sulla base delle norme medesime, e la prassi consolidata dell’organizzazione”.
Gran parte degli accordi stipulati dalle organizzazioni sono i c.d. accordi di collegamento che le organizzazioni stipulano fra loro per coordinare le rispettive attività; trattasi di intese di cui può mettersi in dubbio la natura giuridica e che sono intraducibili in termini di diritti ed obblighi delle parti contraenti.
Importanti sono gli accordi, stipulati tra le organizzazioni e gli Stati membri o con Stati terzi, che fissano il regime della sede delle organizzazioni o attribuiscono immunità e privilegi ai loro funzionari che si preoccupano di assicurare alle organizzazioni la libertà necessaria di azioni nei territori in cui sono destinate ad operare.(questi in nulla differiscono dai normali accordi giuridici internazionali).
10. Inefficacia dei trattati nei confronti degli Stati terzi. L’incompatibilità tra norme convenzionali.
Per il trattato internazionale vale ciò che si dice per il contratto di diritto interno: esso fa legge fra le parti e solo fra le parti. Diritti ed obblighi per terzi Stati non potranno derivare da un trattato se non attraverso una qualche forma di partecipazione dei terzi Stati al medesimo.
Fuori da simili ipotesi non potrà che applicarsi l’inefficacia dei trattati nei confronti degli stati non contraenti.
L’art. 34 della Convenzione di Vienna del 1969 sancisce, come regola generale, che “un trattato non crea obblighi o diritti per un terzo Stato senza il suo consenso”; l’art. 35 specifica che un obbligo può derivare da una disposizione di un trattato a carico di un terzo Stato “se le parti contraenti del trattato intendono creare tale obbligo e se lo Stato accetta espressamente per iscritto l’obbligo medesimo”; l’art. 36 prevede che un diritto possa nascere a favore di uno Stato terzo solo se questo vi consenta, ma aggiunge che il consenso si presume finché non vi siano “indicazioni contrarie” e sempre che il trattato non disponga altrimenti; questa eccessiva indulgenza dell’art 36 è controbilanciata dall’art. 37 che autorizza i contraenti originari revocare quando vogliono il ‘diritto’ accettato dal terzo, a meno che non ne abbiano previamente stabilita in qualche modo l’irrevocabilità. Dunque, perché nascano veri e propri diritti, occorre che le parti intendano crearli e che il terzo le accetti, ma anche che l’offerta dei contraenti originari sia concepita come irrevocabile unilateralmente. (idea del contratto).
Premesso il principio che un trattato può essere modificato o abrogato, espressamente o implicitamente, da un trattato concluso in epoca successiva fra gli stessi contraenti, un problema nasce se i contraenti dell’uno e dell’altro trattato coincidono solo in parte. Può darsi che uno stato si impegni mediante accordo a tenere un certo comportamento e poi con un accordo successivo a tenere il comportamento contrario; oppure può darsi che alcuni stati vincolati da un trattato multilaterale ne modifichino con accordo successivo tutte o determinate disposizioni e che la modifica o l’abrogazione tocchi anche i rapporti con le altre parti del trattato multilaterale. La soluzione discende dalla combinazione del principio della successione dei trattati nel tempo con quello dell’inefficacia dei trattati per i terzi: fra gli Stati contraenti di entrambi i trattati, il trattato successivo prevale; nei confronti degli Stati che siano parti di uno solo dei due trattati, restano invece integri, nonostante l’incompatibilità, tutti gli obblighi che da ciascuno di essi derivano. Lo Stato contraente di entrambi i trattati si troverà a dover scegliere se tenere fede agli impegni assunti col primo oppure quelli assunti col secondo accordo; operata la scelta, esso non potrà non commettere un illecito, e sarà quindi internazionalmente responsabile, rispettivamente verso gli Stati contraenti del secondo oppure del primo accordo.
La scelta può avvenire una volta per tutte e magari inconsapevolmente quando entrambi gli accordi ricevano esecuzione all’interno dello stato mediante atti legislativi o cmq atti normativi di pari grado. In tal caso infatti non potrà valere all’interno dello stato il principio della successione degli atti normativi nel tempo con la conseguente prevalenza del secondo trattato. Se poi uno solo dei 2 trattati è eseguito all’interno con legge sarà esso a prevalere per una consapevole scelta del Potere legislativo. La soluzione qui accolta favorevole alla validità ed efficacia di entrambi gli accordi incompatibili, salva la responsabilità dello stato che li abbia contratti entrambi è sostenuta dalla maggioranza della dottrina e dalla giurisprudenza.
L’art. 30 della convenzione di Vienna che si occupa dell’applicazione dei trattati nel tempo dopo aver sancito, al par. 3, la regola per cui fra due trattati conclusi fra le medesime parti “il trattato anteriore si applica solo nella misura in cui le sue disposizioni sono compatibili con quelle del trattato posteriore”, stabilisce, al par. 4, che “Quando le parti del trattato anteriore non sono tutte parti contraenti del trattato posteriore: a) nelle relazioni tra gli Stati che partecipano ad entrambi i trattati, la regola applicabile è quella del par. 3; b) nelle relazioni fra uno Stato partecipante ad entrambi i trattati ed uno Stato contraente di uno solo dei trattati medesimi, il trattato di cui due Stati sono parti regola i loro diritti ed obblighi reciproci”. Al par. 5 è affermato che “Il par. 4 si applica senza pregiudizio dell’art. 41”. Quest’ultimo stabilisce che due o più parti di un trattato multilaterale “non possono” concludere un accordo mirante a modificarlo, sia pure nei loro rapporti reciproci, quando la modifica è vietata dal trattato multilaterale oppure pregiudica la posizione delle altre parti contraenti o è incompatibile con la realizzazione dell’oggetto e dello scopo del trattato nel suo insieme. L’espressione “non possono” è ambigua e potrebbe far pensare all’invalidità di tale accordo successivo che non possa essere assolutamente eseguito; in realtà, l’art. 41 risolve il problema solo in termini di illiceità e di responsabilità internazionale degli Stati contraenti dell’accordo successivo verso le altre parti del trattato multilaterale, esso costituisce quindi una specificazione dei paragrafi 4e 5 dell’art 30.
Per evitare la situazione che si crea con l’assunzione di obblighi incompatibili frequenti sono le c.d. dichiarazioni di ‘compatibilità’ o di ‘subordinazione’ (anche dette clausole) contenute in un trattato nei confronti di un altro o di una serie di altri trattati. Sono inserite nei trattati per sottoporre determinate previsioni a trattati pre-esistenti. In tal modo il problema è eliminato alla radice. Il par. 2 dell’art. 30 dice che “Quando un trattato precisa che esso è subordinato ad un trattato anteriore o posteriore o che esso non deve essere considerato come incompatibile con siffatto trattato, le disposizioni di quest’ultimo prevalgono”. Ciò non toglie che le parti si impegnino ad intraprendere tutte le azioni (lecite) idonee a sciogliersi dagli impegni incompatibili: il negoziato costituisce lo strumento cui si fa più ricorso a fini di armonizzazione di norme convenzionali incompatibili, ma esiste anche la denuncia alla scadenza.
Un esempio importante di clausola di compatibilità è l’art. 307 del Trattato CE: “Le disposizioni del presente Trattato non pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse, anteriormente al 1.1.1958 o, per gli Stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione, tra uno o più Stati membri da una parte e uno o più Stati terzi dall’altra. Nella misura in cui tali convenzioni sono incompatibili col presente Trattato, lo Stato o gli Stati membri interessati ricorrono a tutti i mezzi atti ad eliminare le incompatibilità constatate. Ove occorra, gli Stati membri si forniranno reciproca assistenza per raggiungere tale scopo, assumendo eventualmente una comune linea di condotta…”.
11. Le riserve nei trattati.
La riserva indica la volontà dello Stato di non accettare certe clausole del trattato o di accettarle con talune modifiche oppure secondo una determinata interpretazione (c.d. dichiarazione interpretativa); cosicché tra lo Stato autore della riserva e gli altri Stati contraenti , l’accordo si forma solo per la parte non investita dalla riserva, laddove il trattato resta integralmente applicabile tra gli altri Stati.
La riserva ha senso nei trattati multilaterali (nei trattati bilaterali lo stato che non vuole assumere certi impegni non ha che da proporre alla controparte di escluderli dal testo) ed ha lo scopo di facilitare la più larga partecipazione.
Secondo il diritto internazionale classico, la possibilità di apporre riserve deve essere tassativamente concordata nella fase della negoziazione, e quindi doveva figurare nel testo del trattato predisposto dai plenipotenziari; in mancanza, si riteneva che uno Stato non avesse altra alternativa che quella di ratificare o meno il trattato. Due erano i modi per apporre riserve:
La formulazione di riserve non previste dal testo in uno dei modi sopra indicati comportava l’esclusione dello Stato autore della riserva dal novero dei contraenti ed equivaleva piuttosto alla proposta di un nuovo accordo.
L’istituto si è notevolmente evoluto. Tappa fondamentale è il parere (1951) della Corte Internazionale di Giustizia reso all’Assemblea generale dell’ONU: questa chiedeva se, non prevedendo la Convenzione sulla repressione del genocidio (1948) la facoltà di apporre riserve, gli Stati potessero ugualmente procedere all’apposizione di riserve al momento della ratifica. La Corte affermò che una riserva può essere formulata all’atto di ratifica anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo del trattato purché essa “sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato”, purché essa, dunque, non riguardi clausole fondamentali. Un altro Stato contraente può comunque contestare la riserva, sostenendone l’incompatibilità con l’oggetto e lo scopo del trattato, nel qual caso, se non si raggiunge un accordo sul punto, il trattato non può ritenersi esistente nei rapporti fra lo Stato contestante e lo Stato autore della riserva.
L’art. 19 della Convenzione di Vienna del 1969 codifica il principio che una riserva può sempre essere formulata purché non sia espressamente esclusa dal testo del trattato e purché non sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato medesimo. L’art. 20 stabilisce che la riserva non prevista dal testo del trattato possa essere contestata e che se tale contestazione non è manifestata entro dodici mesi dalla notifica della riserva alle parti contraenti, la riserva si intende accettata. Lo Stato contestante deve, inoltre, manifestare espressamente e “nettamente” l’intenzione di impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti fra i due Stati.
Altra innovazione riguarda la possibilità che uno Stato formuli riserva in un momento successivo rispetto a quello in cui aveva ratificato il trattato purché nessuna delle altre parti contraenti sollevi obiezioni entro un termine che, nella prassi seguita dal Segretariato dell’ONU quale depositario di trattati multilaterali, è stato prima fissato in novanta giorni e poi portato a dodici mesi in seguito alle proteste degli Stati a causa della sua brevità.
Ma la tendenza più innovativa è costituita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani: trattasi della tendenza a ritenere che, se lo Stato formula una riserva inammissibile, tale inammissibilità non comporta l’estraneità dello Stato stesso rispetto al trattato ma l’invalidità della sola riserva; quest’ultima dovrà ritenersi come non apposta “utile per inutile non vitiatur” (ogni estensione di tale regola a tipi di trattati che non tutelino i diritti fondamentali degli individui è comunque prematura).
Quando alla formazione della volontà dello Stato diretta a partecipare al trattato concorrono più organi, può darsi che l’apposizione di una riserva sia decisa da uno di essi ma non dagli altri. Circa il sistema italiano, essa è valida sia che venga formulata autonomamente dal Parlamento, sia che venga formulata autonomamente dal Governo. Se uno degli organi non vuole una parte dell’accordo, la manifestazione di volontà dello Stato si forma solo per la parte residua. La tesi dell’invalidità dell’intera manifestazione di volontà dello Stato è poco credibile in presenza di una prassi contraria.
Circa la responsabilità (politica o addirittura penale) del Governo, e dei suoi membri, di fronte al Parlamento: se il Governo si discosta in tema di riserve da quanto deliberato dal Parlamento, se la decisione non è presa dopo che il Parlamento sia stato informato e se non si tratta di riserve dal contenuto del tutto tecnico o minoris generis, vi è materia perché scattino i meccanismi di controllo del Legislativo sull’Esecutivo.
Circa i riflessi internazionalistici, la riserva aggiunta dal Governo e dichiarata all’atto di deposito della ratifica è, per il diritto internazionale, valida. Nel caso, molto teorico, di riserva contenuta nella legge di autorizzazione ma di cui il Governo non tenga conto, per la parte coperta dalla riserva sarà configurabile una violazione grave del diritto interno e dovrà ritenersi che lo Stato non resti impegnato per detta parte se e finché il Parlamento non revochi espressamente o implicitamente la riserva.
12. L’interpretazione dei trattati.
Oggi vi è la tendenza ad abbandonare il c.d. metodo subbiettivistico, metodo mutuato dal regime dei contratti nel diritto interno ed in base al quale si renderebbe sempre necessaria la ricerca della volontà effettiva delle parti come contrapposta alla volontà dichiarata. Si ritiene invece che, per regola generale, debba attribuirsi al trattato il senso che è fatto palese dal suo testo, che risulti dai rapporti di connessione logica intercorrenti tra le varie parti del testo, che si armonizza con l’oggetto e la funzione dell’atto quali dal testo sono desumibili. I lavori preparatori hanno una funzione sussidiaria: ad essi può ricorrersi solo in presenza di un testo ambiguo e lacunoso.
A favore del metodo obbiettivistico si pronuncia la Convenzione di Vienna del 1969;
l’art. 31 stabilisce che “un trattato deve essere interpretato in buona fede secondo il significato ordinario da attribuirsi ai termini del trattato nel loro contenuto e alla luce dell’oggetto e dello scopo del trattato medesimo”; che occorre tener conto anche del contesto in cui il trattato si situa, oltre al testo, inclusi preambolo e allegati, comprende anche gli altri accordi o strumenti posti in essere dalle parti in occasione della conclusione del trattato; e che occorre tener conto di accordi successivi o di prassi seguite dalle parti nell’applicazione del trattato, nonché di qualsiasi regola pertinente di diritto internazionale applicabile tra le parti.
Unica eccezione di rilievo alla regola generale è la norma secondo cui “a un termine del trattato può attribuirsi un significato particolare se è certo che tale era l’intenzione delle parti”.
L’art. 32 considera i lavori preparatori come mezzo supplementare di integrazione da usarsi quando l’esame del testo “lascia il senso ambiguo o oscuro oppure…porta ad un risultato assurdo o irragionevole”.
L’art. 33 si occupa dei trattati redatti in più lingue tutte egualmente ufficiali: se la comparazione tra i vari testi rivela una differenza di significato, non superabile attraverso i vari modi previsti, va comunque adottato “il significato che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato, concilia meglio detti testi”. Nell’ordinamento internazionale vigono, in quanto principi generali del diritto, la regola sull’interpretazione restrittiva o estensiva e la regola per cui fra più interpretazioni egualmente possibili occorre scegliere quella più favorevole alla parte più onerata (principio del favor debitoris) o al contraente più debole. Circa l’interpretazione estensiva e, in particolare l’analogia, è da abbandonare l’opinione, dapprima dominante, per cui i trattati vadano interpretati sempre restrittivamente in quanto comporterebbero una limitazione della sovranità e della libertà degli Stati.
Il ricorso ai normali mezzi di interpretazione vale anche per i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, come la Carta ONU e i trattati istitutivi delle Comunità europee. Tuttavia vi è una comune tendenza a considerare tali accordi non come trattati quanto come costituzioni. La Corte Internazionale di Giustizia si è posta per questa strada quando ha fatto uso della c.d. teoria dei poteri impliciti: ogni organo disporrebbe non solo dei poteri espressamente attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di tutti i poteri necessari per l’esercizio dei poteri espressi.
La Corte, applicando tale teoria agli organi dell’ONU, ne ha ampliato notevolmente la portata col dedurre certi poteri degli organi ed esclusivamente dalle norme sui fini dell’organizzazione che si distinguono per la loro indeterminatezza come si può rilevare dall’art 1 della carta stessa che li elenca. L’indeterminatezza deriva dal fatto che non esiste un organo che controlli la legittimità.
Nell’ambito della Comunità europea, la teoria dei poteri impliciti ha ssunto notevole importanza, l’art. 308 del Trattato CE afferma che “Quando un’azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del Mercato Comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il presente Trattato abbia previsto i poteri di azione a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo, prende le disposizioni del caso”. Una norma simile esiste ancora oggi nel TFUE all’art 352.
La teoria dei poteri impliciti si colloca dunque all’estremo opposto della vecchia tendenza all’interpretazione restrittiva dei trattati internazionali. Essa appare però eccessiva. Occorre infatti essere molto cauti nel trasferire sul piano del d. internazionale dottrine particolari di d. costituzionale interno.
La Convenzione di Vienna non avalla interpretazioni ‘unilateralistiche’ dei trattati. Due regole della convenzione sono indicative: quella sancita dall’art.33 e quella sancita dall’art.31. L’art. 31 però non include, tra le “altre norme” utilizzabili per chiarire il significato di una disposizione pattizia le norme di diritto interno, proprie di ciascuno Stato contraente. Il giudice interno, quando una convenzione nulla dispone in materia di interpretazione e di lacune, dovrà evitare comunque di rifarsi esclusivamente al proprio diritto se non vi è autorizzato dallo stesso accordo e dovrà sforzarsi di stabilire, alla luce delle regole di diritto consuetudinario, così come codificate nella Convenzione di Vienna, quale sia il significato unico ed obiettivo della disposizione convenzionale, deducibile dai principi generali cui la convenzione si ispira o dai principi comuni agli ordinamenti degli Stati contraenti.
Opportuna sarà pure l’indagine tendente a stabilire come la convenzione è interpretata dai giudici degli altri Stati contraenti.
Deve rivendicarsi ai giudici interni la massima libertà nell’interpretazione del diritto internazionale analogamente a quanto avviene per l’interpretazione del d. interno. La subordinazione dei giudici in questa materia, al potere esecutivo, subordinazione che pure era praticata in alcuni paesi va scomparendo e va combattuta cmq come ogni altra forma di subordinazione all’esecutivo in tema di applicazione del diritto internazionale. È chiaro che l’interpretazione di tali giudici deve seguire cmq i criteri sopra detti.
13. La successione degli Stati nei trattati.
Può darsi che una parte del territorio di uno Stato passi, per effetto di cessione o di conquista, sotto la sovranità di un altro Stato già esistente, oppure si costituisca in Stato indipendente; può darsi invece che il cambiamento di sovranità riguardi l’intero territorio dello Stato, oppure si smembri e dia luogo a più Stati nuovi, o infine venga a trovarsi, in seguito ad eventi rivoluzionari, sotto un apparato di governo radicalmente nuovo. Tutte queste vicende sono costituite da circostanze di fatto sono costituite dall’affermarsi dal ritirarsi e dall’espandersi della sovranità territoriale ossia dell’effettivo esercizio del potere di governo nell’ambito di un territorio. Ciò può anche scaturire da un trattato.
Alla ‘successione degli Stati rispetto ai trattati’ è dedicata la Convenzione di Vienna del 1978 (entrata in vigore nel 1996), complementare alla Convenzione di Vienna del 1969 ma non ha avuto molta fortuna. Per la lettura della convenzione è bene operare una precisazione terminologica: la convenzione parla di successione e lo usa come equivalente di sostituzione e di stato successore come equivalente a stato subentrante nel governo di un territorio. Tale termine è a-tecnico e prescinde dalla questione in senso giuridico se lo stato successore debba rispettare gli stessi obblighi e vantare gli stessi diritti contratti dal predecessore. L’uso di questa terminologia è quindi criticabile.
Per l’art. 7 della Convenzione si applica “alle successioni fra Stai che siano intervenute dopo l’entrata in vigore della Convenzione…”; se però uno Stato successore aderisce alla Convenzione, la sua adesione retroagisce fino al momento in cui la successione è avvenuta, sempre che, in quel momento, la Convenzione fosse già in vigore. La ratio della norma sta nel fatto che in molti casi lo Stato che si sostituisce ad un altro nel governo di un territorio è uno Stato nuovo, e che pertanto la Convenzione non potrebbe applicarsi in molti casi qualora si pretendesse che lo Stato successore fosse già parte contraente al momento della successione.
Uno Stato successore può addirittura dichiarare di voler applicare la Convenzione ad una successione intervenuta prima della stessa entrata in vigore di quest’ultima, ma una tale dichiarazione varrà solo nei confronti di quelle parti contraenti che abbiano a loro volta dichiarato di accettarla.
Trattando la “successione” delle relazioni obbligatorie degli stati, i principi utilizzati sono principalmente 2:
il principio predominante è il tabula rasa e Conforti prende in considerazione principalmente quest’ultimo in quanto il d. consuetudinario applica la tabula rasa mentre il p. di continuità è una regola pattizia che discende dalla convenzione di Vienna del 1978 che quindi vale solo per gli stati contraenti (22 stati) ed è motivata dalle regole di sviluppo degli stati. Alcuni autori invece prendono in considerazione tutti e 2 i principi e quindi anche la convenzione del ’78 che viene considerata convenzione di codificazione:ha valore tra le parti e cristallizza per iscritto norme consuetudinarie che quindi alla fine dei giochi si apllicheranno generalmente. L’unica eccezione per cui Conforti cede al principio di continuità è per la Carta dei diritti umani.
Rientrano in questa categoria i trattati che istituiscono servitù attive o passive nei confronti di territori di Stati vicini, gli accordi per l’affitto di parti del territorio, i trattati che prevedono la libertà di navigazione di fiumi e canali, i trattati che impongono la smilitarizzazione di determinate aree, i trattati che prevedono la costruzione di opere sui confini. L’obbligo di rispettare le frontiere stabilite dal predecessore è generalmente sentito nell’ambito della comunità internazionale. Anche i Paesi sorti dalla decolonizzazione non lo hanno normalmente negato; la prassi africana si riallaccia alla prassi dell’America latina nell’ambito della quale si era fatto ricorso al principio dell’uti possidetis juris: gli Stati latino-americani avrebbero ‘ereditato’ dalla Spagna le frontiere delle circoscrizioni amministrative dell’impero coloniale spagnolo esistenti al momento dell’indipendenza.
Circa le funzioni, che normalmente non danno luogo ad atti vincolanti, va sottolineata la predisposizione di convenzioni (convenzione contro la tortura, convenzione sull’assistenza giudiziaria, ecc…).
La più significativa è la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, della quale sono attualmente parti contraenti tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, fu solennemente firmata a Roma nel 1950; successivamente sono stati aggiunti diversi Protocolli, che hanno aumentato il numero dei diritti riconosciuti. Il Protocollo n. 11 (in vigore dal 1998) ha attuato un radicale mutamento della convenzione provvedendo alla fusione dei due organi che prima esercitavano il controllo sul rispetto dei diritti tutelati, la Commissione e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in una Corte unica. Importante è anche il protocollo n. 14 del 2010 che ha provveduto a snellire le procedure innanzi alla corte.
All’esperienza europea di è ispirata quella americana per la tutela dei diritti dell’uomo, quindi è facile capire che peso abbia avuto la convenzione europea.
19. Le raccomandazioni degli organi internazionali.
La raccomandazione è l’atto tipico che le organizzazioni internazionali hanno il potere di emanare ed è l’atto tipico degli organi delle nazioni unite. La raccomandazione non vincola lo Stato o gli Stati a cui si dirige, a tenere il contegno raccomandato e non è dunque da annoverarsi fra le fonti previste da accordi. Trattasi di atto meramente esortativo.
La raccomandazione abbiamo sempre sostenuto soprattutto nelle edizioni precedenti di questo libro, produce un effetto di liceità: non commette illecito lo Stato che, per eseguire una raccomandazione, purché legittima (sebbene manchi un organo comunitario che sia preposto al controllo della legittimità ossia al controllo che la raccomandazione non fuoriesca dalle competenze proprie degli organi e da ogni altro limite imposto dal trattato istitutivo sugli organi medesimi), di un organo internazionale, tenga un contegno contrario ad impegni precedentemente assunti mediante accordo con un altro stato membro o con altri stati membri della stessa organizzazione (raccomandante). Una simile tesi poteva essere ricavata dalla prassi dell’epoca soprattutto dalla prassi delle nazioni unite, quando le raccomandazioni non erano né numerose né prolisse come oggi da finire spesso con il contenere tutto il contrario di tutto e tale tesi faceva leva sull’obbligo di cooperazione insito nei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali. La prassi poi non ha offerto più esempi significativi dell’effetto di liceità. Le raccomandazioni quindi appartengono al soft law e lo dobbiamo riconoscere seppur tardivamente.
Taluni facendo sempre leva sull’obbligo di cooperazione insito nei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali ritengono che sia illecito il comportamento dello stato che rifiuti di osservare tutta una serie di raccomandazioni, purché reiterate nel tempo diverrebbero obbligatorie. La tesi è inaccettabile in quanto il principio di cooperazione tra Stati membri non può però essere spinto al punto di ritenere illecita l’inosservanza reiterata delle raccomandazioni da parte di uno Stato, poiché la caratteristica fondamentale dell’atto rimane pur sempre la non vincolatività. Anche tale tesi non trova riscontro nella prassi attuale.
20. La gerarchia delle fonti internazionali. Il diritto internazionale cogente. L’unitarietà dell’ordinamento internazionale.
Ricapitolando, al vertice della gerarchia si trovano le norme consuetudinarie, ivi compresi quella particolare categoria di norme consuetudinarie costituita dai principi generali del diritto comuni agli ordinamenti interni.
La consuetudine è dunque fonte di primo grado, unica fonte di norme generali come tali vincolanti tutti gli Stati.
Il secondo posto nella gerarchia spetta al trattato, che trova in una norma consuetudinaria, la norma pacta sunt servanda, il fondamento della sua obbligatorietà.
Il terzo posto è occupato dalle fonti previste da accordi e quindi dagli atti delle organizzazioni internazionali.
Vediamo ora il rapporto tra queste fonti.
Rapporto consuetudine accordo: Il fatto che le norme pattizie siano sottordinate alle norme consuetudinarie non significa di per sé inderogabilità di queste ultime da parte delle prime. Una norma di grado inferiore può derogare alla norma di grado superiore se quest’ultima lo consente. (per es. nel d. interno un regolamento governativo può derogare alla legge qualora la legge lo consenta).
Ci si chiede cmq ed è questo il nocciolo del problema se le norme consuetudinarie internazionali siano così fortemente vincolanti da non poter essere derogate mediante trattati. In generale la risposta è negativa infatti secondo l’opinione comune, le norme consuetudinarie sono caratterizzate dalla flessibilità e quindi dalla loro derogabilità mediante accordo.
Il diritto pattizio finisce con il prevalere su quello consuetudinario esattamente come il diritto particolare prevale su quello generale anche se anteriore.
Tale regola vale anche per quella particolare categoria di norme consuetudinarie costituita dai principi generali del diritto comuni agli ordinamenti interni; un esempio chiaro è dato dall’art. 27 Carta ONU, tale norma prevede che lo stato membro del consiglio di sicurezza debba astenersi dal votare se una questione lo riguardi ma (la norma) limita l’obbligo di astensione a determinati casi di minore importanza: non è previsto l’obbligo di astensione nel caso in cui si discuta della proposta di espulsione dall’ONU oppure dell’adozione di misure coercitive a tutela della pace . Tale norma protegge le grandi Potenze le quali, disponendo di un diritto di veto, possono bloccare una procedura di espulsione o di adozione di misure coercitive nei loro confronti; la deroga al principio generale nemo judex in re sua è evidente.
È però opinione comune che esista un gruppo di norme di diritto internazionale generale le quali eccezionalmente sarebbero cogenti (jus cogens). Anche la Convenzione di Vienna del 1969 si pronuncia in tal senso infatti all’art. 53 stabilisce che “è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, è in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale”, dovendosi intendere per norma imperativa del diritto internazionale generale “una norma accettata e riconosciuta dalla comunità degli Stati nel suo insieme come norma alla quale non può essere apportata nessun deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente il medesimo carattere”
Del diritto cogente si occupa la stessa convenzione all’art. 64 affermando, in proposito delle cause di estinzione dei trattati, che “se una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale si forma, qualsiasi trattato esistente che sia in contrasto con questa norma diviene nullo e si estingue”.
Inoltre la convenzione di Vienna prevede che quando fra gli stati membri della convenzione insorga una controversia circa l’invalidità o l’estinzione di un accordo per contrarietà allo jus cogens la controversia medesima può essere decisa dalla corte internazionale di giustizia su ricorso unilaterale di una delle parti. Trattasi di una disposizione di carattere eccezionale (che non ha trovato riscontro nella prassi) dato che la stessa possibilità non sussiste per alcuna altra causa di invalidità ed estinzione.
Nel silenzio della Convenzione che non indica quali siano le norme internazionali imperative e che indica con norma cogente una norma non derogabile la ricostruzione dello jus cogens è lasciata all’interprete. Tale gruppo di norme va individuato facendosi leva sul nucleo essenziale dei diritti umani, il principio di autodeterminazione dei popoli, il divieto dell’uso della forza fuori del caso della legittima difesa e forse il diritto allo sviluppo va aggiunto a tale lista puramente esemplificativa elaborata dalla dottrina e giurisprudenza internazionalistica e interna la norma dell’art. 103 Carta ONU, secondo il quale “in caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi accordo internazionale prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto” si deduce: il ‘rispetto dei principi della Carta’ è considerato ormai come una delle regole fondamentali della vita di relazione internazionale e appare non più come una semplice disposizione pattizia, ma come una norma consuetudinaria cogente (almeno a nostro avviso) cui l’art. 103 ha dato la spinta iniziale e che si è venuta poi consolidando nel corso degli anni. D’altra parte nessuno sostiene che 2 o più stati possano stabilire che nei loro rapporti l’art 103 non si applichi.
La violazione di una norma imperativa dovrebbe portare alla nullità dell’atto contrario allo jus cogens diciamo dovrebbe perché poi nella prassi non vi sono riscontri (art. 53 della Convenzione di Vienna).
Il divieto dell’uso della forza a noi pare ius cogens per questo motivo non andrebbe violato. Per esempio però per uanto riguarda un trattato di garanzia in specie quello dell’isaola di Cipro, Regno Unito Grecia e Turchia sono autorizzati ad intraprendere azioni congiuntamente o disgiuntamente qualora la situazione dell’isola di Ciro cambi. Ciò cmq non si tradurrebbe con una violazione dello ius cogens ossia del divieto dell’uso della forza dato l’uso del termina generico “azione”.
Il divieto dell’uso della forza avrebbe carattere cogente in linea generale ma secondo alcuni tale carattere non riguarderebbe i c.d. interventi umanitari ossia le azioni violente dirette a salvare vite umane dei propri o degli altrui cittadini.
Siffatte azioni come peraltro quelle previste dal trattato di garanzia per Cipro violerebbero secondo alcuni il divieto dell’uso della forza ma non in quanto norma di ius cogens costituendo degli illeciti minoris generis con la conseguenza che i trattati che li prevedono sarebbero del tutto applicabili. Tale opinione della dottrina si fonda sul fatto che gli interventi umanitari sono sempre stati leciti e una norma cogente non può essere considerata come vigente se non è accettata da tutta la comunità internazionale.
Anche l’invalidità per contrasto con il principio dell’autodeterminazione dei popoli è stato prospettato in dottrina e si è risolto considerando che i trattati sono da interpretare in maniera conforme al principio di autodeterminazione dei popoli.
Un’apllicazione meno radicale della nullità è quella che può esprimersi in termini di mera superiorità o prevalenza della norma di ius cogens rispetto alle norme consuetudinarie normali, ai trattati ed alle fonti derivanti dai trattati. Da questo p.d.v. la norme internazionale contraria ad una norme imperativa resta valida ma è inapplicabile, insomma, il rapporto delle 2 categorie è da esprimere secondo l’inderogabilità e non di nullità. Si prendano ad esempio le norme consuetudinarie sull’immunità degli organi statali e degli stati stranieri da un lato e la norma imperativa che vieta la tortura e i trattamenti disumani e degradanti dall’altro: la superiorità di quest’ultima non intacca la vigenza della prima ma ne sancisce l’inapplicabilità nel caso dello stato o dell’organo torturatore. Egualmente deve dirsi della norma consuetudinaria che condiziona l’esercizio della giurisdizione sullo straniero ad un collegamento tra lo straniero medesimo e lo stato del foro: si ritiene comunemente che tale condizione venga meno quando si tratta di violazioni gravi dei diritti umani. Lo stesso accade per la contrarietà di un trattato alla norma cogente che riteniamo si sia formata in corrispondenza a quella contenuta nell’art 103 della Carta. Quanto detto è cmq esatto in linea generale nella teoria ma le apllicazioni nella pratica sono scarse sia nella giurisprudenza interna che internazionale.
A trovare maggiore applicazione invece è stato proprio l’art 103 della Carta.
Secondo Conforti dunque non potrebbe dirsi che l’art 103 appartenga al d. internazionale cogente in quanto sancisce l’inderogabilità degli obblighi previsti dalla Carta.
Si è sostenuto che lo ius cogens abbia effetto deterrente ma poi all’atto pratico tale considerazione risulta abbastanza ottimistica.
È da precisare che anche le norme che regolano le cause di invalidità e di estinzione dei trattati (norme sui vizi della volontà, sulla clausola rebus sic stantibus, ecc.) sono norme inderogabili. Il fatto che queste norme generali regolano la struttura dell’accordo e non il contenuto le pone per forza su di un piano superiore (anche a livello formale) al trattato. Qualsiasi clausola contrattuale che stabilisca una deroga a queste norme resterebbe a sua volta pur sempre ad esse soggetta ad es. la cluasola che eventualmente dicesse che il mutamento delle circostanze non debba operare come causa di estinzione di quel determinato trattato resterebbe pur sempre essa stessa soggetta al prncipio generale rebus sic stantibus.
Per quanto riguarda gli atti delle organizzazioni internazionali il problema dei limiti entro cui essi possono derogare alle norme pattizie che ne prevedono l’emanazione va ovviamente risolto caso per caso. In ogni trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale possono trovarsi norme sia derogabili che cogenti; tra queste ultime vanno cmq classificate le norme che prescrivono le maggioranze necessarie per l’adozione degli atti. Anche il d. internazionale generale si impone alle organizzazioni internazionali sempre che l’accordo istitutivo non trattandosi di d. cogente non vi deroghi come nel caso della Carta della Nazioni Unite.
È piuttosto di moda oggi l’opinione secondo cui il diritto internazionale si presenterebbe come frammentato in sistemi di norme autosufficienti c.d. self-contained regimes create con un trattato o un gruppo di trattati istitutivi e non di organizzazioni internazionali, rientrerebbero nella categoria le norme sulla tutela dei diritti umani, sul diritto del mare ecc…norme caratterizzate tutte da mezzi di accertamento e da garanzie autonome. Altra caratteristica di questo blocchi di norme è che nei cas in cui il loro accertamente è affidato a delle corti settoriali tipo la CEDU è constatabile la tendenza di queste a sostenere la completezza del blocco.
A nostro avviso la tesi della frammentazione trova scarso riscontro nella prassi. Riteniamo che in un’epoca come la nostra dove la comunità internazionale è caratterizzata da organizzazioni internazionali universali prima fra tutte l’ONU, dove si afferma l’esistenza di norme cogenti dove norme generali regolano la formazione la vita e l’estinzione dei trattati internazionali e quindi anche dei trattati che danno vita ai famosi blocchi di norme mettere in discussione l’unitarietà dell’ordinamento giuridico internazionale non ha senso.
I rapporti tra le norme restano quelli indicati: la flessibilità delle sue fonti prima tra tutte la consuetudine, la rigidità dello ius cogens. I sistemi autonomi costituiscono se vogliamo diritto particolare a cui le Corti settoriali danno rilevanza. (almeno secondo il Conforti).
PARTE SECONDA
IL CONTENUTO DELLE NORME INTERNAZIONALI
21. Il contenuto del diritto internazionale come insieme di limiti all’uso della forza internazionale ed interna agli Stati.
Il contenuto del diritto ilnternazionale è vastissimo ed è fatto di regole materiali: da cui derivano diritti e obblighi degli stati e possono avere natura consuetudinaria che pattizia (contrapposte alle regole formali e strumentali che invece sono norme che indicano procedimenti di formazione o modifica o estinzione). Tutto questo materiale cmq si snoda lungo un filo conduttore:
Il contenuto del diritto internazionale è costituito da un insieme di limiti all’uso della forza da parte degli Stati:
Più precisamente per forza internazionale s’intende la violenza di tipo bellico, ossia qualsiasi atto che implichi operazioni militari (attraverso della frontiera da parte di gruppi armati, bombardamenti, installazione di campi minati). La nozione di forza internazionale può farsi coincidere + o meno con la definizione di aggressione data dall’apposita dichiarazione dell’assemblea generale dell’ONU.
Più difficile è dare la definizione di forza interna. Per forza interna s’intende il potere di governo o di imperio (o sovranità) esplicato dallo Stato sugli individui e sui loro beni. Il potere di governo sebbene una parte della dottrina e anche il Conforti nelle edizioni precedenti del testo l’abbia identificato con l’esercizio della coercizione in quanto forza materiale, e sebbene sia il potere coercitivo materiale quello che normalmente viene in rilievo per il diritto internazionale, non sembra dopo una riflessione più matura del Conforti, che si possa sostenere che una violazione del diritto internazionale derivi sempre e soltanto dall’effettivo esercizio della coercizione: anche la sentenza dichiarativa di un giudice (ad es. un sentenza che sottoponga uno Stato straniero alla giurisdizione del foro) o una legge che contenga un provvedimento concreto (ad es. una legge che nazionalizzi i beni di una compagnia straniera) possono costituire un comportamento illecito.
Finché, comunque, all’attività normativa astratta, non segua la sua applicazione ad un caso concreto, non può propriamente parlarsi di violazione del diritto internazionale; normalmente, lo Stato che non provvede ad adottare le misure legislative e amministrative necessarie per eseguire i propri obblighi internazionali non incorre in responsabilità internazionale finché non si verifichino fatti concreti contrari a detti obblighi.
Il potere di governo che interessa il diritto internazionale si situa dunque a metà strada tra l’astratta attività normativa e l’esercizio della coercizione materiale. L’attività di mero comando, anche se indirizzata a persone determinate e vertente su questioni concrete, non ha di per sé rilievo per il diritto internazionale se non è accompagnata dall’attuale e concreta possibilità di agire coercitivamente per farla rispettare: tale possibilità che può sussistere in più o meno larga misura secondo le circostanze, è sempre legata alla presenza, nei luoghi ove la coercizione dello Stato si esercita, delle persone o dei beni coinvolti dal comando concreto.
Può concludersi che il potere di governo così come limitato dal diritto internazionale sia costituito dunque da qualsiasi misura concreta di organi statali, sia avente essa stessa natura coercitiva, sia in quanto e solo in quanto suscettibile di essere coercitivamente attuata. In questo senso può dirsi che il d. internazionale pone limiti alla forza interna degli stati.
Si tratti di forza internazionale o di forza interna, ciò che è delimitato dal diritto internazionale è sempre l’azione esercitata dallo Stato su persone o cose. Si dice che certi fenomeni, essendo incoercibili, svolgendosi in spazi e con modalità che non possono essere colpite o intercettate, sfuggono al potere di governo dello Stato: lo si è detto per le comunicazioni via radio, poi per le attività spaziali e lo si dice oggi per le comunicazioni via internet. In realtà, lo Stato può governare, magari soltanto nei luoghi di partenza o di arrivo, le attività umane (si pensi alle regole che uno Stato emana per disciplinare il commercio elettronico).
22. La sovranità territoriale.
La prima e fondamentale norma consuetudinaria in tema di delimitazione del potere di governo dello Stato è quella sulla sovranità territoriale. Essa si affermò all’epoca in cui venne meno il Sacro Romano Impero ed in cui conseguentemente cessò ogni forma di dipendenza anche formale delle singole entità statali dall’Imperatore e dal Papa. La sovranità territoriale, all’epoca della monarchia assoluta, venne allora concepita come una sorta di diritto di proprietà dello Stato, o meglio del sovrano, avente per oggetto il territorio; anche il potere esercitato sugli individui veniva ricollegato alla disponibilità del territorio (gli individui erano considerati ‘pertinenze’ del territorio) quindi il potere dello stato su persone e cose non era che una manifestazione, una derivazione del potere sul territorio. La sovranità territoriale è oggi indirettamente tutelata anche dal principio che vieta la minaccia o l’uso della forza nei rapporti internazionali. Circa il contenuto, la norma attribuisce ad ogni Stato il diritto di esercitare in modo esclusivo il potere di governo sulla sua comunità territoriale, cioè sugli individui (e sui loro beni) che si trovano nell’ambito del territorio. Correlativamente ogni Stato ha l’obbligo di non esercitare in territorio altrui il proprio potere di governo. La violazione della sovranità territoriale si ha solo se vi è presenza fisica e non autorizzata dell’organo straniero nel territorio.
Fu illecita ma moralmente giustificabile la cattura da parte di agenti del governo israeliano del criminale nazista Eichmann avvenuta nel 1960 in Argentina. Tale illiceità fu affermata dal consiglio di sicurezza delle nazioni unite che non voleva giustificare il criminale tanto più perché si era macchiato di orribili reati e crimini a danno degli ebrei ma chiede al governo israeliano di assicurare al governo argentino una riparazione conforme alla carta delle nazioni unite e alle norme del d. consuetudinario. Non sono infrequenti i casi di azioni (illecite) di polizia consistenti nell’inseguimento di criminali oltre frontiera, ma tale illiceità si esaurisce nei rapporti fra Stati, non comportando, dal punto di vista del diritto internazionale, l’assenza della potestà di punire, potestà sempre esercitabile anche sugli stranieri, sempre che vi sia un collegamento del reato con lo Stato che punisce e sempre che non sussista un problema di immunità internazionale dell’autore.
La presenza e l’esercizio di pubbliche funzioni da parte di organi stranieri è autorizzata da una serie di ipotesi tipiche, prime fra tutte quelle relative all’attività di agenti diplomatici e di consoli stranieri. Una forma particolarmente intensa di attività giurisdizionale svolta all’estero era quella esercitata nel quadro del c.d. regime delle capitolazioni, regime in base al quale alcuni Stati che venivano ritenuti poco affidabili sotto l’aspetto dell’amministrazione della giustizia (Impero Ottomano, Cina) consentivano agli europei di essere giudicati dai consoli dei loro Paesi; tale regime venne a cessare definitivamente dopo la seconda guerra mondiale.
In linea di principio, il potere di governo dello Stato territoriale non solo è esclusivo rispetto a quello degli altri Stati, ma è anche libero nelle forme e nei modi del suo esercizio e nei suoi contenuti quindi lo stato è libero sul suo territorio di fare ciò che ritiene più opportuno ma in effetti, la libertà dello Stato, nata come libertà assoluta, è andata restringendosi via via che il diritto internazionale si è evoluto. Quasi tutte le norme internazionali che si sono venute formando fino ad oggi comportano quindi una serie di limitazione a questa libertà dello stato, limiti sempre più fitti al potere di governo esplicato nell’ambito del territorio. Quindi al principio generale di libertà le eccezioni da applicare non si contano più. Le eccezioni in questioni cmq sono in massima parte da imputare alle norme convenzionali cioè quelle liberamente accettate dagli stati anche se non mancano le eccezioni derivanti dal d. consuetudinario.
Le eccezioni che per prime si sono affermate, sia sul piano del diritto consuetudinario che sul piano del diritto pattizio, sono costituite dalle norme che impongono un certo trattamento degli stranieri, persone fisiche o giuridiche, degli organi stranieri, soprattutto degli agenti diplomatici, e degli stessi Stati stranieri sul trattamento di questi ultimi è modellato anche il trattamento delle organizzazioni internazionali. Nel corso degli anni cmq i limiti che da tali norme derivano al potere dello stato oggi non sono i più importanti la specificità delle norme sul trattamento degli stranieri si è affievolito. Molto più importanti sono oggi i limiti prodotti dalle norme che perseguono valori di giustizia di cooperazione e solidarietà tra i popoli.
La libertà dello stato nell’ambito del suo territorio, libertà, che costituisce da secoli il contenuto del diritto di sovranità territoriale è ribadita da alcuni principi del nuovo ordine economico internazionale molto cari ai paesi in sviluppo. Ci riferiamo al principio della sovranità permanente dello Stato sulle risorse naturali enunciato a più riprese dall’assemblea generale dell’ONU. Ci riferiamo al principio per cui ogni stato può scegliere come usare le sue risorse come ripartirle sul territorio purché ne faccia beneficiare il popolo e conformemente alla volontà di quest’ultimo.
Per quanto riguarda l’acquisto della sovranità territoriale, vale il criterio dell’effettività: l’esercizio effettivo ed del potere di governo fa sorgere il diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo medesimo (applicazione del principio ex facto oritur jus) principio che presiede alla nascita del d. di sovranità territoriale alla nascita dello stesso stato materia con la quale il tema che stiamo trattando è strettamente collegato su di essa.
Nonostante i tentativi fatti, sin dall’epoca tra le due guerre mondiali, per limitare la portata del principio di effettività e disconoscere l’espansione territoriale che sia frutto di violenza o di gravi violazioni di norme internazionali (famosa è la c.d. dottrina Stimson, formulata in questi termini nel 1932 dal Segretario di Stato americano), la prassi sembra ancor oggi sostanzialmente orientata nel senso che l’effettivo e consolidato esercizio del potere di governo su di un territorio comunque conquistato comporti l’acquisto della sovranità territoriale. Se ad un atto di aggressione non si reagisce subito nell’esercizio della autotutela individuale e collettiva, la situazione si consolida. Tutto ciò che può sostenersi è che, oltre all’obbligo di restituzione, gravante sullo Stato che abbia commesso l’aggressione o detenga il territorio in dispregio del principio di autodeterminazione dei popoli, su tutti gli altri Stati grava l’obbligo di negare effetti extraterritoriali agli atti di governo emanati in quel territorio e sempre che l’acquisto sia contestato dalla più gran parte dei membri della comunità internazionale: gli Stati saranno tenuti, ad es., a negare riconoscimento alle sentenze pronunciate in quel territorio, a non applicare, in virtù delle proprie norme di diritto internazionale privato, le leggi emanate nel territorio medesimo, insomma ad ‘isolare’ giuridicamente quest’ultimo.
Occorre peraltro riconoscere che, nel caso della sovranità su zone di confine o isole il cui possesso sia oggetto di controversia tra gli Stati confinanti, la Corte Internazionale di Giustizia ha più volte sostenuto che l’effettività deve cedere il passo ad un titolo giuridico certo, come un precedente accordo fra gli Stati interessati o tra gli Stati che li hanno preceduti, e salvo che una delle parti non abbia prestato acquiescenza alle pretese dell’altra basate sull’effettività. Tale opinione va senz’altro condivisa.
Acquisto e perdita della sovranità territoriale si hanno anche in relazione alle vicende relative alla vita dello stato (vicende di cui ci siamo occupati per quanto riguarda la successione dei trattati): quando si verifica un distacco di una parte del territorio con conseguente formazione di un nuovo stato , o una cessione di territori o un’incorporazione vi è sempre la perdita di sovranità territoriale da parte di uno stato e l’aquisto della medesima da parte di un altro stato. Anche in questi casi l’elemento dell’effettività è decisivo in quanto gli accordi che sono alla base di tali vicende sono inidonei da soli a far sorgere il d. di sovranità territoriale.
L’espandersi della sovranità sul territorio di un altro stato comporta salvo diverse pattuizioni il passaggio allo stato subentrante delle proprietà pubbliche e private dello stato predecessore. Sull’argomento si anche espressa la Convenzione di Vienna del 1983 sulla successione degli stati particolare conferma il principio secondo cui la proprietà di d. interno segue la sorte della sovranità territoriale. La Convenzione poi opera un trattamento di favore nei confronti dei paesi sottoposti a regime coloniale attribuendo loro non solo i beni esistenti nel territotio ma anche i beni sia mobli che immobli che si trovino all’estero e dei quali la potenza coloniale si sia appropriata durante il dominio coloniale. Ricordiamo che tale convenzione non è mai entrata in vigore tanto pù che sarebbe stata gravosa per i paesi sviluppati.
23. I limiti della sovranità territoriale. L’erosione del c.d. dominio riservato e il rispetto dei diritti umani.
Si è andato progressivamente erodendo il c.d. dominio riservato o competenza interna (domestic jurisdiction) dello Stato, espressione con cui s’intende indicare le materie delle quali il diritto internazionale sia consuetudinario che pattizio si disinteressa e rispetto alle quali lo Stato è conseguentemente libero da obblighi. Tradizionalmente vi rientravano i rapporti fra lo Stato ed i propri sudditi, l’organizzazione delle funzioni di governo, la politica economica e sociale dello Stato, ecc. La nozione di domestic jurisdiction può essere ancora utilizzata con riguardo al diritto consuetudinario, mentre ha perso il suo significato, dato il gran numero di convenzioni che legano lo Stato, per quanto concerne il diritto convenzionale.
La stessa libertà dello Stato di imporre o concedere la propria cittadinanza ad un individuo, libertà tradizionalmente rientrante nel dominio riservato, non è più senza limiti: non può essere considerata internazionalmente legittima l’attribuzione della cittadinanza in mancanza di un legame effettivo tra l’individuo e lo Stato. (tale principio venne enunciato dalla CIG nella sentenza del 1955). Singoli aspetti della cittadinzanza sono poi disciplinati convenzionalmente.
Le iniziative internazionali dirette a promuovere la tutela della dignità umana, oltre che a consistere in atti politicamente importanti ma giuridicamente privi di valore (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ecc.), si sono concretizzate in diverse convenzioni (ad es., i due Patti delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali) che, oltre ad istituire degli organi destinati a vegliare sulla loro osservanza, contengono un catalogo di diritti umani.i due patti delle nazioni unite ricnoscono a tutti gli individui senza distinzioni di razza sesso religione opinione politica: i diritti economici quindi al lavoro e alla giusta retribuzione, il diritto a forme si assistenza ad associarsi e a scioperare. Questo diritto previsto da i 2 patti delle nazioni unite risulta arricchito da quello consuetudinario che vieta la tortura degli individui e vieta di sottoporli a trattamenti disumani e degradanti. I 2 patti sono stati ratificati da quasi tutti i paesi che compongono la comunità internazionale. A leggere i nomi di alcuni stati ci si chiede perché abbiano aderito non avendo familiarità con l’ampia tutela e considerazione della persona umana, il sospetto è che molte adesioni siano ispirate a mera propaganda non accompagnate da una volontà forte.
La materia dei diritti umani è anche una materia nella quale si sono venute formando delle norme consuetudinarie, precisamente dei principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili. A differenza delle convenzioni, che contengono cataloghi assai dettagliati, il diritto consuetudinario si limita alla protezione di un nucleo fondamentale e irrinunciabile di diritti umani: trattasi del divieto delle c.d. gross violations, ossia violazioni gravi e generalizzate di tali diritti (apartheid: la distruzione totale o parziale di un gruppo etnico, religioso o razziale (genocidio), tortura, trattamenti disumani e degradanti, espulsioni collettive, pulizia etnica, ecc.. Sulla contrarietà di siffatte pratiche allo jus cogens internazionale, si è anche pronunciata, sia pure incidentalmente, la Corte Internazionale di Giustizia nella sent. Barcelona Traction, Light and Power Co., Ltd. (1970).
Per quanto riguarda la tortura questa è sottoporre un individuo a sofferenze fisiche e psichiche perché confessi o per estorcere notizie. La tortura è ancora praticata purtroppo in alcuni paesi ed è gravissima. Simili sono i trattamenti disumani e degradanti cmq gravi ma meno intensi.
L’obbligo degli Stati di rispettare i diritti umani è fondamentalmente un obbligo di astensione o negativo. Gli organi statali sono tenuti ad astenersi dal ledere siffatti diritti e per quel che riguarda il d. consuetudinario, dal compiere atti qualificabili come grss violations. Ma il rispetto dei d.umani costituisce anche l’oggetto di un obbligo positivo o di protezione: lo Stato deve vegliare affinché violazioni dei diritti umani non siano commesse da individui che comunque si trovino nel suo territorio o in quei territori sottoposti alla sua giurisdizione. Esso pertanto è tenuto a prendere misure idonee secondo standards di comune diligenza a prevenire e reprimere dette violazioni.
Le norme sui diritti umani vengono anche in rilievo con riguardo alla protezione delle minoranze nonché delle popolazioni indigene queste ultime costituendo delle minoranze caratterizzate da interessi e problemi del tutto particolari. La necessità della protezione delle minoranze un gruppo con proprie tradizioni, lingua e costumi quindi si fece sentire a partire dalla prima guerra mondiale, ma è ancora attualissimo per quanto riguarda i gruppi indigeni in vari stati dell’Africa e delle Americhe che rivendicano i propri territori e le proprie risorse. Le norme internazionali che se ne occupano (dei gruppi indigeni) sono poche ma eccettuano 2 convenzioni quella dell’OIL e quella dell’assemblea generale dell’ONU che ha adottato una dichiarazione fortemente osteggiata dagli stati in cui sono dettagliatamente previsti i diritti delle popolazioni indigene. La protezione delle minoranze è affidato tutto alle convenzioni e a orme sulla materia che si trovano in quasi tutte le convenzioni sui diritti umani. Le convenzioni multilaterali non sono molte. Spesso le norme su una determinata minoranza s trovano in accordi bilaterali (Italia e sud Tirolo).
Alla materia dei diritti umani si applica la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni: la violazione delle norme consuetudinarie sui diritti umani non può dirsi consumata, o comunque non può farsi valere sul piano internazionale, finché esistono nell’ordinamento dello Stato offensore rimedi adeguati ed effettivi per eliminare l’azione illecita o per fornire all’individuo offeso una congrua riparazione. Inoltre tutte le convenzioni sui diritti umani che prevedono organi di controllo sul rispetto di tali diritti contengono la regola del previo esaurimento.
24. (Segue). La punizione dei crimini internazionali.
Si intreccia con il tema del rispetto dei diritti umani quello della punizione dei crimini internazionali. Caratteristica delle norme, generali e convenzionali, che disciplinano siffatti crimini è che esse danno luogo ad una responsabilità propria delle persone fisiche che li commettono; trattasi di norme quindi che possono essere considerate come regole che direttamente si indirizzano agli individui, concorrendo alla formazione della soggettività internazionale di questi ultimi. La comunità internazionale sta tentando oggi di attuare la punizione dei crimini internazionali individuali attraverso l’istituzione di tribunali internazionali, tentativi che si svolgono con molte difficoltà ed in misura limitata; la punizione è quindi in gran parte affidata ai tribunali interni, nell’esercizio della sovranità territoriale.
La categoria dei crimini internazionali individuali è abbastanza recente, datando alla fine della seconda guerra mondiale. Qualche precedente esisteva anche prima ma con fattispecie disciplinata in modo diverso a quanto avviene oggi. Crimine internazionale: crimen juris gentium era considerata la pirateria, nel senso che qualsiasi Stato potesse catturare la nave pirata e punire i membri dell’equipaggio. Un altro precedente è costituito dai crimini di guerra,che oggi costituiscono un’importante componente dei crimini di guerra, ma l’elenco di detti crimini era assai poco esteso, la punizione dei criminali era limitata agli Stati belligeranti e si riteneva che dovesse cessare con la cessazione delle ostilità (c.d. clausola di amnistia). Le cose oggi stanno diversamente.
I crimini internazionali individuali possono essere distinti, secondo una ripartizione che risale all’Accordo di Londra (1945), il quale istituì il Tribunale di Norimberga per la punizione dei criminali nazisti, in crimini contro la pace, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Un elenco dettagliato è oggi contenuto negli artt. 5-8 dello Statuto della Corte penale internazionale. Lo Statuto prevede quattro tipi di crimini: il genocidio (che è considerato a parte ma può essere comunque ricondotto ai crimini contro l’umanità), i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione (che può essere considerato il principale, se non l’esclusivo, crimine contro la pace).
Normalmente l’individuo che commette un crimine internazionale è organo del proprio Stato o di un’entità di tipo statale (come il governo insurrezionale a base territoriale): soltanto gli Stati o queste altre entità sono normalmente in grado di produrre attacchi estesi o sistematici contro una popolazione civile. Ciò comporta che, quando è commesso un genocidio o un altro crimine contro l’umanità o un crimine di guerra, crimini tutti costituenti anche gross violations dei diritti umani, ne consegue una duplice responsabilità internazionale, dello Stato e dell’individuo organo. Trattasi di 2 forme di responsabilità diverse tra loro quella individuale consiste ovviamente nella punizione del colpevole quella dello stato consiste è molto più labile.
Non è escluso, comunque, che crimini contro l’umanità possano essere commessi da gruppi privati non agenti quali organi di uno Stato determinato: è il caso degli atti di terrorismo da parte di fanatici religiosi.( strage dell’11 settembre).
Il principio che va affermandosi è quello, nonostante prassi incerta e riserve, della universalità della giurisdizione penale: si ritiene che ogni Stato possa procedere alla punizione ovunque il crimine sia stato commesso. Per il diritto internazionale generale, lo Stato, mentre è sempre libero di esercitare la giurisdizione sui suoi cittadini, può sottoporre lo straniero a giudizio penale solo se sussiste, e nei limiti in cui sussiste, un collegamento con lo Stato del giudice. Tale collegamento è dato in linea generale dal principio di territorialità (commissione del reato nel territorio dello Stato). La necessità del collegamento viene meno quando si tratta di crimine internazionale: la ratio è che lo Stato che punisce il crimine persegue un interesse che è proprio della comunità internazionale nel suo complesso.
La punizione dei crimini internazionali può aver luogo anche quando il colpevole sia stato catturato all’estero illegittimamente, cioè violandosi la sovranità territoriale dello Stato in cui si trovava; lo Stato è altresì libero di escludere che i crimini internazionali, che esso prevede di punire, siano colpiti da prescrizione, così come può punire esso può anche limitarsi a concedere l’estradizione ad uno Stato che intende farlo.
Per il diritto consuetudinario, lo Stato può ma non deve punire; può ma non deve considerare il crimine come imprescrittibile; può ma non deve concedere l’estradizione.
Per il diritto pattizio è diverso: molte sono le convenzioni che contengono la regola “o estradare o giudicare” : aut dedere aut judicare.
All’universalità della giurisdizione penale corrisponde l’universalità della giurisdizione civile, affermata dalle Corti statunitensi sulla base di norme interne in materia di responsabilità civile extracontrattuale e può considerarsi avallata dal diritto internazionale generale.
Il principio dell’universalità della giurisdizione non permette però che, in mancanza di qualsiasi collegamento con lo Stato del giudice, il criminale internazionale possa essere giudicato anche se non è fisicamente presente nel territorio della Stato, ossia in contumacia. La prassi non autorizza una conclusione contraria: tutti i casi di punizione finora effettuati ad opera di Corti interne riguardano individui presenti nel territorio, il principio della presenza dell’indagato è applicato dai tribunali penali internazionali, il principio aut dedere aut judicare (contenuto in varie convenzioni relative a singoli crimini) muove dal presupposto che non si giudichi in contumacia. Giudicare in contumacia crimini che non hanno collegamento con lo stato del giudice lungi dal perseguire un interesse della comunità internazionale finisce per essere una forma di imperialismo giuridico.
25. (Segue). I limiti relativi ai rapporti economici e sociali. La protezione dell’ambiente.
Numerosissimi sono i limiti che la sovranità territoriale dello stato incontra in quella parte del d. internazionale che va sotto il nome di diritto internazionale economico e che trova i suoi momenti di maggiore interesse nella disciplina dei rapporti tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.
Il diritto internazionale economico è forse quello, tra i settori rientranti in passato nel dominio riservato degli Stati, in cui più che in ogni altro la formazione di norme consuetudinarie è da escludersi: trattasi di un settore dominato dalle norme convenzionali. Circa i rapporti fra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo, una serie di principi sono stati enunciati a varie riprese dall’Assemblea generale dell’ONU, dall’UNCTAD e da altre organizzazioni internazionali a carattere universale: trattasi dell’enunciazione di principi di carattere programmatico i quali descrivono come i rapporti economici tra le due categorie di Paesi debbano essere convenzionalmente regolati. Sulla base di questi principi una serie di convenzioni bilaterali e multilaterali, rete finalizzata alla cooperazione allo sviluppo, a purtroppo inadeguata al fine da raggiungere, è andata ponendo limiti alla libertà degli Stati di regolare come credono i loro rapporti economici.
Importanti sono gli accordi sui prodotti di base (ad es., juta, caffè, zucchero, grano, cacao, gomma naturale) che attraverso la consultazione tra le parti o altri meccanismi, tendono a stabilizzare il prezzo del prodotto e a renderlo remunerativo per i Paesi produttori, di solito i Paesi in via di sviluppo, ed equo per i Paesi consumatori; le convezioni commerciali ispirate al principio del trattamento preferenziale dei Paesi in sviluppo (c.d. sistema generalizzato delle preferenze); gli accordi che prevedono assistenza tecnica, aiuti finanziari, ecc., ai Paesi in sviluppo; le iniziative dirette a trasferire le tecnologie (brevetti, know-how) delle imprese dei Paesi industrializzati a quelle dei Paesi in sviluppo, nonché le iniziative dirette a predisporre codici di condotta delle attività delle imprese multinazionali.
A prescindere poi dagli accordi di cooperazione per lo sviluppo, la libertà degli Stati in materia economica è limitata da numerosissimi accordi (in gran parte negoziati in seno all’OMC), tendenti alla liberalizzazione del commercio internazionale in particolare all’abbattimento degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, sei servizi e dei capitali all’integrazione delle economie statali su scala regionale ecc... In materia economica, il potere di governo dello Stato non incontra limiti di diritto consuetudinario, se non quelli relativi al trattamento degli interessi economici degli stranieri. Vari tentativi sono stati fatti in dottrina per individuare limiti di carattere generale: si è così affermato che lo Stato non debba comunque interferire negli interessi economici essenziali di Stati stranieri oppure che ciascuno Stato debba esercitare il proprio potere entro limiti ‘ragionevoli’. Tutto ciò è stato detto per reagire alla pretesa degli Stati Uniti di emanare leggi che sono considerate ‘extraterritoriali’: tale pretesa, che si è manifestata nel campo della legislazione antitrust, in quello del boicottaggio del commercio verso Paesi non amici e in materia di amministrazione di società, consiste nel voler imporre obblighi alle imprese di tutto il mondo, con la minaccia di colpirne beni ed interessi in territorio statunitense. Le misure di embargo e altre misure simili hanno però sempre incontrato l’opposizione degli altri Stati e soprattutto dell’Unione europea. La pretesa statunitense è un esempio di imperialismo giuridico e la condanna può essere espressa in base alle norme consuetudinarie che vietano di esercitare la potestà di governo sugli stranieri in assenza di un contatto adeguato con la comunità territoriale. Nessuno dei tentativi fatti dalla dottrina può invece considerarsi sorretto dalla tradizione.
Le materie del lavoro e della sicurezza sociale sono oggetto di un nutrito movimento convenzionale che l’ILO va promuovendo fin dagli anni Venti, vi sono poi altri accordi importanti e il patto delle nazioni unite sui diritti economici sociali e culturali, qui i diritti economici e sociali sono considerati in quanto diritti dell’uomo.
In tema di protezione dell’ambiente, vengono in rilievo i limiti alla libertà di sfruttamento delle risorse naturali del territorio, onde ridurre i danni causati dalle attività inquinanti o capaci di distruggere irrimediabilmente le risorse. Tale libertà abbiamo già detto risulta essere uno dei contenuti più importanti della sovranità territoriale.
Nel quadro di rapporti di vicinato, con riguardo alle utilizzazioni dei fiumi internazionali modificanti l’afflusso delle acque al territorio di uno Stato contiguo, alle immissioni di fumi e sostanze tossiche dovute ad attività industriali in prossimità dei confini e all’inquinamento atmosferico derivante da attività ultra pericolose (come l’attività delle centrali atomiche), hanno rilievo la Dichiarazione di Stoccolma (1972) e la Dichiarazione di Rio (1992): secondo l’art. 2 di quest’ultima, “gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse naturali conformemente alla loro politica sull’ambiente e hanno l’obbligo di assicurarsi che le attività esercitate entro i limiti della loro sovranità o sotto il loro controllo non causino danni all’ambiente in altri Stati…”.
Le Dichiarazioni in questione non hanno forza vincolante. L’obbligo che sanciscono corrisponde, per la maggioranza della dottrina, al diritto internazionale consuetudinario che per consolidarsi ha bisogno della prassi degli stati.
In realtà, tutto ciò che può dirsi in base al diritto internazionale consuetudinario è che esistono obblighi di cooperazione, quali l’obbligo per lo Stato sul cui territorio si verificano fenomeni di inquinamento di informare gli altri Stati del pericolo e l’obbligo per tutti gli altri Stati interessati di prendere di comune accordo misure preventive o successive al verificarsi del danno all’ambiente. L’unico caso in cui un obbligo di non causare danni all’ambiente di altri Stati, con riguardo al diritto internazionale consuetudinario, è stato affermato, è la sentenza arbitrale emessa tra Stati Uniti e Canada nell’affare della Fonderia di Trail (1941), fonderia canadese che operava in prossimità del confine e che aveva gravemente danneggiato, con immissioni di fumo, coltivazioni di contadini americani. In realtà gli Stati sono sempre stati restii ad ammettere la propria responsabilità per danni e, se qualche volta hanno provveduto ad indennizzare le vittime, hanno nel contempo avuto la cura di sottolineare il carattere grazioso dell’indennizzo medesimo. (è bene dire che per quanto riguarda il caso specifico delle acque comuni ne è vietato qualsiasi utilizzo deviazione sottrazione immissione di sostanze nocive capace quindi di nuocere agli altri utilizzatori: esiste infatti in materia una prassi diffusa e significativa anche se non mancano manifestazioni contrarie).
La materia dell’inquinamento dei fiumi è stata oggetto di codificazione ad opera della CDI sfociata nella convenzione del 1997 sul diritto delle utilizzazioni dei corsi d’acqua internazionali per finalità diverse dalla navigazione non ancora in vigore. La convenzione ha la pretesa di essere un accordo quadro a cui rapporti particolari tra stati rivieraschi dovrebbero ispirarsi: l’art 5 della convenzione prevede un uso ragionevole e corretto del corso d’acqua da parte degli stati rivieraschi l’art 7 sancisce che lo stato rivierasco deve prendere delle misure precauzionali per non danneggiare gli altrie nel caso in cui il danno si verifichi discutere la questione dell’indennizzo. Inoltre 2 sentenze confermano la tesi per cui qualora ci sia un pericolo grave di incidenti o questi si siano verificati lo stato rivierasco ha l’obbligo di informare gli altri.
Non bisogna poi confondere gli obblighi dello Stato sul piano internazionale con quelli degli individui, persone fisiche o giuridiche, o, al limite, dello stesso Stato, sul piano interno: se un’industria, pubblica o privata, provoca danni nel territorio di un altro Stato, può essere chiamata a rispondere presso innanzi ai giudici di questo Stato, nel quadro del normale esercizio della sovranità territoriale; oppure può essere chiamata a rispondere innanzi ai giudici dello stesso Stato dal cui territorio proviene l’inquinamento in entrambi i casi posto che sussistano i presupposti processuali e le regole sulla responsabilità civile lo consentano). Responsabilità di diritto interno si ha quando si parla del principio “chi inquina paga” come un principio di diritto internazionale, che si limiterebbe ad imporre allo Stato di apprestare gli strumenti affinché la responsabilità dell’inquinatore possa essere fatta valere al suo interno. Tale principio non sembra in realtà un vero e proprio principio di d. consuetudinario ma è contenuto da molte convenzioni.
A parte gli usi nocivi, ci si chiede se esista un obbligo di d. internazionale, per lo Stato di gestire razionalmente le risorse del proprio territorio secondo i principi dello sviluppo sostenibile (ossia contemperando le esigenze del proprio sviluppo economico con quelle della tutela ambientale), della responsabilità intergenerazionale (ossia salvaguardando le esigenze delle generazioni non solo presenti ma anche future) e dell’approccio precauzionale (ossia evitando di invocare la mancanza di piene certezze scientifiche allo scopo di rinviare l’adozione di misure dirette a prevenire gravi danni all’ambiente); la risposta, in assenza di dati sicuri dalla prassi, non può che essere negativa. Ma va affermandosi in tal senso una linea di tendenza derivante da dichiarazioni e altri atti non vincolanti, in convenzioni e in una sentenza della CIG.
Passando dal diritto consuetudinario al diritto pattizio, il discorso si fa completamente diverso. Circa gli usi nocivi del territorio, gli accordi si sono andati moltiplicando, stabilendo obblighi di cooperazione, di informazione e di consultazione tra le Parti contraenti. Le convenzioni in tema di responsabilità da inquinamento, ispirandosi al principio “chi inquina paga”, si preoccupano di imporre agli Stati contraenti la predisposizione, al loro interno, di un adeguato sistema di responsabilità civile e penale.
Anche nella materia della gestione razionale delle risorse in applicazione de principio dello sviluppo sostenibile e della responsabilità intergenerazionale, le convenzioni sono numerose. Le norme che regolano tale materia sono di importanza fondamentale capaci se osservate di preservare l’ambiente per le generazioni future.
Da ricordare sono la Convenzione di Vienna (1985) sulla protezione della fascia di ozono, il Protocollo di Montreal (1997) sulle sostanze che riducono la fascia, la Convenzione quadro dell’ONU sui cambiamenti climatici (1992), il Protocollo di Kyoto (1997) sulle quote di riduzione delle emissioni di sostanze inquinanti gravanti su ciascuno Stato contraente.
Di carattere pattizio è anche la disciplina diretta a proteggere la diversità biologica, ossia la variabilità degli organismi viventi di qualsiasi origine, oggetto della Convenzione di Nairobi (1992).
La convenzione ha per oggetto la conservazione della diversità biologica , l’utilizzazione durevole dei suoi elementi e la ripartizione giusta ed equa dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento delle risorse genetiche. Essa obbliga gli stati contraenti a prendere le misure dirette a favorire la partecipazione di tutti i paesi e soprattutto dei paesi in via di sviluppo ai vantaggi derivanti dalle biotecnologie ossia dalle applicazioni tecnologiche utilizzanti sistemi biologici e organismi viventi per realizzare o modificare prodotti o procedure ad uso specifico.
Essa ovviamente si preoccupa dall’altra parte dell’impatto ecologico negativo possano avere, pensiamo agli organismi geneticamente modificati così altri accordi ne integrano la disciplina sancendo una sicura e non nociva manipolazione degli alimenti per esempio. Tali accordi si ispirano principalmente al principio della conservazione della biodiversità e la gestione delle biotecnologie costituiscono un interesse comune dell’umanità. Il problema che tutta questa massa di convenzioni solleva è quello della loro osservanza. Sono stati creati nell’ambito delle stesse convenzioni per individuare casi di inosservanza organi composti da un limitato numero di esperti ma il loro compito è più quello di assistere gli stati in difficoltà più che quello di adottare sanzioni. Ciò da ragione a chi sostiene che le norme in materia di inquinamento sono in larga misura a carattere promozionale stabilendo incentivi e premi per gli stati che adottano misure atte a salvaguardare l’ambiente.
26. (Segue). Il trattamento degli stranieri.
Due sono i principi di diritto internazionale che si sono formati per consuetudine in materia di trattamento degli stranieri.
La protezione della persona dello straniero assumeva un rilievo del tutto autonomo quando lo Stato era considerato libero da vincoli internazionali relativamente alla protezione della persona del cittadino dell’apolide tale protezione rientrando nella sfera del suo dominio riservato; essa oggi può dirsi confluita, almeno per ciò che riguarda le violazioni gravi dei diritti umani che in quanto tali sono vietate dal d. consuetudinario, nella protezione accordata alla persona umana in quanto tale.
La situazione è invece immutata per ciò che riguarda i beni dello straniero, dato che i beni del cittadino possono essere legittimamente sacrificati dal punto di vista del diritto internazionale.
Sui due principi anzidetti si innestano gli investimenti stranieri, si tratta di fare una sintesi fra le posizioni dei Paesi in via di sviluppo, tendenzialmente favorevoli all’assoluta libertà dello Stato territoriale, e le posizioni dei Paesi industrializzati, tendenzialmente favorevoli alla massima protezione degli investimenti stranieri. Per il punto di vista dei primi, può farsi capo all’art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, secondo cui ogni Stato sarebbe libero di disciplinare gli investimenti “in conformità alle sue leggi e regolamenti ed alle priorità ed obiettivi nazionali di politica economica e sociale” e di adottare tutte le misure necessarie affinché siffatta disciplina sia rispettata dagli stranieri, particolarmente dalle società multinazionali. Una simile regola, il cui scopo è chiaramente quello di evitare gli abusi perpetrati in passato in ordine allo sfruttamento delle risorse dei territori sottoposti a dominio coloniale o degli Stati più deboli, può anche essere considerata come l’attuale regola generale di diritto internazionale in materia di investimenti, a patto però che la libertà dello Stato, che essa sembra sancire senza alcun limite, non sia spinta al punto di negare un’equa remunerazione del capitale straniero o avallare gli abusi degli stati in cui l’investimento ha luogo.
Circa il trattamento degli investimenti stranieri non si può fare a meno di parlare di espropriazione misure restrittive di proprietà e di nazionalizzazione (problema che ha segnato tutto il secolo scorso). Nessuno dubita dell’assoluta libertà dello Stato di espropriare e nazionalizzare beni stranieri. Neppure vi è controversia circa la questione se il passaggio alla mano pubblica debba essere sorretto da motivi di pubblica utilità, questione che acquista rilievo in caso di espropriazione di un singolo bene (e che in questo caso va risolta affermativamente) dato che nelle nazionalizzazioni (che normalmente riguardano intere categorie di imprese) il pubblico interesse è in re ipsa. L’unica questione importante è quella relativa all’indennizzo conseguente alle espropriazioni e nazionalizzazioni questione che ha dato luogo in passato ad acuti conflitti fra gli stati e ad accanite discussioni dottrinali contrastanti e discussioni relative al quantum. Una regola che può considerarsi come corrispondente al diritto consuetudinario è quella indicata dal tribunale dell’USA seconod tale tribunale è necessario distinguere tra:
L’indennizzo è spesso oggetto di transazione fra lo Stato nazionalizzante e lo Stato di appartenenza degli stranieri espropriati (c.d. accordi di compensazione globale o lump-sum agreements mediante i quali il primo Stato corrisponde una somma forfetaria al secondo e questo resta l’unico competente a decidere circa la distribuzione della somma fra i soggetti colpiti) o direttamente fra il primo e le compagnie espropriate. L’art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, pur riconoscendo il dovere di indennizzare, prevede che lo Stato nazionalizzante determini l’indennità sulla base “delle sue leggi, dei suoi regolamenti e di ogni circostanza che esso giudichi pertinente…”. In definitiva, alla luce della prassi, può dirsi che l’obbligo dell’indennizzo sussiste, che lo Stato nazionalizzante commette una violazione del diritto internazionale solo quando è inequivoca la sua volontà di non indennizzare, che l’accordo può anche sacrificare gli interessi del privato espropriato.
Tutta la materia oggi è disciplinata essenzialmente sul piano convenzionale disciplina a cu si accompagna la sottoposizione delle relative controversie a tribunali arbitrali; sicché il d. consuetudinario ha solo la funzione di colmare alcune lacune del regolamento convenzionale o di intervenire quando tale regolamento fa ad esso riferimento.
È collegato alla protezione degli interessi patrimoniali degli stranieri il problema del rispetto dei debiti pubblici con questi contratti dallo Stato predecessore, nell’ambito del proprio d. interno, nei casi (distacco, smembramento, incorporazione, mutamento radicale di regime, ecc.) di mutamento di sovranità su di un territorio. La dottrina tradizionale, posto che la prassi in materia era incerta e contradditoria, era in linea di massima favorevole alla successione nel debito pubblico, ritenendo ch eil rispetto dei diritti acquisiti rientrasse nel dovere di protezione degli stranieri. Tale opinione già smentita dalla giurisprudenza internazionale in passato ha incontrato la decisa opposizione dei Paesi in via di sviluppo. Nella prassi più recente (smembramento dell’Unione Sovietica e della Cecoslovacchia), può notarsi la tendenza all’accollo da parte degli Stati subentranti (prassi di carattere pratico sicuramente). Tutto ciò che si può dire è che la disciplina della materia tende a seguire i principi valevoli per la successione nei trattati: tende ad ammettere la successione nei debiti localizzabili (ossia contratti nell’esclusivo interesse del territorio oggetto del mutamento di sovranità) e non nei debiti generali dello Stato predecessore, salvo, in quest’ultimo caso, un accollo convenzionalmente stabilito.
Ricordiamo che la materia del debito pubblico contratto con stati stranieri è anche disciplinata dalla Convenzione di Vienna del 1983 sulla successione di stati in mteria di beni, archivi e debiti di stati. Molte considerazioni sulle norme della convenzione relative agli accordi internazionali possono essere qui applicate.
Nessun limite prevede il diritto internazionale consuetudinario per quanto riguarda l’ammissione degli stranieri: in questa materia rivive in pieno la norma sulla sovranità territoriale che comporta la libertà dello stato di stabilire la propria politica nel campo dell’immigrazine permanenete o temporanea che sia. Il problema è diverso quando uno stato impedisca agli stranieri di entrare nel territorio, si commetterebbe quindi una violazione dei diritti umani fondamentali, perché tutti hanno il diritto alla vita.la precisazione è importante in tema di imabarcazioni clandestine con riguardo ai casi in cui lo stato impedisca a queste di entrare nelle proprie acque territoriali nonostante il rischio di pericolo di vita dei passeggeri. Per il d. consuetudinario lo stato è anche libero di espellere gli stranieri. È vero però che l’espulsione deve avvenire con modalità che non risultino oltraggiose nei confronti dello straniero e che allo straniero medesimo deve essere concesso un lasso di tempo ragionevole per regolare i propri interessi ed abbandonare il Paese, ma ciò non è altro che un’applicazione del dovere di protezione e, in particolare, dell’obbligo di predisporre misure preventive delle offese alla persona dello straniero ed ai suoi beni.
Limiti particolari i tema di espulsione di stranieri, derivano dalle convenzioni internazionai in particolare quelle sui diritti umani. La Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (1984), obbliga gli Stati a non estradare o espellere una persona verso Paesi in cui questa rischia di essere sottoposta a tortura (lo stesso obbligo si ricava nella giurisprudenza della CEDU); la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricavato, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’obbligo di non espellere quando l’espulsione comporterebbe una ingiustificata e sproporzionata rottura dell’unità familiare. Per conformarsi al d. europeo nello stesso senso si è espressa la Cassazione italiana.
In tutti casi l’obbligo di non espellere discende da norme che riguardano ogni e qualsiasi persona. Essendo l’espulsione dei cittadini già normalmente esclusa dalle costituzioni interne, è chiaro che l’obbligo trova la sua principale attuazione con riguardo agli stranieri e agli apolidi. Si va facendo strada nella prassi interna la regola per cui lo straniero deve poter ricorrere al giudice contro l’atto di espulsione.
Grande importanza assumono oggi sempre a causa dell’intensificasi dei flussi migratori la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 sui rifugiati ratificati da un gran numero di stati Italia compresa. Secondo tale convenzione lo stato di rifugiato spetta a chi “teme a ragione” che nel proprio paese possa essere perseguitato “per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche”. Sempre secondo la convenzione e il protocollo il rifugiato deve rispettare tutte le leggi dello stato di rifugio,ha vari diritti tra cui quello di non discriminazione rispetto ai suoi concittadini , può praticare la propria religione e può accdere a tribunali, all’assistenza pubblica. Inoltre può ottenere un documento di viaggio quindi una sorte di passaporto che gli permetta di circolare negli stati contraenti.
Non bisogna confondere il diritto ad essere considerato rifugiato con il diritto di asilo territoriale ossia con il diritto a risiedere in modo permanente nello stato di rifugio. Il diritto di asilo territoriale (diverso da quello diplomatico) non è previsto dal diritto consuetudinario generale ma da atti privi di forza vincolante come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo 1948. Né esistono in genere convenzioni che lo prevedono fatta eccezione per gli stati del continente americano.
Sia rifugiato o abbia chiesto il diritto di asilo al richiedente di uno dei 2 status va accordato un lasso di tempo per dimostrare i motivi della richiesta. Quindi la prassi italiana di respingere immediatamente gli stranieri sbarcati sul territorio nazionale è da condannare. Si può considerare come una violazione della convenzione sui rifugiati soprattutto perché in tal caso il respingimento avviene verso la Libia, stato non vincolato dalla convenzione.
Numerosi sono poi gli accordi internazionali, c.d. convenzioni di stabilimento, con cui ciascuna Parte contraente si obbliga a riservare alle persone fisiche e giuridiche, appartenenti all’altra o alle altre Parti, condizioni di particolare favore, sia in tema di ammissione sia per quanto concerne l’esercizio di attività imprenditoriali, professionali, ecc. particolarmente importanti sono le norme sul diritto di stabilimento (tra quelle relative alla libera circolazione delle persone) contenute nel TFUE che mirano ad una quasi totale parificazione tra cittadini e stranieri nell’ambito dell’UE e con riguardo anche ai cittadini degli stati membri naturalmente.
Fini di parificazione persegue anche la cittadinanza europea contenuta nel TUE e prevista dalla Carta europea dei d. fondamentali: essa comporta il diritto di circolare liberamente nell’ambito dell’UE di partecipare alle elezioni locali nello stato membro in cui risiede e di votare nello stato per i rappresentanti del parlamento europeo.
Se lo Stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un illecito internazionale nei confronti dello Stato al quale lo straniero appartiene. Quest’ultimo potrà esercitare la protezione diplomatica, ossia assumere la difesa del proprio suddito sul piano internazionale: potrà agire con proteste, minacce di (o ricorso a) contromisure contro lo Stato territoriale, proposte di arbitrato o, quando è possibile, ricorso ad istanze giurisdizionali internazionali, al fine di ottenere la cessazione della violazione ed il risarcimento del danno causato al proprio suddito. Prima che però lo Stato agisca in protezione diplomatica occorre che lo straniero abbia esaurito tutti i rimedi previsti dall’ordinamento dello Stato territoriale, purché adeguati ed effettivi, secondo la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. Finché siffatti rimedi esistono e lo stato territoriale ha la possibilità di eliminare l’azione illecita o di fornire allo straniero un’adeguata riparazione le norme sul trattamento degli stranieri non possono neppure considerars violate (natura sostanziale della regola del previo esaurimento). L’istituto della protezione diplomatica ha oggi carattere residuale, nel senso che, una volta esauriti i ricorsi interni ed avvenuta la violazione, è anche necessario che non vi siano rimedi internazionali efficaci (come le corti internazionali che controllano il rispetto dei diritti umani), azionabili dagli stessi stranieri lesi.
Lo Stato che agisce in protezione diplomatica esercita, dal punto di vista dell’ordinamento internazionale, un proprio diritto e quindi ne è egli stesso titolare; non agisce come rappresentante o mandatario dell’individuo ed è perciò da escludere che la materia sia inquadrabile come manifestazione della personalità internazionale dell’individuo, personalità che v ricollegata ai casi in cui l’individuo agisce o risponde direttamente sul piano internazionale.. Lo Stato può, in ogni momento, rinunciare ad agire, sacrificare l’interesse del suddito leso ad altri interessi, transigere, ecc., ciò anche se comincia ad affermarsi l’idea nella dottrina e non nella prassi di un vero e proprio obbligo dello Stato di esercitare la protezione nel caso di violazioni gravi dei diritti umani.
Altro è il problema se, dal punto di vista del diritto interno, il Governo non sia obbligato, nei confronti dei suoi sudditi, ad esercitare la protezione diplomatica. La giurisprudenza interna nel silenzio di norme legislative o regolamenti è orientata in senso negativo anche se non mancano voci discordanti. Per le Sezione Unite della Corte di Cassazione, (Italia) sono pienamente discrezionali e totalmente sottratti al sindacato giurisdizionale sia ordinario che amministrativo gli atti compiuti dallo Stato nel regolamento delle relazioni internazionali; mentre, la Court of Appeal della Civil Division inglese ha sostenuto che il cittadino ha una “legittima aspettativa”di vedere il suo caso “preso in considerazione” dal Governo e che, sotto questo aspetto, il comportamento del Governo può essere sottoposto al vaglio delle Corti.
L’istituto della protezione diplomatica è oggi oggetto di contestazione, limitatamente ai rapporti economici facenti capo a stranieri, da parte degli Stati in via di sviluppo. Questi si rifanno alla dottrina Calvo, dottrina che prende il nome dall’internazionalista e diplomatico argentino che l’abbozzò nel secolo XIX (come reazione alla pretesa degli Stati europei di intervenire militarmente negli Stati dell’America latina col pretesto di proteggere i propri sudditi) e secondo la quale le controversie in tema di trattamento degli stranieri sarebbero di esclusiva competenza dei Tribunali dello Stato locale. Ad una simile dottrina si sono sempre ispirati gli Stati latino-americani, tra l’altro inserendo nei contratti delle imprese straniere una clausola di rinuncia da parte di queste ultime alla protezione del proprio Stato (c.d. clausola Calvo). Alla stessa dottrina si ispira l’art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati quando, a proposito delle nazionalizzazioni di beni stranieri, stabilisce che “…ogni controversia relativa all’indennizzo dovrà essere regolata in conformità alla legislazione interna dello Stato nazionalizzante e dei Tribunali di questo Stato, a meno che tutti gli Stati interessati non convengano liberamente di ricercare altri mezzi pacifici di soluzione della controversia sulla base dell’uguaglianza sovrana degli Stati medesimi”. In effetti, nessuno può costringere uno Stato, che sia accusato di aver violato le norme sul trattamento degli stranieri, a trattare la questione sul piano internazionale o addirittura a risolverla mediante arbitrato, se esso non abbia preventivamente e liberamente assunto obblighi convenzionali al riguardo, così come nessuno può vietare allo Stato dello straniero di protestare, di proporre arbitrati o di minacciare rappresaglie (e ciò anche in presenza di una clausola Calvo, dato che con la protezione diplomatica lo Stato fa valere un diritto proprio). Trattasi di comportamenti che attengono alla fase dell’accertamento e dell’attuazione coattiva del diritto internazionale e tali fasi sono per l’appunto caratterizzate dalle iniziative, dalle azioni e dalle reazioni dei singoli stati interessati.
A parte le contestazioni e le diffidenze da cui la protezione diplomatica è ormai circondata occorre soffermarsi sul fatto che lo stato che la esercita agisce nel proprio interesse quindi può eventualmente decidere di sacrificare l’interesse leso del proprio cittadino. Posto ciò ci sembra che sia il giudice interno paradossalmente a garantire lo straniero contro le violazioni del diritto internazionale. I giudici interni (territoriali) se amministrano bene e in piene indipendenza la giustizia e se operano in uno stato che circonda di garanzie l’osservanza del d. internazionale possono evitare che lo straniero ricorra alla protezione del proprio stato ed essere in grado di tutelare lo straniero più del suo stato nazionale. La protezione diplomatica infatti può essere fortemente condizionata da motivi politici attinenti alle relazioni internazionali perché tale esercizio spetta ad organi del c.d. potere estero di solito organi del potere esecutivo. Ecco perché a nostro avviso (che poi è il filo rosso del testo) il diritto internazionale come il diritto in genere deve essere amministrato dai giudici.
La protezione diplomatica può essere esercitata dallo Stato nazionale anche in difesa di una persona fisica che di una persona giuridica, in particolare di una società commerciale. La nazionalità delle persone giuridiche non è però un concetto definito quanto quello delle persone fisiche dato che non sempre risulta con chiarezza dalle legislazioni interne quale collegamento determini l’appartenenza di una persona giuridica ad un certo stato . Circa le società commerciali, ai fini dell’esercizio della protezione diplomatica, ci si chiede se si debba aver riguardo a:
A favore della prima tesi si è pronunciata la Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza Barcelona Traction, Light and Power Co., Ltd. (1970) e poi nelle sentenze dell’affare Diallo. Trattasi di una tesi che in presenza di una prassi pertinente assai scarsa, finisce con l’avere una sua logica proprio in relazione alla pratica oggi assai diffusa tra i privati e consistenti nell’ancorare l’esistenza legale di una società a stati particolarmente compiacenti dal p.dv. fiscale da quello dei controlli sulla gestione sociale ecc… si vuole dire cioè che il rischio di un’inadeguata protezione diplomatica non può non essere calcolato al momento della costituzione della società e della scelta dello stato nazionale.
Ciò premesso la protezione dei singoli soci sia pure con riguardo a fattispecie residuali non è del tutto scomparsa anche se l’identificazione di tali fattispecie costituisce oggetto di dibattito. Si afferma che lo stato nazionale del singolo socio possa agire quando sia stato leso direttamente in suo diritto ma non è facile individuare i casi in cui ciò avviene. In linea generale si può dire che debba trattarsi della lesione di un diritto del socio nei confronti della società. Nella Barcelona Traction la CIG ha indicato alcuni esempi quali il diritto ai dividendi il diritto a partecipare alle assemblee con diritto di voto e il diritto a vedersi assegnata una quota parte dei beni sociali in caso di liquidazione della società.
Oltre il tema dei diritti immediati un’altra questione importante in materia di protezione diplomatica è quella che riguarda la c.d. protezione sostituzione o sussidiaria. Ci si chiede se detto stato possa intervenire quando la società abbia legalmente cessato di esistere oppure essa abbia la nazionalità dello stato presunto violatore o ancora il suo stato nazionale non possa o non voglia intervenire.
Non c’è dubbio che qualora la società abbia cessato di esistere i soci possano essere protetti dai loro stati nazionali per quanto riguarda i residui beni societari a loro attribuibili. Si discute invece se la protezione sussista nell’ipotesi in cui la società abbia la nazionalità dello stato presunto violatore. La CIG nella successiva sentenza Diallo si è rifiutata di ritenere che detta forma di intervento in sostituzione sia prevista dal d. consuetudinario. Sotto tale aspetto la sentenza è stata criticata ed è criticabile per eccessivo formalismo.
27. (Segue). Il trattamento degli agenti diplomatici e degli altri di Stati stranieri.
Limiti alla potestà di governo nell’ambito del territorio sono previsti dal diritto consuetudinario per quanto riguarda gli agenti diplomatici; essi si concretano nel rispetto delle c.d. immunità diplomatiche. La materia è anche regolata da una convenzione di codificazione promossa dalle nazioni unite, la Convenzione di Vienna (1961), entrata in vigore 4 anni dopo, che corrisponde largamente al diritto consuetudinario.
Una convenzione di codificazione è anche in vigore per il trattamento dei consoli la Convenzione è quella di Vienna del 1963. Ma solo alcune delle immunità dei diplomatici sono riconosciute ai consoli.
Le immunità riguardano gli agenti diplomatici accreditati presso lo Stato territoriale e accompagnano l’agente dal momento in cui esso entra nel territorio di tale Stato per esercitarvi le sue funzioni fino al momento in cui ne esce. La presenza dell’agente è, come quella di qualsiasi straniero, subordinata alla volontà dello Stato territoriale, volontà che si esplica, per quanto riguarda l’ammissione, attraverso il gradimento (che precede l’accreditamento) e, per quanto riguarda l’espulsione, attraverso la c.d. consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare, entro un certo tempo, il Paese.
Le immunità diplomatiche sono le seguenti:
Chiariamo che per agenti diplomatici intendiamo: ambasciatori, ministri plenipotenziari, incaricati d’affari (i capi-missione). Le immunità si estendono però a tutto il personale diplomatico delle missioni quindi ministri consiglieri segretari di legislazione e alle famiglie degli agenti. La Convenzione di Vienna del 1961 con una norma di dubbia corrispondenza al d. consuetudinario internazionale, estende l’immunità anche al personale tecnico e amministrativo della missione, con esclusione degli impiegati che siano cittadini dello Stato territoriale.
Le immunità suddette quindi sia personali che funzionali spettano, per il diritto internazionale consuetudinario, anche a quelle supreme autorità degli stati che si occupano di norma delle relazioni internazionali e cioè ai Capi di Stato nonché, quando si recano all’estero in forma ufficiale, ai Capi di Governo e ai Ministri degli Esteri.
L’immunità dalla giurisdizione ratione personae copre qualsiasi atto e dunque anche eventuali crimini internazionali commessi dall’individuo al quale spettano le immunità diplomatiche. Ciò ovviamente solo finché dura la funzione. Si ritiene che anche nel caso dell’immunità funzionale questa debba soccombere, sempre quando sia cessata la funzione, rispetto all’esigenza della punizione di eventuali crimini internazionali. Tali crimini sono normalmente commessi dagli organi supremi dello stato, sarebbe assurdo negare che possa essere punito l’agente diplomatico o altro individuo al quale spettano le immunità diplomatiche , una volta cessata la sua funzione. La prassi è cmq orientata in tal senso.
I consoli non godono delle immunità personali: è inviolabile solo l’archivio consolare.
Godono di immunità funzionale per una vecchia norma consuetudinaria i corpi di truppa all’estero.
Per quanto riguarda gli altri organi ci sembra che la prassi piuttosto scarsa cmq, vada interpretata così:
l’immunità funzionale sussiste per quanto riguarda la giurisdizione civile ivi comprese le azioni di risarcimento per crimini commessi dall’organo in effetti in questi casi è lo stato in nome del quale l’organo ha agito che può essere sottoposto alla giurisdizione straniera; se poi tale stato è anch’ esso immune come nel caso del risarcimento per azioni qualificabili come iure imperii sarà sempre possibile chiamarlo a rispondere sul piano del d. internazionale. Tale prassi è corretta per il Conforti non per altri nel senso che l’immunità sussista anche nel caso della giurisdizione penale quando il funzionario abbia commesso una presunta azione criminosa limitatamente agli atti iure imperii.
L’immunità è da escludere per l’esercizio della giurisdizione penale il che trova ragione nel fatto che lo stato in quanto persona giuridica difficilmente possa essere considerato come penalmente responsabile.
Per gli organi statali stranieri che non godono dell’immunità funzionale valgono comunque le comuni norme sul trattamento degli stranieri; anche qui il dovere di protezione dovrà essere commisurato al rango dell’organo e alle circostanze in cui esso opera.
Agli organi e agli individui inseriti in missioni speciali inviati da uno stato presso un altro stato, la Convenzione del 1969 sulle missioni speciali promossa dalle nazioni unite ha esteso le immunità diplomatiche d’uso in particolare: sull’inviolabilità personale e sull’immunità dalla giurisdizione. La convenzione però essendo stata ratificata da soli 38 stati non sembra corrispondere per questa parte al d. internazionale generale.
28. (Segue). Il trattamento degli Stati stranieri.
Vediamo come uno stato debba comportarsi nei confronti di un altro, precisamente vediamo quali limiti incontra.
Il principio di non ingerenza negli affari interni ed internazionali altrui ( di cui non è mai stato definito in maniera precisa il contenuto) è andato via via perdendo la sua autonoma sfera di applicazione, assorbito dall’affermarsi di altre regole generali, la più importante delle quali è costituita dal divieto della minaccia o dell’uso della forza.
Circa le possibili applicazioni del principio di non ingerenza che qui interessano, ossia le applicazioni che si risolvono in limiti al potere di governo che lo Stato esercita nel proprio territorio, rilevano gli interventi dello Stato diretti a condizionare le scelte di politica interna ed internazionale di un altro Stato (ad es. le misure di carattere economico). Secondo la Corte Internazionale di Giustizia, non è sufficiente a concretare un’ipotesi di illecito intervento negli affari altrui l’interruzione di un programma di aiuto allo sviluppo o la riduzione o il divieto delle importazioni dal Paese che si vuol colpire. Secondo il Conforti, però, qualora queste misure siano contemporaneamente e sistematicamente prese ed abbiano come unico scopo quello di influire sulle scelte delle Stato straniero, esse devono considerarsi come vietate.
Ci si chiede se dal principio di non ingerenza derivi l’obbligo di impedire che nel proprio territorio si tengano comportamenti che possano indirettamente turbare l’ordine pubblico. L’unica regola consuetudinaria di cui possa affermarsi l’esistenza è quella che impone di vietare la preparazione di atti di terrorismo diretti contro altri Stati. Tutto il resto appartiene alla sfera del diritto convenzionale.
Ancora alla fine dell’800 ed agli inizi del XX secolo, la teoria universalmente accolta in merito al problema del trattamento degli Stati stranieri, era quella favorevole all’immunità assoluta degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile. Sono state la giurisprudenza italiana e quella belga, nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, a dare inizio alla revisione della regola, che ha portato all’elaborazione della teoria dell’immunità ristretta o relativa. Secondo quest’ultima, oggi comunemente ammessa (tanto da corrispondere al d. internazionale consuetudinario), l’esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti jure imperii (attraverso i quali si esplica l’esercizio delle funzioni pubbliche statali) e non si estende invece agli atti jure gestionis o jure privatorum (aventi carattere privatistico, come l’emissione di prestiti obbligazionari).
La distinzione non è sempre facile da applicare ai casi concreti (che è la stessa distinzione tra diritto pubblico e privato): in caso di dubbio si dovrebbe forse concludere a favore dell’immunità anziché sottoporre alla giurisdizione lo stato straniero, (questa risulta essere un’eccezione). Questo trova conferma nel resto della giurisprudenza interna che cerca sempre ampliare anziché restringere la sfera degli atti jure imperii e quindi dell’immunità. La tendenza a considerare che l’immunità sia la regola e la sottoposizione alla giurisdizione l’eccezione vien confermata anche dalla Convenzione delle nazioni unite che non formula espressamente la distinzione tra atti iure gestionis ed atti iure imperii ma affermando il principio dell’immunità indica in via di eccezione i casi in cui lo stato può essere sottoposto a giudizio per esempio nelle controversie relative a transazioni commerciali, ai danni causati a persone o cose ecc..
Il campo in cui maggiormente rileva il problema dell’immunità, ed in cui la distinzione tra gli atti iure imperii e iure gestionis si rivela di difficile applicazione, è quello relativo alle controversie di lavoro (trattasi di giudizi per lo più instaurati da lavoratori aventi nazionalità dello Stato territoriale, per lavoro prestato presso ambasciate, istituti di cultura e uffici istituiti da Stati stranieri). È difficile in questi casi stabilire quali aspetti del rapporto di lavoro debbano essere presi in considerazione per essere qualificati come pubblicistici o privatistici ai fini dell’immunità. La Convenzione europea sull’immunità degli Stati (1972) (ratificata attualmente da 8 stati tra i quali non figura il nostro e che risulta essere un’inversione di tendenza) distingue sì, i due tipi di atti (gestionis e imperii distinzione ancora utilizzata dalle corti interne), ma per le controversie di lavoro adotta questa soluzione: se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato straniero che lo recluta, l’immunità sussiste in ogni caso; se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato territoriale, o vi risiede abitualmente pur essendo cittadino di un terzo Stato, e il lavoro deve essere prestato nel territorio, l’immunità è esclusa. (adotta quindi il criterio di nazionalità cumulato con quello del luogo delle prestazioni) (art 5).
Va poi menzionato il progetto di convenzione dell’organizzazione degli stati americani che ancor più favorevole agli interessi del lavoratore in quanto esclude cmq l’immunità.
Altro dato degno di nota è che l’art 5 della convenzione sopradetta viene recepito sia pure con qualche limitazione riguardanti il personale diplomatico e consolare dal legislatore inglese con lo state immunity act del 1978 atto che intende aver vigore nei confronti di tutti gli stati non solo dei contraenti.
L’art 5 è stato applicato in Austria anche nei confronti di stati non contraenti. Inoltre in alcuni paesi che non sono obbligati convenzionalmente e nei quali il problema non è legislativamente risolto la giurisprudenza si va orientando nello stesso senso, appellandosi al d. consuetudinario o quanto meno ad una consuetudine in formazione. Se ciò è vero è assai criticabile l’art 11 della convenzione delle nazioni unite che da un lato prevede che l’immunità non sia invocabile se si tratti di lavoratori che abbiano la cittadinanza dello stato estero e purchè non risiedano abitualmente nel territorio dello stato locale ma dall’altro fa rivivere la distinzione tra rapporti iure imperii e iure gestionis stabilendo che la giurisdizione non possa cmq esercitarsi quando il lavoratore sia stato assunto per svolgere particolari funzioni nell’esercizio del potere di governo.
Peccato che l’art 11 sia ritenuto dalla CEDU come corrispondente al d. consuetudinario. Peraltro la corte perviene alla conclusione che nel caso di specie il lavoratore non svolgesse attività iure imperii.
Può ritenersi che l’immunità non sia invocabile dallo Stato citato in giudizio per le conseguenze civilistiche di gravi violazioni dei diritti umani: ma può parlarsi ora di un’inversione di tendenza contro l’immunità. L’inversione è opera di alcune corti supreme come quella ellenica e la cassazione italiana (in varie decisioni contro la Germania per le atrcità commesse dalle truppe tedesche). Questa inversione va senza dubbio incoraggiata altrimenti si finisce per considerare immuni gli stati stranieri che praticano la tortura qualificandoli come iure imperii (commette tali errori per es. il Regno Unito).
Diverso è il problema che riguarda il merito del processo della prova del coinvolgimento dello stato in atti del genere e della possibilità di ritenere responsabile uno stato per atti commessi quando la responsabilità dello stato per violazioni gravi dei diritti umani non era riconosciuta o trattandosi di crimini di guerra era definitivamente regolata dai tattati di pace. (nel senso per es. di negare retroattivamente l’immunità per il risrcimento del danno derivante dalle atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale).
L’immunità può essere sempre oggetto di rinuncia da parte dello stato straniero (art 7 convenzione nazioni unite). Non può essere eccepita qualora lo stato straniero si faccia attore in giudizio in ordine alle domande riconvenzionali (art 8 e 9 della convenzione).
L’immunità dalla giurisdizione civile, nei limiti in cui è prevista per gli Stati, viene riconosciuta anche agli enti territoriali e alle altre persone giuridiche pubbliche. È questa un’ulteriore prova del fatto che a formare la persona dello stato dal p.d.v del d. internazionale concorrono tutti coloro che esercitano il potere di governo nell’ambito della comunità statale e non solo gli organ del potere centrale.
La teoria dell’immunità ristretta va applicata sia al procedimento di cognizione sia ai procedimenti di esecuzione e cautelari su beni (a qualsiasi titolo) detenuti da uno Stato estero: l’esecuzione forzata deve pertanto ritenersi ammissibile solo se essa è esperita su beni non destinati ad una pubblica funzione ad es. su immobili acquistati dallo stato a titolo privato, per un investimento ecc…(art 19 convenzione delle nazioni unite).
A parte il caso in cui lo Stato estero sia convenuto in giudizio, nessun altro limite la giurisdizione dello Stato territoriale incontra in tema di trattamento di Stati stranieri. Senza fondamento è nel d. internazionale la dottrina dell’Act of State, dottrina secondo cui una Corte interna non potrebbe rifiutarsi di applicare una legge o un altro atto di sovranità straniero (ad es. una legge richiamata dalle norme di diritto internazionale privato), in quanto contraria al diritto internazionale o in quanto illegittimamente adottata alla stregua dei principi del suo ordinamento di origine: in altre parole, le corti di uno Stato non potrebbero controllare la legittimità internazionale o interna di leggi, sentenze ed atti amministrativi stranieri che vengano in rilievo nei giudizi a loro sottoposti.
Più che una dottrina di diritto internazionale è considerata una sorta di autolimitazione da parte delle corti, giustificata dalla necessità di non creare imbarazzo al proprio Governo nei rapporti con i Governi stranieri (sorta ed utilizzata nei paesi di common law). Essendo praticamente una mancata applicazione del d. internazionale da parte dei giudici è ancor più da condannare. In USA ebbe molta risonanza politica all’epoca delle nazionalizzazioni cubane negli anni 60, per il rifiuto della giurisprudenza americana di sindacare la legittimità internazionale di tali nazionalizzazioni e di riconoscere conseguentemente i diritti delle società americane espropriate.
Tale dottrina venen applicata in Italia dalla cassazione e assume il nome di atto politico, venne applicata per negare l giurisdizione del giudice italiano in relazione al risarcimento dei presunti danni provocati a privati dalla guerra aerea contro la Iugoslavia nel 99. Tale teoria in regime di democrazia è assurda.
29. (Segue). Il trattamento delle organizzazioni internazionali.
Un altro limite alla sovranità territoriale deriva dalle norme sul trattamento delle organizzazioni internazionali, che riguarda soprattutto il trattamento dello stato in cui ha sede l’organizzazione, ma che può dare luogo a problemi anche in altri paesi quando gli organi di tale organizzazione occasionalmente o stabilmente operino nel loro territorio.
Circa il trattamento dei funzionari delle organizzazioni internazionali e dei rappresentanti degli Stati in seno agli organi delle medesime, non esistono norme consuetudinarie che impongano agli Stati di concedere loro particolari immunità (neanche immunità diplomatiche): solo mediante convenzione lo Stato può obbligarsi in tal senso (lo stato si obbliga all’immunità attraverso disposizioni che possono essere contenute in convenzioni tra stati membri dell’organizzazione o per es. nella convenzione che istituisce l’organizzazione ecc…).
Per quanto riguarda i funzionari dell’ONU, l’art. 105 della Carta sancisce in via generale che “…i funzionari dell’Organizzazione godranno dei privilegi e delle immunità necessari per l’esercizio indipendente delle loro funzioni”, demandando all’Assemblea generale il compito di proporre agli Stati membri la conclusione di accordi per la disciplina dettagliata della materia. Tra gli accordi che vigono attualmente meritano di essere menzionati la convenzione generale sui privilegi e le immunità delle nazioni unite a cui aderiscono molti stati risalente al 1946 la convenzione tra l’ONU e la Svizzera stato in cui hanno sede vari uffici dell’organizzazione. Generalmente le norme contenute in questi accordi sono di 2 specie:
Circa i funzionari dell’UE le norme sono simili a quelle previste per i funzionari ONU e sono contenute nel protocollo dell’unione.
Circa le immunità dei rappresentanti degli stati la materia oltre ad essere regolata negli accordi relativi a ciascuna organizzazione è contenuta nella convenzione di codificazione promossa dalle nazioni unite risalente al 1975 sulla rappresentanza degli stati nelle loro relazioni con le organizzazioni internazionali di carattere universale. La convenzione in questione riconosce le immunità diplomatiche ai membri delle missioni permanenti presso le organizzazioni.
Le immunità e i privilegi dei funzionari sono accordati nell’interesse dell’organizzazione cui appartengono. L’organizzazione può sempre rinunciarvi.
Lo Stato nel cui territorio opera ufficialmente un funzionario internazionale che non abbia la sua nazionalità è tenuto a proteggerlo con le misure preventive e repressive previste dalle norme consuetudinarie sul trattamento degli stranieri. Tale obbligo sussiste nei confronti dello Stato nazionale e la sua violazione dà luogo all’esercizio della c.d. protezione diplomatica da parte dello Stato nazionale medesimo. Può ritenersi allo stato attuale che un obbligo di protezione del funzionario sussista nei confronti dell’organizzazione ma che questa possa agire sul piano internazionale nei confronti dello Stato territoriale solo per il risarcimento dei danni ad essa arrecati (c.d. protezione formale) e non di quelli arrecati all’individuo in quanto tale. Dato che per questi ultimi normalmente agisce lo stato nazionale in protezione diplomatica. Non può dirsi che questa sia una norma consuetudinaria essendo la prassi poco abbondante ma dato che la prassi sussiste rivela questo tipo di tendenza.
La Corte Internazionale di Giustizia si occupò del problema, su richiesta dell’Assemblea generale dell’ONU, in un parere (1949) a proposito del caso Bernadotte. Il conte Bernadotte, mediatore per l’ONU tra arabi e israeliani, era stato ucciso nel 1948 a Gerusalemme, insieme ad un collaboratore, da estremisti ebraici e il Segretario generale aveva accusato apertamente il Governo israeliano di non aver adottato le misure atte a prevenire i due attentati; l’Assemblea generale voleva sapere se l’ONU potesse agire sul piano internazionale per il risarcimento dei danni: la Corte rispose affermativamente sostenendo addirittura che l’Organizzazione avesse titolo per chiedere, oltre ai danni arrecati alla funzione, anche quelli subiti dall’individuo in quanto tale.
La tesi della corte è stata criticata e anche a noi sembra poco motivata e male essa si fonda sulla personalità internazionale dell’ONU che è questione che interessava poco la questione, la corte invece non tenta di approfondire il punto se ed entro quali limiti sia possibile l’estensione analogica all’organizzazione internazionale dell’obbligo di protezione esistente nei confronti degli stranieri.
Nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale, lo sono pure le organizzazioni internazionali. L’immunità delle organizzazioni dalla giurisdizione è stata ricavata per interpretazione estensiva della norma sull’immunità degli stati e oggi può considerarsi norma consuetudinaria autonoma anche se non mancano voci in senso contrario. Anche per queste ultime il problema più importante è quello dell’immunità in tema di controversie di lavoro. Anche qui si assiste ad un’evoluzione necessaria per assicurare al lavoratore maggiore tutela rispetto al passato: l’immunità è esclusa se l’Organizzazione non ha, nel suo ordinamento interno, un organo, di natura giudiziaria, che offra tutte le garanzie di indipendenza e imparzialità, al quale il lavoratore possa rivolgersi. Nelle Nazioni Unite funziona un Tribunale Amministrativo appositamente creato dall’Assemblea generale nel 1949, nell’UE le controversie di lavoro sono di competenza di un Tribunale della funzione pubblica, che è una corte apposita.
Fonte: http://torarchivio.altervista.org/alterpages/files/Internazionale.doc
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